Portogallo, la rivoluzione dei garofani in mostra al Mattatoio di Roma-
Fino al 25 agosto il Mattatoio di Roma ospita L’alba che aspettavo. Portogallo, 25 aprile 1974 – Immagini di una rivoluzione,La mostra L’alba che aspettavo. Portogallo, 25 aprile 1974 – Immagini di una rivoluzione ripercorre a cinquant’anni di distanza, gli eventi della rivoluzione dei garofani (così chiamata per il gesto di una donna, Celeste Caeiro, che in una piazza di Lisbona cominciò a offrire garofani ai soldati): un grande evento collettivo, un momento di svolta per il Paese, le sue riforme e la sua vita sociale; per le città come Lisbona, che scoprono una nuova forma di partecipazione collettiva, per l’informazione che inaugura nuove forme di comunicazione. L’esposizione offre una visione unica e coinvolgente di uno dei momenti più significativi della storia contemporanea portoghese ed europea, un’occasione per ricordare quei giorni e soffermarsi sui cambiamenti sociali ottenuti.
La rivoluzione dei garofani storia fiori e fotografie in mostra al Mattatoio di Roma
Una mostra proposta e presentata dall’Ambasciata del Portogallo in Italia, promossa dall’Assessorato alla cultura diRoma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo, con il Camões, I. P., il Ministero della Cultura del Portogallo e curata da Alessandra Mauro con Contrasto.
La rivoluzione dei garofani storia fiori e fotografie in mostra al Mattatoio di Roma
La storia
Lisbona, 25 aprile 1974, ore 00:20. Dalla stazione radio Renascença partono le note di una canzone: Grândola Vila Morena. È il segnale per dare l’avvio alle operazioni militari che in brevissimo tempo portano alla fine della dittatura e all’inaugurazione di una nuova epoca per il paese e l’Europa intera.
In breve, si procede all’arresto degli alti ufficiali fedeli al regime; si occupano punti strategici, come l’aeroporto e la prigione politica; il dittatore Marcello Caetano si consegna ai ribelli nel pomeriggio mentre alle 23:20 viene approvata la legge che decreta lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e del Consiglio di Stato. In meno di 24 ore, il Paese si mette alle spalle il regime assolutistico nel tripudio del popolo che scende in piazza a fianco dei militari.
È una rivoluzione rapida, pacifica, di massa. L’unica del Novecento nel continente europeo. Un evento che ha coinvolto, interessato ed emozionato più di una generazione di cittadini, attivisti politici o giornalisti che hanno visto nel Portogallo, nella sua capacità di scrollarsi di dosso decenni di dittatura e di uscire da un tragico passato coloniale, la possibilità di pensare e realizzare a una vita diversa.La mostra
La rivoluzione dei garofani storia fiori e fotografie in mostra al Mattatoio di Roma
La mostra
Il percorso espositivo propone un centinaio di fotografie di grandi autori come i portoghesi Alfredo Cunha e Carlos Gil, gli italiani Paola Agosti, Fausto Giaccone, Augusta Conchiglia, internazionali come Sebastião Salgado, Guy Le Querrec, Ingeborg Lippman, Peter Collis. Alle foto si aggiungono poi filmati d’epoca, forniti dalla RTP – Rádio e Televisão de Portugal, installazioni video e wallpaper con la ricostruzione di alcuni tra i murales più celebri del periodo.
Nella prima parte, una cronologia particolareggiata ripercorre eventi e protagonisti della rivoluzione dei garofani, dal 25 aprile 1974 fino alla promulgazione della nuova costituzione, il 25 aprile 1976.
Nella seconda parte una serie di temi – dalla Riforma Agraria alla decolonizzazione, al ruolo delle donne, all’esplosione di creatività grafica che inonda come un fiume il Paese, alle realizzazioni artistiche… – completa la mostra.
La mostra è realizzata con la collaborazione di Leica, Fundação Mário Soares e Maria Barroso, RTP, Radio televisione portoghese, Centro de Documentação 25 de Abril, Cinemateca Nacional, Biblioteca Nacional de Portugal, Fundação Marques da Silva, e con il contributo di Turismo de Portugal, BIAL, Amorim Cork, Ascenza e Sonae Sierra.
La mostra L’alba che aspettavo. Portogallo, 25 aprile 1974 – Immagini di una rivoluzione ripercorre a cinquant’anni di distanza, gli eventi della rivoluzione dei garofani (così chiamata per il gesto di una donna, Celeste Caeiro, che in una piazza di Lisbona cominciò a offrire garofani ai soldati): un grande evento collettivo, un momento di svolta per il Paese, le sue riforme e la sua vita sociale; per le città come Lisbona, che scoprono una nuova forma di partecipazione collettiva, per l’informazione che inaugura nuove forme di comunicazione. L’esposizione offre una visione unica e coinvolgente di uno dei momenti più significativi della storia contemporanea portoghese ed europea, un’occasione per ricordare quei giorni e soffermarsi sui cambiamenti sociali ottenuti.
Lisbona, 25 aprile 1974, ore 00:20. Dalla stazione radio Renascença partono le note di una canzone: Grândola Vila Morena. È il segnale per dare l’avvio alle operazioni militari che in brevissimo tempo portano alla fine della dittatura e all’inaugurazione di una nuova epoca per il paese e l’Europa intera.
In breve, si procede all’arresto degli alti ufficiali fedeli al regime; si occupano punti strategici, come l’aeroporto e la prigione politica; il dittatore Marcello Caetano si consegna ai ribelli nel pomeriggio mentre alle 23:20 viene approvata la legge che decreta lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e del Consiglio di Stato. In meno di 24 ore, il Paese si mette alle spalle il regime assolutistico nel tripudio del popolo che scende in piazza a fianco dei militari.
È una rivoluzione rapida, pacifica, di massa. L’unica del Novecento nel continente europeo. Un evento che ha coinvolto, interessato ed emozionato più di una generazione di cittadini, attivisti politici o giornalisti che hanno visto nel Portogallo, nella sua capacità di scrollarsi di dosso decenni di dittatura e di uscire da un tragico passato coloniale, la possibilità di pensare e realizzare a una vita diversa.
l percorso espositivo presenta un insieme di circa 100 fotografie di grandi autori come i portoghesi Alfredo Cunha e Carlos Gil, gli italiani Paola Agosti, Fausto Giaccone, Augusta Conchiglia, internazionali come Sebastião Salgado, Guy Le Querrec, Ingeborg Lippman, Peter Collis. Alle foto si aggiungono poi filmati d’epoca, forniti dalla RTP – Rádio e Televisão de Portugal, installazioni video e wallpaper con la ricostruzione di alcuni tra i murales più celebri del periodo.
Nella prima parte, una cronologia particolareggiata ripercorre eventi e protagonisti della rivoluzione dei garofani, dal 25 aprile 1974 fino alla promulgazione della nuova costituzione, il 25 aprile 1976.
Nella seconda parte una serie di temi – dalla Riforma Agraria alla decolonizzazione, al ruolo delle donne, all’esplosione di creatività grafica che inonda come un fiume il Paese, alle realizzazioni artistiche… – completa la mostra.
La mostra è realizzata con la collaborazione di Leica, Fundação Mário Soares e Maria Barroso, RTP, Radio televisione portoghese, Centro de Documentação 25 de Abril, Cinemateca Nacional, Biblioteca Nacional de Portugal, Fundação Marques da Silva, e con il contributo di Turismo de Portugal, BIAL, Amorim Cork, Ascenza e Sonae Sierra.
DESCRIZIONE-Torino operaia e fascismo- Una storia orale –Questo libro, pubblicato per la prima volta quarant’anni fa e tradotto in inglese pochi anni dopo, è basato sulla memoria di circa settanta donne e uomini nate-i tra il 1884 e il 1922, intervistate-i nella seconda metà degli anni settanta, comparata con una serie di fonti d’archivio (rapporti di polizia, cinegiornali dell’Istituto Luce, documenti giudiziari). I protagonisti, appartenenti alla classe operaia torinese, raccontano la loro visione della vita, della storia, di se stessi, evocando il periodo fascista e il rapporto ambivalente tra Mussolini e le masse. Si delinea così un quadro multiforme della Torino operaia degli anni venti e trenta nel secolo scorso: i divertimenti e le canzoni popolari, la condizione delle donne, l’atteggiamento verso i meridionali, la religione, il fascismo nella vita di tutti i giorni.
Ne emerge un quadro di piccoli episodi di «resistenza» quotidiana come graffiti e scherzi, una cravatta rossa o una vecchia canzone socialista, ma anche da eventi traumatici come l’aborto, unico mezzo di controllo della fertilità largamente disponibile ancorché clandestino. È quindi documentata una negoziazione quotidiana col potere che va al di là del semplice dilemma consenso/dissenso. Un capitolo finale è dedicato a un evento «mitico» della Torino operaia e antifascista: il silenzio degli operai della Fiat in risposta al discorso del duce, nel corso dell’inaugurazione della Fiat Mirafiori nel 1939. Il testo combina approcci mutuati dalla storiografia, dall’antropologia, dalla psicologia e dalla microsociologia, offrendo un ampio spettro di forme narrative e metodologiche e una riflessione sui meccanismi della memoria e sul suo rapporto con il presente in cui è elaborata. La sua riproposta invita ad attualizzare il ruolo centrale di una categoria politica e sociale come la vita quotidiana in quanto luogo privilegiato della soggettività, e a prendere in considerazione quanto i «grandi mutamenti» devono a «decisioni individuali».
Luisa Passerini
Autore-Luisa Passerini-Emerita di Storia all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha usato fonti orali, scritte e visuali per lo studio dei soggetti del cambiamento sociale e culturale, dai movimenti di liberazione africani ai movimenti operai, delle donne e degli studenti. Ha indagato il rapporto tra il concetto di identità europea e quello di amore romantico. Tra i suoi libri: La quarta parte (Manifestolibri, 2023); Storie d’amore e d’Europa (L’ancora del Mediterraneo, 2008); Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività (Bollati Boringhieri, 2003); L’Europa e l’amore (Il Saggiatore, 1999); Storie di donne e femministe (Rosenberg & Sellier, 1991); Mussolini immaginario (Laterza, 1991); Autoritratto di gruppo (Giunti, 1988).
Editore-Officina Libraria
Officina Libraria • LO edition • Ab Ovo
Via dei Villini 10 – 00161 Roma
+39 06.960.38.456 info@officinalibraria.com
Officina Libraria, “casa editrice” in latino umanistico, ha vocazione internazionale ed è specializzata in pubblicazioni d’arte e illustrati.
Fondata nell’ottobre 2006 a Milano e oggi a Roma, l’Officina Libraria di Marco Jellinek e Paola Gallerani ha pubblicato da allora oltre 450 titoli, che spaziano dalla saggistica storico artistica alla fotografia, dal design di gioielli alla ceroplastica, aprendo di recente alla storia e alla letteratura.
Molti dei volumi più ricercati sono produzioni o coedizioni con prestigiose istituzioni italiane e straniere: dalla I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (l’imponente catalogo della collezione di dipinti, la collana I Tatti Research Series), al Kunsthistoriches Institut di Firenze e al Centro Internazionale Studi di Architettura Andrea Palladio; dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano (la guida di tutti i dipinti esposti e il catalogo della mostra 100 anni di scultura) alla Galleria Borghese (le mostre su Bernini, Picasso e Valadier e i prossimi cataloghi ragionati delle Sculture e degli Arredi), le Gallerie Nazionali Barberini Corsini (diversi cataloghi e i 100 capolavori), dal Museo del Bargello (il catalogo ragionato degli avori) all’Accademia Carrara di Bergamo (100 capolavori, il catalogo ragionato dei dipinti del XIV-XV secolo) per citarne alcuni. Senza dimenticare il musée du Louvre, di cui Officina è il solo coeditore italiano: con la preziosa collana di facsimili del Cabinet des dessins, la serie dei cataloghi ragionati dei disegni italiani e i volumi per mostre come Giotto, Messerschmidt, Valentin de Boulogne, Rembrandt fino a Le corps et l’ame, sulla scultura italiana del ’500, insignito del Prix du catalogue d’exposition 2021, e che nell’edizione italiana accompagna la mostra Il corpo e l’anima al Castello Sforzesco di Milano.
Che si tratti di cataloghi di mostre, opere di fondo, guide o saggistica applichiamo all’editoria contemporanea, che ha tempi di produzione sempre più serrati, l’attenzione e la cura editoriale d’altre epoche, sia nella redazione che nei progetti grafici e nella riproduzione delle immagini. Alla base del nostro lavoro c’è il progetto culturale di fare libri di qualità, nei contenuti e nella forma, restituendo all’editore quel ruolo di mediazione culturale e non semplice marchio di produzione che gli è proprio, nella scelta dei progetti, nell’interazione con autori, istituzioni e committenti, nella realizzazione dei volumi, e nella loro promozione e diffusione a pubblicazione avvenuta, sia attraverso le librerie (in Italia siamo distribuiti da Messaggerie Libri; in Francia da Daudin (DOD & Cie), in US-UK e resto del mondo da ACC Art Books) che nei principali bookshop di mostre e musei, e con campagne mailing specifiche presso le biblioteche italiane e straniere.
Gli editori
Marco Jellinek
Marco Jellinek • Laureato in chimica e filosofia alla University of Kansas, ha cominciato ad occuparsi di editoria nel 1987 come redattore e responsabile commerciale extra-librario alla Jaca Book di Milano, per passare alla Disney Libri come senior editor e poi come direttore marketing da Skira. Nel 2002 ha fondato la 5 Continents Editions e nel 2005 la consociata Equatore che ha diretto fino all’ottobre 2006, pubblicando prestigiosi volumi d’arte e fotografia, come Parate Trionfali e New Guinea, rispettivamente vincitori dei premi Justus Lipsius e 2006 AAM Museum Publications Design Competition.
È la mente economica e strategica di Officina Libraria e le scelte editoriali poggiano sulla sua cultura storico artistica, seconda soltanto alla sua passione per la montagna.
Paola Gallerani • Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano, è stata caporedattore della 5 Continents Editions dalla sua fondazione al maggio 2006, occupandosi del coordinamento editoriale dei volumi d’arte e saggistica e di tutte le coedizioni con il musée du Louvre. Ha collaborato con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, catalogando l’archivio Giovanni Testori, di cui è la principale esperta, e ha insegnato Organizzazione delle attività editoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Nell’ottobre 2006 fonda con Marco Jellinek l’Officina Libraria, occupandosi oltre che della direzione editoriale anche della grafica della maggior parte dei volumi. Dal 2011 si occupa anche di LO, l’etichetta per bambini, scegliendone i titoli con Marco, spesso traducendoli e a volte inventandoli (anche con lo pseudonimo di Amélie Galé). Nel 2016 crea Ab Ovo edizioni, il marchio di Officina dedicato a salute e benessere.
In occasione dei 110 anni dalla nascita di Robert Capa (22 ottobre 1913) rendiamo omaggio al grande fotografo ungherese con una mostra personale che ripercorre i principali reportage di guerra e di viaggio che Capa realizzò durante vent’anni di carriera, anni che coincisero con i momenti cruciali della storia del Novecento.
Realizzata grazie alla collaborazione con l’agenzia Magnum Photos, la mostra riunisce un eccezionale corpus di fotografie: oltre 80 stampe originali, alcune delle quali mai esposte prima in una mostra italiana, accompagnate da una rara intervista rilasciata dal fotoreporter a una radio americana nel 1947 e da alcuni documenti d’epoca provenienti dalla collezione di Magnum.
Attraverso sette sezioni e con un percorso diacronico vengono raccontati i più importanti reportage in bianco e nero realizzati da Robert Capa, dagli esordi a Berlino e Parigi (1932-1936) alla guerra civile spagnola (1936-1939); dall’invasione giapponese in Cina (1938) alla seconda guerra mondiale (1941-1945); dal reportage di viaggio in Unione Sovietica (1947) a quello sulla nascita di Israele (1948-1950), fino all’ultimo incarico come fotografo di guerra in Indocina (1954).
Nei suoi vent’anni di carriera ha raccontato la storia restando sempre fedele al suo celebre aforisma: “se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”.
L’azione – con tutta la sua dinamicità e forza propulsiva – spicca tra gli scatti come un fil rouge, che si dipana anche nei ritratti presenti in mostra, volutamente pochi e scelti per ricordare al pubblico i volti della Storia – come quello di Trockij ardente oratore – o della sua storia personale, come quello di Picasso, fotografato nel suo studio di Parigi dove era rimasto anche durante l’occupazione, e dell’amico Steinbeck con cui intraprese il viaggio oltre la cortina di ferro, nel ’47.
regia Gianni Puccini, con Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciola, Don Backy, Lisa Gastoni, Serge Reggiani .
Il Film racconta la storia vera della famiglia Cervi,una famiglia di contadini con radicati sentimenti antifascisti,i 7 Fratelli Cervi presero attivamente parte alla resistenza contro i nazi-fascisti.Presi prigionieri ,furono torturati e poi fucilati dai Fascisti il 28 Dicembre 1943 al poligono di Tiro di Reggio Emilia. IL sacrificio dei Fratelli Cervi rappresenta uno degli episodi più drammatici della Resistenza…IL Film ripercorre ,in Lunghi Flashback,la storia di questa famiglia. Un film forse oggi un po’ didascalico ma Utile per non dimenticare.
I SETTE FRATELLI CERVI
LA STORIA DEI CERVI
E’ una storia che parte dalla fine, quella dei sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri. Dallo sparo unisono che alle 6,30 del 28 dicembre 1943 falciò al Poligono di Tiro di Reggio Emilia le vite di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore insieme al compagno di lotta di Guastalla. Alcune ricostruzioni collocano il momento della fucilazione in altra ora. Tutte concordano sulla “discrezione” dell’eccidio: i documenti ufficiali rassicurano l’autorità sulla assenza di sguardi indiscreti. Così avvenne per la frettolosa tumulazione delle salme, ad evitare una qualunque forma di pubblica riconoscibilità di quell’atto madornale. Sono forse le stesse, neonate gerarchie repubblichine a rendersi conto dell’enormità del gesto. Di certo, se ne avvedono le autorità “centrali”, di quello stato fascista che non c’è più ma che si vuole prolungare nell’ombra fosca dell’occupazione tedesca. Da Brescia, dove si improvvisano le sedi istituzionali della Repubblica di Salò, giunge una sola domanda, scarabocchiata sul verbale dell’esecuzione: “sono 7 fratelli?”
La famiglia Cervi
Nessuna notizia venne ostentata sulla sanguinosa rappresaglia ordinata dai maggiorenti della RSI reggiana, in risposta all’attentato mortale a Davide Onfiani presso Bagnolo. Il Solco Fascista dello stesso giorno ricorda solo che “otto elementi, rei confessi di violenze e aggressioni…” sono stati passati per le armi all’alba di “oggi, 28 dicembre”. E’ immediata la percezione del crimine abnorme perpetrato, che rappresenta il primo vero faccia a faccia tra partigiani e fascisti a Reggio Emilia. I repubblichini riconoscono nella banda il primo vero nemico organizzato, con indizi schiaccianti a loro carico; ciò nonostante, la brutale rappresaglia segnerà per sempre la storia dei 20mesi della Resistenza reggiana. I Cervi se ne vanno così, nel volgere di un anno convulso e lunghissimo. Nel livido silenzio dell’inverno ’43, quando ancora tutto deve accadere a Reggio Emilia, a Casa Cervi tutto sembra essere già finito. E’ il punto in cui la storia deve fare qualche passo indietro. Ad un’altra alba, quella del 25 novembre dello stesso anno. Un mese prima, i Cervi vengono sorpresi insieme ad alcuni componenti della loro “banda” nella loro casa colonica. Siamo al podere dei Campirossi, tra Campegine e Gattatico, in aperta campagna reggiana. Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblica circonda l’abitazione, su precise indicazioni da parte di delatori locali. Il Capitano Pilati è venuto in forze, “ufficialmente” 35 uomini, ma i testimoni in casa svegliati dall’accerchiamento ne contano molti di più. Cento, centocinquanta per alcuni. L’ordine dei fascisti è chiaro: arrendersi subito, deporre le armi, consegnare i prigionieri rifugiati. Perchè la famiglia Cervi è una famiglia ribelle, i suoi sette figli maschi hanno preso (tra i primi a Reggio Emilia) le armi dopo l’8 settembre; e hanno fatto della loro casa un ricovero per fuggiaschi e resistenti di ogni nazionalità. I fascisti e gli assediati si scambiano colpi di fucile e mitraglia, per alcuni un accenno di resistenza, per altri un fuoco serrato. In ogni caso, la reazione dalle finestre della casa è breve, perchè in poco tempo stalla e fienile sono avvolti dalle fiamme. L’incendio è certamente appiccato dagli assalitori, circostanza sempre negata dai diretti interessati. Ci sono donne e bambini, la stalla è piena di mucche, tutta la decennale fatica di Papà Alcide e della famiglia sta andando rapidamente in fumo. La resa è inevitabile.
Vengono arrestati tutti i componenti della “banda Cervi”: i sette figli maschi di Alcide, il padre stesso, Quarto Camurri, Dante Castellucci (Facio) e il russo Anatolij Tarassov, più 3 soldati alleati unitisi al gruppo partigiano: i sudafricani John David Bastiranse (Basti) e John Peter De Freitas (Jeppy), l’irlandese Samuel Boone Conley. Le loro strade si dividono presto, perchè ai soldati stranieri viene riservato un trattamento migliore. Lo stesso “Facio”, fingendosi francese, non verrà trattenuto dalle milizie reggiane. Molti di loro proseguiranno l’esperienza partigiana sull’appenino. Ma queste, sono altre storie.
I SETTE FRATELLI CERVI
La sorte dei Cervi invece è quella di nemici dell’ordine pubblico. Ribelli sediziosi e comunisti; non va meglio al disertore della Milizia Volontaria Quarto Camurri, “italiano rinnegato” come recita la cronaca fascista della “brillante operazione di polizia militare”.
L’alba del 25 novembre è, negli occhi e nella memoria dei testimoni, ma anche dei conterranei dei Cervi, il vero consumarsi della tragedia. Mai prima di quel momento si era vista all’opera la macchina repressiva della RSI, mai il conflitto era arrivato così vicino. Per le 5 donne e i 10 bambini (alcuni in fasce) della casa ai Campirossi, sono i momenti della paura, del fuoco, del violento distacco dai propri affetti. Per la popolazione locale, il disvelamento del volto truce del fascismo in armi, disposto a tutto per il controllo del territorio.
In realtà la pianura reggiana era già immersa confronto in atto, tra le forze declinanti ma agguerrite del “nuovo” fascismo e la montante attivitàclandestina degli antifascisti organizzati. L’opzione delle armi, resa concreta dopo l’8 settembre, stava già portando i segnali di una lotta senza quartiere tra gappisti e repubblichini, alzando il livello dello scontro. I Cervi stessi fanno parte di quel movimento avanzato che all’indomani dell’Armistizio intende fare delle retrovie nazifasciste un luogo instabile, e della pianura reggiana un territorio ostile per gli occupanti e i collaborazionisti.
Ci sono dunque, molti antefatti a quelle due albe di violenza che portarono i Cervi al carcere di San Tommaso e un mese dopo al plotone di esecuzione. Il più importante di questi è la scelta precoce, radicale di opposizione al regime già a partire dagli anni ’30, nel culmine della parabola di consenso al Duce e all’impero coloniale. Per una famiglia di solide radici cattoliche, impegnata in politica già prima della dittatura, si tratta di una opzione naturale. Il fascismo aveva progressivamente spazzato via tutti i riferimenti pubblici che costituivano l’identità civile dei Cervi: Alcide, iscritto al Partito Popolare fino al 1921, e pure sensibile alla predicazione di Camillo Prampolini nelle campagne, ha educato i figli all’impegno coniugato alla fede. Dalla madre Genoeffa Cocconi, i 9 figli (si devono sempre aggiungere al computo le figlie Rina e Diomira) hanno preso l’amore per la lettura, l’inquietudine culturale e la sete di conoscenza. Sono autodidatti, i Cervi, spinti da un desiderio di emancipazione sociale che passa per il lavoro nei campi, l’innovazione nella stalla.
Da mezzadri ad affittuari, nel volgere del primo decennio fascista la già numerosa famiglia
Cervi cerca una strada nuova. Si trasferiscono nel 1934 al podere ai Campirossi, tra Caprara e Praticello. Che trasformano ad immagine e somiglianza delle loro ambizioni agricole moderne, delle loro letture scientifiche. Studiano, sperimentano, falliscono e riescono più volte. Con la stessa irrequieta dedizione, Aldo Cervi è il primo a maturare una compiuta coscienza antifascista; abbraccia l’ideologia comunista, lui che era stato un attivista in prima fila per l’azione cattolica locale. Ed è insieme a Didimo Ferrari, altro campeginese noto nella storia partigiana, che prende corpo l’idea di una Biblioteca Popolare. Libri per difendersi dallo sfruttamento, per essere liberi di pensare fuori dagli schemi: un’intuizione sorprendente per una famiglia di contadini, non certo di intellettuali; che aveva, però, sperimentato sul campo l’efficacia del sapere. Più studio significava più latte dalle mucche, più resa dei campi. Padroni del proprio lavoro, e così delle proprie idee.
Con ruoli e intensità diversi, tutta la famiglia partecipa alla marcia di Aldo verso lo scontro con il fascismo. Dalla lotta all’ammasso (il conferimento forzoso al regime di produzione agricola), passando per i primi volantini, Casa Cervi diventa un laboratorio di antifascismo applicato. Le informative su questa famiglia di irrequieti contadini, e di chiare simpatie comuniste, si accumulano sui tavoli della autorità. Non solo il terzogenito Aldo, ma anche Gelindo e Ferdinando sono fatti oggetto di segnalazioni e provvedimenti restrittivi tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40. Il cammino politico dei Cervi è complesso e articolato, risulta impossibile comprimerlo in poche righe. Ricalca lo stesso percorso carsico dell’antifascismo minoritario, delle avanguardie del movimento in quegli anni. Allo stesso tempo, ne presenta tratti unici, legati all’esperienza di riscatto sociale e produttivo.
Saranno gli incontri personali, nient’affatto casuali, a fare la differenza. Cosi come era stato con “Eros”, la movimentata gioventù antifascista si cerca e si ritrova nella clandestinità. Lucia Sarzi, attrice itinerante e già militante comunista, porterà ad Aldo e ai suoi fratelli nuovi spazi operativi, contatti, legami con i centri clandestini della nascente resistenza. Nel frattempo, i Cervi non rinunciano al loro progetto di agricoltura di progresso. Il primo trattore, una “macchina del futuro” in quegli anni, arriva nel ’39, seguito dal più potente Landini a testa calda due anni dopo. La stessa abitazione si amplia per contenere l’espansione produttiva del podere nel 1941.
Per loro, contadini di scienza di giorno e cospiratori di notte, non è certo facile abbandonare gli affetti domestici, la famiglia che nel frattempo si è completata di 4 spose e 10 bambini (23 persone in tutto). Ma sono tra i primi a farlo, pronti a rompere gli indugi già un mese dopo l’armistizio. Tanto precoce è la loro scelta, così lo è la loro irruenza per passare dalla propaganda all’azione. Anche in contrasto con gli altri compagni di lotta che attendono, pianificano, e non condividono l’approccio immediato della nascente “banda Cervi”. Aldo, Otello Sarzi, Dante Castellucci, Tarassov e altri Cervi saliranno in montagna nell’ottobre del 1943, non prima di aver trasformato la casa ai Campirossi in un centro di latitanza. Si alternano azioni in montagna (l’assalto alla caserma di Toano, l’incontro con Don Pasquino Borghi a Tapignola) e i “colpi” in pianura, come il disarmo del Presidio dei Carabinieri a San Martino in Rio e il fallito attentato al segretario del Partito Fascista Repubblicano Giuseppe Scolari. Sono gli ultimi, convulsi giorni dei Cervi liberi. La Resistenza è già una realtà, ma dal percorso incerto e ancora acerbo nel 1943, anche in una terra di passioni democratiche come Reggio Emilia. Spintasi oltre il confine della clandestinità, in un contesto non ancora strutturato e conflittuale, la banda Cervi rimane isolata. Ed ecco arrivare la cattura, dopo meno di 80 giorni dall’8 settembre.
Per restituirci l’umanità del primo sacrificio reggiano alla Resistenza, vale la pena, in conclusione, sfogliare le lettere che i fratelli scrivono a casa, nel mese di prigionia e interrogatori che li separa dall’esecuzione. Una fine forse attesa per alcuni (Aldo e i fratelli più “esposti”), inconcepibile per altri, improvvisa per tutti. Le prime raccomandazioni sono per il podere, il timore che la fatica del lavoro vada in fumo. Quasi che la parentesi della cattura sia solo una pausa dall’operosità dei campi e della stalla. Poi la consapevolezza, sempre più concreta, che i piani dei fascisti sono altri. Gli affetti lontani, la madre e le mogli, i figli. E’ un commiato sfilacciato e mai definitivo, quello che si consuma con la famiglia. Fino all’epilogo, che impedirà a Papà Cervi, loro compagno di cella fino alla fine, di congedarli prima della traduzione al poligono.
Il 28 dicembre 1943, nel modo peggiore possibile, cala il sipario sull’intervento diretto dei Cervi nella Resistenza reggiana. Un contributo folgorante e annichilito anzitempo. E inizia, da quel momento, il loro ruolo simbolico, che attraverserà tutta la storia della Liberazione locale, e oltre la guerra ne incarnerà il sacrificio e la dedizione.
Salvatore Quasimodo li ha resi immortali in questa poesia: “Ai Fratelli Cervi, alla loro Italia”. Ci pare il modo migliore per commemorarli, in questi giorni di festa, che sono anche di memoria. Perché un Paese senza memoria semplicemente è un Paese che non esiste. Sarà per questo che tentano in ogni modo di farci dimenticare. Ma noi resistiamo e ricordiamo.
In tutta la terra ridono uomini vili, principi, poeti, che ripetono il mondo in sogni, saggi di malizia e ladri di sapienza. Anche nella mia patria ridono sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria malinconia dei poveri. E la mia terra è bella d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure di pietra e di dolore, d’antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti il petto dei santi, le reliquie d’amore, bevono vino e incenso alla forte luna delle rive su chitarre di re accordano canti di vulcani. Da anni e anni vi entrano in armi, scivolano dalle valli lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange qui ancora il suo occhio spento da navigante dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura, vestono la morte e ridono i nemici familiari. Alcuni erano con me nel tempo dei versi d’amore e solitudine nei confusi dolori di lente macine e di lacrime. Nel mio cuore finì la loro storia quando caddero gli alberi e le mura tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d’amore, e anche questa è una lettera d’amore alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi non alle sette stelle dell’orsa: ai sette emiliani dei campi. Avevano nel cuore pochi libri, morirono tirando dadi d’amore nel silenzio. Non sapevano soldati filosofi poeti di questo umanesimo di razza contadina. L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore, non per memoria, ma per i giorni che strisciano tardi di storia, rapidi di macchie di sangue.
FIRENZE-“ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna
FIRENZE-Il Ratto delle Sabine il capolavoro di Susanna Benassi Giambologna (Douai 1529 – Firenze 1608) è lo pseudonimo di Jean De Boulogne artista di origini fiamminghe che a Firenze, alla corte dei Medici, diventò il più grande scultore manierista del suo tempo per l’ originalità delle sue sculture in marmo e bronzo. L’ opera più famosa del Giambologna è ” Il Ratto delle Sabine” (1574-1580).In origine, sembra che l’artista non volesse rappresentare il leggendario racconto citato da Tito Livio nella “Storia di Roma”, secondo cui Romolo, appena fondata la città cercò di venire a patti con le popolazioni vicine perché gli fornissero donne che procreando, popolassero l’Urbe, ma di fronte al netto rifiuto da parte degli interpellati, il Re di Roma, organizzò una grande festa per distrarli e rapi le loro donne. La scultura è nota anche col il titolo : ” Le tre età dell’uomo” e si sostiene che proprio questo fosse in realtà, il vero tema che l’artista volle raffigurare. Le tre figure, infatti, rappresentano un giovane uomo che tiene in alto, tra le braccia, una ragazza, mentre un uomo più vecchio, incastrato tra le sue gambe, cerca di ostacolarlo. La bellezza prorompente di questa incredibile scultura in marmo bianco, alta 4,10 metri, non si esplicita soltanto nell’estetica delle forme corporee e delle espressioni dei volti che pure trasmettono con forza il sentimento di lotta in cui il più forte ha la meglio e che sono alla base del tema rappresentato, ma anche e soprattutto nella struttura tecnica con cui è stata realizzata. Le figure, sono tre, perfettamente delineate, sembrano avvitarsi l’una sull’altra e come l’ombra di un unico corpo, ruotando e allungandosi, s’innalzano verso l’alto. Le mani dell’artista trasformano un monolite di notevoli dimensioni, in un capolavoro di leggerezza ed equilibrio che secondo i canoni manieristi non ha un fronte e un retro definiti, bensì è un tutt’uno significante da qualsiasi angolazione lo si osservi. Fu l’erudito Vincenzo Borghini che consigliò a Giambologna il titolo attuale. Affinché questa interpretazione fosse chiara a tutti, Giambologna scolpì sul piedistallo del gruppo scultoreo un bassorilievo raffigurante la Lotta dei Romani contro i Sabini. Il Ratto delle Sabine si trova nella Loggia dell’Orcagna, o Loggia dei Lanzi in Piazza della Signoria a Firenze.
“ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna “ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna “ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna “ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna “ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna “ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna “ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna “ Il Ratto delle Sabine” il capolavoro del Giambologna
Non ci lasceremo mai. Nella Resistenza e nella memoria- articolo di Amalia Perfetti
Questo è un libro prezioso, come lo sono i libri che raccontano le storie delle donne e degli uomini che hanno partecipato alla lotta di Liberazione del nostro Paese. Questo vale per chi scrive, ma penso di poter parlare anche a nome di quante e quanti come me hanno l’onore di conoscere Iole Mancini. Feltrinelli Editore “Un Amore partigiano” ha però un valore aggiunto. Tante volte abbiamo sentito questa straordinaria ragazza di 102 anni raccontare dei terribili giorni a via Tasso; tante volte l’abbiamo sentita descrivere la “fame nera” di quei nove lunghissimi mesi dell’occupazione di Roma, ma anche dell’amore per il suo Ernesto, Ernesto Borghesi, uno dei gappisti romani. Ed è bello sapere che ora i ricordi di Iole sono anche lì, nero su bianco, e possiamo condividerli tutte le volte che vogliamo.
Iole Mancini.Un amore partigiano
L’amore per Ernesto è il protagonista principale del libro, è il titolo a segnalarcelo subito e lei ci tiene moltissimo. Un sentimento nato in vacanza, in spiaggia, come nascono tanti amori. Era l’estate del 1937, alle Grotte di Nerone di Anzio, Iole aveva 17 anni. Ricorda tutto di quel momento e lo racconta a Concetto Vecchio che in questo libro ha raccolto le memorie di Iole. E questa è un po’ una storia nella storia: quella dell’incontro tra il giornalista e la partigiana. Quella tra Vecchio e Mancini doveva essere un’intervista per il 25 aprile del 2021 ma si è trasformata in un libro e in un’amicizia. Mesi di incontri, chiacchierate, ricordi, fotografie, letture, ricerche. Nel volume ritroviamo insieme alla narrazione della storia di Iole e di Ernesto, quella dei mesi della lotta di Liberazione a Roma e dell’amicizia che nasce tra il 2021 e il 2022 e si cementa a ogni presentazione. Lo abbiamo visto alla prima che si è svolta a Roma, presso la Casa della memoria e della storia, lo scorso 29 aprile e a quella di Colleferro il 3 giugno successivo. Tra loro è un dialogo che sul filo del racconto, del ricordo e dell’intesa continua oltre il libro. In qualche modo il libro, che pure è intenso, ricco di particolari, emozionante, è come se fosse l’inizio di un ragionamento ininterrotto.
Iole è generosa e attenta nel libro come nelle presentazioni (che ha fatto e vuole continuare a fare) nelle quali con i suoi occhi vispi cerca lo sguardo delle ragazze e dei ragazzi. Ed è a loro che vuole parlare in particolare: “raccontare quelle terribili storie, quei mesi così crudeli è importante – inizia così l’intervento di Iole nella presentazione romana –, perché i giovani non lo sanno, non conoscono la Resistenza e allora bisogna spiegare a loro com’era nata, come si è sviluppata in tutta Italia spontaneamente”, o ancora come scrive nel libro che “i giovani devono capire cos’è la dittatura, che può sempre tornare, sotto altre forme. Non immaginano neanche minimamente quel che abbiamo patito nei nove mesi dell’occupazione nazifascista, che tempo infame!”.
Il libro è un continuo intreccio tra la storia d’amore di Iole ed Ernesto e le azioni coraggiose dei gappisti romani, di una città che si ribella e fa rete; e poi gli arresti, le fucilazioni, l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Iole ed Ernesto si sposano “nell’ora più buia di Roma” il 5 marzo 1944: pochi giorni prima era stata uccisa Teresa Gullace, qualche giorno dopo, il 7 marzo, a Forte Bravetta sarebbero stati fucilati per rappresaglia dieci partigiani, tra i quali Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Toto Bussi. Erano giorni di paura e fame, resta difficile per noi oggi pensare di sposarsi proprio in quel clima. “Perché – chiede Vecchio a Iole Mancini – celebrare il matrimonio proprio in quel momento livido, con gli Alleati sbarcati ad Anzio da due mesi ma incapaci di avanzare verso la Capitale? I nazisti, sempre più efferati, davano la caccia agli oppositori con rastrellamenti a tutte le ore”. “Proprio per questo! – risponde la partigiana – per essere almeno marito e moglie nel caso fosse avvenuto l’irreparabile”.
Per Iole ed Ernesto non avvenne l’irreparabile, ma furono mesi sempre più difficili, segnati prima l’arresto di lui poi dalla fuga e poco dopo dall’arresto di Iole che finisce a via Tasso per 10 lunghissimi giorni: lei resiste, non parla, continua a dire – è Priebke a interrogarla – che Ernesto “sta a regina Coeli”.
Arriverà il 4 giugno 1944, la Liberazione di Roma. Sarà il destino a salvare Iole, ma è una storia, questa, che si deve leggere o ascoltare con le parole di una testimone straordinaria di mesi difficili, lunghissimi, ma nei quali si costruiva la libertà. E Iole ricorda sempre che “la libertà è una parola per me preziosa, perché significa la vita”. In questo libro di vita ce n’è tanta, quella difficile dei tempi difficili e bui nei quali però mai era venuta meno la speranza di un mondo migliore. Le parole di Iole ci invitano a continuare a farlo e a non abbassare mai la guardia, a partecipare.
Abbiamo bisogno di leggere e conoscere storie come quelle di Iole Mancini, che magari faranno venire la voglia di saperne di più e di guardare le città e i luoghi in cui viviamo con occhi diversi e riconoscenti, proprio come dice Concetto Vecchio parlando di Roma dopo averla “percorsa” attraverso gli occhi di Iole e di quante e quanti hanno raccontato quei mesi terribili sì, ma di solidarietà, speranze, coraggio e amore.
Amalia Perfetti, presidente della sezione Anpi Colleferro “La Staffetta Partigiana” e componente della presidenza Anpi provinciale di Roma-
Fonte–Patria Indipendente- Periodico dell’ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
ANPI –Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Foto Gallery
Roma, Casa della memoria e della storia. Al centro Iole Mancini e Concetto Vecchio, con loro Marina Pierlorenzi, vicepresidente comitato provinciale Anpi Roma, che ha moderato l’incontro, e Fabrizio De Sanctis, presidente del comitato provinciale Anpi Roma e dirigente nazionale dell’associazione dei partigiani-Colleferro (RM). Iole Mancini e Concetto Vecchio insieme ad Amalia Perfetti (in piedi con il fazzoletto Anpi al collo), presidente della sezione locale dei partigiani e autrice della recensione, e a tanti giovani che non sono voluti mancare alla presentazione del libro-Iole ed Ernesto sposiUna bellissima foto di Iole Mancini, ragazza partigiana di 102 anni…ANPI- Comitato antifascista della SABINA
Castelnuovo di Farfa e La guerra dei confini con l’Abbazia di Farfa
Articolo di Franco Leggeri
Articolo di Franco Leggeri–Castelnuovo di Farfa e Abbazia di Farfa-Confine è una parola pericolosa, perché appartiene in primo luogo alla semantica della chiusura; ma come tutte le parole “sol che rifletta sulle loro vibrazioni e se ne interroghi la perenne ambiguità” sa dire altro : esprime anche il senso opposto dell’apertura: è linea che garantisce la nostra identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza di ciò che siamo, si può guardare oltre ; è la “provincia”, la quale , appena viva consapevolmente la sua identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza spinge lo sguardo oltre i suoi limiti. La premessa è per introdurre alla storia e a una guerra di secoli tra gli abitanti di Castelnuovo e l’Abbazia di Farfa. Si narra che più volte i castelnuovesi spostarono i confini, cippi di pietra, e li gettassero nei fossi. La “guerra dei confini” portò anche ad una scomunica da parte della Chiesa di Roma nei confronti dei castelnuovesi. In verità i castelnuovesi più e più volte malmenarono i frati dell’Abbazia e :“gli abitanti di essa, servi, garzoni, stallieri ecc. “ –“Alle parole seguirono i fatti, e le mani si levarono e colpirono a sangue i monaci che malconci si rifugiarono in chiesa, e qui furono curati dalle ferite riportate nello scontro con gli abitanti di Castelnuovo, quel Borgo di uomini duri e forti…” La questione dei confini fu , finalmente, risolta con il Regio decreto del 6 agosto 1937-XV. N.1695; “Rettifica di confine fra i comuni di Castelnuovo di Farfa e di Fara in Sabina, in provincia di Rieti”.
Abbazia di Farfa
. Con il Regio Decreto vennero, finalmente, riconosciute le ragioni degli abitanti di Castelnuovo di Farfa. La “QUESTIONE CONFINI” durava dal medioevo…risolta dopo quattro secoli. I castelnuovesi non sono mai stati servi e sottomessi alle prepotenze dei frati dell’Abbazia e qui inizia un altro capitolo relativo alla guerra del sale e “dazi & balzelli” che si dovevano pagare ai monaci dell’Abbazia. ……………………………………………………………………………………….
I confini tra Castelnuovo di Farfa e Poggio Nativo potrebbero essere stati rivisti nel 1946, (Nota a chiarimento dell’imprecisione non mi è stato consentita la consultazione dell’Archivio di Castelnuovo di Farfa), a seguito del distacco della frazione di Monte Santa Maria dal comune di Toffia , distacco richiesto sin dall’8 ottobre 1922 e mai concesso. Nel 1945 il 14 settembre la Democrazia Cristiana al fine di contrastare la Sinistra di Poggio Nativo ne sancì il distacco definitivo così come si legge nel verbale del consiglio comunale di Toffia che riporto integralmente:
” Che non ostante i proventi della sovrimposta di terreni e fabbricati della frazione a quelli degli altri tributi comunali, il bilancio da alcuni anni pareggia col contributo della Stato; Che in conseguenza senza i proventi di cui sopra il Comune di Toffia non potrebbe più reggersi, mentre il Comune di Poggio Nativo ne avrebbe immensi vantaggi finanziari, che verrebbero a migliorare ancor più la sua ben nota floridezza economica; Che si hanno buoni motivi di ritenere che la domanda dei frazionisti di Monte Santa Maria sia stata principalmente determinata dalla situazione politica creatasi nel Comune, in quanto nella frazione predomina il Partito Democratico Cristiano, mentre nel capoluogo predominano i partiti di sinistra;
per le ragioni di cui sopra
La Giunta
Ad eccezione del rappresentante della Frazione di Monte Santa Maria
Ad unanimità Delibera
Di esprimere parere contrario al distacco della Frazione stessa dal Comune di Toffia.
Letto confermato e sottoscritto:
il Sindaco Leo Mancini
la Giunta:Paolini Guido-Ferretti Alfonso-Capparoni Pietro.
Molto interessante è il sistema escogitato dai castelnuovesi, opera di ingegneria idraulica CONTADINA, al fine di sfuggire al monaco “PISCIONARIO” addetto alla riscossione del “dazio” sui “diritti di pesca” relativi al fiume FARFARIO ecc.
Dal libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana ConcasCastelnuovo di Farfa e i suoi particolariCASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACastelnuovo di Farfa (Rieti) –Abbazia di FARFAAbbazia di FARFAABBAZIA di FARFAABBAZIA di FARFAIL TESORO DELL’ABBAZIA DI FARFAABBAZIA di FARFA
La guerra civile spagnola ha rappresentato, per una lunga fase del Novecento, il paradigma stesso del concetto di guerra civile.
Difficilmente in altri momenti storici si è determinata una frattura così netta, così evidente e così ben delineata all’interno di uno stesso contesto nazionale.
Alessandro Barile-IL FRONTE ROSSO
Due fazioni, quantitativamente e geograficamente simili, si contrapposero per tre lunghi anni dando vita a una vicenda giustamente descritta come «epopea» da molti commentatori.
Varie volte definita come «ultima grande causa» o «momento definitivo nel cammino verso la seconda guerra mondiale», la guerra civile spagnola travalicò velocemente i confini iberici, diventando il terreno di scontro su cui la nascente ideologia fascista sferrava un attacco senza precedenti contro il campo comunista e libertario.
Con l’ausilio di preziosi documenti e attraverso un’analisi avvincente, Il fronte rosso ricostruisce la storia della guerra civile spagnola concentrandosi sul punto di vista del movimento operaio e delle sezioni dell’Internazionale Comunista.
Una scelta decisiva, sia per comprendere la dimensione europea del conflitto, sia per dare voce a quella parte rilevante della popolazione spagnola che, insorgendo, scelse di rispondere con la lotta armata al proditorio colpo di stato fascista.
La guerra civile spagnola (in spagnoloGuerra civil española, nota in Italia anche come guerra di Spagna)[4] fu un conflitto armato nato in conseguenza al colpo di Stato militare del 17 luglio1936, che vide contrapposte le forze nazionaliste guidate da una giunta militare, contro le forze del legittimo governo della Repubblica Spagnola, sostenuta dal Fronte popolare, una coalizione di partiti democratici che aveva vinto le elezioni nel febbraio precedente. Obbedendo a un piano prestabilito, la guarnigione militare di stanza nel Marocco spagnolo si era ribellata al governo della Repubblica, e nei tre giorni successivi un gran numero di unità militari al comando di cospiratori si sollevarono anche sul territorio metropolitano, cercando di assumere il controllo di più vaste aree del paese e di saldarsi le une con le altre.
Il capo del governo, Santiago Casares Quiroga, incapace di trovare una soluzione alla crisi, si dimise due giorni dopo l’inizio del colpo di Stato a favore di Diego Martínez Barrio. Questi, messosi in contatto con il generale Emilio Mola, il principale artefice del golpe, fu informato dallo stesso che i cospiratori non intendevano neppure parlare di una soluzione pacifica, manifestando così la volontà di dare inizio a una spietata guerra civile se il golpe non avesse avuto pieno successo. Martínez Barrio si dimise quello stesso 20 luglio, ma il colpo di Stato non ebbe l’esito sperato; Madrid, Barcellona, Bilbao, Valencia e Malaga, nonché le aree più industrializzate e ricche della Spagna, i Paesi Baschi, la Catalogna e le Asturie, rimasero sotto controllo delle forze fedeli al governo, mentre le forze nazionaliste controllavano le zone rurali della Castiglia, le zone montuose della Navarra e gran parte dell’Andalusia con la sua capitale Siviglia, unica grande città nelle mani degli insorti grazie all’azione del generale Gonzalo Queipo de Llano. Il nuovo governo di José Giral decise così di distribuire le armi al popolo, che in diverse località combatté efficacemente contro gli insorti, mentre sotto il profilo militare la sollevazione (alzamiento nel lessico militare spagnolo) delle forze nazionaliste presentava molte problematiche legate al mancato appoggio di buona parte dell’esercito metropolitano, che continuò a rimanere fedele alla Repubblica, privando i ribelli della superiorità numerica che avrebbe loro consentito di avere ragione delle forze popolari.
Sulla carta dunque si trovarono contrapposte forze più o meno della stessa proporzione, tuttavia i nazionalisti potevano contare sulla decisiva totalità dell’Armata d’Africa, il fulcro dell’esercito spagnolo, integrata dalle Fuerzas Regulares Indígenas marocchine comandate da ufficiali spagnoli, gli africanistas, tra i quali emerse rapidamente il generale Francisco Franco. L’armata stanziata in Africa ebbe bisogno di alcune settimane per trasferirsi sul territorio spagnolo, tempo in cui le forze repubblicane poterono coordinarsi e rinforzarsi; in tal modo l’alzamiento si trasformò in una logorante guerra civile che sconvolse il paese per quasi tre anni, fino al marzo 1939, quando Francisco Franco – che nel frattempo assunse la guida politica e militare di tutte le forze nazionaliste – entrò nella capitale Madrid, sancendo la fine della guerra civile e dando inizio a una repressione politica che si protrarrà per molti anni[5].
La fine del conflitto sancì contemporaneamente l’inizio della lunga dittatura oppressiva di stampo fascista del generale Franco, che durò fino al 1975, terminando con l’avvio della transizione democratica. Nella Spagna franchista i sindacati furono messi fuori legge; venne attuata una divisione classista dove braccianti e operai furono mantenuti in condizioni miserevoli a favore dei ricchi possidenti terrieri e dei dirigenti d’industria; gli scioperi furono vietati; migliaia di repubblicani furono imprigionati e costretti ai lavori forzati, mentre nelle campagne il regime di Franco si impegnò a restaurare la struttura sociale tipica dell’ancien régime, dove il potere era in mano all’aristocrazia terriera e alla Chiesa cattolica[6]. A livello internazionale la guerra civile spagnola riuscì a catalizzare le simpatie della sinistra e della destra in Europa e nelle Americhe, nonostante la storia della Spagna fosse rimasta costantemente slegata da quella del continente nei secoli precedenti, per poi tornare una nazione periferica e isolata per tutta la durata del regime franchista. Dal 1936 al 1939 però la Spagna divenne il simbolo di una lotta globale dove da una parte vi era la sinistra e la giustizia sociale, e dall’altro lo schieramento della reazione, ispirato dalla Chiesa cattolica, dalle forze monarchiche e di destra, che si opponevano alle riforme sociali[7].
Questo conflitto coinvolse vecchie e nuove potenze internazionali, soprattutto Regno Unito, Francia, Germania, Italia e Unione Sovietica, che direttamente o indirettamente si confrontarono nelle vicende spagnole, sia a livello diplomatico, sia con un sostegno concreto in uomini e armi alle due fazioni. Nonostante la politica di appeasement proposta da Regno Unito e Francia, che si proponeva di evitare qualsiasi ingerenza nel conflitto – ma che di fatto favorì le forze nazionaliste – le altre tre potenze fornirono grossi quantitativi di armi e uomini alle parti in lotta: l’Italia fascista e la Germania nazista ebbero un peso determinante a favore della causa nazionalista, mentre l’Unione Sovietica si impegnò a fornire armi alla Repubblica. Allo stesso tempo migliaia di volontari spinti dagli ideali di libertà e democrazia si recarono a combattere in Spagna nelle file dei repubblicani, dando vita alle Brigate internazionali, che comprendevano uomini di circa cinquanta nazionalità diverse, i quali diedero un importante contributo militare e morale alle forze armate repubblicane, ottenendo allo stesso tempo risalto internazionale, dovuto alla militanza e all’appoggio dato loro da decine di intellettuali antifascisti.
La xilografia e i grandi interpreti sardi- Cristoforo Puddu
La xilografia, significativo e rappresentativo linguaggio incisorio delle tradizioni culturali dell’Isola, ha avuto grandi e brillanti interpreti tra gli artisti sardi del ’900.
La xilografia e i grandi interpreti sardi
La xilografia (dal greco: “legno/scrivo”) è un’arte antica e i legni incisi per decorare stoffe erano diffusi già nell’antico Egitto ed adottati nelle produzioni dei Copti nel V secolo d.C.
Le prime stampe xilografiche su carta sono realizzate in Cina intorno al secolo VIII, mentre in Europa si sviluppa la tecnica dell’incisione con la diffusione della carta: nel XIV secolo si producono figure di santi e immagini votive, carte da gioco e successivamente le illustrazioni per i primi volumi a stampa. Nel XV secolo si consolida in Italia e Germania la produzione di libri illustrati con le xilografie.
SILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINA
Per l’incisione su legno della xilografia vengono usati alberi da frutto (melo, pero, ciliegio) o di piante di maggior durezza come il corniolo, il sicomoro, il bosso ed il sorbo. La matrice della tavola da incidere a rilievo, con l’uso di strumenti adatti quali sgorbie, bulini, lame e scalpelli vari, può essere tagliata longitudinalmente (legno di filo) o trasversalmente (legno di testa) al tronco: la xilografia inchiostrata permette la realizzazione a stampa del soggetto immagine-testo su carta, seta e diversi tessuti.
L’immediata comunicatività della xilografia, con un significativo e rappresentativo linguaggio incisorio delle tradizioni e cultura dell’Isola, ha avuto dei grandi e brillanti interpreti tra gli artisti sardi del ’900.
I nomi più validi e ricorrenti sono quelli di Mario Mossa De Murtas (1881 – 1966), grande xilografo nato a Sassari, emigrato in Brasile realizzò una luminosa carriera;
Giuseppe Biasi (1885 – 1945), uno dei massimi artefici dell’arte incisoria in Sardegna;
Mario Delitala (1887 – 1990), eccelso animatore ed interprete dell’arte sarda del Novecento;
Carmelo Floris (1891 – 1960), un gigante nell’arte dell’incisione sul legno e sui metalli;
Battista Ardau Cannas (1893 – 1984), artista dalla grande produzione incisoria, legittimata da numerosi riconoscimenti alle Biennali di Venezia ed esposizioni internazionali (Varsavia 1936, Londra 1950);
Remo Branca (1897 – 1988), xilografo di fama nazionale ed internazionale e “uomo di ferrata e solida cultura umanistica”;
Stanis Dessy (1900 – 1992), artista di chiara fama ed esimio insegnate d’arte;
Antonio Mura (1902 – 1972), raffinato incisore della scuola sarda e fedele cultore della disciplina.
E proprio a Remo Branca -autore tra l’altro di fondamentali testi come “La xilografia in Sardegna”, “Breviario di xilografia” e “Incisori sardi”- si deve una vera e propria scuola d’incisori iglesienti, che s’imposero per la grande capacità di rappresentare le tematiche di carattere sociale, la vita campestre e la durezza del lavoro dei minatori.
Conquistarono ed hanno un ragguardevole ruolo nella storia dell’arte incisoria sarda gli stimati Mansueto Giuliani, Gianni Desogus (in arte Xiandès), i fratelli Enea e Giovanni Marras, Carlo Murroni e Foiso Fois; tutti discepoli del Branca che si era stabilito ad Iglesias, dal 1925 al 1936, per motivi politici e “sfuggire ai rigori del regime fascista a Sassari”, a cui aveva espresso la sua chiara opposizione come giornalista e direttore del giornale “Libertà”.
Un mio personale ricordo corre anche alla figura dell’artista Vincenzo Becciu (s’amigu de sos poetas) di Ozieri, che negli anni Settanta e Ottanta “alimentò” di trofei xilografici, di gran pregio e valore, i maggiori concorsi letterari in limba.
Cristoforo Puddu
SILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINASILOGRAFI SARDI 1935-BIBLIOTECA DEA SABINA
Dal libro: Fotoreportage per raccontare Roma e la sua Campagna Romana
di Franco Leggeri.
La bellezza, la poesia e la “bioarchitettura” del Viale dei pini nella Campagna Romana. V.le del sito Archeologico Torre della BOTTACCIA-Brano e Fotoreportage tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
L’ecologia è un concetto che fa parte della coscienza universale, di cui dobbiamo essere ogni giorno sempre più consapevoli. Il grande scienziato della natura e poeta Goethe riassume tale consapevolezza con queste parole: “Nulla si impara a conoscere, se non ciò che si ama, e più forte è l’amore tanto maggiore sarà la conoscenza”. Imparare a “godere” dello spazio naturale che ci circonda è uno strumento di straordinario valore per diffondere e sedimentare nell’agire una vera e propria cultura della sostenibilità. In tal senso, probabilmente la più spontanea e potente istanza pedagogica è proprio il paesaggio, capace di impartire una sua prima e fondamentale educazione implicita: il paesaggio è infatti come scrive , molto bene, nel suo saggio ”Paesaggio Educatore” il Regni R. “ maestro di una cultura dell’ascolto dell’armonia dell’uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare”(Ed.Armando -2009). L’ammirazione per lo splendore della natura è il motore che genera e, conseguentemente, moltiplica in ognuno di noi , sin dalla più giovane età, i sentimenti di affezione , rispetto e curiosità verso il patrimonio ambientale che ci circonda. D’altra parte tale affezione e desiderio di cura tutela non può che scaturire dalla conoscenza e dalla relazione . Ci è istintivamente estraneo ciò che non conosciamo, con cui non possiamo dialogare per assenza di codici condivisi e a cui non siamo socializzati . L’estraneità si supera a mio avviso, solo attraverso un flusso comunicativo e relazionare che deve essere continuamente alimentato e che dà luogo ad una empatia prodromica a comportamenti di cura , tutela e di salvaguardia . Per recuperare i “codici” che ci consentono , nell’ascolto, di comprendere il linguaggio della natura bisogna , infatti, conoscere quest’ultima, perché solo coltivando una conoscenza profonda e radicata , ma anche istintiva, di qualcosa possiamo affezionarci ad essa, amarla e far crescere in noi il desiderio spontaneo di difenderla e preservarla.
Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
Campagna romana
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.