Davide Ferella:”Il mandolino nel teatro musicale Settecentesco”
Zecchini Editore
Descrizione del libro di Davide Ferella Il Mandolino-È nel settecento in particolare, secolo tra i più ricchi e complessi della storia d’Europa, che questo legame, questo strano intreccio di vicende, raggiungerà il momento apicale, con sempre più opere colorite dal suono di questo piccolo strumento. Una scelta, quella di affidare al mandolino la conduzione di un’aria, spesso la più caratterizzata e ricca di pathos, mai casuale, bensì dettata da esigenze drammaturgiche finemente studiate da compositori e librettisti. Il suo pizzico, multiforme e cangiante, sarà in grado infatti di esaltare tanto l’aulico canto di Achille e Cleopatra quanto quello, ben più greve e profano, di Don Giovanni e Almaviva. Versatili e suggestive le sue corde guideranno l’ascoltatore attraverso le ambientazioni più disparate, tra le anguste vie di una qualche città campana, lungo immaginifici orizzonti mediorientali. Mozart, Vivaldi, Paisiello e Cimarosa sono alcuni dei musicisti che nel corso del secolo si lasceranno affascinare dal potere evocativo del suo suono, un suono che più d’ogni altro ci ha definiti e tutt’ora ci definisce italiani nel mondo. Conoscere queste vicende è conoscere dunque ancor un poco dell’iridescente universo musicale nostrano, in particolare quello teatrale, nonché apprezzare l’epopea di uno strumento, il mandolino, centrale nella cultura musicale europea del XVIII secolo.
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I poeti vanno in giro col viso pitturato di nero. ( Breve elogio dei futuristi russi)
Breve elogio dei futuristi russi-Che errore stupefacente! Mi ero dimenticato che la poesia non è fatta per essere letta in silenzio, sul divano, a letto, in metropolitana. Così, piuttosto, si sorseggiano i romanzi: con sussiego borghese o con sovreccitazione urbana, comunque con quella posa lì. La poesia va ascoltata, ballata, gridata: essendo la quintessenza della vita, la poesia va vissuta. Oh… i poeti declamano i loro versi, aggiornando la voce, compiaciuta, recitano; ma la poesia è l’esegesi di una battaglia, non accondiscende, non ristora l’anima, non rincuora gli afflitti. La poesia, voglio dire, non è questione di ugola né di portamento; la poesia, lampo liturgico, pretende l’intero corpo del poeta, che sia travisato, svaligiato, vagliato, malato, inerme, rabbioso.
Resto un inguardabile ingenuo, e mi sorprende – ne leggo nel memorabile studio di Angelo Maria Ripellino su Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia – ricordare che i poeti russi, cavalcando la Rivoluzione – anzi: preparandola con atti teatrali, dunque politici, di genio – sfoggiavano la loro poesia addobbandosi in fogge eccentriche. Pitturandosi il viso. Questo continua a folgorarmi. Si pitturavano il viso. Come guerrieri, come lottatori nordici, come sciamani, adepti di una qualche religione dissepolta lì per lì, tra la carneficina dei miti d’Asia. Così andava in giro, per dire, Davyd Burljuk, pioniere del futurismo alla russa: “redingote da cantore del Sinodo e l’occhialino; il suo viso era dipinto a inchiostro di China: sulla guancia sinistra il profilo d’un cammello, opera di Sar’jan, e sulla destra misteriosi segni cabalistici, simili a onischi”.
Majakovskij, di solito, amava i cappotti lunghi, a volte verniciati di giallo, e dare spettacolo con il viso dipinto di rosso: una volta, sulle guance, si era fatto dipingere una tigre, stilizzata, un’altra un cobra, aggrovigliato nell’atto di puntare la preda. A vederlo, doveva fare paura – la poesia, in effetti, tra decalogo e urlo, nasce per incutere timore. Era il febbraio del 1914 e i futuristi russi s’impegnavano a boicottare il tour di Filippo Tommaso Marinetti. Velemir Chlebnikov – che sul petto s’era fatto disegnare il profilo di Manas, eroe dell’epica kirghisa – aveva scritto un volantino che imponeva ovunque. Diceva così: “Oggi altri indigeni e la colonia italiana sulla Nevà per considerazioni personali cadono ai piedi di Marinetti, tradendo il primo passo dell’arte russa sulla via della libertà e dell’onore, e costringono l’Asia a chinare il suo nobile collo sotto il giogo dell’Europa”. La polemica, per così dire, affonda nei meandri della storia russa – basta leggere cosa scrive Dostoevskij dell’Europa canaglia, covo di Baal, della ‘missione’ della Russia e del suo legame necessario con l’Asia (ora in: La bellezza salverà il mondo. Pensieri. Aforismi. Polemiche, De Piante, 2021) –, qui trova nuova carica eversiva, tra clown e gladio. Intanto, “il Maciste russo” – tale V. Gol’cšmidt –, atleta futurista “disperatamente audace”, dicono i cronisti del tempo, “si gettava in mare a capofitto, a mo’ di rondine, da un’altissima rupe, gridando: Viva Vladimir Majakovskij!”. Tutto – anche le giornate dell’ottobre ’17 – era teatro (tutt’altro che teatrale): dipingersi il viso significava svelarsi. Celato il viso, contraffatto, finalmente il poeta può essere se stesso.
Mascherati, i poeti russi smascheravano le ipocrisie dell’era, dell’uomo. Dietro ogni travisamento traluceva una verità di indecente delicatezza. La poesia era un acceleratore di vita. Di Velemir Chlebnikov, sulla cui “esistenza sbandata, prodiga, inerme” circolavano leggende, andato in Persia al seguito delle truppe rosse inebriato dal sentore d’Asia, si dice che “avviluppatosi in un sacco, vendette camicia e calzoni per comprarsi da mangiare ma, incontrata una povera, le diede tutto il denaro che aveva guadagnato”. Finì letteralmente nudo, nei suoi ultimi giorni, con indosso una pelliccia che lo tramutava in qualcosa tra il povero Cristo e il re barbaro in esilio, dimentico del regno. “In Chlebnikov il disinteresse assumeva un carattere di vera abnegazione, di martirio per l’idea poetica”, disse di lui Majakovskij. Chlebnikov fu poeta eccezionale e stralunato: in Italia ha trovato eccellenti interpreti in Ripellino e in Paolo Nori; non è semplice trovare i suoi libri. Mendico di tutto, fa ancora paura a molti, la sua bibliografia è clandestina, appena improvvisata, chissà.
Breve elogio dei futuristi russi
Tra i futuristi russi affascina, per stranezza e folgore, la storia di Vasilij Kamenskij, “gioviale e fanciullesco”, “esuberante pioniere del volo”. Nato a Perm’ nel 1884, su una barca – così almeno amava dire, girovago della menzogna –, orfano a cinque anni, cresciuto da zii che commerciavano sul fiume Kama, Kamenskij abbandonò la scuola a sedici anni, si fece rivoluzionario, azionò scioperi, fu spedito in esilio, prima a Istanbul poi a Teheran. Burljuk, che si dilettava pure come pittore, lo raffigura con enormi occhi azzurri, a precipizio, una chioma di riccioli biondi, baffi, labbra da donna, mento importante; pare un Apollo russo. Ossessionato dalla velocità e dal volo, divenne pilota: le sue evoluzioni sul monoplano Blériot XI rasentano la leggenda; un incidente, nel 1911, mise fine alle sue ambizioni celesti. Fu amico di Chlebnikov, fu il più estremo tra i futuristi, promotore di un linguaggio funambolico, isterico, narciso, tutto corpo e poco testo. Ecco un paio di poesie del 1914:
La chiamata dell’aviatore
Cacofonia di anime
Ffrrrrrrrrrr
Sinfonia motoria
Sono io – Sono io –
Lirico-lottatore-futurista
Pilota-aviatore
Vasilij Kamenskij
Elastico propellente
Che monta in cielo
E lascia come biglietto da visita
Una penzolante civetta morta
Mi spiace per lei
Mantello da tango cucito a mano
e calze
con pantaloni.
*
La mia preghiera
Mio Dio:
Pietà di me
Dimenticami.
Ho pilotato un aereo
E ora sono in un fosso.
Voglio crescere
Come edera velenosa.
Amen.
*
Tango con mucche
La vita è più breve del cigolio di un passero
come un cane che nuota
su una lastra di ghiaccio
in mezzo al fiume a primavera
con allegria di latta, lattescente,
miriamo al destino.
…………..
bene, allora VAI al DIAVOLO
SENZA CORNA né FERRI
voglio ballare da solo
un TANGO con le mucche
e attraversare su ponti distillati
le lacrime di gelosia dei tori
le lacrime della RAGAZZA scarlatta.
L’epica finì presto. Il futurista Kamenskij proponeva – ad esempio nel romanzo “La capanna di fango”, 1910 – un clamoroso ritorno ai boschi; Majakovskij lo convinse che lo scintillio di Mosca era ‘amazzonico’. Stordito dalla Rivoluzione, che imbracciò, come molti, certo di una rivolta dello spirito, continuò a perpetuare formule linguistiche ormai inaccettabili agli occhi della burocrazia rossa. Si fece anarchico, preferì l’abisso. Nel 1931 pubblicò una biografia eccentrica, Il cammino di un entusiasta, tradotta da Sellerio nel 1989, ora fuori catalogo. Nel ’48, un ictus fiacca Kamenskij, che ne emerge paralizzato. Ripellino gli dedica un brandello mirabile: “Oggi, benché paralitico, Kamenskij dipinge gioiosi pastelli che raffigurano con lo stile fanciullesco della sua poesia d’allora spiagge, navi, barche, cacciatori, aeroplani, anatre fra canneti. E con ottimismo straziante afferma d’aver ancora vent’anni”.
Pare il ritratto di un’epoca: il poeta ‘rivoluzionario’, ora paralitico, eppure per sempre giovane, che dipinge un mondo ideale, a pastello, di aerei e cacciatori. Kamenskij pare uno di quei disadatti usciti da una strofa di Rimbaud. Il cammeo di Ripellino ha il genio della biografia di un santo: c’è sentore di miracolo, una luce arcana e blu, lì dentro.
Fonte-Pangea • Rivista avventuriera di cultura & idee è un progetto di Associazione Culturale Pangea- Direttore editoriale: Davide Brullo.
Franco Leggeri Fotoreportage -Borgo Testa di Lepre-” IL PALIO DEI FONTANILI ” 2018
Luca Calderoni Presidente della Proloco Testa di Lepre
Articolo e fotoreportage di Franco Leggeri–Il Borgo TESTA di LEPRE a settembre avrà il “suo” Palio. E’ in fase avanzata la realizzazione della prima edizione del “Palio dei Fontanili del Borgo di Testa di Lepre” da parte della Proloco.
Testa di Lepre- 11 luglio 2018-Quella che sta nascendo a Testa di Lepre è una manifestazione ,sempre più concreta, con il fine di far rivivere e far conoscere , con giochi e manifestazioni varie, una battaglia che avvenne nell’846 d.C. nella Valle dell’Arrone, zona Fontanile di Mezza Luna, quando la Milizia Contadina, condotta e guidata ad una vittoria storica dal Duca Guido da Spoleto, sconfisse i saraceni che stavano per invadere Roma.
Il Consiglio Direttivo della Proloco ha suddiviso in quattro il territorio del Borgo e saranno , appunto, quattro gli stemmi che rappresenteranno, al Palio, le Contrade di Testa di Lepre. Tutti gli abitanti del Borgo, con spirito cavalleresco, saranno uniti nelle competizioni che si svolgeranno a settembre durante il Palio.
Ci dice Luca Calderoni il Presidente della Proloco:” Questa prima edizione del Palio sarà puramente ludico-sportivo, ma con lo scopo di esaltare i valori della nostra Campagna Romana. Quello di Testa di Lepre sarà un Palio per le famiglie, persone, ragazzi di ogni età che vorranno riprendere una storia ormai quasi dimenticata per ricominciare a “scriverla” di proprio pugno.” Prosegue Luca Calderoni “Da un’idea, una semplice idea e intuizione passare alla fase realizzativa è ,e sarà, una bella sfida che , speriamo, dal bilancio partecipativo di scoprire una realtà che riempirà di colori e calore umano il Borgo di Testa di Lepre, nel suo intero, con: musica, balli,cucina campagnola, stendardi, foulard, sorrisi e vera amicizia. Questo è il mio augurio e la mia speranza che ripongo in questa iniziativa” Conclude infine così il suo colloquio con me Luca Calderoni” voglio ringraziare tutto il Comitato Direttivo e i Soci della Proloco per il FATTIVO e concreto sostegno OPERATIVO che stanno mettendo al fine di vedere il trionfo della manifestazione del Palio dei Fontanili. “
Borgo Testa di Lepre-Fiumicino -ROMA
Aggiungo che tutto il Palio sarà un’opera Corale a più voci , auguro agli organizzatori che dal Borgo si possa udire un “INNO ALLA GIOIA” da tutta Campagna Romana.
Seguiranno, da parte di noi di Campagna Romana, altri report sulla fase organizzativa del Palio dei Fontanili con interviste e foto a tutti i membri del Comitato Direttivo della Proloco, ai partecipanti e ai Capitani delle Contrade. Cercheremo di scrivere, raccontare, con approfondimenti storici , i fatti relativi alla battaglia dell’846 d.C. e la storica vittoria della Milizia di Campagna sui saraceni. Andremo a fotografare i Fontanili e l’area della famosa Battaglia. Racconteremo la vita di questi eroi della Campagna Romana che formarono l’esercito , MILIZIA CONTADINA, del famoso Condottiero il Duca Guido da Spoleto.
Articolo di Franco Leggeri
N.B.Foto di Franco Leggeri- Le foto sono a disposizione di TUTTI e libere .
Altre foto sono su Facebook-CAMPAGNA ROMANA BENE COMUNE
Borgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMAGuido I Duca di Spoleto e Camerino-Palio dei Fontanili del Borgo Testa di LepreBorgo Testa di LepreVicePresidente Proloco di Testa di Lepre ,Luigi ContiProloco Testa di LepreLogo Proloco Testa di LepreBorgo Testa di Lepre-IL PALIO DEI FONTANILIMaria Rita RASTELLI Segretaria della ProLoco del Borgo TESTA di LEPREBorgo Testa di LepreBorgo Testa di Lepre-Bandiere del Palio dei FontaniliBorgo Testa di Lepre-Bandiere del Palio dei FontaniliBorgo Testa di Lepre-Bandiere del Palio dei FontaniliI Fontanili della Campagna Romana- Fontanile di via Santa Maria di Galeria Foto di Grazia AmiciLuca Calderoni Presidente della Proloco Testa di LepreI Fontanili della Campagna Romana- Fontanile di Cecanibbio- Foto Franco Leggeri-Borgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMAProloco Testa di LepreBorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMA-Coop Testa di LepreBorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMASerbatoio idricoBorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMABorgo Testa di Lepre Comune di Fiumicino -ROMA
Franco Fortini-La guerra a Milano. Estate 1943- Pacini Editore-
A cura di Alessandro la Monica-Prefazione di Stefano Carrai.
Descrizione del libro di Franco Fortini-Ne “La guerra a Milano” l’allora sottufficiale Fortini, esule in Svizzera, narrò gli eventi bellici di cui era stato spettatore nell’estate del 1943. Con non poche modifiche, il testo de “La guerra a Milano” fu pubblicato vent’anni dopo, assieme a Sere in Valdossola, in un volume che testimoniava la partecipazione dello scrittore alla Resistenza. Grazie alla scoperta del dattiloscritto originale presso la Biblioteca Centrale di Zurigo, quest’edizione critica offre per la prima volta il testo nella sua veste originaria e pubblica in appendice i frammenti manoscritti conservati presso l’Archivio Franco Fortini di Siena. Prefazione di Stefano Carrai.
Pacini Editore
La Pacini Editore spa opera nell’editoria di qualità, sia in campo umanistico che scientifico. L’azienda ha sede ad Ospedaletto (Pisa), dopo essere stata osptitata, per lungo tempo, nella centralissima Piazza dei Cavalieri, accanto alla famosa torre del Conte Ugolino. Due aziende consociate, la Edifir- Edizioni Firenze ed EDIAIPO scientifica, le Industrie Grafiche, un reparto di cartotecnica fra i più moderni in Italia: ecco un primo, veloce ritratto di una casa editrice che dal 1997 ha la certificazione europea ISO 9001. Presidente è Pierfrancesco Pacini, che continua una fortunata tradizione familiare risalente al 1875. Nel dna della Pacini Editore c’è l’editoria d’arte, libri d’immagine, la saggistica universitaria. Da vent’anni siamo azienda leader nel settore editoriale medico-scientifico con oltre venti testate periodiche e numerose collane monografiche.
Descrizione del libro di Antonio Spagnuolo Il Canzoniere dell’assenza-Articolo di Enzo Rega:“Non immaginavo che l’amore / avesse il potere di sopravvivere anche dopo, / dopo che il suo profilo abbandona le forme / nella nebbia ormai grigia dell’ignoto” (p. 49). Questi versi, posti poco oltre la metà del libro (per cui il libro stesso si richiude come uno scrigno intorno a queste righe), probabilmente ci danno il senso stesso di questo dolente Canzoniere dell’assenza (Kairós) di Antonio Spagnuolo. Un amore che dunque fa assonanza con memoria, e verso la conclusione dello stesso testo quest’altra parola chiave compare con un altro termine topico dell’intera poesia di Spagnuolo, attinente alla dimensione onirica: “Non immaginavo che l’amore / avesse il potere di vertigini nel morso di memorie, / stregato dall’eterno sussurro, / inciso nel cristallo del sogno” (ivi). Amore/memoria/sogno. Dunque, come in un sogno, come nella dimensione atemporale del sogno, la memoria – anch’essa eternatrice – recupera l’amore, l’amore non perduto, ma sempre presente. È questo infatti un canzoniere dell’assenza/presenza, quella presenza che la poesia, freudianamente (e la psicoanalisi come nella premessa l’autore stesso sottolinea è fondamentale per Spagnuolo), recupera come in un sogno a occhi aperti, in un estremo appagamento di desiderio, il desiderio di avere ancora e sempre accanto la persona amata. Amore, memoria, sogno una triade che si aggiunge all’altra che costantemente ha accompagnato la poesia di Spagnuolo, e cioè: seno/segno/sogno. Termini che ritroviamo anche qui ricorrenti. Il seno è la sensualità, l’erotismo che ricompaiono anche in questo libro in riferimento alla moglie ricordata anche nella sua corporeità: e ciò che manca è – al di là della stessa sensualità – il corpo come segno tangibile della presenza, e portatore accanto a noi dell’essenza stessa della persona Per fare un solo riferimento: “Ricordo le tue mani delicate, / diafane nel tocco della gioventù, / una carezza che sfugge nel sussurro / che mi opprime la mente ogni giorno / e rimbalza segreti inconfessati” (Mani, p. 33). E Spagnuolo, che negli ultimi anni è andato cantando il senso della vecchiaia ritorna qui invece delicatamente alla gioventù, anche se poi in un altro testo la tenerezza rima con la vecchiezza (“Tenerezza dicesti al tremore / degli anni che volgono a vecchiezza”; Tenerezza, p. 70). E il termine rughe che ha solcato recenti raccolte di Spagnuolo compare anche in questa più volte. Dunque l’assenza, lo stare al di fuori dell’essere. Ma è invece dell’essenza, dello stare nell’essere che la poesia va alla ricerca. Anzi, è questa assenza che si fa presenza nelle parole stesse che la vogliono esorcizzare. Una precedente raccolta di Spagnuolo si intitolava non a caso Rapinando alfabeti (2001): cioè una intenzionale, insistita operazione di scavo nella lingua alla ricerca di ciò che in qualche modo dicesse l’indicibile. Ebbene, in questo Canzoniere compare invece l’espressione “germogliando alfabeti”, come in ascolto della voce della moglie: “Ascolta! Ascolta! Ascolta! / Il rintocco delle campane ha sempre l’eco / delle tue parole, / delle tue parole sussurrate in penombre vespertine, / delle tue parole incise nel mio ricordo / per incendiare convulsioni improvvise” (A sera, p. 72). Questa assenza, questo silenzio producono dunque spontaneamente, naturalmente, naturalisticamente (germogliare, appunto), il bisogno di produrre un canto, un threnos. E la parola treno compare nel componimento Un treno in ombra (p. 19), sì, come simbolo del viaggio – della vita come “viaggio in sospeso” –; ma questo “treno senza meta” sembra rievocare anche il genere letterario, la trenodia, il canto per la perdita di un caro; in Specchio (p. 75) possiamo leggere, seppure declinato come impossibilità: “Non so piangere! Non so trasformarle lacrime in versi / e versi in lacrime”. Il riferimento al treno e al viaggio ci permette qui di recuperare il tema del tempo, di cui sempre è tramato ogni riferimento alla vita, alla memoria che tenta di sottrarre all’oblio e all’ombra ciò che si è perduto scivolando dal piano del tempo finito a quello dell’infinità e dell’eternità dell’ombra. E c’è nel libro tutta un’insistenza lessicale, e dunque concettuale e sentimentale, sulle gradazioni – buio, ombra, penombra, luce, bagliore, oltre che un richiamo continuo ai colori che nella luce prendono vita, o anche e soprattutto alla “dissoluzione di colori” (p. 70). Ma non c’è un netto contrasto dialettico tra ombra e luce, nell’incertezza complessiva, nel dubbio che grava su tutto. Il riflesso della luce si fa riverbero, abbaglio, parvenza e quindi illusione (a cui corrisponde anche il “tranello” che è la vita). Illusione, altro termine fondamentale in questo libro. Altro sentimento che, anche ontologicamente pervade l’esistenza. L’illusione dell’eternità dell’amore, perché la morte ha strappato l’oggetto-soggetto d’amore. Illusione perché l’attesa del ritorno rimane insoddisfatta: Non ritorni è il titolo di un libro precedente del 2016, un altro capitolo di questo perenne canzoniere dell’assenza. E in questo recente libro leggiamo: “La tua assenza scivola, e affogo l’ultima illusione” (p. 80). Eppure in questo abbandono, in questo gioco tra illusione-disillusione-delusione c’è un momento nel quale sembra di avvertire una fugace composizione, o almeno la traccia di questo bisogno. Emblematico è in questo senso il testo Insieme (pp. 46-47). Leggiamo, anche se il senso delle espressioni andrebbe ulteriormente indagato nella complessità del testo: “alterna fortuna aggrega persone”; “aggrega figure”; “bene comune”; “aggregare lingue”; “legami di sangue”; “la proiezione della comunità”. Tutto ciò “all’incrocio del golfo” – Napoli, la città, la comunità – e “ancorati alla Croce”, in una “convergenza del credo”, e compare anche il termine “vangelo”. In un libro tutto incentrato nell’immanenza di un sentimento terreno, pur fortemente spirituale oltre che fisico, si affaccia, per scorci, un elemento religioso: la Croce è scritta con la maiuscola. Sappiamo che pur nella sua ricerca laica Spagnuolo ha pubblicato ormai molti anni fa «Io ti inseguirò». Venticinque poesie intorno alla Croce. Qui l’inseguita è la donna amata, ma si rivede, in uno scorcio, la Croce, come in una momentanea pausa nel dolore dell’assenza: “dove tutto è sospeso nel luogo che accoglie”. Ma, nonostante le violenze che ho praticato al testo estrapolandone lacerti che, a partire dal titolo, Insieme appunto, testimoniano pure una via d’uscita, prevale ancora e sempre il sentimento dell’assenza: “Le mie mani ti vorrebbero ancora, / ma stringo inutilmente le mie dita / tra il cuscino e il silenzio, / e rivivo riflessi nei rintocchi / di un orologio indiscreto” (Ironie, p. 77). E proprio in conclusione c’è un velo, seppure un “velo di malizie”, che, scrive il poeta, “avvolge il mio ricordo nel segreto”.Articolo di Enzo Rega
Antonio Spagnuolo -Tre inediti da Canzoniere dell’assenza
Antonio Spagnuolo
Antonio Spagnuolo -Tre inediti da Canzoniere dell’assenza
PAROLE
Le mie parole hanno il giogo dell’edera,
strette ai rami, irrequiete al vento per ricordi,
cingono la solitudine in quel nodo
che il nostro amore mostrava insaziabile.
Lungo il tempo hanno un palpito delicato
inseguono il rumore della gente
che non conosce la soglia del cielo
e cede all’ombra dei frammenti
tra le ciglia e gli sguardi.
L’orizzonte incide la tua assenza,
che aleggia timorosa indecisa
nell’eterna vendetta dell’infinito.
Hai negli occhi il fulmine d’autunno,
impertinente e violento, quasi un gioco
che risplende innocente fra le ciglia
e ricama motivi dell’inganno.
Vorresti intrappolare le moine
come un esile fiore che improvviso
spezza il lungo silenzio, e fra le dita
disperdi il labbro sensuale e dolce.
Soffice nuvola dai capelli neri
racchiudi nel sorriso l’invito clandestino.
Per te l’autunno, spettacolo a colori
che ti scopre le spalle , il seno , il collo,
vorticando gli azzurri nella grazia interdetta,
anche se taci il fulgore, ritorna fuori campo.
E sei sparita , intrecciando la memoria
che mi corrode nel baratto che scioglie la follia.
*
SONNI
Metto a giacere i riflessi perché non sono io
l’ospite trasudato del tuo sogno,
l’incredibile amante silenzioso
sigillato alle spalle alabastro, riverbero
degli anni troppo presto fuggiti
ed assediati nell’eterno abisso senza fondo.
Non puoi vedere le mani che alla luna
chiedono ancora illusioni di poesia
mentre il respiro trattenuto è quel sussurro
che le mie labbra fibrillano.
La realtà è un’immagine dalle sbavature imperfette
e muove chiarori inaspettati.
*
La maligna brezza delle notti confonde i miei sonni
nel dubbio del silenzio che mi ottunde,
mettendo insieme i pezzi di parole
diverse nel segno , sempre più difficile
nell’alchimia dell’eterno.
Brucia ogni menzogna il rimorso
nel moltiplicare gli sguardi della malinconia
quasi immobile immagine del niente.
Briciole nel luccichio degli ammiccamenti
le pupille non hanno più riflessi.
*
Ancora qualche fiore in autunno
per un tramonto che non ha colori
e la tua ombra ritorna come un velo
a intimidire magie.
Ho dipinto un brivido e la memoria
porta via gli inganni della gioventù
quasi a dispetto di quei fogli ingialliti
che cercano nascondere inquietudini.
Anche il violino rompe sinfonie
per giocare ancora solitudine.
*
MAGNOLIE
Il silenzio incide giorno dopo giorno
il suo vuoto tra i ricordi
che ingombrano il cervello.
Si cancella senza pietà ogni traccia
a contatto delle mani , ai graffi del gorgo
che ricompone memorie,
alla pelle carnivora che narra degli abissi,
al morbido contatto delle ombre.
Il silenzio pericolosamente fuori luogo
ha fame di pianti,
lo scricchiolio del ghiaccio che vermiglia,
residuo di storie ormai disperse,
in apparenze di veglie nella stanza scura.
Così il mistero del dopo lascia i dubbi
al vertiginoso silenzio del presente,
nel tempo di un miserere.
*
Non è più il tempo di magnolie,
di moine preziose e furtive,
intrappolato nei nodi delle aritmie,
nella vertigine ingorda dei ricordi.
Non riconosco il profilo ormai sfocato
e sospeso in colori di cristalli,
rovesciato dalle foto che nascondo timoroso
per non cadere in angoscia.
Eri il candore, e non lo sapevi ,
il motivo segreto del riflesso in pastelli
per raggi dal riverbero violento,
malinconica conferma di qualche promessa
agganciata all’illusione.
Gocciano i rintocchi dell’assenza
nel calendario che resta.
Nel 1925 Salvador Dali dipinge questo “Ritratto di mio padre”. E’ un’opera complessa perché complesso è il rapporto col padre.
Don Salvador, padre del Salvador pittore, era un notaio: diligente, rigido, severo, presente, oppressivo
Non era un rapporto semplice ma pieno di complicazioni, fra amore e repressione, fra il bisogno di ribellione del giovane Salvador e il bisogno di avere l’attenzione di un genitore autorevole nella sua comunità
Salvador Dali RITRATTO DI MIO PADRE
Il ritratto esprime questa complessità. Don Salvador tiene in mano una pipa ma appare tranquillo, solido (come un muro, la sua giacca grigia quasi si fonde col muro retrostante), calmo. Le sue mani sono possenti e sicure, il suo sguardo deciso, la sua espressione controllata.
E’ un uomo forte, un uomo solido, un uomo che comanda, un uomo che è un riferimento per gli altri: la composizione gira tutta intorno a lui, lo sfondo è quasi annullato per lasciare spazio a lui
Al tempo stesso, c’è un senso di durezza, di ostilità, di rimprovero. Non c’è dolcezza in quegli occhi, sembra sul punto di pronunciare parole di richiamo al dovere. Il gioco di chiaroscuro sul suo volto lo rende sfuggente e vagamente sinistro
Il pittore che ritrae suo padre è anche il bimbo che guarda il suo genitore, fra il bisogno di averne l’attenzione, la voglia di sfuggire alle sue regole e la paura del suo giudizio.
Breve biografia d Salvat Dalì-Pittore, scrittore e poeta, nato a Figueras (Spagna) l’11 marzo 1904. Dopo aver frequentato l’Accademia di belle arti di Madrid, dalla quale fu espulso, si stabilì a Parigi. Nel 1929 aderì al movimento surrealista che da lui ebbe un nuovo, forte sviluppo. Allo scoppio della seconda Guerra mondiale, nel 1939, riparò negli S. U., dove ridusse la sua attività surrealista alle esigenze di un pubblico mondano. Vasta la sua opera letteraria (La femme visible, Parigi 1930; L’amour et la mémoire, 1931; Babaouo, scénario précédé d’un abrégé d’une histoire critique du cinéma et suivi de Guillaume Tell, ballet portugais, ivi 1932; La conquête de l’irrationel, ivi 1935; Métamorphoses de Narcisse, ivi 1936; The secret life of S. D., New York 1942; Hidden Faces, New York 1944), cinematografica (sceneggiatura, insieme con Luis Bunuel, dei film: Un chien andalou, 1939, e L’âge d’or, 1931), pittorica (Gli accomodamenti dei desideri, 1929; La persistenza della memoria, 1931, Mus. of Mod. Art, New York; Medio burocrate atmosferocefalico nell’atto di mungere un’arpa craniale, 1934; Costruzione morbida con fagiuoli bolliti; preannunzio di guerra civile, 1936; Famiglia di centauri marsupiali, 1941; ecc.); di inventore e costruttore di “oggetti a funzionamento simbolico”, oggetti, cioè, che assunti al di fuori del loro uso consueto si caricano di analogie e rispondenze subconsce. Tutta la sua opera è fondata sull’attività “paranoico-critica”, definita dal D. come “metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basata sull’associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti”. L’evocazione pesante e ossessiva in senso fisico – attraverso un verismo spesso repugnante, sostenuto da un’eccezionale abilità tecnica – del senso di disfacimento della materia, toglie al D., che tuttavia ha esercitato un sensibile influsso sul gusto contemporaneo, ogni possibilità di creazione d’arte.
Fotoreportage:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia.
La foresta rossa
Fotoreportage -La Russia è costellata di luoghi sorprendenti creati dalla “mano” magica della natura, che in questo angolo di mondo è stata particolarmente generosa in termini di bellezza e varietà. Il boschetto di cipressi nella valle di Sukko, nel sud paese, pur essendo di origine artificiale, è comunque impressionante! Giudicate voi stessi:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia
RUSSIA-La foresta rossa
Infatti i cipressi della palude (taxodium) non sono mai cresciuti qui e difficilmente sarebbero apparsi se non fosse stato per un esperimento sovietico. Si narra che negli anni ’30 furono portate delle piantine di cipresso dall’America del Nord, nella speranza di sviluppare in URSS una nuova coltura.
RUSSIA-La foresta rossa
Questi alberi furono piantati a 14 km da Anapa, nella valle collinare di Sukko, non lontano dall’omonimo villaggio.
RUSSIA-La foresta rossa
Con il passare degli anni, le piante hanno attecchito perfettamente e sono state oggetto di innumerevoli servizi fotografici e televisivi. Sono finite persino sulle pagine della rivista National Geographic.
Fonte Russia Beyond
Natura sensitiva tra la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino
Testo di Eleonora Diana
Puntata 1
“E questa nostra vita, via dalla folla, trova lingue negli alberi, libri nei ruscelli, prediche nelle pietre, e ovunque il bene”
(William Shakespeare, “As you like it”)
Che le piante fossero degli esseri straordinari e super-eroici lo sosteniamo da tempo, ma essere capaci di rimediare ai disastri atomici sembra proprio una qualità da eroe Marvel.
Da Černobyl a Hiroshima, le piante stanno dimostrando a noi umani una potente volontà di vita: un misto di resilienza, fluidità e capacità di rinascita.
La Foresta Rossa di Černobyl
Il nome evocativo “Foresta Rossa” non indica una zona di qualche remota regione del Nord Europa o una magica foresta in stile “Il Signore degli Anelli”, ma una pineta di circa 4 km2 che subito dopo “l’incidente” di Černobyl virò di colpo al rosso, per poi morire.
Era l’una del mattino, 23 minuti e 46 secondi e successe l’impensabile.
Una serie di violazioni nel protocollo di sicurezza crearono uno spaventoso effetto domino: il reattore n° 4 della Centrale nucleare Vladimir Il’ iČ Lenin, vicino a Černobyl, vide la temperatura del proprio nocciolo aumentare bruscamente, portando l’acqua di refrigerazione a scindersi in ossigeno e idrogeno che, a contatto con l’incandescenza delle barre di controllo, provocò un esplosione, lo scoperchiamento della struttura e un vasto incendio.
Fu così che una nube di isotopi radioattivi si disperse.
Piombò con prepotenza su un’area specifica, distruggendo e contaminando.
É la “Zona” e copre circa 30 km2 dal punto zero, il reattore nucleare.
Fu immediatamente evacuata e abbandonata e qui, mentre foreste di betulle e pioppi sopravvissero, la pineta si trasformò in Foresta Rossa.
A 30 anni di distanza sappiamo che non capitò solo quello.
L’uomo se ne è andato e la “Zona” si è trasformata in una sorta di Parco Naturale involontario.
Ora, senza l’essere umano, ritornano animali come linci, procioni, cavalli di Przewalski, uccelli, alci, cervi, caprioli, cinghiali, volpi rosse, tassi, donnole, lepri, scoiattoli, l’orso bruno e specie a rischio di estinzione.
La popolazione di lupi è sette volte maggiore rispetto alle zone incontaminate circostanti.
Ora, senza l’uomo, sembra che quella zona, disabitata dalla nostra specie, sia popolata dalle altre quanto non sia mai stata.
Ora, senza l’uomo, le piante stanno letteralmente invadendo, come in una giungla post-apocalittica, anche le zone maggiormente colpite dal fall-out nucleare. Crescono sui tetti, si riversano sui terrazzi, spaccano l’asfalto, squarciano i muri, si appropriano di strade a sei corsie.
Come una fenice, quel territorio ora è una delle aree a maggiore biodiversità dell’Ex Unione Sovietica.
E non è tutto.
Stanno ripulendo dalle scorie radioattive, attraverso la loro capacità, unica, di assorbire radionuclidi dall’aria, dall’acqua, dalla terra. Questo processo viene definito con un termine emblematico: fitorimediazione.
L’Eterno Giardino
La Foresta Rossa si sta trasformando in un Eterno Giardino: mancando per ora lombrichi, batteri e funghi, il naturale processo di marcescenza viene estremamente rallentato. Foglie e residui vegetali rimangono a terra per un tempo che sembra, ai nostri occhi, eterno.
L’unico vero nemico è il fuoco. Assorbendo quello che dall’aria cadde a terra, le piante si sono trasformate in scrigni di radioattività: la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino non devono bruciare. Mai.
Nonostante sembri una citazione di Ian Malcom, la vita vince sempre.
Lo Studio di Pirandello ha sede in via Antonio Bosio in un villino costruito intorno agli anni Dieci nell’allora Via Alessandro Torlonia in una zona di Roma immersa nel verde e che ritorna in numerose pagine pirandelliane.
Corrado Alvaro così ricorda il verde che circondava la casa:“Nel mezzo dello studio c’era un divano con le spalle a una grande vetrata che dava, a destra, in un giardino. Il giardino era uno scenario vicino di lauri e di cipressi. Ma oltre a questo verde perenne e grave, che appena imbiondiva al sole di primavera, ci doveva essere qualche grande albero che perdeva le foglie, un platano o una magnolia; ricordo bene a certe stagioni quel fruscìo … È strano che questo fruscìo faccia parte dei miei ricordi su quello studio, e questo sfogliare sia trasferito in un parco anziché fra le carte del letterato”.
L’appartamento è costituito da un ampio soggiorno-studio, da una camera da letto e da una terrazza. L’arredo è quello originale: risale al 1933, quando lo scrittore vi si trasferì al suo rientro in Italia, dopo gli anni trascorsi a Berlino e a Parigi. Parte della mobilia, in stile fiorentino, risale al 1910 e proviene da precedenti abitazioni dello scrittore (una scrivania, due librerie a vetrine, due savonarola). Acquisti successivi furono invece il grande divano, le poltrone, una seconda scrivania, alcune scaffalature e l’intera camera da letto, in stile razionale.
La biblioteca comprende circa 2.000 volumi appartenuti allo scrittore. Lo studio conserva inoltre gli oggetti d’uso, compresa la piccola macchina da scrivere portatile divenuta un inseparabile strumento di lavoro. Tra i quadri figurano quattro opere del figlio Fausto. Numerosi i manoscritti relativi a poesie, romanzi e drammi.
Lo Studio, oltre ad essere il luogo della scrittura (nei primi anni della permanenza in via Bosio, Luigi Pirandello portava a compimento Pensaci Giacomino! e Così è (se vi pare), era anche luogo di conversazione e ritrovo: il divano e le poltrone accoglievano i suoi incontri con i familiari e con le personalità a lui vicine; ricordiamo, tra gli altri, i nomi di Lucio d’Ambra, Silvio d’Amico, Eduardo De Filippo.
Dalla luminosità e dall’ampiezza dello Studio si passa alla sobrietà di una stanza da letto dalle linee essenziali con un terrazzo dal quale, allora, si potevano scorgere i pini di Villa Torlonia. Gli abiti, i cappelli, il bastone, la divisa della Reale Accademia d’Italia sono ancora conservati nell’armadio.
È in questa stanza che il 10 dicembre del 1936 Pirandello muore.
Di quel giorno, Corrado Alvaro ha tracciato pagine indimenticabili:
Noi entrammo in quel suo studio, ed era pieno di gente, ma di gente agitata, in piedi, convulsa, curiosa, che fumava, si chiamava, parlava ad alta voce, come se il padrone di casa l’avesse invitata a un ricevimento e tardasse a entrare. … Entrai nella camera dove egli giaceva. Era come abbandonata, c’era quel silenzio sterminato sul lenzuolo che lo copriva delineando quel corpo di “povero cristo” … E di là, nello studio, quel chiacchiericcio da ricevimento, come aspettando che egli apparisse. … Il giorno seguente, la nebbia infradiciava gli ultimi fiori secchi di quel giardinetto dietro a quel cancello di via Antonio Bosio. Un povero cavallo attaccato al carro dei poveri era fermo sulla strada bagnata .. La bara di abete tinto da poco con una mano di terra bruna, fu collocata sul carro, e i pochi amici rimasero fermi davanti al cancello a vederla partire verso gli alberi brumosi in fondo al viale.
[Le citazioni di Corrado Alvaro sono tratte dalla Prefazione a Novelle per un anno, Arnoldo Mondadori Editore, 1956, pp. 6-41]
indirizzo
Via Antonio Bosio, 13B – 15 00161 Roma Telefono e fax:
+39 06 44291853_
da Lunedì a Venerdì: ore 10.00 – 17.00 solo il Martedì: ore 10.00 – 19.00-
Luigi Pirandello
Biografia di Luigi Pirandello
Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 nella contrada Caos nei pressi di Girgenti (oggi Agrigento) da Caterina Ricci-Gramitto e Stefano Pirandello. La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune miniere di zolfo. Nel 1886 dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, Luigi Pirandello rientra a Girgenti, per lavorare con il padre nella gestione di una miniera di zolfo. Nel 1886 si iscrive all’Università di Palermo, per poi trasferirsi nel 1887 a Roma dove frequenta la Facoltà di Lettere, nel 1889, a causa di un contrasto con Onorato Occioni, professore di Lingua e Letteratura Latina, si trasferisce all’Università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con la tesi Suoni e sviluppo dei suoni nella parlata di Girgenti.
Intanto ha già esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Länder, di cui a Bonn si è innamorato.
Nel 1892, fermamente deciso a dedicarsi alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive grazie ad un assegno mensile del padre. Nell’ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana che lo esorta a scrivere narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L’esclusa. Non abbandona comunque la poesia: escono nel 1895 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portolano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (detta Lietta, 1897) e Fausto (1899).
La vita familiare scorre abbastanza tranquillamente ma a partire dal 1903 l’allagamento della miniera di Aragona condiziona negativamente il tenore di vita familiare, e i disturbi nervosi di Maria Antonietta, fino ad allora latenti, si aggravano. Lo stato di alterazione psichica di Maria Antonietta si riverserà sempre più spesso sulla famiglia. Luigi assiste la moglie fino al 1919, anno in cui la donna verrà ricoverata in una casa di cura (dove resterà fino alla morte nel 1959).
Luigi modifica il rapporto fino ad allora totalmente disinteressato con la letteratura ed inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali. In opposizione all’estetismo dominante, fonda con Ugo Fleres ed altri amici il settimanale letterario «Ariel», dove tra l’altro pubblica il testo teatrale L’epilogo (poi La morsa). Dal 1898 al 1922 insegna Stilistica presso l’Istituto Superiore Femminile di Magistero di Roma.
Nel 1904 esce a puntate sulla «Nuova Antologia» il romanzo Il fu Mattia Pascal; Pirandello riscuote un tale successo che uno dei più importanti editori di Milano, Emilio Treves, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere.
Nel 1908 pubblica due saggi, Arte e scienza e L’umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario ordinario. L’anno successivo pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani che ripercorre la storia del fallimento e della repressione dei Fasci; la seconda parte uscirà in volume nel 1913. Del 1911 è anche il romanzo Suo marito. Nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira …, ristampato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Nel 1915 l’Italia entra in guerra e il figlio Stefano parte volontario, presto viene fatto prigioniero nel campo di Mauthausen prima e in quello di Plan poi. La prigionia di Stefano durerà tre anni, il periodo è testimoniato da un intenso scambio epistolare tra padre e figlio.
Gli anni della Grande Guerra, sono vissuti da Luigi ancora più dolorosamente per la perdita, nel 1915, dell’amata madre Caterina.
Nel 1916 e nel 1917 scrive alcune delle più celebri opere in dialetto siciliano poi tradotte in italiano: Pensaci, Giacuminu!, ‘A birritta cu’ i ciancianeddi, Liolà, ‘A giarra; Cappiddazzu paga tuttu, ‘A vilanza, La patente; sempre nel 1917 scrive Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà, L’innesto, Ma non è una cosa seria; nel 1918 – anno in cui viene rappresentato Il giuoco delle parti – esce il primo volume di Maschere nude, titolo sotto cui Pirandello raccoglie i suoi testi teatrali.
Nel 1920 vengono pubblicate Tutto per bene, La Signora Morli, una e due, Come prima, meglio di prima.
Il 1921 è un anno fondamentale per il suo teatro: il 10 maggio la compagnia Dario Niccodemi mette in scena al Teatro Valle di Roma Sei personaggi in cerca d’autore: mentre a Roma la commedia da fare viene accolta tra contrasti, Pirandello raggiunge il grande successo internazionale.
Nel 1921 inizia la stesura di Enrico IV che in una lettera a Ruggero Ruggeri egli stesso definisce una delle sue opere più originali; la tragedia di Enrico IV rappresenta il primo incontrastato successo di Luigi Pirandello. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno. La sua produzione teatrale prosegue con Vestire gli ignudi (1922), L’uomo dal fiore in bocca (1923), La vita che ti diedi (1923), Ciascuno a suo modo (1924).
Nel 1923 Adriano Tilgher pubblica Studi sul teatro contemporaneo con cui offre la prima interpretazione del teatro pirandelliano in cui chiarisce la presenza nell’opera di Luigi Pirandello del contrasto tra la vita e la forma. A Pirandello inizialmente piacque l’analisi tilgheriana ma nel tempo la ritenne troppo limitante e qualche anno dopo il rapporto tra i due si interruppe.
Nel 1924 Pirandello si iscrive formalmente al partito fascista; l’anno seguente inizia l’esperienza del capocomicato con l’avventura del Teatro d’Arte che durò tre stagioni teatrali, dal 1925 al 1928, prima nella sede stabile del Teatro Odescalchi a Roma poi con l’esperienza della Compagnia nomade che portò nel mondo le innovazioni teatrali dell’autore-regista. Per la serata inaugurale del Teatro d’Arte (2 aprile 1925), Pirandello scelse l’atto unico La Sagra del Signore della Nave composto nel 1924. L’interprete per eccellenza delle sue scene è l’attrice Marta Abba, conosciuta nel 1924 a cui Pirandello resterà legato tutta la vita.
Nonostante l’adesione formale di Pirandello al Partito Fascista, il suo stile di vita ed il pensiero espresso dalla sua arte non erano certo allineati alla “filosofia” fascista, tanto meno lo erano i suoi personaggi; non si può infatti definire Pirandello un intellettuale fascista.
Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila al quale l’autore aveva lavorato per molti anni; nel 1926 e nel 1927 scrive Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, Bellavita.
Nel 1928, sciolta la sua Compagnia, Pirandello inizia gli anni del suo volontario esilio, Berlino prima, Parigi poi.
La nuova colonia (1928) inaugura l’ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che prosegue con Lazzaro (1929) e culmina nell’opera incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929, mentre si trova a Berlino, è nominato membro della Reale Accademia d’Italia, parteciperà all’inaugurazione dell’Accademia alla presenza di Mussolini.
Sempre nel 1929 termina la stesura di O di uno o di nessuno e dell’atto unico Sogno (ma forse no), che verrà rappresentato la prima volta a Lisbona nel 1931; nel gennaio del 1930 a Königsberg avrà invece luogo la prima rappresentazione di Questa sera si recita a soggetto; seguono Sgombero (1931), Trovarsi (1932), nel Quando si è qualcuno (1933). Nell’aprile del 1933 prima proiezione a Roma del film Acciajo, tratto dal regista tedesco Walter Ruttmann dallo scenario di Pirandello Gioca, Pietro! (musiche di Gian Francesco Malipiero). Alla fine del 1933 si stabilisce a Roma in un appartamento in via Antonio Bosio, nella stesso villino alloggia il figlio Stefano con la famiglia. Una volta rientrato in Italia, ritorna ad occuparsi del suo progetto di fondare il Teatro di Stato, un teatro d’arte con una sede stabile; fino alla fine dei suoi giorni sperò – invano – che il Partito lo aiutasse concretamente a realizzare il suo grande sogno.
Nel gennaio 1934, a Braunschweig, va in scena l’opera di Malipiero su libretto di Pirandello La favola del figlio cambiato: nonostante il successo di pubblico e di critica le autorità naziste vietano le repliche dell’opera; nel mese di marzo La favola andrà in scena al Teatro dell’Opera di Roma alla presenza del Duce il quale, irritato, ne proibisce ogni replica.
Nel mese di ottobre Pirandello presiede il IV Convegno della Fondazione Alessandro Volta dedicato al Teatro Drammatico; per l’occasione metterà in scena La figlia di Iorio di d’Annunzio al Teatro Argentina di Roma.
Il 10 dicembre 1934 a Stoccolma gli viene consegnato il Premio Nobel per la Letteratura «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte del dramma e della scena».
Nel 1935 proseguono i suoi tentativi con il Duce per realizzare un Teatro di Stato che non si farà mai, alla fine del 1935 prima rappresentazione di Non si sa come al Teatro Argentina di Roma.
Nel 1936, deluso dal disinteresse del Partito per il suo grande progetto teatrale, Pirandello si dedica alla promozione di Marta Abba sulle scene americane. Numerosi i viaggi in Italia e all’estero, ma anche i momenti trascorsi con i familiari e gli amici più intimi. In dicembre si ammala di polmonite mentre segue le riprese del film di Pierre Chenal L’homme de nulle part tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa di via Antonio Bosio il 10 dicembre 1936.
Tra le sue carte si scoprono le ultime volontà da rispettare. Il giorno dopo la morte, un carro funebre solitario si avvia verso il cimitero del Verano dove il suo corpo verrà cremato. Le ceneri sono conservate al Caos, in una roccia all’ombra del famoso pino solitario non lontano dalla casa natia di fronte al mare africano.
Dina Saponaro – Lucia Torsello, Profilo Biografico,
in Luigi Pirandello, Opere,
a cura di Franca Angelini
Illustrazioni di Mimmo Paladino
Classici Treccani,
I grandi autori delle Letteratura Italiana
Collana diretta da Carlo Maria Ossola,
Istituto dell’Enciclopedia Treccani, Roma, 2012.
MUSEI GRATUITI A ROMA
ROMA- La città eterna offre delle perle di storia e arte senza chiedervi di mettere mano al portafogli. Sono almeno 20 i musei di Roma che prevedono ingresso gratuito tutto l’anno tra cui la collezione privata di Carlo Bilotti, l’imprenditore che ha donato al comune di Roma il proprio “bottino” di opere di DeChirico, Warhol, Rotella e Severini. Anche il museo Napoleonico e della MemoriaGaribaldina, a Roma, sono gratis. Noi però vi consigliamo di visitare lo studio di Pirandello, visto che di arte a cielo aperto farete indigestione a Roma, e considerato che sicuramente avrete scelto di visitare le cose imperdibili come la Cappella Sistina o il Colosseo. E quindi in una Roma “letteraria” e meno iconica e simbolica della sua stessa storia, potete andare a vedere lo studio, che si trova sulla Nomentana, di uno dei maggiori artisti della parola. La casa è stata trasformata in museo e conserva arredi, biblioteca e cimeli originali, così come sono stati lasciati dal Pirandello.
Resistenza va scomparendo- Articolo di Alba Sasso-
Partigiano
Resistenza va scomparendo- articolo di Alba Sasso .Lentamente, la Resistenza antifascista va scomparendo. Un’azione di demolizione metodica, inesorabile, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli mai immaginati prima, sta recidendo le radici che legano la nostra storia all’oggi e al domani, un progetto portato avanti nel tempo, che oggi mette sotto gli occhi di tutti i suoi risultati .La proposta della Gelmini tendente ad eliminare anche il nome della Resistenza- resta solo un più generico “percorso verso l’Italia repubblicana”- dai libri di testo è più che una provocazione, o una boutade. È il perfezionamento di un progetto di egemonia culturale portato avanti da un berlusconismo che, ben lungi dall’essere quella macchietta che troppo spesso abbiamo dipinto, si è rivelato una vera costruzione ideologica, portatrice di valori diversi ed alternativi rispetto a quelli in cui è cresciuta la Repubblica nel dopoguerra. La pochezza di personaggi come l’attuale ministro non deve trarci in inganno. La cancellazione della Resistenza è stata portata avanti nei fatti, prima ancora che nei libri di testo. L’assenza sistematica del premier da tutte le cerimonie non solo del 25 aprile, ma da qualunque cosa sapesse di Resistenza, è stata una goccia che ha scavato un solco, che rischia di diventare una voragine, distruggendo la memoria storica di un paese, la sua identità. Troppo spesso il berlusconismo è stato scambiato per folklore. Ne abbiamo sottovalutato le conseguenze.Oggi la Gelmini può permettersi gesti di questo tipo senza che vi sia ancora una reazione forte e generalizzata di protesta. Non si tratta di difendere le cerimonie rituali e spesso stanche, che pure sono un mezzo per la conservazione della memoria. Si tratta di lanciare una grande campagna culturale nel paese, riprendendo il tema della Resistenza come identità di una nazione. Oggi paghiamo le concessioni ideologiche, prima ancora che culturali, ad un indistinto buonismo che accomunava i morti di tutte le parti, i “ragazzi di Salò” ai partigiani. Un equivoco storico alimentato anche a sinistra, pensiamo ai recenti film di smaccato revisionismo, senza giustificazioni che non fossero un basso politicismo, che in nome di tattiche di corto respiro sacrificava principi ed ideali. Rilanciare i valori della Resistenza vuol dire oggi riprendere una lunga marcia nel cuore delle giovani generazioni, in primo luogo per far conoscere loro quelle radici.È questo il primo dato drammatico: i ragazzi, oggi, nella loro grande maggioranza, rischiano di vivere sempre più in un presente vuoto di storia e di futuro.E la diffusione dei disvalori berlusconiani ha seminato il diserbante delle ideologie, sollecitato il rifugio negli egoismi rassicuranti delle identità minime, il locale e le appartenenze di gruppo.La battaglia cui dobbiamo impegnarci non è solo quella dei libri di testo, da cui la Resistenza non può e non deve essere espulsa, come in una sorta di “damnatio memoriae”. È una battaglia culturale che non si può esaurire nel breve periodo. C’è bisogno di far vivere i valori di quella stagione, in un paese che non cessa di mandare segnali in questo senso.La voglia di pulizia e di cambiamento, la sete di moralità e di giustizia, sempre liquidate con la sprezzante definizione di giustizialismo, sono la testimonianza che quei valori esistono ancora, quelle radici non sono state recise. Dovremo innaffiarle e curarle con l’amore per la storia, per la cultura, per il bello. Con il rilancio della Resistenza come epopea di un popolo alla ricerca di libertà e giustizia, riproponendo perfino i modelli di vita di quella generazione, i padri della patria con la loro sobrietà del vivere la politica, con lo spirito di servizio che caratterizzava il loro impegno, con l’inflessibilità sui grandi principi. La grandezza della Resistenza non può essere messa in discussione dalla pochezza di questi figuri. Ma a noi tocca l’impegno di impedire che ci provino comunque.
Articolo di Alba Sasso
PartigianoPartigiano25 aprile 1945 MILANOl’UnitàIL NUOVO CORRIEREIl Partigiano 1945Ribelle Cichero-N1 del1945l’Unità
Aida V. Eltanin-Il diario vivente di Emily Dickinson
Descrizione del libro di Aida V. Eltanin-Il diario vivente di Emily Dickinson-Emily Dickinson si è stancata di essere ancora fraintesa. Lei che citava spesso i vulcani nelle sue poesie ha deciso dall’aldilà che era ora che il suo Vesuvio eruttasse. La Dickinson in realtà non ha mai tenuto un diario e ha sempre lottato contro le pressioni a pubblicare le sue poesie per sconosciuti. Trovava fosse un po’ come ‘togliersi tutti i vestiti dall’anima’. Ha scritto però centinaia di lettere poetiche ad amici e parenti, missive nelle quali inseriva le sue preziose poesie tra una riga e l’altra. Era l’unico modo in cui voleva farle circolare. Ecco perché in questo diario la sentirai parlare di sé attraverso il suo mezzo preferito, antico e magico. Il tuo con Emily sarà un viaggio epistolare dentro la sua carrozza fatata: ogni lettera un capitolo di questo diario vivente. ‘Vivente’ perché ti sembrerà che la Dickinson scriva proprio a te, dal suo presente al tuo, come se tu fossi una sua cara lettrice che dal futuro le racconta come siano state recepite, e spesso travisate, le sue poesie e la sua persona nei decenni. La sentirai così com’era nella vita di tutti i giorni e la vedrai crescere con te, dalle parole leggere delle sue prime lettere – con frasi scritte da adolescente – fino agli ultimi bigliettini scritti prima di morire. Tutte le frasi in corsivo sono state realmente scritte da Emily Dickinson a qualcuno dei suoi tanti corrispondenti. Un paragrafo del diario potrebbe contenere frasi tratte da diverse sue lettere, assemblate insieme. L’ autrice si è limitata a ‘farle da medium’ selezionando un florilegio delle sue parole migliori e poi da traduttrice, creando ghirlande delle sue parole in un italiano moderno e comprensibile. Perché dovremmo leggere ancora la Dickinson nel 2021? Perché sono parole potenti le sue, intrise di una magia che come diceva lei – non passa solo perché ormai è morta la maga. Sono parole capaci di elevare un’anima, di evitare che un cuore si spezzi, di fare da balsamo su un lutto e di dare più profumo e bellezza alla nostra vita di tutti i giorni, come i fiori che lei tanto amava. Troppe biografie sono poco più che fredde autopsie letterarie dove la voce dominante è quella del biografo. In questo diario invece è la voce affettuosa e profonda della Dickinson a risuonare e a differenza dei libri disponibili su Emily Dickinson – che separano rigidamente le sue poesie dalle lettere o dalle biografie – in questo troverai le tre mischiate insieme in un genere forse unico, con le sue poesie – intere o parziali – intrufolate tra le righe delle lettere, esattamente come faceva lei quando scriveva a qualcuno, perché la sua prosa – come vedrai – era spesso poetica. Se sei dunque pronta a cominciare questo viaggio, dì al cocchiere di far partire la diligenza e apri con delicatezza la sua prima lettera…
Emily DickinsonEmily Dickinson
Editore : Independently published (4 maggio 2021)
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