Giuseppe Tomassetti- Appello per la conservazione delle Torri della Campagna Romana-
FIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre Primavera
A proposito delle Torri della Campagna Romana il Tomassetti scrisse:”…pensi il lettore , contemplandole ora così poeticamente desolate, quasi giganti feriti ed impietriti sul posto , a ricostruire la Storia con l’immaginazione , e figurarsi le feste, gli armamenti, le battaglie, tutto ciò che formò la vita agiata della Campagna Romana nel Medioevo; ed egli dovrà convenire con me che esse esercitano grande seduzione nella nostra mente. Pensino pertanto i proprietari dell’Agro Romano a conservare gelosamente questi ruderi dell’Arte e della Poesia; ne impediscano ai pecorari ed ai contadini la continua malversazione; pensi il Governo a farne compilare l’esatto elenco ed a farne regolare consegna ai proprietari, come dei Monumenti Antichi, sia perché hanno aspetto pittoresco , sia perché appartengono alla Storia; e col tempo la posterità dimanderà conto alla presente generazione del non aver arrestato e posto fine ai guasti dovuti all’ignoranza dei nostri predecessori.”
FIUMICINO-Torre di Maccarese nota come Torre PrimaveraROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaTorre Perla di Palidoro sarà il museo Salvo d’AcquistoTorre Perla di Palidoro sarà il museo Salvo d’AcquistoRoma-Torretta TROILIRoma-Torretta TROILIRoma -Torretta di Porta Pertusa-Fotoreportage di Franco LeggeriFranco Leggeri-Fotoreportage-ROMA -Torre AureliaTORRE DI BACCELLIROMA-Torre di AcquafreddaROMA-Torre di AcquafreddaTorre segnaletica “LA SELCE”Torre di Maccarese- conosciuta anche con il nome di Torre PrimaveraFIUMICINO-Torre in Pietra-Torre di PagliaccettoFIUMICINO-Torre in Pietra-Torre di PagliaccettoTorre della Bottaccia disegno ricavato dal Catasto Alessandrino del sec. XVIICastel di Guido-La TORRE DELLA BOTTACCIAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRATorre della BOTTACCIATorre della BOTTACCIATorre della BOTTACCIATorre della BOTTACCIATorre della BOTTACCIA
Descrizione del libro di Carlo Greppi–Editori Laterza–Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.
Sui monti di Sarzana, proprio lungo la Linea Gotica, dove nel 1944 i combattimenti infuriavano con maggiore ferocia, il capitano della marina tedesca Rudolf Jacobs, ottimo soldato, abbandonò le proprie fila. Non lo fece per fuggire da una guerra ormai persa, ma per unirsi ai partigiani garibaldini, fino a morire eroicamente durante l’assalto a una caserma delle Brigate nere fasciste. Apparentemente la sua sembra la storia di un’eccezione, commovente e coraggiosa, ma pur sempre un’eccezione rispetto alla nostra idea dei tedeschi zelanti combattenti della Germania nazista, fedeli fino al suo crollo. Eppure questa eccezione non fu così solitaria e isolata: parliamo di centinaia di uomini, almeno mille secondo le stime degli storici. O erano di più? Tedeschi e austriaci, ‘banditi’, ‘disertori’, ‘senza patria’, che hanno saputo dire di no agli ordini ingiusti, che hanno rigettato la legge dell’onore e del sangue per scegliere quella della libertà e della coscienza. Partendo da tracce labili, quasi svanite – un nome su una lapide, poche righe nei documenti ufficiali, qualche ricordo dei partigiani sopravvissuti –, questo libro è un’indagine appassionata e coinvolgente che ci trascina alla riscoperta di una pagina di storia che nessuno in Italia ha mai raccontato in questo modo.
Solo la coscienza non inaridisce,
questo fiero, aspro paesaggio di giustizia,
questo fortino contro il rimorso.
Siegfried Lenz, Il disertore (1952)
Sotto una stella armata
1.
Brema, Germania nord-occidentale, domenica 26 luglio 1914.
Poche ore prima di quel pianto apparentemente inconsolabile, gran parte del mondo era totalmente all’oscuro delle macchinazioni dei potenti del Vecchio Continente. Dopo il durissimo ultimatum austroungarico alla Serbia di tre giorni prima, l’Europa sta entrando in guerra. Spalleggiato da un incondizionato sostegno tedesco, l’impero asburgico ha deciso che la sua pazienza è finita, e si percepisce il montare di uno scontro generalizzato, e non limitato alla regione balcanica. Non succedeva da oltre quarant’anni, dal conflitto franco-prussiano del 1870-71, che gli eserciti si scontrassero nel cuore dell’Europa – su altri scenari non avevano mai smesso di esportare distruzione, chiaro, ma questa è un’altra storia. E, soprattutto, una guerra così nessuno l’aveva ancora vista mai. La crisi continentale apertasi da meno di un mese con un colpo di pistola a Sarajevo deflagrerà nel giro di una manciata di ore, questa volta, nel conflitto più devastante della modernità. Ma nessuno, in questa domenica d’estate, può davvero intuire la portata epocale di quello che sta cominciando. Cinque giorni più tardi la Germania dichiarerà guerra alla Russia e due giorni dopo le truppe tedesche entreranno in Francia; nelle settimane successive i cadaveri si conteranno già a centinaia di migliaia – alla fine del conflitto, i morti della sola Germania saranno oltre due milioni.
La madre del bambino che viene al mondo, Frieda Rosenthal, compressa com’è nell’ultimo, definitivo sforzo di darlo alla luce, difficilmente sta pensando all’inquietudine che la circonda. Ma essere nati a luglio del 1914, e per la precisione in quegli ultimi giorni che hanno visto scattare il perverso meccanismo delle alleanze senza possibilità di fare marcia indietro, diciamocelo, non è cosa da poco. Forse si intende questo, quando si dice che qualcuno è nato sotto una stella. L’astro che osserva la venuta al mondo a Brema di Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs, il 26 luglio dell’anno in cui si schiantano le speranze in un progresso generatore di futuro e milioni di giovani europei si preparano ad andare alla guerra, è circondato dall’euforia e dal terrore, sentimenti vagamente intrecciati in tutti e in ciascuno. Perché, poi, quello della popolazione tedesca compattamente e ferocemente convinta di questo nuovo conflitto è in parte un mito – la realtà, nella storia e nel presente, è spesso molto diversa da come appare a un primo sguardo superficiale. Proprio il 26 luglio, a voler seguire i tratti contraddittori di quella stella che sbircia la nascita di Rudolf Heinrich Otto Max, si scatenano massicce proteste contro la guerra in tutta la Germania: dureranno fino al 30 del mese, coinvolgendo oltre 750.000 tedeschi. Anche a Brema, nella città vecchia, il 28 si tengono ben sette corposi assembramenti che rigurgitano una folla tenacemente contraria al gioco al massacro che si intuisce stia per cominciare. Sfogliando i giornali locali degli ultimi giorni di quella settimana scarsa, decisiva per le sorti della Germania e dell’umanità intera, si colgono da un lato l’incertezza e la paura ma anche, è vero, una sprezzante arroganza, quel “sentimento nazionale” che è sempre pronto a tutto, pur di nutrire se stesso. Anche a fagocitare padri, fratelli, figli altrui e propri. La tensione montata da Sarajevo al cuore della Mitteleuropa è alle stelle: anche a Brema, come nel resto della Germania e come, gradualmente, nel continente intero, i manifestanti vengono randellati, caricati, ostracizzati – e chi si oppone al conflitto diventa presto, agli occhi della maggioranza della popolazione, nemico della nazione. “Traditori della patria”, per usare una formulazione che incontreremo: Landesverräter, in tedesco. Traditori, siete solo dei maledetti traditori.
All’inferno e ritorno: così titola il grande storico britannico Ian Kershaw la sua opera monumentale dedicata all’Europa “nell’era dell’autodistruzione”, fornendoci un frame per leggere, in linea con una cornice interpretativa ormai fiorente e consolidata, quello che si spalanca nel 1914 come un interminabile conflitto che cova una sua seconda fase in una lunga, drammatica pausa, la Guerra dei Trent’anni, con un “comune denominatore ideologico” – il nazionalismo. Tutto cominciò, nella via via più lucida percezione degli europei, in quei giorni finali di luglio del 1914: “La convinzione che la guerra fosse necessaria e giustificata, e l’autoconsolatorio presupposto che sarebbe stata una cosa spiccia – una breve, eccitante ed eroica avventura coronata da una vittoria rapida e con poche perdite – era penetrata in ampi settori della popolazione, molto al di là delle classi dirigenti europee. Questo aiuta a spiegare come mai in tutti i paesi belligeranti tanta gente fosse così euforica, perfino entusiasta, mentre la tensione, che non toccò il grosso della popolazione fino all’ultima settimana di luglio, andava montando fino a esplodere nella guerra generale”. Il sigillo di questo inizio, per la Germania, lo si può forse apporre al 31 luglio, quando 50.000 cittadini tedeschi, a Berlino, acclamano il Kaiser Guglielmo II in un discorso che diventerà immensamente celebre. “Nella lotta che ci sta davanti io non conosco più partiti nel mio popolo. Adesso tra noi ci sono soltanto tedeschi”, ribadisce il Kaiser nei giorni successivi. Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs – per la sua famiglia e per noi sarà semplicemente Rudolf – ha cinque giorni, è in effetti tedesco, e la sua esistenza sarà integralmente incastonata in questi trent’anni.
Venuto al mondo nell’anticamera dell’inferno, lo vedrà e cercherà la via del ritorno, con tutte le sue forze. È nato sotto una stella armata, Rudolf, mentre intorno a lui qualcuno ragiona e grida che no, questa carneficina la si deve fermare.
2.
A dirla tutta, tra i tanti figli illustri di Brema, una città che all’alba della Grande Guerra conta 250.000 abitanti, ce n’è uno che spicca su molti per chiara fama: il suo nome è Ludwig Quidde. Storico di formazione, quando Rudolf nasce Quidde è ormai un uomo di 56 anni che da molto tempo si batte contro la politica estera aggressiva del Kaiser e, più in generale, per la pace tra le nazioni. Non è certo l’unico, intesi: mentre infuriano i nazionalismi, gli imperialismi, il razzismo e il darwinismo sociale che – in forme e misure diverse – legittimano la guerra come strumento di regolazione dei rapporti di forza, in Europa non mancano gli afflati di contrapposizione a un’idea di senso di appartenenza esclusiva, asfittica, chiusa. Innanzitutto l’internazionalismo socialista e l’universalismo di frange del composito mondo cristiano, che si fronteggiano e a tratti convergono. E poi una rete pulviscolare di realtà associative – come il Bund Neues Vaterland, di cui lo stesso Quidde fa parte – e di semplici donne e uomini, non di rado cresciuti nella prosperità e nel benessere, che intendono sinceramente favorire la cooperazione tra i popoli e tra gli stati attraverso forme di associazionismo di vario tipo. “Pacifismo” è una parola potente, per uomini come Ludwig Quidde. Una parola alla quale dedicare l’intera propria vita, oscillando tra momenti di riconosciuta pavidità – Quidde non si pronuncia sull’aggressione tedesca del Belgio, per dirne una – e invidiabili squarci di coerenza.
Quidde, ad esempio, avrebbe potuto fare del mestiere di storico la sua vita. Ma ha avuto la carriera accademica stroncata vent’anni prima, in seguito alla pubblicazione di un infuocato pamphlet che, pur riferendosi all’imperialismo dell’antica Roma, accusava implicitamente Guglielmo II e le mire espansioniste della Germania di fine Ottocento, in una sorta di parodia nella quale accostava il Kaiser a Caligola, e che gli era costata tre mesi di galera. Si era tenacemente impegnato per ridurre l’ostilità tra la Francia e la Germania dopo il conflitto del 1870-71, e proprio a maggio del 1914, poche settimane prima dello scoppio del conflitto mondiale, è diventato presidente della Deutsche Friedensgesellschaft (DFG), la Società tedesca per la pace, che conta circa 10.000 membri per lo più appartenenti alla piccola borghesia, e che guiderà per quindici anni. Esiste ancora oggi, scopro, con una straordinaria e nitida specifica in aggiunta: “Resistenti Uniti contro la Guerra” (Vereinigte KriegsdienstgegnerInnen). La Società aveva raggiunto addirittura il traguardo del Nobel con la baronessa Bertha von Suttner, seconda donna dopo Marie Curie a vincere il prestigioso premio e prima ad aggiudicarsi quello per la pace, che era stata intima amica proprio di Alfred Nobel. Lei stessa, nel ritirarlo, aveva mostrato una profetica consapevolezza di quello che il prossimo futuro avrebbe potuto riservare al Vecchio Continente: “I sostenitori del pacifismo – aveva detto – sono ben consapevoli di quanto siano limitati il loro potere e le loro capacità di influire. Sanno di essere ridotti di numero e di avere scarsa autorità, ma quando considerano realisticamente chi sono e l’ideale che servono, si sentono servitori della più grande di tutte le cause. Dipende dalla soluzione di questo problema se l’Europa diventerà un cumulo di rovine e di fallimenti, o se riusciremo a evitare questo pericolo pervenendo più rapidamente all’era della pace e del diritto”. Era il 1905, e i quattro decenni successivi avrebbero in effetti generato quel “cumulo di rovine e di fallimenti” da lei pronosticato, anche se la baronessa non lo vedrà, perché muore a 71 anni il 21 giugno 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo. Come non può saperlo Quidde, ritirando il medesimo premio insieme al francese Ferdinand Édouard Buisson, nel 1927. Nella lecture che tiene il 12 dicembre, al cui testo rimetterà più volte mano nei quattro anni seguenti, insiste sul fatto che il programma di disarmo propugnato dalla maggioranza dei pacifisti nei decenni precedenti sarebbe ormai “ridicolo”: “un disarmo drastico e completo è oggi il nostro obiettivo”, altrimenti il disastro è dietro l’orizzonte. Ma la sua, per quanto supportata da schiaccianti evidenze, è ormai pura utopia.
Il clima è irrimediabilmente precipitato, e Quidde lo sa. “Una razza forte scaccerà le deboli” è il mantra del Mein Kampf, il “vangelo” dell’austriaco Adolf Hitler che punta tutto sul riscatto tedesco da affidare a un “uomo forte” (lui stesso, naturalmente), con idee chiare e nemici altrettanto chiari. La Germania e il suo popolo, la Volksgemeinschaft, l’Herrenvolk di cui già si parlava nel secolo precedente (il “popolo di dominatori”, appunto), devono avere diritto al loro “spazio vitale” (Lebensraum) recuperando i territori perduti e prendendosi quelli che ritengono necessari, soprattutto a est. La storia è per Hitler una “lotta totale tra i popoli”: predica la necessità di gerarchie tra esseri umani auspicando con foga l’annientamento dei deboli. La “razza forte”, per prevalere, deve distruggere le altre.
Hitler non è certo l’unico a soffiare sul fuoco della politica di potenza nazionale, né – in Germania – a criticare i trattati di Versailles, e cerca di farsi anzi collettore di una serie complessa di istanze. Molti tedeschi vogliono infatti “rifarsi” perché sulla sola Germania grava l’imposizione della colpa – da lei forzatamente riconosciuta nel noto articolo 231 del Trattato del 1919 – della guerra, e questa trasversale voglia di rivincita nazionale si sposa così a rivendicazioni sociali che coinvolgono ampi strati della Germania inquieta degli anni Venti, nella quale l’ormai anziano Quidde è tra i pochi che invitano alla ragione. Il vento della storia soffia, di nuovo, verso un conflitto generalizzato.
L’anno in cui tutto precipita, lo sappiamo, è il 1929, lo stesso in cui peraltro Quidde lascia la presidenza della Società tedesca per la pace. Rudolf ha 15 anni ed è ancora uno scolaro del Realgymnasium di Brema, mentre suo padre osserva con immensa preoccupazione la crescita improvvisa del partito dell’agitatore austriaco, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP). Il 3 ottobre di quell’anno muore infatti Gustav Stresemann, il politico conservatore che – pur non lesinando misure anche dure – era stato tra coloro che avevano cercato di salvaguardare la tenuta della repubblica di Weimar e dei suoi rapporti internazionali. La scomparsa di Stresemann segna simbolicamente la fine di un’epoca, per la Germania. Tre settimane più tardi, a New York crolla la borsa valori: per i nazionalsocialisti è la grande occasione. Nel giro di tre anni e pochi mesi arrivano al potere, inaugurando una delle epoche più buie della storia dell’umanità, mentre Rudolf frequenta la Seemannsschule di Amburgo, l’istituto nautico fondato da armatori e mercanti della città anseatica cinquant’anni prima.
Sappiamo che suo padre invita immediatamente Rudolf, che nel frattempo ha compiuto 18 anni, a proseguire gli studi e ad abbandonare la Germania per tenersi alla larga dal clima di violenza che si sta facendo asfissiante. Rudolf è ancora giovane, si deve fare le ossa. Imparerà, e ci metterà molto tempo, che la pace – e il suo concittadino Quidde lo sapeva bene – si può fare anche con le armi.
3.
“Per i traditori della Patria e per i disertori, che magari si sono anche vantati di aver combattuto al fianco dei partigiani e di aver ucciso dei soldati tedeschi, non c’è alcuno spazio tra di noi. Siffatti apprendisti senza onore non devono aspettarsi alcun rispetto nemmeno da quelli che sono stati fin’ora nostri avversari. Verranno isolati e trattati nel modo che si sono meritati […] Le nostre leggi militari hanno piena validità, oggi come ieri. Chi le trasgredisce deve portarne inesorabilmente le conseguenze”. Queste parole senza possibilità di fraintendimento sono vergate a giugno 1945 nel Deutsches Hauptquartier Bellaria, il quartier generale tedesco del campo di prigionia di Bellaria, dal comandante Karl von Graffen, che negli ultimi giorni di guerra era stato nominato comandante del LXXVI Panzerkorps sullo scacchiere italiano. Siamo alla fine di quella che molti definiscono la Guerra dei Trent’anni del Novecento, tre decenni e qualche mese dopo le parole con cui il Kaiser Guglielmo II, a Berlino, auspicava – intimava – che davanti a lui ci fossero “soltanto tedeschi”. E sette anni dopo il boato con cui una folla di 250.000 persone nell’Heldenplatz di Vienna invocava l’annessione tedesca dell’Austria, prima di certificarla con oltre il 99 per cento dei voti in un plebiscito che nel 1938 aveva saldato le due nazioni in un solo destino, in quella che sarà un’unica “comunità di popolo armata in guerra”. Così non è stato, almeno in parte: davanti al comandante del LXXVI Panzerkorps non ci sono solamente soldati che hanno inseguito quel sogno di dominio nazionale.
Alle spalle delle spietate minacce di von Graffen, sul suolo italiano e su tutto il globo terracqueo, quel “cumulo di rovine e di fallimenti” previsto dalla baronessa von Suttner quarant’anni prima. Eppure – c’è sempre un “eppure” – queste parole lasciano trasparire qualcosa di immenso. E cioè che von Graffen minaccia inesorabili conseguenze per chi, tedesco, con spudorata doppiezza o vestito di sincera convinzione, ha “combattuto al fianco dei partigiani”. E più in generale per chi si è macchiato del più infamante dei gesti che si possano immaginare, in tempo di guerra: la resa ai nemici, la diserzione, il tradimento – Special Germans, li chiamano gli Alleati. Tedeschi e austriaci speciali, con traiettorie imprevedibili, come molto più spesso erano stati imprevedibili i percorsi di tutte le nazionalità da loro arruolate più o meno a forza: soprattutto cecoslovacchi, polacchi e sovietici di varie provenienze.
In quello stesso campo di prigionia – il lager 12 – erano infatti presenti diversi soldati della Wehrmacht che durante il conflitto avevano disertato, e si erano uniti alla Resistenza italiana. Alcuni dei loro nomi li sappiamo: il sottufficiale Karl Berger, il caporalmaggiore Oskar Blümel, il caporalmaggiore Erich Stey, il caporale austriaco Franz Maier. Dubito che abbiano conosciuto Rudolf, eppure qualcosa li univa. Innanzitutto il fatto che, a differenza di Quidde e della baronessa von Suttner, a loro nessuno avrebbe neanche mai pensato di dare un premio Nobel. Anzi. Il futuro avrebbe riservato, a quegli uomini, quasi solo sguardi e parole taglienti come quelli del comandante von Graffen – quasi solo disprezzo, e al massimo poche briciole di compassione.
“Lui ha combattuto con loro”, avrebbero detto i concittadini, i parenti, gli amici: “Ha rivolto le armi contro di noi”.
4.
Quando ti uccidono più volte, forse non sarai mai morto per davvero. Se hai dimostrato di saper essere un uomo protagonista del tuo tempo ma guidato da valori universali, che trascendono quel tempo stesso, il tuo nome resterà scolpito da qualche parte – nella memoria dei luoghi, in una lapide dimenticata, tra documenti accartocciati, nei sussurrii della gente del posto. Si dirà “lui aveva combattuto con i nostri. Lui, che era tedesco”. Si tramanderà un racconto, che così manterrà viva la tua storia, finché qualcuno non la spolvererà per raccontarla battagliando con l’oblio.
Questo è quanto accaduto a chi, vestendo la divisa delle forze armate tedesche, ha saputo dire di no, seguendo non gli ordini liberticidi e criminali della “patria” ma la propria coscienza, pur sapendo che avrebbe potuto morire non una ma due volte. Se da un lato avrebbe potuto essere ucciso in battaglia, combattendo contro i suoi ex commilitoni e i loro alleati fascisti, dall’altro il suo nome – questo invece era pressoché certo – sarebbe stato a lungo cancellato dalla memoria pubblica del suo paese. Sarebbe stato complicato, anche se si fosse persa la guerra, celebrare i disertori, queste anime rinnegate che avevano scelto il lato giusto della storia, intralciando la cavalcata del Reich millenario per inseguire, al contrario, un altro ideale.
Già nella riedizione della prima grande narrazione della guerra partigiana di Roberto Battaglia, uscita postuma, sono inserite ex novo alcune pagine dedicate al tema su cui lo storico scrive in maniera pionieristica negli anni Sessanta. E tra gli stranieri che si unirono alla Resistenza ricorda anche i disertori dell’esercito tedesco (nati nel Reich o altrove), che appaiono “nelle file del movimento partigiano in quasi tutte le regioni del Nord”. Stiamo parlando di un nucleo numericamente non trascurabile anche secondo gli storici tedeschi che avrebbero proseguito questo filone di ricerca, arrivando a suggerire l’ipotesi che fossero centinaia. Come avrebbe sottolineato Claudio Pavone molto tempo dopo, si sarebbe addirittura tentato di costituire reparti composti integralmente da disertori della Wehrmacht, e le stime più aggiornate confermano le sensazioni dei primi storici della Resistenza: questi uomini capaci di scarti improvvisi e senza possibilità di ripensamento erano certamente svariate centinaia, questo è il dato dal quale devo e dobbiamo partire. E lo stesso vale per diversi altri teatri di guerra, come la Francia, la Jugoslavia e la Grecia (dove furono oltre mille), anche se in questi casi come in quello dell’Europa orientale è difficile raggiungere delle stime certe: va detto che le biografie a nostra conoscenza hanno raggiunto ormai da tempo, allargando lo sguardo al continente, un ordine complessivo quantificabile in diverse migliaia.
Per la sola 10ª armata di stanza in Italia i dati disponibili parlano di 3.582 casi di diserzione e allontanamento non autorizzato, circa la metà dei quali di nazionalità tedesca o austriaca, e una parte considerevole di loro si unì al partigianato italiano – era uno stillicidio continuo, come rilevava la giustizia militare tedesca nel corso del conflitto. Schegge, in confronto a storie epiche confrontabili, come quella dei molti ex soldati italiani che si unirono alla Resistenza francese o greca, o come quella della Divisione partigiana Garibaldi, in Montenegro, dove 20.000 italiani prima appartenenti all’esercito fascista combatterono fianco a fianco ai partigiani locali, e tra i 6.500 e gli 8.500 di loro morirono per la libertà degli ex nemici. Ma schegge commoventi, che si fanno ossessionanti e irrompono brutalmente, con costanza, nei pensieri di chi studia questi anni. Schegge che, a un certo punto, non lasciano più scampo, e pretendono di essere indagate.
Un giovane studioso cui va il merito di essere stato il primo a provare a operare una ricognizione sistematica su questi disertori nella penisola, Francesco Corniani, ha osservato che in termini assoluti si tratta di un numero limitato, “se rapportato al milione di soldati circa dell’esercito tedesco che furono presenti tra il 1943 e il 1945 in Italia” – uno su mille, a spanne. Eppure l’esistenza di questa nutrita minoranza dimenticata, sulla quale non ha svolto “nessuna ricerca mirata” neanche la Commissione storica italo-tedesca (2009-2012), è un dato dal portato storico, civile, etico e simbolico strabiliante. Rivoluzionario. “Dopotutto, chi controlla i valori del mondo?”, chiede un commilitone di Walter Proska, il riluttante disertore del romanzo di impianto autobiografico di Siegfried Lenz, Der Überläufer,scritto nell’immediato dopoguerra ma uscito solo nel 2016: “Tu e tu soltanto”, si risponde.
L’aspetto più entusiasmante della storia, in fin dei conti, si cela nelle traiettorie biografiche dei suoi protagonisti, come l’archetipico Walter Proska, o come Rudolf. E, in questo caso più che in molti altri, si possono – si devono – ricostruire. Sapendo che saranno innumerevoli i vuoti, gli inciampi, le informazioni che vorremmo e che non potremo avere. Fin dalla riedizione del 1964 della Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia il simbolo anche problematico, tra gli addetti ai lavori, di queste vite utopiche di veri e propri “partigiani dell’umanità” che scelsero il loro versante della lotta senza adagiarsi sui confini imposti alla nascita, è Rudolf, quell’uomo nato a Brema nella “crisi di luglio” del 1914. Ma chi era veramente? È possibile scoprirlo? E quali domande pone a noi oggi la sua parabola umana?
Per quelle inaspettate coincidenze che l’indagine del passato spesso ci fornisce, quell’uomo portava un nome, Rudolf, che molti anni dopo avrebbe raccontato una storia non accomunata solamente dall’omonimia. Una storia di un altro Rudolf, una storia diversa.
Ma – per gli interrogativi che scatena – non poi così tanto.
Saremmo stati diversi?
1.
“Esistevano dei tedeschi buoni?”. È il 1989, un anno fondante per la nuova Europa aperta che si intravede all’orizzonte e in cui inizia a infuriare il dibattito sulla “guerra civile europea”, e Nuto Revelli – ex partigiano, insuperato indagatore della storia sociale italiana – rivolge questa domanda a C.M., un combattente della Resistenza belga ebreo, di madre polacca e padre russo. “No, nessun tedesco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insieme non buoni”, gli risponde C.M.
Revelli, un reduce del freddo glaciale del fronte russo dove aveva maturato un’irriducibile opposizione ai fascismi, aveva narrato diverse volte e per iscritto la sua esperienza – la sua “conversione” all’antifascismo, verrebbe da dire. “Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato”, aveva scritto a inizio anni Sessanta ne La guerra dei poveri a proposito dei giorni di settembre del 1943 in cui finì il suo fascismo “fatto di ignoranza e presunzione”, e scelse la lotta contro i fascisti repubblicani di Salò e i loro alleati nazisti. Come avrebbe più volte raccontato, il suo odio per i tedeschi durante e in seguito alla campagna di Russia era via via cresciuto, diventando coriaceo, insopprimibile. E lo sarebbe rimasto per decenni – nonostante ne avesse incontrati, di tedeschi antinazisti, durante la lotta di liberazione.
“Nei venti mesi della guerra partigiana distinguevo i tedeschi della Wehrmacht dalle SS, ma non i tedeschi dagli austriaci. Erano tutti tedeschi per me, tutti uguali, tutti nazisti”: la sua leggendaria – rivendicata – incapacità di voler andare oltre quell’odio quasi atavico, coltivato con rancore, però, a un certo punto, incontra un ostacolo. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta comincia a ossessionarlo la storia di un “cavaliere solitario” che era diventato un disperso nel Cuneese nel corso della guerra 1943-45. E cerca spasmodicamente di ricollegare le poche tracce consunte di questa storia dai contorni così incerti, da “sordomuto” (Revelli non parlava né capiva il tedesco, né poteva accedere a Google Translate, ovviamente). Oltre a interrogare una miriade di testimoni e a mettersi alla caccia di una documentazione che pare impossibile da trovare, Revelli si confronta anche con diversi storici, tra cui Christoph Schminck-Gustavus, professore di storia del diritto e storia sociale all’università di Brema. Proprio Schminck-Gustavus, a distanza di poco dal dialogo con il partigiano belga, gli manifesta il suo disagio: “Magari il vostro odio di allora vi ha accecati, fino al punto che non vedevate più quei tanti poveri diavoli” che indossavano malvolentieri la divisa tedesca. In effetti, per Revelli e per molti altri, era stato così, e proprio l’incontro con una nuova leva di storici tedeschi che indaga più a fondo e racconta i crimini del nazionalsocialismo inizia a scavare dubbi nelle sue certezze. Due anni prima, a oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ha scritto questo di Christoph, diventato nel frattempo una frequentazione preziosa: “la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio ‘tedesco buono’ l’ho trovato”.
Cinque anni dopo questa prima folgorazione – e il capitolo del libro dedicato a questa ricerca, Il disperso di Marburg, si intitola “La svolta” – finalmente, grazie all’aiuto decisivo di un altro storico, l’italiano Carlo Gentile, il bandolo della matassa si sgroviglia e il “cavaliere solitario” guadagna una provenienza (Marburg), un nome – Rudolf, appunto – e un cognome, Knaut. Non molto altro, in realtà, ma anni di vicoli ciechi e false piste alla fine approdano al punto che sogna chiunque si metta su una traccia, sperando di arrivare da qualche parte. “Il sentimento di pietà è così profondo da annullare ogni compiacimento per il risultato conseguito”, annota Revelli a proposito di quel tedesco di Marburg che usciva solo a cavallo tutte le mattine dalle “Casermette” di San Rocco, alle porte di Cuneo, e che un giorno venne catturato e ucciso da un gruppo di partigiani. E che lui insiste, tra le pieghe del suo resoconto impostato quasi come un diario di bordo, a definire il suo “tedesco buono”, nonostante lo stesso Gentile non accetti questa ipotesi e lo inviti “amichevolmente a ritornare con i piedi per terra”. Revelli pare avere una necessità spasmodica di trovare pietà per tutti i combattenti, anche per se stesso.
In realtà Rudolf Knaut non era affatto un “buono”. Certo, come ha osservato Luigi Bonanate, è “il simbolo più banale e più anti-eroico della figura del disperso (di tutte le guerre)”, figura immensamente cara a Revelli per via della sua personale esperienza in Russia, ma non è “né migliore né peggiore di tanti combattenti”, degli oltre sette milioni di morti tedeschi e austriaci della seconda guerra mondiale. Revelli si ostina a voler vedere un “buono” in Knaut, un uomo che, sebbene non fosse iscritto al Partito nazionalsocialista di Hitler, si presume che fosse sistematicamente impegnato in attività antipartigiana con il suo battaglione. Se pensiamo che possa esserci dell’ingenuità in questa clemenza ex post di Revelli, però, ci sbagliamo.
“Credo di non aver dimenticato nulla di quei tempi in cui la ferocia era all’ordine del giorno” – scrive in uno dei passaggi più memorabili de Il disperso di Marburg. “Ma voglio che ogni tanto i freni della razionalità si allentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti. Quante volte, in quei tempi della malora, mi dicevo che in guerra erano i buoni a pagare, non i peggiori”. E questo, nella nostra storia, è sicuramente vero.
2.
Uno degli ultimi giorni del secolo scorso, intervenendo subito prima di un dibattito tra Revelli e il pubblico, il suo amico Christoph Schminck-Gustavus – “tedesco buono”, lui sì – chiede alla platea: “Come ci saremmo comportati noi?”. Immagino la commozione sua e degli astanti, mentre prosegue: incalza chi lo ascolta definendo certo un po’ “farisaico” il pensiero “che avremmo opposto resistenza, che sarem[m]o stati coraggiosi, che saremmo stati un po’ diversi dal normale, da quella normalità che ha permesso che andasse in rovina quasi tutta l’Europa, che morissero milioni e milioni di uomini”. “Saremmo stati diversi?”, chiede Schminck-Gustavus al pubblico, e a tutti noi. Forse, o forse no. Gli avrebbe fatto eco, molti anni dopo, il conturbante criminale di guerra (hollywoodianamente e ordinariamente “cattivo”) Max Aue, voce narrante e protagonista del romanzo Le benevole di Jonathan Littell, con tutt’altro tono: “Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo”.
Naturalmente il fatto che questa domanda, “saremmo stati diversi?”, l’abbia posta un tedesco – seppure in un invidiabile italiano – non deve essere passato inosservato. Negli ultimi tre quarti di secolo è spesso bastato l’accento, di un tedesco, per sentire quel piglio “fanatico, cinico, arrogante, spietato”, “quasi a indicare un’essenza antropologica imperitura”, quasi a significare l’incarnazione del male, come avrebbe osservato Filippo Focardi una dozzina d’anni più tardi. Lo fa nel capitolo “Uomini o tedeschi?” del saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano, un pilastro della storiografia italiana più recente che ci mostra come lo sforzo di addossare tutte le colpe della guerra non solo alla Germania nazista ma, per induzione, a tutti “i tedeschi”, avesse coinvolto a trecentosessanta gradi il mondo della cultura e della politica, anche antifascista, con lo scopo di riabilitare l’Italia, nel dopoguerra, nella cornice internazionale. Ma, parallelamente, era rimasta viva la ricerca di “bagliori di umanità non spenta dall’omologazione imposta dal regime”, in scia alla tradizione pacifista – con tutti i suoi chiaroscuri – incarnata da von Suttner e Quidde, a quella socialdemocratica e conservatrice, a quella con connotazioni religiose rappresentata dal pastore protestante Martin Niemöller e dal teologo Dietrich Bonhoeffer, a quella più controversa di parte dell’establishment militare con il suo apice nell’ultima estate di guerra, fino a percorsi di militanza radicale con le salde radici fin nel 1933, quando il nascente regime aveva cominciato immediatamente a internare, a decine di migliaia, i suoi oppositori (soprattutto comunisti, socialisti e sindacalisti), mentre altre decine di migliaia di antinazisti trovavano riparo in esilio. È stato stimato che furono quasi un milione i tedeschi internati nei campi di concentramento del regime, a diverso titolo componenti della “complessa galassia delle resistenze tedesche”. Quanto di questo è trapelato, all’epoca dei fatti e poi nella loro memoria, in Italia?
Fin dall’immediato dopoguerra sulla penisola avevano iniziato a circolare racconti puntuali e locali relativi a tedeschi – non di rado relativamente anziani – che si erano comportati umanamente, senza per questo scalfire oltre la superficie una raffigurazione fondamentalmente “permeata dall’astio antigermanico”. Focardi ha messo in rilievo come, nonostante il tentativo di contrastarlo recuperando, tra le altre cose, il meglio della “cultura di Weimar” e più in generale frammenti dell’“altra Germania”, questo archetipo del tedesco guidato dall’obbedienza acritica e incondizionata fosse un convincimento ben presente dall’Ottocento risorgimentale e con radici addirittura nella contrapposizione fra latinità e germanesimo in epoca romana. Cresciuto esponenzialmente con la propaganda del primo conflitto mondiale, era poi esploso con il nazismo e con una diffusa sensazione di “asservimento” all’alleato – con cui l’esercito fascista gareggiava in ferocia su diversi fronti – nella prima fase del conflitto mondiale. Questo stereotipo del “barbaro” aveva così inquinato anche nel corso della guerra di liberazione il vissuto di tutti i tedeschi, nessuno escluso, “distorcendo anche la percezione di quanti di loro avevano compiuto concretamente un atto di rottura o quantomeno di distacco nei confronti del Terzo Reich, ovvero i disertori e gli oppositori politici”. Al punto che persino nelle Lettere della Resistenza europea (1969) che ne includono dieci di antinazisti tedeschi e austriaci, si ragiona intorno all’odio maturato nei confronti di un “popolo di assassini”. A questo si erano affiancati, in parziale controtendenza, sporadici riferimenti a tedeschi che avevano abbandonato la lotta, mossi più che altro da nichilismo e disperazione, senza coscienza politica, e più in generale a coloro che nel corso della guerra venivano definiti Wehrkraftzersetzer – “disfattisti”, in sostanza.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, tuttavia, i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti (anche di origine ebraica) impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi: fucilati o impiccati all’albero più vicino dai loro ex commilitoni.
Ma limitiamoci a osservare i dati certi, per ora: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in “battaglioni punitivi”. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo (SS e Gestapo), ma anche da molti soldati e ufficiali, né che molti “uomini comuni” parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci anche gusto, dall’altro la vicenda dei disertori è un elefante che si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra europea dei Trent’anni. E va raccontata, anche se questo dovesse significare dibattersi fra tracce rarefatte, sbiadite.
Se raramente questi disertori si unirono alle fila nemiche e lo fecero per ragioni ideali, non si può sottovalutare che – come ha mostrato una ricognizione di 16.000 lettere di soldati, sui tre miliardi di missive e pacchi fatti transitare dalla Feldpost tedesca tra il 1939 e il 1945 – i ragazzi e gli uomini tedeschi che combattevano sui vari fronti vedevano la loro guerra “attraverso il prisma non solo dell’ideologia ma anche della tradizione familiare di ciascuno, delle sue letture, della sua esperienza, del suo rapporto con la storia e del modo in cui collocava se stesso nella storia”. Non era facile scostarsi da quella narrazione nella quale rimbombavano i discorsi ottocenteschi sull’Herrenvolk, e che attingeva a piene mani dalla guerra miseramente persa, quella prima: i principali teatri delle operazioni della seconda guerra mondiale, infatti, avevano visto la generazione dei padri battersi nel conflitto precedente, e questi giovani di nuovo in armi avevano spesso “bisogno di sentirsi parte di una lunga genealogia di combattenti”. Per questa ragione le storie di chi remò controcorrente, di chi si mise di traverso cercando di arginare la tracimante marea nazionalista che aveva travolto (quasi) ogni cosa, in patria e oltre, hanno qualcosa di stupefacente.
Nell’estate del 1944, ad esempio, dopo lo sbarco in Normandia la Wehrmacht si trovò vicina al punto di rottura, e le sistematiche diserzioni riguardavano soldati inquadrati precedentemente a est, alsaziani e Volksdeutsche, ma anche tedeschi nati nel Reich (Reichsdeutsche) e austriaci, come ha notato lo storico militare Antony Beevor: “Alcuni erano soldati che non credevano nel regime nazista o che, più semplicemente, odiavano la guerra […] Il generale Lüttwitz, comandante della 2ª Divisione panzer, rimase sconvolto quando tre dei suoi austriaci disertarono passando al nemico e avvertì che i nomi di tutti i disertori sarebbero stati resi pubblici nelle loro rispettive città, così da poter prendere misure contro i loro parenti. ‘Se qualcuno tradisce il suo stesso popolo’ annunciò ‘la sua famiglia non appartiene più alla comunità nazionale tedesca’”. Un alsaziano che cercò di unirsi a una colonna di profughi francesi, racconta ancora Beevor, venne picchiato a morte dai soldati della sua compagnia, e il suo cadavere con le ossa fratturate venne gettato nel cratere di una bomba – “il capitano proclamò che questo era un esempio di ‘Kameradenerziehung’, un’‘educazione al cameratismo’”. Non stupisce che chi aveva ancora energia e coraggio valutasse di passare tra i ranghi del nemico: non è certo un caso che, sul fronte orientale, Himmler decise di proibire la parola “partigiano”, per riferirsi ai gruppi di civili che affiancavano le forze regolari sovietiche, ordinando di utilizzare il termine “banditi” (Banditen), largamente in uso in tutta Europa, o in alternativa il termine franc-tireurs, espressione che i tedeschi conoscevano bene per via della guerra del 1870-71. Il lemma “partigiano” poteva fare presa sui soldati tedeschi, persino nella “guerra assoluta” contro l’URSS, dove fin dalle ore precedenti l’attacco un militare tedesco passò le linee per avvisare i nemici. Dovrebbe trattarsi dell’operaio comunista berlinese Wilhelm Korpik o del caporale Alfred Liskow, falegname comunista bavarese, che è l’unico disertore (e) del quale è citata l’identità nella raccolta di documenti dell’URSS sulla “grande guerra patriottica” e che venne probabilmente non creduto e fucilato dai sovietici. In realtà sappiamo che di militari passati a dar manforte ai “rossi” ce ne furono diversi altri (persino dei generali come Rudolf Bamler), e furono numerosissimi nel celebre e leggendario “Battaglione punitivo 999” – che poi in Grecia vedrà un altissimo tasso di diserzione –, dove erano assegnati i comunisti tedeschi, e in genere gli antinazisti; i passaggi di campo, considerando anche quelli dei combattenti locali, possono essere stimati in decine di migliaia. Le loro storie, e innanzitutto la lungimirante diserzione di Liskow, a guerra in corso vennero talvolta utilizzate per la propaganda antinazista: tra le più emozionanti rimane la vicenda del muratore comunista Fritz Schmenkel, di Stettino, catturato in Bielorussia dai suoi ex camerati dopo oltre due anni di lotta con i partigiani sovietici e fucilato nel febbraio del 1944.
Anche durante la lotta contro i nazifascisti, le Resistenze europee avevano ben chiaro, con gradazioni e convinzioni diverse a seconda della regione geografica e del posizionamento politico, che il nemico non doveva essere demonizzato in toto, e si moltiplicavano gli appelli che lo invitavano a disertare, e a unirsi ai combattenti per la libertà. Sebbene pochi, i “giusti” c’erano, nelle città e sui fronti più disparati. Uno era Joe J. Heydecker, un fotografo della Compagnia Propaganda 689 della Wehrmacht che partecipò come Revelli all’invasione dell’Unione Sovietica e che nel corso dell’occupazione della Polonia fotografò, a rischio della vita, le condizioni degli ebrei del ghetto, consegnando ai posteri una delle più vigili e strazianti testimonianze dello sterminio nazista. Anche tra le vittime in molti cercarono fin da subito di vedere questi “giusti”, per poter credere in un mondo diverso.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, è tra i pionieri di questa ricerca dei tedeschi che non fossero complici, alla quale dedica tutta la sua vita di superstite, non senza ricorrenti ritrosie, in maniera ondivaga, “a tratti entusiasta, a tratti frustrante”. Già nel suo ritorno a casa si sorprende a cercare per le vie di Monaco, “fra quella folla anonima di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro, ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece”.
Sotto il “cumulo di rovine e di fallimenti”, a ben cercare, ha sempre covato un’altra narrazione – un contromovimento presente sottotraccia anche in tutta la letteratura resistenziale del continente, e non solo nei percorsi di ricerca e nelle testimonianze dei combattenti e dei sopravvissuti. Sono squarci della narrativa, come “l’ufficialetto” austriaco unitosi alla Resistenza ne Il partigiano Johnny di Fenoglio, “appena un ragazzo, ma pallido e già stempiato […] straordinariamente smilzo, e la divisa naturalmente gli andava larga, ma senza effetto buffo, anzi con un incredibile incremento di romanticità”; accompagnato da una “totale, immascherabile, propagantesi tristezza”. Ricorda, per contrasto, il tedesco catturato – e soprannominato “Fritz” – che nel racconto fenogliano Golia non osa neanche colpire i partigiani con le palle di neve. È “una pasta frolla, non sembra nemmeno un soldato tedesco”, nella descrizione del comandante Sandor; è un soldato tedesco che aveva combattuto anche “l’altra” guerra e che, dopo una lunga convivenza in banda, finisce “giù piatto come una rana”, la faccia nella neve, in una sorta di beffardo e tragico regolamento di conti che ha più a che vedere con la brama di autostima di un minuto partigiano giovanissimo – “Carnera” – che con il comportamento di Fritz, alias “Golia”.
Uno dei picchi più alti di questa ricerca in apparenza destinata al fallimento lo incrociamo nello straordinario Educazione europea di Romain Gary, un romanzo scritto a guerra in corso e ambientato nella Polonia occupata dai nazisti, nel quale troviamo un dialogo tra il protagonista – un ragazzino, Janek – e il suo mentore, Dobranski, che gli vuole dimostrare “fino a che punto ci assomigliamo, noi e loro”. E gli racconta la storia di quando “il terrore tedesco era al colmo”:
“Allora mi domandavo: come può il popolo tedesco accettare tutto ciò? Perché non si ribella? Perché si sottomette e accetta questo ruolo di boia? Certo, coscienze tedesche ferite, oltraggiate in ciò che hanno di più semplicemente umano, si ribellano e si rifiutano di obbedire. Quando, però, vedremo i segni della loro ribellione? Ebbene, a quel tempo un giovane soldato tedesco venne qui, in questa foresta. Aveva disertato. Veniva a unirsi a noi, a mettersi al nostro fianco, sinceramente, coraggiosamente. Non vi erano dubbi: era un puro. Non si trattava d’un membro del Herrenvolk, si trattava di un uomo. Aveva sentito il richiamo di ciò che in lui vi era di più semplicemente umano, e aveva voluto togliersi di dosso l’etichetta di soldato tedesco. Ma noi avevamo occhi soltanto per questo, per l’etichetta. Tutti sapevamo che era un puro. La purezza la senti, quando ti capita di trovarla. Ti acceca, in mezzo a questo buio. Quel ragazzo era uno dei nostri. Ma aveva l’etichetta”.
“E allora?”
“E allora noi lo abbiamo fucilato. Perché aveva addosso l’etichetta: tedesco. Perché noi ne avevamo un’altra: polacchi. E perché l’odio era nei nostri cuori… Qualcuno, a mo’ di spiegazione, o di scusa, non so, gli aveva detto: ‘È troppo tardi’. Ma sbagliava. Non era affatto troppo tardi. Era troppo presto…”.
Dobranski aggiunse:
“Ora ti lascio. Arrivederci”.
E si allontanò nella notte.
3.
Quando le preoccupazioni ti assediano, non è inconsueto che tu ti svegli all’alba. Forse ti sei già costruito un giudizio inappellabile sul baratro in cui è precipitata la Germania, ma hai due figli, uno di pochi mesi e l’altro di due anni, e devi prendere tempo. Vuoi prendere tempo, dannazione – ci va un coraggio immenso, per osare. Per essere “un puro”.
Rudolf non può aver letto Educazione europea, questo è certo, perché uscirà di scena prima che il romanzo di Gary veda la luce. Conosce invece, con ogni probabilità, alcune delle storie della Resistenza tedesca, che non saprà mai farsi un movimento tendenzialmente strutturato e diffuso come invece accadrà in tutta Europa, è vero, ma che ha sempre innervato la Germania nazista, anche negli anni più bui. Avrà sentito parlare, ad esempio, di Georg Elser, carpentiere e falegname, che a due mesi dallo scoppio della guerra ha mancato il Führer di 13 minuti in un attentato dinamitardo, uno tra le decine di mancati tirannicidi che si sono avvicendati in dodici anni di nazionalsocialismo. Nel frattempo Rudolf si è da poco sposato con Herta Jacke, e ha avuto due figli, Rudolf (nato già nel 1937, prima del matrimonio) e Wilhelm, venuto al mondo il 14 febbraio del 1939 a Brema, pochi mesi prima che calasse l’oscurità sul continente, con l’invasione nazista della Polonia.
Papà Rudolf ha fatto di tutto per non essere arruolato nelle forze armate tedesche, trovando una legittima motivazione nella sua condizione familiare e nel fatto che è ancora impegnato con gli studi. D’altra parte ha già prestato servizio militare a partire dall’ottobre del 1935: negli anni Trenta compie un percorso di formazione da marinaio in patria e all’estero, probabilmente in India, allargando così il suo orizzonte. Tornando sul suolo tedesco ha però disobbedito al padre, che aveva ampiamente previsto la tormenta che si stava abbattendo sulla Germania e sull’Europa intera, e l’aveva supplicato – lo abbiamo visto – di stare lontano dal centro degli eventi. Ora, quando gli anni Trenta sfumano nei Quaranta, vive con la famiglia nel sobborgo Francop di Amburgo. La città diventerà celebre per via di un’istantanea e di una storia. L’istantanea: quella foto che immortala un uomo a braccia conserte, in una posa quasi di sdegnosa disubbidienza, immerso in una folla oceanica tesa nel saluto romano a Hitler, nel 1936, in occasione del varo di una nave.
La storia è invece la vicenda della St. Louis, la nave capitanata da un connazionale di Rudolf, il capitano Gustav Schröder, che ha tentato in ogni modo, nell’estate del 1939, di portare in salvo quasi mille ebrei oltre Atlantico, salvo essere poi costretta a fare marcia indietro, perché nessuno, nelle Americhe, li voleva. La vicenda ha avuto un’immensa eco in tutto il mondo, e quasi certamente Rudolf ha osservato la tenacia di Schröder chiedendosi se lui sarebbe stato capace di fare altrettanto – per non parlare delle migliaia di volontari tedeschi e austriaci che in questi medesimi anni si sono battuti per la Repubblica contro i fascismi, nella guerra civile spagnola.
È un giovane uomo nel pieno delle proprie forze, Rudolf, e suppongo cerchi spiragli di coerenza in quella prigione a cielo aperto che è diventata la Germania. Secondo la sorella, ma non a parere del resto della famiglia, è – o almeno era stato – un Weiberheld, un donnaiolo: una foto di quegli anni in divisa da marinaio cattura il suo sguardo vivace, i capelli tirati all’indietro, leggermente rasati sulla tempia, un’occhiata in camera che sembra chiedere “sto bene, così?”. Ha la vita davanti, Rudolf, e pare esserne del tutto consapevole: se in un ritratto di coppia scattato in occasione del suo matrimonio mantiene uno sguardo austero, con il papillon bianco quasi a scomparire sulla camicia altrettanto candida nell’uniformità cromatica, in un quadretto familiare con il figlio Rudolf jr. cogliamo lateralmente il sorriso sincero di un uomo raggiante. La fossetta sulla guancia destra, la mano del figlio appoggiata con delicatezza sulla sua spalla – si intravede una felicità che chi non ha vissuto non sa di poter provare. Quanto inciderà sulle sue future scelte?, mi chiedo.
Perché la Germania – la Germania nazionalsocialista, ora – pronuncia a più riprese il suo nome. Avere 25 anni allo scoppio della guerra, per Rudolf, è una dannazione e un’opportunità: deve lasciare la sua famiglia, come milioni di altri suoi coetanei, e rispondere alla chiamata alle armi, e questa è la maledizione. Ma può fare carriera, con alle spalle la sua formazione da marinaio alla Seemannschule e i suoi studi da ingegnere, seppur interrotti a più riprese: nonostante riesca per diverso tempo a scampare l’arruolamento, gli viene infine intimato di partecipare alla realizzazione del “Vallo Atlantico”, un progetto mastodontico con l’obiettivo di rendere la “fortezza Europa” nazista inespugnabile, ad Amburgo-Altona e a Saarburg. Presta giuramento alla Marina di guerra – la Kriegsmarine – l’8 maggio del 1941 e a fine agosto del 1942, quando il mondo sta entrando nel quarto anno di guerra, si trova a nord di Brema, nella Bassa Sassonia (a Wilhelmshaven). Un tedesco di 28 anni, in pieno conflitto mondiale, difficilmente può evitare di prenderne parte.
Ed è così che Rudolf, nato sotto una stella armata a Brema e diventato adulto per le vie del mondo e nella turbolenta Amburgo, richiamato dalla Marina il 25 settembre del 1943, dopo qualche mese con la Maas-Flottille nell’Europa settentrionale arriva infine in Italia – un fronte che diventerà presto secondario, ma sul quale i vertici delle forze armate tedesche ripongono ancora fiducia. Sul suo ruolino militare non risultano sanzioni disciplinari. Servono gli uomini migliori per arrestare la risalita della penisola degli Alleati, e per annichilire quei piantagrane dei “banditi” italiani, che imperversano intorno alle Alpi Apuane.
4.
Secondo alcuni dei partigiani protagonisti di questa stagione, la banda del marinaio sarzanese Flavio Bertone, nome di battaglia “Walter”, proprio nell’estate del 1944 prende il nome “Ugo Muccini”, in ricordo di un militante comunista che si era arruolato nelle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola ed era morto eroicamente a Sierra Cabals, nel corso della leggendaria battaglia dell’Ebro, non ancora trentenne. Secondo altri, il nome della banda i cui primi nuclei nascono nella valle del fiume Magra sarebbe stato acquisito ben prima, mentre è certo che dall’autunno la denominazione sarebbe stata questa, fino al termine della guerra, una volta costituitasi come Brigata garibaldina d’assalto. La banda guidata da “Walter”, il cui commissario politico è Paolino Ranieri (“Andrea”), in ogni caso, dopo essersi spostata nell’entroterra, a giugno partecipa alla liberazione del paese di Bardi, non lontano da Parma, e da questo colpo di mano nasce l’esperienza della repubblica partigiana del Ceno – un’esperienza pionieristica nell’Italia occupata –, alla quale fa seguito l’istituzione del vicino Territorio libero della Val Taro, con una popolazione di oltre 40.000 abitanti. Le fotografie scattate agli uomini di “Walter” e “Andrea” a Bardi ci mostrano un gruppo compatto di giovani determinati, che vogliono fare la differenza non solo nei luoghi dei quali la maggior parte di loro è originaria. La porzione di territorio dalla Spezia a Parma in cui si stanno muovendo è cruciale per gli Alleati: la presenza delle Alpi Apuane e dell’area appenninica che porta da Genova a Modena rende infatti alquanto impervia la zona nella quale non è in sostanza possibile ingaggiare scontri in campo aperto. Né, per i partigiani, sarebbe sensato.
Quella della banda di “Walter”, e vale in generale per la Resistenza italiana, è guerra di guerriglia: un conflitto asimmetrico, contro un nemico che ha risorse spropositate e armamenti con un raro potenziale distruttivo. L’occupazione nazista è iniziata a settembre del 1943, e nelle settimane successive in un’ampia area dell’Italia centrosettentrionale è sorto il governo vassallo fascista della Repubblica sociale italiana, per proseguire la guerra al fianco dello storico alleato. I diversi sbarchi angloamericani hanno rapidamente liberato l’Italia del sud, e il fronte si è incancrenito per circa otto mesi sulla Linea Gustav, dove combattono truppe arruolate in ogni dove, in uno schieramento e nell’altro – anche qui è davvero una guerra “mondiale” che coinvolge decine di stati e di nazionalità. Dopo lo sfondamento della Gustav a maggio, grazie al contributo determinante delle truppe coloniali francesi e del corpo di spedizione polacco, i tedeschi sono definitivamente in ritirata dal Mezzogiorno, incalzati anche dai combattenti provenienti dal Corno d’Africa come quelli della “Banda Mario”, che avrà tra i suoi ranghi un melting pot di combattenti di almeno otto nazionalità tra cui un viennese, Emerich Schafranek. La pressione alleata sta spingendo gli avamposti tedeschi più meridionali verso il sud della Toscana: in quell’area i disertori sono numerosi, rileva Carlo Gentile – lo storico che aiutò Revelli nella sua ricerca –, e la disciplina risulta “fortemente compromessa”. Il Comando supremo della Wehrmacht tenta di “reagire a quelle tendenze disgregative mandando in Italia un reggimento di Feldjäger, un corpo speciale di polizia militare dotato di pieni poteri e incaricato di intercettare fuggiaschi e disertori alle spalle della linea di combattimento per rispedirli al fronte”.
“Te la fanno vedere loro, la diserzione”, commenta portandosi un dito teso alla tempia Walter, il protagonista diciassettenne del romanzo Morire in primavera di Ralf Rothmann, ambientato in un altro teatro di guerra (quello ungherese, dove Walter è trascinato suo malgrado) ma che delinea perfettamente i rischi che la diserzione comporta: “La polizia militare vede chiunque a mille metri di distanza e ti impicca su due piedi, senza processo. Sono dei veri bastardi. Probabilmente rischi di meno se riesci a tenerti fuori fino alla fine”.
Nella regione lo sa bene il diciannovenne tedesco Günter Frielingsdorff, pittore e studente d’architettura, “un bel ragazzo, un bel moro, alto” secondo una testimone, che già a ottobre del 1943 ha disertato insieme a un compagno, aggregandosi alla Resistenza nel Grossetano: dopo varie peripezie, si è unito a una banda di dieci giovani italiani – con loro “lo spezzino” trentottenne Mario Becucci – nella macchia di Monte Bottigli, una trentina di chilometri a sud di Grosseto. Durante un rastrellamento in seguito a delazione, iniziato la notte tra il 21 e il 22 marzo 1944, Frielingsdorff riesce a salvarsi sfondando audacemente la parete della capanna in cui si trova per fuggire nella boscaglia, dove i fascisti lo inseguono sparando all’impazzata – gli abitanti del luogo ricorderanno che “gli passavano sopra le pallottole”, come in un film. Ma è la bruta realtà: “il fatto che soltanto uno della banda è riuscito a fuggire all’annientamento, dimostra che la sorpresa è riuscita in pieno”, commenta poi il capo fascista della provincia ai suoi “gregari”, rivolgendo il suo “vivo plauso” agli autori materiali di quella che passerà alla storia come la strage di Istia d’Ombrone. Gli undici compagni di Frielingsdorff – tutti tranne Becucci fra i 19 e i 24 anni – vengono fucilati la mattina stessa, e gli esecutori si allontanano dal luogo dell’eccidio cantando. La sera del giorno seguente il disertore tedesco si presenta a un podere “tutto strappato” (ricorda un’altra testimone) con i piedi sanguinanti e, rimasto nella zona, partecipa alla guerra di liberazione nella banda di Monte Bottigli “Sempre Presente”, mantenendo il nome di battaglia “Gino” e ottenendo il riconoscimento di partigiano combattente – con lui combatterà anche un coetaneo austriaco, Frurin Chlofch. Nelle vite di molti dei ragazzi come Frielingsdorff e Chlofch – che alla fine della guerra avranno vent’anni – e come gli undici ragazzi della strage di Istia d’Ombrone che Frielingsdorff scampa a testa bassa nella boscaglia, in fondo, “a parte la guerra non era successo ancora molto”. Leggo questa osservazione folgorante nel “romanzo di fatti” di Christiane Kohl intitolato Villa Paradiso, ambientato proprio in Toscana e che illumina la complessità tra i ranghi delle forze armate tedesche, mostrando parecchie e diverse possibilità dell’agire umano anche nella schiera dei carnefici, sebbene non appaiano disertori in senso stretto fino ai “titoli di coda” del libro, dove l’autrice racconta di un renano senza nome che, fuggito dal fronte orientale, raggiunge rocambolescamente i partigiani italiani per unirsi a loro. Le descrizioni di Kohl ci aiutano anche a restituire la giusta tinta – fosca – a quanto sta accadendo sulle colline toscane: “La regione si stava progressivamente trasformando in uno scacchiere su cui si svolgeva una guerriglia confusa e disordinata. I tedeschi, che vedevano avvicinarsi lo scacco matto, rappresentato dalle truppe inglesi sempre più vicine, si vendicavano con maggior accanimento sulle pedine più piccole, ovvero sulla popolazione civile italiana. Intanto gli abitanti si aspettavano che la guerra sarebbe terminata nel giro di pochi giorni, con l’arrivo degli alleati: la vita era come una violenta raffica di vento, capace di far precipitare la gente dalla speranza alla paura e viceversa, in una continua altalena”.
L’Autore
Carlo Greppi-
Carlo Greppi,storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento.Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018) e Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022).
RASSEGNA STAMPA
Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-Carlo Greppi- Il buon tedesco-
Foto di Franco Leggeri -Anno 2005-ROMA – Municipio XIII- Villa Romana delle Colonnacce
VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE
Fotoreportage di Franco Leggeri -Anno 2005-Castel di Guido- La Villa Romana delle Colonnacce è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale.La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
Fiumicino (RM)-Considerazioni da una mostra fotografica allestita nel Borgo di Testa di Lepre-
Fiumicino– Borgo di Testa di Lepre- 15 giugno 2025-La Mostra Fotografica organizzata, è stata ideata e realizzata dalla Signora Grazia Amici e rappresenta un’immersione nel tempo racchiuso in album dei ricordi fotografici gelosamente custoditi nei cassetti. Il visitatore non si aspetti di entrare in una “galleria d’Arte” ma, appunto, si troverà immerso nei segni e nelle tracce che si sono concretizzati e realizzati ,con il tenace lavoro delle persone che hanno dato vita e anima al Borgo di Testa di Lepre. Persone che, con immensa umiltà, hanno affondato le mani nella terra ed hanno fatto nascere e prosperare il Borgo ,ora conosciuto come la “Perla della Campagna Romana”. L’audacia e la bellezza di questa mostra è tutta nelle foto in B/N di quelle persone che hanno saputo trasformare la loro visione in una realtà che oggi è sotto gli occhi di tutti noi .
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
60 anni della Storia del Borgo.
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
60 anni della Storia del Borgo.
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
In questa mostra fotografica , se hai la sensibilità, puoi percepire il tempo che scorre sotto la pelle , fatto di stagioni, di silenzi e di “respiri” ,vissuti nella quotidianità dagli abitanti del Borgo, persone che si sono fatti pionieri in questo spazio enorme della Campagna Romana.
In questa mostra si trova il sorriso oltre la fatica, foto che testimoniano come una volta si lasciava che il tempo scivolasse via così semplicemente, senza avere l’ansia e la necessità di volerlo controllare o riempire.
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .Signora GRAZIA AMICI, ideatrice e realizzatrice Evento :Testa di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
La Signora Grazia Amici ideatrice e realizzatrice della Mostra, con l’aiuto per l’allestimento dell’Architetto Sophia Marri, ci ha detto:” Questa mostra vuole far riscoprire gli usi e i costumi di Testa di Lepre, veri tesori che non possono andare perduti e sepolti nell’oblio, nonostante sia legata a tradizioni regionali del Centro e Nord Italia .Il nostro Borgo vive e si nutre ancora delle tradizioni dei nostri genitori e dei nostri nonni. Con questa mostra, allestita con foto che sono frutto di una seria e accurata ricerca storica e socio-culturale, ho voluto testimoniare questa realtà che è mia intenzione divulgare anche con una pubblicazione sulla nuova iniziativa editoriale online “QUADERNI della CAMPAGNA ROMANA”. Desidero evidenziare e sottolineare anche l’aspetto indistruttibile della vita comune di ogni giorno :la vita di semplici Contadini. Questa mostra vuole essere il mio omaggio ai Protagonisti, ai Pionieri di queste terre della Campagna Romana, che hanno inciso con l’aratro il primo solco per la realizzazione del nostro Borgo. Mostra che vuole essere un omaggio e gratitudine a tutti i Pionieri che, con forza d’animo, volontà e una forte motivazione di riscatto, hanno contribuito alla nascita della “Perla della Campagna Romana”. Sono convinta, prosegue Grazia Amici, che una comunità consapevole e fiera delle proprie radici , rafforzi la propria identità culturale e guardi con fiducia e sicurezza al proprio avvenire”. Al termine di questa nota la curatrice della mostra , la Signora Grazia Amicichiosa così:” Credo che una foto scattata oltre 50anni fa , con vecchie fotocamere e con un semplicissimo obiettivo “fisso”, possa aver “cristallizzato” e immortalato l’attimo e la Storia creando “la testimonianza” visiva della condizione contadina e del lavoro che si svolgeva nei campi ma è, sicuramente, testimonianza anche di progresso e di momenti ludici della Collettività . Mostra che è ,a mio avviso, ancora oggi, esempio del buon vivere tra le persone oltre che testimonianza di valori come solidarietà, ospitalità e altruismo”.
INFORMAZIONI SULLA MOSTRA
–Apertura dal 26 al 29 giugno 2025 nell’Aula Magna delle Scuole Elementari-
La seconda apertura sarà in occasione della “Giornata della Cultura 2025” organizzata dal Comune di Fiumicino dal 04 al 06 luglio 2025-
Nota – durante la Mostra di venerdì 27 giugno alle ore 19:00 verrà presentato a cura del Dott. Gianluca Ciampi e dal Dott. Riccardo Tomassini il libro :SUOLO e SALUTE di Albert Howard.
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
60 anni della Storia del Borgo.
TESTA di LEPRE-Mostra fotografica “MEMORIE di VITA” .
Diane di Prima (Brooklyn, 6 agosto 1934- 25 ottobre 2020), poetessa statunitense della Beat Generation. Nata a Brooklyn, ha studiato allo Swarthmore College; di origini italiane (suo nonno materno, Domenico Mallozzi, è stato un attivo anarchico) cominciò a scrivere da bambina e a diciannove anni conobbe Ezra Pound e Kenneth Patchen.
Diane Di Prima
Abbandonate…
Abbandonate a se stesse, le persone si fanno crescere i capelli.
Abbandonate a se stessesi tolgono le scarpe.
Abbandonate a se stesse fanno l’amore
dormono facilmente
dividono coperte, droga e bambini
non sono pigre o impaurite
piantano semi, sorridono, parlano fra loro. La parola
comincia dentro se stessa: tocco di amore
nel cervello, nell’orecchio.
Ritorniamo con il mare, con le maree
ritorniamo spesso come le foglie, numerosi
come l’erba, gentile e insistente, ricordiamo
il modo in cui i nostri piccoli muovono i primi passi a
piedi nudi attraverso le città
dell’universo.
*
Diane Di Prima
Lettera Rivoluzionaria #1
Ho appena capito che il premio sono io
non ho altro
denaro per riscatto, nient’altro da spezzare o scambiare che la vita
il mio spirito dosato, frammentario, sparso
sul tavolo della roulette, ripago quanto posso
nient’altro da ficcare sotto il naso del maitre de jeu
nulla da spingere fuori dalla finestra, niente bandiare bianche
questa carne è tutto ciò che ho da offrire, fare il gioco con
questa testa qui e ora, e quello che vien dietro, la mia mossa
mentre strisciamo sopra questo bordo, proseguendo sempre
(si spera) fra le righe.
*
Diane Di Prima
Requiem
Penso
che troverai
una tomba
non così bella
baby oh
Ti legano stretta
nel bel
vestito
Ascolto
È freddo
e i vermi e le cose
sono là per ragioni egoistiche
Penso
che tu vorrai
girarti
dalla tua parte
ai tuoi capelli
non piacerà
rimanere a posto
per sempre
ed alle tue mani
non piacerà
essere poste in croce
così
Io penso
che alle tue labbra
non piacerà
per loro stesse
Diane Di Prima
La prima neve,Kerhonkson
per Alan
Questo, quindi, è il dono che il mondo mi ha fatto
(che mi hai fatto)
dolcemente la neve
ammonticchiata in cavità
distesa sulla superficie dello stagno
accoppiata alle mie lunghe, bianche candele
che stanno alla finestra
che brucerà al crepuscolo mentre la neve
riempie la nostra valle
in questa conca
nessun amico vagabonderà
nessuno arriva depresso dal Messico
dai campi di sole della California, portando marijuana
sono dispersi adesso, morti o silenziosi
o inariditi sino alla follia
dalla terribile lucentezza della visione che un tempo ci accomunava
e questo tuo dono –
bianco silenzio che riempie i contorni della mia vita.
Diane Di Prima
Un esercizio d’amore
per Jackson Allen
Il mio amico indossa la mia sciarpa alla cintola
Gli dò le pietre lunari
Lui mi dà una conchiglia & alghe marine
Proviene da una città lontana & gli vado incontro
Pianteremo insieme melanzane & sedano
Lui tesse per me un panno
Molti hanno portato dei doni
Io per il suo piacere uso
seta, & verdi colline
& airone il colore dell’alba
Il mio amico cammina leggero come una tessitura al vento
Lui retroillumina i miei sogni
Ha costruito altari accanto al mio letto
Mi sveglio con l’odore dei suoi capelli e non riesco a ricordare
il suo nome, o il mio.
Canzone buddhista di Capodanno
Ti ho visto in velluto verde, maniche larghe e piene
seduto di fronte a un camino, la nostra casa
resa in qualche modo più elegante, e hai detto
“Nei tuoi capelli ci sono le stelle” – era la verità che
ho rovesciato in me
verso questo luogo tetro e scolorito che dobbiamo indorare
rendere prezioso e mitico in qualche modo, è la nostra natura,
ed è la verità, che siamo approdati qui, te l’ho detto,
da altri pianeti
dove eravamo signori, siamo stati inviati qui,
per qualche scopo
la maschera d’oro che avevo visto prima, che è combaciata
così splendidamente col tuo viso, non è ritornata
né lo ha fatto quel volto di un toro che avevi acquistato
tra le genti del nord, i nomadi, nel deserto del Gobi
Non ho visto di nuovo quelle tende, né i carri
infinitamente lenti sulle pianure infinitamente ventose,
così fredde, ogni stella nel cielo era di un colore diverso
il cielo stesso un arazzo ingarbugliato, incandescente
ma potevo quasi vedere il pianeta da cui eravamo venuti
Non riuscivo a ricordare (allora) quale fosse il nostro scopo
ma rammentavo il nome Mahakala, all’alba
all’alba di fronte a Shiva, la luce gelida
ha rivelato i mondi “partoriti dalla mente”, come questo semplicemente,
Li ho visti propagarsi, defluire,
o, più semplicemente, uno specchio che ne riflette un altro.
poi si sono rotti gli specchi, non eri più in vista
né c’era scopo alcuno, fissavi lo sguardo su questa nuova tenebra
i mondi partoriti dalla mente svanirono, e la mente si diramò:
una follia, o un inizio?
Diane Di Prima
“City Lights” 1961 *
Arrivando lì per la prima volta
era molto più piccolo allora
quel pianterreno affollato pieno di poesia
traboccava di logore rivistine addossate al muro
quei bianchi tavoli traballanti dove la gente si sedeva a leggere/scrivere
Il Vesuvio Cafe era come un ufficio aggiunto
Arrivando di nuovo un anno dopo, con due bambini al seguito
Lawrence mi diede una pila enorme delle sue pubblicazioni
“Ho dei libri” disse “come altre persone hanno i topi”
E North Beach non ha mai smesso di essere misteriosa
quando mi sono trasferita qui nel 1968
quell’ufficio editoriale di Filbert & Grant era una mecca
un posto per incontrarsi con i miei figli se ci fossimo separati
durante una di quelle innumerevoli manifestazioni
(sebbene Lawrence preoccupato, mi dicesse che avrei dovuto tenerli
fuori pericolo, a casa) io pensavo che dovessero imparare
qualsiasi cosa di ciò che stavamo imparando,
Un ufficio proprio dietro l’angolo del negozio di perline
dove mi sono trovata ogni giorno, facendo provviste
Quante notti sul tardi abbiamo visitato il Negozio
acquistando una grande quantità di nuove poesie da tutti gli angoli della terra
poi diretti verso la rivendita della Tower Records tutta la notte piena di travestiti
e rivoluzionari, per acquistare qualche disco
E fare ricerche, City Lights è ancora qui, come un vecchio faro
anche se tutto il resto è andato,
la poesia si è spostata al piano di sopra, pure l’ufficio editoriale
è proprio lì ora & folle di persone
un terzo della mia età o meno ancora consultano le pile di testi
alla ricerca di voci da tutte le parti
del mondo
* “City Lights” è la celebre libreria e casa editrice di Lawrence Ferlinghetti a San Francisco
Diane Di Prima
Lilith delle Stelle
perché c’è un’altra Lilith, non fatta per la terra
di chi si è detto / che quando lei viene vista dagli uomini
è come una visione di fumo / una piaga / una cacofonia
di sole campane / sforzate e straniere, loro inseguono
il suo immateriale scorrere attraverso questo mondo
e il prossimo. Lei è, infatti, l’archetipica
cattiva ragazza delle stelle
sarà il fuoco fatuo dello spazio vuoto
la stagnante luce cosmica dalle sfere celesti
che ci alletta, la nostra casa
per vagare, per sempre, tra i quasar
in opposizione al Suono dei Cristalli Armoniosi
fiore del tempio dell’abisso
Verricello
su cui si è ferita
quella speranza
smisurata.
Nave-Che-Gira-Ad-Un-Angolo
Bianca Ragazza che Salta sopra le Lapidi
Lilith delle Stelle
perché c’è un’altra Lilith, non fatta per la terra
di chi si è detto / che quando lei viene vista dagli uomini
è come una visione di fumo / una piaga / una cacofonia
di sole campane / sforzate e straniere, loro inseguono
il suo immateriale scorrere attraverso questo mondo
e il prossimo. Lei è, infatti, l’archetipica
cattiva ragazza delle stelle
sarà il fuoco fatuo dello spazio vuoto
la stagnante luce cosmica dalle sfere celesti
che ci alletta, la nostra casa
per vagare, per sempre, tra i quasar
in opposizione al Suono dei Cristalli Armoniosi
fiore del tempio dell’abisso
Verricello
su cui si è ferita
quella speranza
smisurata.
Nave-Che-Gira-Ad-Un-Angolo
Bianca Ragazza che Salta sopra le Lapidi
(dal web)
Diane Di Prima
Breve biografia di Diane di Prima (Brooklyn, 6 agosto 1934- 25 ottobre 2020), poetessa statunitense della Beat Generation. Nata a Brooklyn, ha studiato allo Swarthmore College; di origini italiane (suo nonno materno, Domenico Mallozzi, è stato un attivo anarchico) cominciò a scrivere da bambina e a diciannove anni conobbe Ezra Pound e Kenneth Patchen. Fino al 1960 ha vissuto a Manhattan, dove ha preso parte al movimento beat; la sua prima raccolta poetica, This Kind of Bird Flies Backwards, fu pubblicata nel 1958 dalla Totem Press, di Hettie e LeRoi Jones. Nel 1962 conobbe il maestro Zen Suzuki Roshi, grazie al quale si avvicinò al buddhismo. Fondatrice della Poets Press, con Amiri Baraka (LeRoi Jones) ha pubblicato The Floating Bear e fondato il New York Poets Theatre. Nel 1966 si è trasferita a Millbrook, entrando nella comunità psichedelica di Timothy Leary e nel 1969 ha pubblicato il racconto della sua esperienza beat in Memoirs of a Beatnik; trasferitasi nel 1970 in California, dove vive tuttora, qui è entrata a far parte del movimento Diggers ed ha pubblicato il suo lavoro maggiore, il poema Loba, nel 1978. Una selezione di sue poesie è stata raccolta in Pieces of a Song, nel 1990, mentre del 2001 sono le sue memorie, Recollections of My Life as a Woman. (Wikipedia)
-Franco Leggeri Fotoreportage-“Il Castello di Torre in Pietra”
Franco Leggeri Fotoreportage-Il Castello di Torre in Pietra, detto anche Castello Falconieri, è un castello situato a Torrimpietra, frazione del comune di Fiumicino, in provincia di Roma. Inizialmente il borgo era un castra attorniato da torri e da mura di cinta. Nel 1254 il castello era proprietà della famiglia normanna degli Alberteschi, poi passò agli Anguillara che, nel 1457, per mano di Lorenzo e Felice Anguillara, per 3000 ducati d’oro lo vendettero a Massimo di Lello di Cecco dei Massimo, quindi passò ai Peretti. Nel 1639 fu venduta ai principi Falconieri. Ferdinando Fuga realizzò la chiesa e lo scalone del piano nobile del castello, indi Pier Leone Ghezzi ne realizzò gli interni, perlopiù gli affreschi inerenti all’anno giubilare 1725. Il Castello che oggi ammiriamo è sostanzialmente quello che ci hanno lasciato i Falconieri. Gli affreschi sono perfettamente conservati: possiamo rivivere i fasti dell’anno giubilare 1725, quando il Ghezzi viene chiamato da Alessandro Falconieri a decorare il piano nobile con scene celebranti la visita al castello del Papa Benedetto XIII. All’interno della chiesa ottagonale, gli affreschi sugli altari laterali sono ulteriori testimonianze della sua opera. Infine, nella seconda metà dell’ottocento, i Falconieri si estinguono e Torre in Pietra conosce un’epoca di decadenza[2]. Nel 1926 passò al senatore Luigi Albertini che ne bonificò le terre secondo le moderne tecniche e la rese tra le più prestigiose aziende zootecniche italiane. Nel 1941 passò a sua figlia Elena Albertini, sposata con il conte Nicolò Carandini, i cui eredi tuttora risultano proprietari del castello-Fonte Wikipedia-
Foto di Franco Leggeri-Le foto del Castello di Torre in Pietra , sono stati scatti eseguiti per provare vari obiettivi e fotocamere Reflex-:NIKON e CANON-
il CASTELLO DI TORRE IN PIETRA
Castello di Torre in Pietra
Il Borgo di Torre in Pietra che sorge in una vasta zona agricola e boschiva protetta in antico da una “Turris in petra” poco distante e ancora esistente.
Il Borgo si identifica essenzialmente nella struttura denominata più specificamente “Castello” cioè l’insieme delimitato da mura, ma comprende anche alcuni edifici ai margini della cinta muraria, abitativi e commerciali (ristorante, cantina). Il Castello, che si ritiene sorga nel luogo della stazione romana Baebiana, ha origine medioevale e di quell’epoca conserva ancora quasi intatta la struttura rettangolare cinta da mura e definita da torri angolari.
Tra i vari edifici c’è il “Palazzo”, una residenza signorile risultato di interventi di ampliamento e di fusione di più edifici preesistenti ad opera delle famiglie Peretti e Falconieri. A difesa del castrum, al di sopra di un fossato ormai colmato, in direzione Roma, si erge una torre angolare con funzione abitativa e di avvistamento, che si affaccia sul cortile medioevale detto dei cavalli, dalla presenza della scuderia e della selleria. Un edificio seicentesco, a destinazione abitativa, è addossato al lato esterno delle mura, che ne costituiscono la facciata verso il giardino, e ingloba al suo interno una delle torri minori medioevali. Il giardino conserva una fontana seicentesca, tratti di basolato romano, platani e pini secolari.
Il Castello di Torre in Pietra nel 1254 è citato tra i possedimenti della nobile famiglia Normanni Alberteschi, poi diviene proprietà degli Anguillara e dei Massimo. Nel 1590 viene acquistato da Camilla Peretti, sorella di Papa Sisto V. Nei primi anni del 600 il Principe Michele Peretti fa costruire nel borgo fortificato una nuova, grande e sfarzosa residenza signorile dall’architetto Michele Peperelli.
Nel 1639 la tenuta e il Castello sono venduti ai Principi Falconieri, che chiamano a lavorare a Torre in Pietra due grandi ingegni del tempo: l’architetto Ferdinando Fuga, che realizza la chiesa e il nuovo scalone di accesso al piano nobile, e il pittore Pier Leone Ghezzi, che esegue gli affreschi nei saloni del piano nobile e su due altari della Chiesa, ancora oggi perfettamente conservati.
Nella seconda metà dell’800 i Falconieri si estinguono e Torre in Pietra conosce un’epoca di decadenza. Il castello passa nelle mani di diverse famiglie, tra le quali i Florio di Sicilia, fino a quando, nel 1926, diviene proprietà del Senatore Luigi Albertini che, insieme ai figli Leonardo ed Elena e al genero Nicolò Carandini, si impegna in un’imponente opera di bonifica della tenuta agricola e di restauro di castello, chiesa e borgo. I lavori sono condotti dall’architetto Michele Busiri Vici, con il contributo del pittore Eugenio Cisterna.
Dal 1990 i figli e nipoti eredi di Elena e Nicolò Carandini conservano e abitano il Castello, aperto a visite ed eventi, e conducono l’azienda agricola e la cantina.
Foto di Franco Leggeri-Le foto del Castello di Torre in Pietra , sono stati scatti eseguiti per provare vari obiettivi e fotocamere Reflex-:NIKON e CANON-
il CASTELLO DI TORRE IN PIETRA
Il Castello di Torre in Pietra è un meraviglioso complesso architettonico di origine Medioevale, con importanti testimonianze di architettura e pittura sei-Settecentesche. Sono ancora perfettamente conservati il fossato, la torre di guardia e le mura di cinta che abbracciano tutto il complesso, all’interno del quale, nel corso dei secoli, sono stati costruiti e trasformati diversi importanti edifici. Domina su tutto il palazzo Seicentesco, posto al centro del Borgo all’interno del quale, salendo al piano Nobile, si possono ammirare i magnifici affreschi, opera del pittore Pier Leone Ghezzi, che ha decorato le sale con una sequenza di paesaggi, trompe l’oeil, scene religiose, figure di nobili e chierici, figure allegoriche, stemmi, ritratti di Cardinali e di Papa Benedetto XIII. Davanti al palazzo un ampio cortile, in parte lastricato da basolato Romano, conduce a due grandi giardini, ombreggiati da platani e pini secolari, con al centro un’antica fontana. Sul lato destro si affaccia la bella Chiesa ottagonale di S. Antonio Abate, opera Settecentesca del celebre architetto Ferdinando Fuga, decorata anch’essa dal Ghezzi. Sulla sinistra, al piano terra di un altro edificio, si raggiunge la vasta Sala Peretti, con il suo imponente soffitto a volta e il bel camino, recentemente restaurata. Una cintura di boschi circonda e protegge il Castello che mantiene il suo carattere affascinante e segreto nonostante la sua vicinanza alla via Aurelia e a Roma.
La storia del Castello di Torre in Pietra L’attuale complesso di edifici ha origini Medioevali e si è costituito nella forma di un castrum, un villaggio agricolo fortificato attorno a una residenza signorile, secondo un modello di insediamento rurale molto diffuso all’epoca nella campagna Romana; lo si può veder ancora oggi osservando le torri, il bastione, il fossato e le mura di cinta.
Il primo documento nel quale si descrive questo insediamento con l’antico nome di “Castrum Castiglionis” è un testamento che risale al 1254, nel quale viene menzionato tra i beni che un Nobile della famiglia Romana dei Normanni Alberteschi lascia in eredità a uno dei suoi figli. Diventa in seguito proprietà degli Anguillara e dei Massimo.
Il nome di Torre in Pietra, che deriva da una Torre isolata costruita su un roccione di pietra nei pressi del castello, è indicato per la prima volta in una pianta del 1620 dove sono illustrate le tenute dei principi Peretti. Nel 1590, infatti, la tenuta venne acquistata da Camilla Peretti, sorella di Papa Sisto V°, e Michele Peretti, nipote del Papa, commissionò all’architetto Francesco Peperelli la costruzione di una nuova residenza signorile sui resti del castrum Medioevale.
Al piano Nobile alcune sale, secondo l’usanza del tempo, vennero rivestite con pannelli di cuoio decorato, altre affrescate. Il palazzo che noi oggi vediamo conserva ancora quasi intatto il suo impianto seicentesco e lo stemma Peretti campeggia ancora sul portone d’ingresso. Ma l’altissimo tenore di vita intaccò irrimediabilmente il loro patrimonio familiare e così, nel 1639, i Peretti dovettero vendere il castello e la tenuta al principe Orazio Falconieri.
I Falconieri, che ebbero Torre in Pietra tra i loro possedimenti per più di due Secoli, erano dei potenti banchieri che raggiunsero l’apice del potere e della ricchezza quando nel 1724 Alessandro, nipote di Orazio, fu nominato Cardinale dal Papa Benedetto XIII°. Tra il 1712 e il 1725, Alessandro volle mutare in parte l’aspetto seicentesco del Castello, chiamando due ingegni del suo tempo: l’architetto Ferdinando Fuga e il pittore Pier Leone Ghezzi. La chiesa Medioevale venne abbattuta e ricostruita su disegno del Fuga, che progettò anche il nuovo scalone d’ingresso al palazzo. Sia la Chiesa che i saloni del piano Nobile vennero poi affrescati dal Ghezzi.
Dal 1870 il castello e la tenuta passarono nelle mani di numerosi proprietari (i Carpegna, i Florio, la Società Bonifiche Agrarie) e conobbero un lungo periodo di abbandono, fino a quando nel 1926 divennero di proprietà del Senatore Luigi Albertini. Egli, avendo dovuto abbandonare la direzione del Corriere della Sera per la sua opposizione al fascismo, dedicò tutte le sue risorse a una imponente opera di bonifica dei terreni paludosi, di avvio di un’azienda agricola modello, e di restauro del castello, della chiesa e del borgo, coadiuvato dal figlio Leonardo Albertini e dal genero Nicolò Carandini.
Matrimoni al castello di Torre in Pietra Il castello è il luogo ideale per celebrare matrimoni religiosi nella Chiesa dedicata a S. Antonio Abate e, grazie alla convenzione con il Comune di Fiumicino, il rito del matrimonio civile.
Visite al castello e alla cantina Organizziamo anche visite guidate al Castello e alla Chiesa e, in collaborazione con la Cantina, degustazioni di vini e visite guidate della Cantina.
Torrimpietra è stata la quarantaseiesima zona di Roma nell’Agro romano, indicata con Z. XLVI, istituita con delibera del commissario straordinario n. 2453 del 13 settembre 1961 e soppressa con delibera del commissario straordinario n° 1529 dell’8 settembre 1993[2] a seguito dell’istituzione del comune di Fiumicino, avvenuta con legge regionale n. 25 del 6 marzo 1992.
Il toponimo deriva dalla Torre In Pietra, castello del XIII secolo.
Chiesa di Sant’Antonio Abate, su via Francesco Marcolini.
Chiesa di San Pietro
Chiesa della Misericordia
Economia
Fino alla fine degli anni novanta del Novecento l’economia comunale, tra cui l’allevamento di bovini, era legata principalmente all’azienda locale, denominata appunto Torre in Pietra, che produceva latte fresco pastorizzato e yogurt, un tempo appartenuta ai proprietari della Tenuta Torre in Pietra; lo storico marchio ha poi spostato la sua produzione altrove e oggi non è più legato alla realtà locale. È ancora in attività invece la produzione di vino nella storica cantina del castello[3].
il CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRAil CASTELLO DI TORRE IN PIETRA
-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)Via Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Rio Galeria
Via Aurelia-Località Malagrotta-Rio GaleriaVia Aurelia-Località Malagrotta-Via Aurelia-Località Malagrotta-Via Aurelia-Località Malagrotta-
La poesia di Antonella Proietti, partendo da temi essenziali ed autobiografici, giunge a trattare gli eterni problemi della storia dell’Umanità, per poi esaminare, nelle sue poesie , la possibilità di riscatto che, appunto, offre la poesia. Nel suo argomentare e dipingere, battere e levare, in questo ritmo a volte serrato dei suoi versi Antonella Proietti trova così la possibilità di una comunicazione autentica. Emerge nella poesia di Antonella una “impaziente di se “come se si esprimesse in una poesia di Keats.Emerge nei versi di Antonella una forza espressiva messa in risalto da una sintesi efficacie, in cui prevale lo strumento dell’allegoria. In queste poesie l’Autrice descrive e disegna un mosaico, il modo di occupare lo spazio della pagina, di un intimismo e di una quotidianità frammentata, in cui eventi minuti si intrecciano ad accadimenti se pur piccoli, ma sconvolgenti. In queste poesie l’Autrice ci offre una ricerca stilistica di grande valore , legata ad una ricerca sulla parola e sul simbolo. Ne emergono così allegorie e metafore nette ed essenziali, immagini di grande impatto emotivo che stimolano l’interpretazione del lettore.
Ritratto di un figlio viaggiatore
Oggi ti dipingo con le parole:
come pennello la tua storia,
come colori la tua anima.
Sullo sfondo, un trionfo di rossi
per omaggiare il coraggio,
la forza, il tuo temperamento.
In primo piano, in rilievo,
il volto dai lineamenti perfetti
che guarda verso il futuro.
Sfumature gialle raccontano
la voglia di esplorare;
fuse al rosso, creano tratti decisi,
vivaci, come il tuo desiderio di ricerca,
ancora vivo, ancora caldo.
In una zona più intima e nascosta
si raccolgono gocce d’inquietudine:
momenti difficili, sofferti,
pronti per essere sciolti.
È normale: anche questo è vita.
Un taglio netto, bianco, è il distacco.
E da lì trapela la luce.
Un abbraccio azzurro ti avvolge,
come il cielo che ami,
come il mare che sogni.
Ti calma.
Poi, il via libera al verde,
tanto verde,
per onorare il tuo bisogno
di natura selvaggia.
Ma sono i tratti bianchi ·
schiuma o nuvole, non importa ·
a svelare la luce,
tanta luce
in questo enorme cuore rosso colmo d·amore.
A te
Oggi ho sbirciato nel cielo.
Ho bevuto la pioggia e respirato il vento
Ho rovistato tra le nere nuvole poi le bianche
Ho soffiato
Ho spinto
Ho spostato
Finché è apparso l’orizzonte azzurro e infinito
E’ lì che si nascondeva il sole
È tuo, te lo regalo.
Camera con vista
Dalla finestra della camera osservo il mio bosco di querce.
Non credevo potesse morire un albero.
Non così. Silenzioso.
Da qualche anno, la quercia —
non una qualunque —
si piega al tempo,
come se assistesse impotente
alla bruttura che l’uomo infligge a un altro uomo e alla terra che lo nutre.
Ogni giorno, dal bosco,
svanisce qualcosa:
foglie, rami,
la forza di resistere.
La osservo,
non cade,
si lascia cadere.
La osservo,
non all’improvviso,
non con fragore,
ma lentamente, come chi è consumato dal male.
La guardo.
E dentro,
sento il peso del silenzio.
Firma
Tratto fermo
punto di incontro
legame CONNESSO
tra essere
e
stare.
Attimo
INTIMO
nascosto
indefinito
infinito
fedele
attracco
ANIMA
La mia.
Antonella Proietti
Cenni Autobiografici di Antonella Proietti
Mi chiamo Antonella Proietti e ho una formazione come Educatore Professionale, ruolo che ho svolto per oltre 15 anni nei servizi di prevenzione del disagio sociale nella città di Roma. Dal 2010 lavoro per Roma Capitale. In parallelo, porto avanti una ricerca artistica basata sulla relazione tra persone, la poesia e la dimensione comunitaria. I miei progetti – tra cui “MuTA”, “Dettagli” e “Bruciale e via”– danno voce a esperienze collettive, in particolare femminili, attraverso un linguaggio artistico non convenzionale, sperimentale e profondamente umano.Ho partecipato ad incontri e serate di poesie. Mi è stata consegna la targa delPremio Campagna Romana nel 2016.
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Franco Leggeri Fotoreportage-Roma Municipio XIII-CASTEL DI GUIDO-GAR-Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce-
Roma Municipio XIII- 30 marzo 2017-Sabato 22 aprile dalle ore 9:00 alle ore 17:00-I Volontari del Gruppo Archeologico Romano saranno presenti a Castel di Guido, presso l’Azienda Agricola Comunale di Roma Capitale e OASI della LIPU, per condurre gli scavi nella Villa Romana delle Colonnacce.La Villa Romana è databile tra il III sec. a.C. e il III sec. d.C. ed è costituita da strutture sia di epoca repubblicana sia imperiale.
Foto di FRANCO LEGGERI per REDREPORT
Per ulteriori informazioni si prega di contattare la segreteria del GAR: Gruppo Archeologico Romano Via Contessa di Bertinoro 6, Roma Tel. 06/6385256 info@gruppoarcheologico.it
Descrizione della Villa Romana delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione della Dott.ssa Daniela Rossi- Archeologa .
Castel di Guido- La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale. La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono,catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Baldo degli Ubaldi dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “.
N.B. Franco Leggeri:”La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel Borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .”
FOTO GALLERY -Villa Romana delle Colonnacce-Foto di Franco Leggeri
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.GAR-Gruppo Archeologico RomanoVolontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.VILLA ROMANA DELLE COLONNACCEVILLA ROMANA DELLE COLONNACCEVolontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Arch. VALERIA GASPARI Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-Visita Villa Romana delle ColonnacceVisita Villa Romana delle ColonnacceCastel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-Castel di Guido, Villa delle Colonnacce– 5 febbraio 2017-
Gabriela Mistral: Le poesie più belle della poetessa cilena-
-Premio Nobel per la Letteratura nel 1945-
Breve biografia di Gabriela Mistral-Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, passata alla storia con il nome d’arte di Gabriela Mistral, nasce il 7 aprile 1889 a Vicuna, Cile del nord. La sua vita si rivela piena di complicazioni fin dall’infanzia: il padre Jeronimo Godoy Alcayaga Villanueva abbandona lei, la madre Petronila e la sorella Emelina quando Lucila ha appena 3 anni. Si trova quindi fin da subito a dover combattere una condizione di estrema povertà ma ciò nonostante, le difficoltà che deve affrontare nel quotidiano sembrano non riuscire ad affievolire la sua predisposizione per lo studio, per la letteratura e per la scrittura. I suoi testi sono avanguardisti, Lucila si schiera per l’istruzione gratis e la parità dei diritti, posizioni moderne che qualche anno più tardi le costeranno il rifiuto della sua domanda d’ammissione alla Scuola Normale per insegnanti. I suoi articoli, pubblicati da un quotidiano locale El Coquimbo de la Serena vengono infatti giudicati troppo sovversivi.
Prima donna sudamericana a vincere il Premio Nobel, nei suoi versi si fondono idealismo, anticonformismo e femminismo.
MADRE PIU’ DI UNA MADRE
Fa che io sia più madre di una madre nel mio amore e nella difesa del bambino che non è sangue del mio sangue. Aiutami affinché ognuno dei “miei” bambini diventi la poesia migliore. E nel giorno in cui non canteranno più le mie labbra, lascia dentro di lui o di lei, la più melodiosa delle melodie
Canto che amavi
Io canto ciò che tu amavi, vita mia, nel caso ti avvicini e ascolti, vita mia, nel caso ti ricordi del mondo che hai vissuto, nel rosso del tramonto io canto te, ombra mia.
Io non voglio restare più muta, vita mia. Come senza il mio grido fedele puoi trovarmi?
Quale segnale, quale mi svela, vita mia?
Sono la stessa che fu già tua, vita mia. Né infiacchita né smemorata né spersa. Raggiungimi sul fare del buio, vita mia; vieni qui a ricordare un canto, vita mia; se tu questa canzone riconosci a memoria e se il mio nome infine ancora ti ricordi.
Ti aspetto senza limiti né tempo. Tu non temere notte, nebbia o pioggia. Vieni per strade conosciute o ignote. Chiamami dove sei, anima mia, e avanza dritto fino a me, compagno.
Traduzione di Matteo Lefèvre Da Gabriela Mistral, Sillabe di fuoco, a cura di Matteo Lefèvre, con uno scritto di Octavio Paz, Bompiani 2020
Gabriela Mistral
Desolazione
La bruma spessa, eterna, affinché dimentichi dove
mi ha gettato il mare nella sua onda di salamoia.
La terra nella quale venni non ha primavera:
ha la sua notte lunga che quale madre mi nasconde.
Il vento fa alla mia casa la sua ronda di singhiozzi
e di urlo, e spezza, come un cristallo, il mio grido.
E nella pianura bianca, di orizzonte infinito,
guardo morire immensi occasi dolorosi.
Chi potrà chiamare colei che sin qui è venuta
se più lontano di lei solo andarono i morti ?
Tanto solo loro contemplano un mare tacito e rigido
crescere tra le sue braccia e le braccia amate!
Le navi le cui vele biancheggiano nel porto
vengono da terre in cui non ci sono quelli che sono miei;
i loro uomini dagli occhi chiari non conoscono i miei fiumi
e recano frutti pallidi, senza la luce dei miei orti.
E l´interrogazione che sale alla mia gola
al vederli passare, mi riscende, vinta:
parlano strane lingue e non la commossa
lingua che in terre d´oro la mia povera madre canta.
Guardo scendere la neve come la polvere nella fossa;
guardo crescere la nebbia come l´agonizzante,
e per non impazzire non conto gli istanti,
perché la notte lunga ora solo comincia.
Guardo il piano estasiato e raccolgo il suo lutto,
perché venni per vedere i paesaggi mortali.
La neve è il sembiante che svela i miei cristalli;
sempre sarà il suo biancore che scende dal cielo!
Sempre essa, silenziosa, come il grande sguardo
di Dio su di me; sempre la sua zagara sopra la mia casa;
sempre, come il destino che non diminuisce ne passa,
scenderà a coprirmi, terribile e estasiata.
Gabriela Mistral
La donna forte
Ricordo il tuo viso, fissato nei miei giorni,
donna con gonna azzurra e con fronte abbronzata;
quando nella mia infanzia, in terra mia d’ambrosia,
ti vidi aprire un solco nero in un ardente aprile.
Nella fonda taverna, l’impura coppa alzava,
chi un figlio appiccicò al tuo petto di giglio;
sotto questo ricordo, che t’era bruciatura,
cadeva dalla mano, serena, la semente.
Io ti vidi in gennaio segare il grano al figlio,
e in te, senza capire, trovai quegli occhi fissi,
ugualmente ingranditi da meraviglia e da pianto.
E ancora bacerei il fango dei tuoi piedi,
perché tra cento donne non ho visto il tuo volto,
e l’ombra tua nei solchi,
seguo ancora nel mio canto.
Dammi la mano
Dammi la mano e danzeremo
dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
con lo stesso passo ballerai.
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami Rosa ed io Speranza
però il tuo nome dimenticherai
perché saremo una danza
sulla collina e niente più.
DAMMI LA MANO
Dammi la mano e danzeremo
Dammi la mano e mi amerai
come un solo fior saremo
come un solo fiore e niente più.
Lo stesso verso canteremo
allo stesso passo danzerai
Come una spiga onduleremo
come una spiga e niente più.
Ti chiami rosa e io speranza
ma il tuo nome dimenticherai
perchè saremo una danza
sulla collina e niente più.
Gabriela Mistral e Paplo Neruda
Gocce di fiele
Non cantare: resta sempre attaccato
sulla tua lingua un canto;
quello che doveva essere trasmesso.
Non baciare: resta sempre per una strana maledizione
il bacio che non viene su dal cuore.
Prega: pregare è dolce: però sappi
che la tua lingua avara non giunge
a dire il solo Padre Nostro che ti salvi.
E non chiamare come clemente la morte,
perché nel corpo di bianchezza immensa
resterà un vivo brandello che sente
la pietra che ti soffoca
ed il vorace verme che ti fora.
NINNA NANNA
Il mare le sue mille onde culla divino; odo i mari innamorati mentre cullo il mio piccino. L’errabondo vento, a notte, culla le spighe; odo i venti innamorati mentre cullo il mio piccino. Iddio Padre i mille mondi culla senza un brusio. Sento il gesto suo nell’ombra mentre cullo il bimbo mio.
L’amore che tace
Se ti odiassi, il mio odio ti darei
con le parole, rotondo e sicuro;
ma ti amo e il mio amore non si affida
a questa lingua umana, così oscura!
Tu lo vorresti mutato in un grido,
e vien così dal fondo che ha disfatto
la sua ardente fiumana, sfinito
prima ancora della gola e del petto.
Io sono come uno stagno ricolmo
ed a te sembro una sorgente inerte,
per questo mio silenzio tormentoso
più atroce che entrare nella morte!
Gabriela Mistral
Intima
Non stringere le mie mani.
Verrà il tempo infinito
di riposare con molta polvere
ed ombra tra le dita intrecciate.
E tu dirai:
‘Non posso
più amarla; le sue dita
si sgranarono come le spighe’.
La mia bocca non baciare.
Verrà l’istante pieno
di spenta luce, senza labbra
starò sotto un umido suolo.
E tu dirai: ‘L’amai, ma non posso
amarla più, ora che non aspira
l’odore di ginestre del mio bacio’.
E mi rattristerò nell’udirti;
tu parlerai come un cieco ed un pazzo,
perché la mia mano sarà sulla tua fronte
quando le dita si spezzino,
e scenderà sopra il tuo volto
pieno d’ansia, il mio respiro.
Non mi toccare dunque. Mentirei
nel dirti che ti dono
il mio amore nelle braccia mie protese,
nella mia bocca, nel mio collo,
e tu, credendo d’averlo esaurito
ti sbaglieresti come un bambino ingenuo.
Perché il mio amore non è solo questo
stanco e restio covone del mio corpo,
che trema tutto offeso dal cilicio
e in ogni volo mi resta indietro.
È ciò che sta nel bacio e non nel labbro,
ciò che spezza la voce e non il petto:
ma è un vento di Dio, che passa lacerando
nel suo volo, la polpa delle carni.
AMO LE COSE CHE NON EBBI MAI
Amo le cose che mai non ebbi,
insieme alle altre che non ho più:
tocco un’acqua silenziosa,
distesa su freddi prati,
che senza vento rabbrividiva
in un orto che era il mio orto.
La guardo come la guardavo;
mi viene uno strano pensiero
e lenta gioco con quest’acqua
come con pesce o mistero.
Paradiso
Distesa lamina d’oro
e nell’adagiarsi dorato
due corpi come gomitoli d’oro;
un corpo glorioso che
ascolta e un corpo
glorioso che parla nel
prato in cui nulla parla;
un respiro che va al respiro e
un volto che trema d’esso, in un prato in cui nulla trema.
Ricordarsi del triste tempo in
cui entrambi avevano
Tempo e da esso vivevano
afflitti,
nell’ora del chiodo d’oro
in cui il Tempo restò alla
soglia
come i cani vagabondi…
Gabriela Mistral
-Biografia di Gabriela Mistral-
Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga, passata alla storia con il nome d’arte di Gabriela Mistral, nasce il 7 aprile 1889 a Vicuna, Cile del nord. La sua vita si rivela piena di complicazioni fin dall’infanzia: il padre Jeronimo Godoy Alcayaga Villanueva abbandona lei, la madre Petronila e la sorella Emelina quando Lucila ha appena 3 anni. Si trova quindi fin da subito a dover combattere una condizione di estrema povertà ma ciò nonostante, le difficoltà che deve affrontare nel quotidiano sembrano non riuscire ad affievolire la sua predisposizione per lo studio, per la letteratura e per la scrittura. I suoi testi sono avanguardisti, Lucila si schiera per l’istruzione gratis e la parità dei diritti, posizioni moderne che qualche anno più tardi le costeranno il rifiuto della sua domanda d’ammissione alla Scuola Normale per insegnanti. I suoi articoli, pubblicati da un quotidiano locale El Coquimbo de la Serena vengono infatti giudicati troppo sovversivi.
Il primo riconoscimento per l’arte poetica
Ma Lucila non si arrende e non abbandona né la vocazione di scrittrice né quella per l’insegnamento. Grazie all’aiuto della sorella Emelina, già maestra, riesce ad ottenere un posto come docente in alcuni istituti minori. È in questi anni che conosce un impiegato delle ferrovie, Romeo Ureta Carvajal, con cui dà vita a una relazione tormentata e controversa. Il suicidio dell’amato sarà al centro di un’opera, Sonetos de la Muerte, che le varrà il primo premio in una competizione letteraria nazionale svoltasi a Santiago nel dicembre del 1904. Lucila ora è Gabriela Mistral, una poetessa destinata al successo. Lo testimonia anche il suo nome d’arte del resto, un omaggio a due figure letterarie molto amate, il Vate Gabriele D’Annunzio e Frederic Mistral, poeta, quest’ultimo, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1904.
Gabriela Mistral è stata la prima donna sudamericana a ricevere un premio Nobel ed è anche una delle poche (tredici donne totali) che fino ad ora hanno avuto questo onore (contro i 101 vincitori uomini). Ma sarebbe forse potuto essere differente, del resto, il destino di una scrittrice che con il suo nome d’arte omaggia due tra i più grandi poeti della storia? Probabilmente no. Gabriela Mistral è passata alla storia senza dubbio per la sua eccelsa arte poetica ma soprattutto in quanto intellettuale idealista, appassionata, impegnata, sincera e soprattutto avanguardista.
Finalmente il Nobel
Gabriela Mistral Cerimonia premiazione Premio Nobel 10 dicembre 1945
Il 10 dicembre 1945 l’arte poetica di Gabirela Mistral le vale il Premio Nobel per la Letteratura, la sua vittoria è accompagnata da queste parole di motivazione: “La sua opera lirica che, ispirata da potenti emozioni, ha reso il suo nome un simbolo delle aspirazioni idealiste di tutto il mondo latino americano”.
Gli ultimi anni (anticonformisti)
Anche negli ultimi anni della sua vita Gabirela Mistral ha fatto scalpore e si è dimostrata come sempre anticipatrice dei tempi futuri, in particolare a dare adito a critiche e pettegolezzi in questo caso fu la sua relazione con una donna, Doris Dana, non vista di buon occhio. È il 10 gennaio 1957 quando la poetessa si spegne all’età di 67 anni a Long Island, sconfitta da un cancro al pancreas. La sua eredità più grande sopravvive nelle sue meravigliose poesie. Femministe, appassionate, intrise di amore per i suoi affetti più cari, la sua terra, le figure chiave della sua vita. Ma anche segnate dal dolore, dagli ideali disillusi e a volte anche da una certa spiritualità.
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