Laura Frausin Guarino (Traduttore), Teresa Lussone (Traduttore)
Tempesta in giugno romanzo di Irène Némirovsky
Editore Adelphi
Descrizione-
«Irène Némirovsky» ha scritto Pietro Citati «possedeva i doni del grande romanziere, come se Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Flaubert, Turgenev le fossero accanto e le guidassero la mano». Per tutti coloro che dal 2005 (anno della pubblicazione di “Suite francese” in Italia) hanno scoperto, e amato, le sue opere, questo libro sarà una sorpresa e un dono: perché potranno finalmente leggere la «seconda versione» – dattiloscritta dal marito, corretta a mano da lei e contenente quattro capitoli nuovi e molti altri profondamente rimaneggiati – del primo dei cinque movimenti di quella grande sinfonia, rimasta incompiuta, a cui stava lavorando nel luglio del 1942, quando fu arrestata, per poi essere deportata ad Auschwitz. Una versione inedita, e differente da quella, manoscritta, che le due figlie bambine si trascinarono dietro nella loro fuga attraverso la Francia occupata, e che molti anni dopo una delle due, Denise, avrebbe devotamente decifrato. Qui, nel narrare l’esodo caotico del giugno 1940, e le vicende dei tanti personaggi di cui traccia il destino nel suo ambizioso affresco – piccoli e grandi borghesi, cortigiane di alto bordo, madri egoiste o eroiche, intellettuali vanesi, uomini politici, contadini, soldati –, Némirovsky elimina tutte le fioriture, asciuga e compatta; non solo: ricorrendo alla tecnica del montaggio cinematografico, limitandosi a «dipingere, descrivere», sopprimendo ogni riflessione e ogni giudizio, conferisce a questo allegro con brio un ritmo più sostenuto – e riesce a trattare la «lava incandescente» che ne costituisce la materia con una pungente, amara comicità.
Yasar Kemal è uno degli scrittori più importanti del nostro tempo è nella Black list curda-
Fonte-Il Manifesto
Yasar Kemal
-Una pagina nera della storia della Svezia-
Black list curda e Nato. Yasar Kemal è uno degli scrittori più importanti del nostro tempo. Lascia che i cardi brucino! , il suo libro d’esordio deve essere stato letto da milioni di persone
Olle Svenning *
Yasar Kemal è uno degli scrittori più importanti del nostro tempo. Lascia che i cardi brucino! , il suo libro d’esordio deve essere stato letto da milioni di persone. Kemal, cresciuto in una famiglia curda.
È stato perseguitato, imprigionato e picchiato dai servizi di sicurezza e dall’esercito turchi.
Lui, comunista e attivista per la libertà dei curdi, è stato bollato come terrorista. Kemal
fu costretto all’esilio e fu ricevuto dalla Svezia nel 1977 e poté trasferirsi ad Årstavägen 29 a Stoccolma.
La strada per un immaginario successore di Kemal è chiusa oggi. Il governo svedese ha promesso al governo, simile a una dittatura, di Erdogan che Säpo, in collaborazione con il servizio di sicurezza turco, monitorerà i curdi, con particolare energia quelli che sono politicamente di sinistra e lavorano per un Kurdistan indipendente. Chi deve essere definito un “terrorista” e quindi può essere espulso dalla Svezia è deciso di concerto con Erdogan e il suo clan.
Nessun ministro svedese ha menzionato il terrorismo di Stato che la Turchia sta compiendo su larga scala contro i suoi cittadini.
Anche la libertà di stampa è sotto il controllo turco: nessuno è autorizzato a diffondere informazioni sugli attivisti curdi in Svezia.
Anche la politica dei partiti è regolata da Erdogan. Ai socialdemocratici non dovrebbe essere consentito di contribuire a un’organizzazione curda che è membro dell’Internazionale socialista e che ha combattuto l’Isis con grande successo.
Il periodo di questi scandali svedesi può essere associato al periodo più nero che abbiamo vissutodurante e dopo la seconda guerra mondiale.
Il governo ha fatto alcuni calcoli politicamente molto facili da capire: per essere protetti dall’ombrello nucleare degli Stati Uniti contro l’aggressione e la guerra russa, dobbiamo difendere e quasi elogiare un’autocrazia come la Turchia.
Il governo socialdemocratico non si è solo adattato alla Nato; ha anche sbriciolato o distrutto tutti i suoi documenti precedentemente critici sulla Turchia di Erdogan. Quel governo è stato presentato solo un paio di anni fa in un documento pubblico di 24 pagine del ministero degli Esteri. Scelgo alcune opinioni chiave: «la Turchia erode il rispetto dei diritti umani, pratica leggi di emergenza. La magistratura è erosa. La corruzione è diffusa. I diritti del sindacato fuori gioco.
Centrale è la seguente frase nel documento del ministero degli Esteri: «Le leggi contro il terrorismo ei crimini contro lo Stato, così come le calunnie del presidente, servono a mettere a tacere dissidenti e critici del regime».
Questi silenziosi e perseguitati, spesso imprigionati, includono i procuratori dell’opposizione democratica, la stragrande maggioranza della società civile, la stampa, la vita culturale e le persone Lgbtqi.
È con questo Paese, così ben presentato dal Ministero degli Affari Esteri, che stipuleremo un’alleanza militare, con la quale condivideremo una strategia sulle armi nucleari e alla quale invieremo armi senza alcuna restrizione.
Prezzo che il governo paga volentieri per l’adesione alla Nato. L’Alleanza della Difesa, che è il termine lusinghiero per questa alleanza militare che è in guerra da oltre mezzo secolo. La seconda forza militare dell’Alleanza atlantica, quella turca, si prepara a lanciare nuovi attacchi terroristici contro i curdi nel nord-est della Siria.
Mentre i principali eventi e guerre internazionali sono in corso, potrebbe comunque valere la pena porre una domanda importante a livello nazionale: quanti voti di sostegno riceveranno quest’autunno gli oppositori della NATO al Partito dei Verdi?
* È stato stretto collaboratore di Olof Palme e direttore di “Aftonbladet ”. Il testo per gentile concessione dell’autore, è tratto dal sito di “Aftonbladet”.
Ugo OJETTI -Lettera a John Dos Passos, Sulla Povera America.
Articolo scritto per la Rivista PEGASO N°8 del 1932 diretta da Ugo OJETTI
John Dos PassosUgo OJETTI -Lettera a John Dos Passos, Sulla Povera America.Ugo OJETTI -Lettera a John Dos Passos, Sulla Povera America.Ugo OJETTI -Lettera a John Dos Passos, Sulla Povera America.
John Dos Passos
Biografia di John Dos Passos -nacque a Chicago, nell’Illinois, il 14 gennaio 1896, frutto di una relazione adulterina tra John Randolph Dos Passos (1844-1917), un benestante avvocato statunitense, figlio di immigrati portoghesi originari di Madera, già sposato al tempo del concepimento del futuro scrittore, e Lucy Addison Sprigg Madison, casalinga statunitense originaria di Petersburg, in Virginia. Dopo la morte della moglie, il padre di John si sposò con la madre di Dos Passos, ma ne riconobbe la paternità soltanto quando costui ebbe compiuto l’età di 16 anni.
Giovanissimo, Dos Passos è un radicale, il che, negli Stati Uniti dell’epoca, significa soprattutto essere un anarchico. Non a caso, infatti, Dos Passos figura tra i più accaniti difensori di Sacco e Vanzetti, i due emigrati italiani implicati in un clamoroso processo per le loro idee politiche di tipo libertario. Egli compie gli studi a Harvard, dove si laurea nel 1916, e dopo il college inizia a studiare architettura, ma è ancora molto giovane quando decide di dedicarsi interamente al giornalismo e alla narrativa. Sopraggiunta intanto la prima guerra mondiale, Dos Passos è dapprima sul fronte italiano, dove presta servizio nelle ambulanze della Croce Rossa francese, e in seguito nel corpo sanitario statunitense.
La fama
Dos Passos esordisce nel 1917 con One Man’s Initiation – 1917, pubblicato nel 1920, lo stesso anno di Di qua dal Paradiso () di .
Tre soldati
Con il suo secondo romanzo, Three Soldiers (I tre soldati) del 1921, lo scrittore si ritaglia un posto di rilievo tra i giovani autori del proprio tempo. John Andrews, un musicista che, stanco della propria libertà, decide, allo scoppio della Grande Guerra, di recarsi al fronte, convinto che il cameratismo e il campo di battaglia possano fargli ritrovare il senso della propria esistenza. Ma presto la vita militare trascorsa prima in America e poi in Francia, e la realtà della guerra lo sconvolgono tanto da spingerlo a disertare; mentre sta componendo una musica, ispirata dall’opera di Gustave Flaubert Le Tentation de Saint Antoine, la polizia lo arresta mentre i fogli della musica interrotta si disperdono nel vento, simbolico gesto della sua protesta estetica.
Manhattan Transfer
Nel 1925 lo scrittore pubblica Nuova York (Manhattan Transfer), in cui affronta il principio del collettivismo in modo più drammatico. Il romanzo si avvale di un frequente utilizzo del flusso di coscienza e di una tecnica narrativa particolare che l’autore perfezionerà poi nella trilogia USA. In esso si segue l’intrecciarsi, nell’arco di venti anni, delle vite di decine di personaggi appartenenti a vari strati sociali, che l’autore descrive mentre crescono, invecchiano, salgono o scendono sulla ruota della fortuna.
Tranne Jimmy Herf, il personaggio centrale del romanzo che riesce a fuggire dal divorante ingranaggio, tutti gli altri scompaiono risucchiati dalla città. Scritto con una prosa estremamente accurata, il libro non manca di perfette descrizioni di carattere impressionista, come “Il mozzo guardava le nuvole, steso sul dorso. Fluttuavano verso est, simili a grandi edifici ammassati, che rompevano a tratti la luce del sole, candida e brillante come carta argentata”.[1]
La trilogia USA
Con la trilogia USA, composta da The 42nd parallel (Il 42º parallelo), 1919 e The Big money (Un mucchio di quattrini), pubblicati rispettivamente nel 1930, 1932 e 1936, Dos Passos ritorna sul tema del collettivismo abbracciando questa volta tutta l’America. Dos Passos usa tecniche di scrittura sperimentali, inserendo ritagli di giornali, autobiografia, biografia e finzione realista per dipingere un panorama della cultura americana durante i primi decenni del XX secolo. Anche se ciascun romanzo è autonomo, la trilogia è progettata per essere letta come un’unica entità.
Le riflessioni sociali e politiche di Dos Passos espresse in questi romanzi sono profondamente pessimistiche, riguardo alla direzione politica e economica in cui si muovevano gli Stati Uniti; pochi dei suoi personaggi riescono a restare fedeli ai propri ideali durante la prima guerra mondiale. In 1919, l’autore parla del massacro di Centralia, Washington, avvenuto nel giorno commemorativo dell’armistizio della prima guerra mondiale. Questo scontro sanguinoso, determinato dalla paura del “pericolo rosso”, aveva contrapposto i Wobblies, lavoratori dell’IWW (Industrial Workers of the World), ai reduci dell’American Legion. A questo evento s’ispira Chaim Potok quando, in L’arpa di Davita, racconta di un giornalista statunitense morto in Spagna nel massacro di Guernica e che in gioventù era stato colpito profondamente dal massacro di Centralia.
La trilogia Columbia
Insieme a Ernest Hemingway nel 1937 prende parte alla guerra civile spagnola, nelle file dei repubblicani. I due amici scrivono insieme il film-documentario Terra di Spagna (The Spanish Earth), diretto dal regista Joris Ivens. L’assassinio a Madrid ad opera dei sovietici dell’amico José Robles, che gli aveva tradotto i romanzi in Spagna, sospettato di essere una spia dei franchisti solo perché il fratello combatteva con i nazionalisti, lo allontanano dal comunismo e rompe anche con Hemingway. Nel 1939 pubblica Le avventure di un giovane americano, che narra di un disincantato giovane radicale americano che combatte a fianco della Seconda repubblica spagnola durante la Guerra Civile dove verrà ucciso. È il primo racconto della trilogia detta del distretto di Columbia, cui seguono Numero uno (1943) e Il grande paese (1949).
Alla fine degli anni trenta, Dos Passos scrive una serie di articoli critici verso il comunismo come teoria politica, dopo aver già ritratto nel 1936 in The Big Money un comunista idealista che gradualmente logorato e poi distrutto dal pensiero unico del partito. In quegli anni il comunismo sta guadagnando consensi in Europa, in quanto oppositore del fascismo, e gli scritti di Dos Passos subiscono una brusca flessione delle vendite. Le sue opinioni politiche, che avevano sempre sostenuto i suoi lavori, si spostano intanto verso la destra più conservatrice. Tra il 1942 e il 1945, durante la seconda guerra mondiale, è corrispondente di guerra.
Il dopoguerra
Nel 1947 è eletto alla American Academy of Arts and Letters. Quell’anno sua moglie, Katharine Smith, con cui era sposato da 18 anni, muore in un incidente stradale, in cui Dos Passos perde un occhio. Dos Passos si risposa nel 1949 con Elizabeth Hamlyn Holdridge (1909-1998), da cui ha Lucy Hamlin Dos Passos, nata nel 1950. Sempre più a destra, arriva ad ammirare McCarthy nei primi anni cinquanta e negli anni ’60 sostiene alle presidenziali i repubblicani Goldwater e Nixon.
Un riconoscimento europeo per la sua carriera letteraria gli arriva solo nel 1967, quando l’Accademia dei Lincei lo invita a Roma per ritirare il prestigioso Premio Internazionale Feltrinelli per i suoi meriti.[2] Continua a scrivere fino alla morte, sopraggiunta a Baltimora nel 1970. Dos Passos scrisse quarantadue romanzi, poesie, saggi e opere teatrali. Fu anche pittore.
Note
^ John Dos Passos, Nuova York, Dall’Oglio editore, Milano, 1946 pag 21
^Premi Feltrinelli 1950-2011, su lincei.it. URL consultato il 17 novembre 2019.
Bibliografia
Against American Literature (1916, saggio)
One Man’s Initiation: 1917 (1920, romanzo), tr. Giorgio Monicelli, Iniziazione, Elmo, Milano 1949; tr. Alessandro Pugliese, Iniziazione di un uomo, Marietti, Bologna 2020
Letters and Diaries 1916-1920 (in Travel Books and Other Writings, 1916-1941)
Three Soldiers (1921, romanzo), tr. Lamberto Rem Picci, Il mondo fuori casa, Jandi Sapi, Roma 1944; tr. Luigi Ballerini, I tre soldati, Casini, Roma 1967
Rosinante to the Road Again (1922, articoli di viaggio)
The Baker of Almorox oppure Young Spain (1917)
Antonio Machado: Poet of Castile (1920)
Farmer Strikers in Spain oppure Cordova No Longer of the Caliphs (1920)
An Inverted Midas (1920)
America and the Pursuit of Happiness (1920), parte di The Donkey Boy
A Catalan Poet (1921)
A Gesture of Castile oppure A Gesture and a Quest (1921)
Benavente’s Madrid (1921)
Talk by the Road (1921)
Toledo (1922)
Andalusian Ethics (1922, parte di The Donkey Boy
A Pushcart at the Curb (1922, poesie)
Streets of Night (1923)
Manhattan Transfer (1925, romanzo), tr. Alessandra Scalero Nuova York, Corbaccio, Milano 1932; Dall’Oglio, Milano 1946; Mondadori, Milano 1953; come Manhattan Transfer, Baldini e Castoldi, Milano 2002; collana Romanzi e Racconti, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003-2006-2012-2014.
Is the “Realistic” Theatre Obsolete? (1925) saggio
Facing the Chair. Story of the Americanization of Two Foreignborn Workmen (1927, saggio), tr. Filippo Benfante e Piero Colacicchi, Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2005
Orient Express (1927, articoli di viaggio, trad. it. di Maurizio Bartocci, coll. meledonzelli, Donzelli editore, 2011 ISBN 978-88-6036-574-3)
Out of Turkish Coffee Cups (1921)
Constant (1921)
In a New Republic (1921)
Red Caucasus (1921)
One Hundred Views of Ararat (1922)
Of Phaetons oppure Opinions of the Sayyid
Table D’Hôte (1926), con la poesia Crimson Tent
Homer of the Transsiberian (1926, su Blaise Cendrars)
The Pit and the Pendulum oppure The Wrong Set of Words (1926)
Relief Map of Mexico (1927)
Zapata’s Ghost Walks (1927)
Rainy Days in Leningrad (1929)
The New Theater in Russia (1930), parte di Some Sleepy Nights Round Moscow
Harlan: Working Under the Gun oppure Harlan County Sunset (1931)
Red Day on Capitol Hill (1931), parte di Views of Washington
Washington and Chicago (1932), parte di Views of Washington
Out of the Red with Roosevelt (1932), parte di On the National Hookup
Detroit, City of Leisure (1932)
Doves in the Bullring (1934)
Brooklyn to Helingsfor (1934)
The Radio Voice (1934), parte di On the National Hookup
Notes on the Back of a Passport (1934), parte di Rainy Days in Leningrad
Between Two Roads (1934)
The Unemployment Report (1934), parte di More Views of Washington
Another Redskin Bites the Dust oppure Emiliano Zapata (1934)
Spain Gets Her New Deal oppure Topdog Politics e Underdog Politics (1934)
Washington: The Big Tent1934), parte di More Views of Washington
Another Plea for Recognition oppure The Malaria Man (1934)
Mr. Green Meets His Constituents (1934), parte di More Views of Washington
Grosz Comes to America (1936, saggio)
Farewell to Europe! (1937, saggio)
Journeys Between Wars (1938, articoli di viaggio in precedenza pubblicati in volume anche con titolo diverso, o qui riuniti, oltre a:)
The Villages are the Heart of Spain (1937)
Introduction to Civil War oppure A Spring Month in Paris (1937), tr. Paola Ojetti, Introduzione alla guerra civile, Mondadori, Milano 1947 (contiene altri articoli)
Spanish Diary (1937)
Road to Madrid (1937) oppure Coast Road South e Valencia—Madrid
Room and Bath at the Hotel Florida oppure Madrid Under Siege (1938)
U.S.A. (1938, trilogia dei romanzi:)
The 42nd Parallel (1930), tr. Cesare Pavese, Il quarantaduesimo parallelo, Mondadori, Milano 1934; Rizzoli, Milano 2008
Nineteen Nineteen oppure 1919 (1932), tr. Glauco Cambon, Millenovecentodiciannove, Mondadori, Milano 1951
The Big Money (1936), tr. Cesare Pavese, Un mucchio di quattrini, Mondadori, Milano 1938
The Death of José Robles (1939, saggio)
To a Liberal in Office (1941, saggio)
The Ground We Stand On. Some Examples from the History of a Political Creed (1941, saggio), tr. Giorgio Monicelli, Le vie della libertà, Mondadori, Milano 1948
State of the Nation (1944)
Tour of Duty (1946, romanzo), tr. Glauco Cambon, Servizio speciale, Mondadori, Milano 1950; tr. Giancarlo Buzzi, Servizio speciale, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008
The Prospect before Us (1950)
District of Columbia (1952, trilogia dei romanzi:)
Adventures of a Young Man (1939), tr. Enzo Giachino, Le avventure di un giovane americano, Rizzoli, Milano 1984
Number One (1943), tr. Fluffy Mella Mazzucato, Numero uno, Mondadori, Milano 1952
The Grand Design (1949), tr. Luigi Brioschi, Il grande paese, Rizzoli, Milano 1968; De Agostini, Novara 1986
Chosen Country (1951, romanzo), tr. Glauco Cambon, Riscoperta dell’America, Mondadori, Milano 1954; Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006
Most Likely to Succeed (1954, romanzo), tr. Lydia Lax, Un uomo che promette bene, Vincitorio, Milano 1972
The Head and Heart of Thomas Jefferson (1954, saggio), tr. Rodolfo del Minio, Thomas Jefferson, Mondadori, Milano 1963
The Men Who Made the Nation (1957, saggio)
The Great Days (1958, romanzo), tr. Bruno Oddera, Giorni memorabili, Feltrinelli, Milano 1963
Prospects of a Golden Age (1959)
Midcentury (1961, romanzo), tr. Bruno Oddera, A metà secolo, Feltrinelli, Milano 1965
Mr. Wilson’s War (1962)
Brazil on the Move (1963)
The Best Times: An Informal Memoir (1966, autobiografia), tr. Lina Angioletti, La bella vita, Palazzi, Milano 1969; come Tempi migliori, SugarCo, Milano 1991; Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004
The Shackles of Power. Three Jeffersonian Decades (1966, saggio)
World in a Glass. A View of Our Century From the Novels of John Dos Passos (1966)
The Portugal Story (1969)
Century’s Ebb: The Thirteenth Chronicle (1970)
Easter Island: Island of Enigmas (1970)
The Fourteenth Chronicle: Letters and Diaries of John Dos Passos, a cura di Townsend Ludington (1973)
John Dos Passos: the Major Nonfictional Prose, a cura di Donald Pizer (1988)
Travel Books and Other Writings, 1916-1941, a cura di Townsend Ludington (2003)
Lettres à Germaine Lucas Championnière –
Ugo Ojetti
Biografia di Ugo Ojetti –
Figlio della spoletina Veronica Carosi e del noto architetto Raffaello Ojetti, personalità di vastissima cultura, consegue la laurea in giurisprudenza e, insieme, esordisce come poeta (Paesaggi, 1892). È attratto dalla carriera diplomatica, ma si realizza professionalmente nel giornalismo politico. Nel 1894 stringe rapporti con il quotidiano nazionalista La Tribuna, per il quale scrive i suoi primi servizi da inviato estero, dall’Egitto.
Nel 1895 diventa immediatamente famoso con il suo primo libro, Alla scoperta dei letterati, serie di ritratti di scrittori celebri dell’epoca[1] redatti in forma di interviste, genere all’epoca ancora in stato embrionale. Scritto con uno stile che si pone fra la critica ed il reportage, il testo viene considerato, e come tale fa discutere, un momento di analisi profonda del movimento letterario dell’epoca. L’anno seguente Ojetti tiene a Venezia la conferenza “L’avvenire della letteratura in Italia”, che suscita un vasto numero di commenti in tutto il Paese.
I suoi articoli diventano molto richiesti: scrive per Il Marzocco (1896-1899), Il Giornale di Roma, Fanfulla della domenica e La Stampa. La critica d’arte occupa la maggior parte della sua produzione. Nel 1898 inizia la collaborazione con il Corriere della Sera, che si protrae fino alla morte.[2]
Tra il 1901 e il 1902 è inviato a Parigi per il Giornale d’Italia; dal 1904 al 1909 collabora a L’Illustrazione Italiana: tiene una rubrica intitolata “Accanto alla vita”, che poi rinomina “I capricci del conte Ottavio” (“conte Ottavio” è lo pseudonimo con cui firma i suoi pezzi sul settimanale). Nel 1905 si sposa con Fernanda Gobba e prende domicilio a Firenze; dal matrimonio tre anni dopo nasce la figlia Paola. Dal 1914 abiterà stabilmente nella vicina Fiesole. Invece trova nella villa paterna di Santa Marinella (Roma), soprannominata “Il Dado”, il luogo ideale in cui riposarsi, trascorrere le sue vacanze e scrivere le sue opere.
Partecipa come volontario alla prima guerra mondiale. All’inizio della guerra riceve l’incarico specifico di proteggere dai bombardamenti aerei le opere d’arte di Venezia. Nel marzo 1918 fu nominato “Regio Commissario per la propaganda sul nemico”. Fu incaricato di scrivere il testo del volantino, stampato in 350 000 copie in italiano e in tedesco, che fu lanciato il 9 agosto, dai cieli di Vienna dalla squadriglia comandata da Gabriele D’Annunzio.[3]
Nel 1920 fonda la sua rivista d’arte, Dedalo (Milano, 1920-1933), dove si occupa di storia dell’arte antica e moderna. Dall’impostazione della rivista dimostra una sensibilità e un modo di accostarsi all’arte e di divulgarla diversi dai canoni del tempo. La rivista diventa subito occasione d’incontro tra critici, intellettuali, artisti come Bernard Berenson, Matteo Marangoni, Piero Jahier, Antonio Maraini, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Pietro Toesca, Lionello Venturi e Roberto Longhi. L’idea di base della rivista è che l’opera d’arte abbia valore di testimonianza visibile della storia e delle civiltà più di ogni altra fonte. Nel 1921 avvia una rubrica sul Corriere utilizzando lo pseudonimo “Tantalo”. Tiene la rubrica ininterrottamente fino al 1939.
Sul finire del decennio inaugura una nuova rivista, Pegaso (Firenze, 1929-1933). Infine, lancia la rivista letteraria Pan, fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina. Tra il 1925 e il 1926 collabora anche a La Fiera Letteraria. Tra il 1926 ed il 1927 è direttore del Corriere della Sera.
È tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925 ed è nominato Accademico d’Italia nel 1930. Fa parte fino al 1933 del consiglio d’amministrazione dell’Enciclopedia Italiana. Ojetti organizza numerose mostre d’arte e dà vita ad importanti iniziative editoriali, come Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi per l’editrice Treves e I Classici italiani per la Rizzoli. Sul significato dell’architettura nelle arti ebbe a dire:
«l’architettura è nata per essere fondamento, guida, giustificazione e controllo, ideale e pratico, d’ogni altra arte figurativa»
La finestra di Ojetti a villa Il Salviatino con una targa che lo ricorda
Collaborò anche con il cinema: nel 1939 firmò l’adattamento per la prima edizione sonora de I promessi sposi, che costituì la base della sceneggiatura per il film del 1941 di Mario Camerini.
Aderì alla Repubblica Sociale Italiana[4]; dopo la liberazione di Roma, nel 1944, fu radiato dall’Ordine dei giornalisti. Passò gli ultimi anni nella sua villa Il Salviatino, a Fiesole, dove morì nel 1946.
Antonio Gramsci scrisse che « la codardia intellettuale dell’uomo supera ogni misura normale ». Indro Montanelli lo ricordò sul: « È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell’Avanti! e del primo Popolo d’Italia, per l’editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l’articolo di arte e di cultura ».
Opere
Letteratura
Paesaggi (1892)
Alla scoperta dei letterati: colloquii con Carducci, Panzacchi, Fogazzaro, Lioy, Verga (Milano, 1895); ristampa xerografica, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1967.
Scrittori che si confessano (1926),
Ad Atene per Ugo Foscolo. Discorso pronunciato ad Atene per il centenario della morte, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928.
Profondo conoscitore ed appassionato studioso d’arte, Ugo Ojetti ha pubblicato sull’argomento diversi importanti libri:
L’esposizione di Milano (1906),
Ritratti d’artisti italiani (in due volumi, 1911 e 1923),
Il martirio dei monumenti, 1918
I nani tra le colonne, Milano, Fratelli Treves Editori, 1920
Raffaello e altre leggi (1921),
La pittura italiana del Seicento e del Settecento (1924),
Il ritratto italiano dal 1500 al 1800 (1927),
Tintoretto, Canova, Fattori (1928),
Atlante di storia dell’arte italiana, con Luigi Dami (due volumi, 1925 e 1934),
Paolo Veronese, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928,
La pittura italiana dell’Ottocento (1929),
Bello e brutto, Milano, Treves, 1930
Ottocento, Novecento e via dicendo (Mondadori, 1936),
Più vivi dei vivi (Mondadori, 1938).
In Italia, l’arte ha da essere italiana?, Milano, Mondadori, 1942.
Romanzi
L’onesta viltà (Roma, 1897),
Il vecchio, Milano, 1898
Il gioco dell’amore, Milano, 1899
Le vie del peccato (Baldini e Castoldi, Milano, 1902),
Il cavallo di Troia, 1904
Mimì e la gloria (Treves, 1908),
Mio figlio ferroviere (Treves, 1922).
Racconti
Senza Dio, 1894
Mimì e la gloria, 1908
Donne, uomini e burattini, Milano, Treves, 1912
L’amore e suo figlio, Milano, Treves, 1913
Teatro
Un Garofano (1902)
U. Ojetti-Renato Simoni, Il matrimonio di Casanova: commedia in quattro atti (1910)
Reportages
L’America vittoriosa (Treves, 1899),
L’Albania (Treves, 1902); nuova edizione, con cartina originale “La Grande Albania”, in Ugo Ojetti, Olimpia Gargano (a cura di), L’Albania, Milano, Ledizioni, 2017.
L’America e l’avvenire (1905).
Raccolte di articoli
Articoli scritti fra il 1904 e il 1908 per L’Illustrazione Italiana: I capricci del conte Ottavio (due voll., usciti rispettivamente nel 1908 e nel 1910)
Articoli per il Corriere della Sera: Cose viste (7 voll.: I. 1921-1927; II. 1928-1943). L’opera è stata anche tradotta in lingua inglese.
Memorie e taccuini
Confidenze di pazzi e savi sui tempi che corrono, Milano, Treves, 1921.
Vita vissuta, a cura di Arturo Stanghellini, Milano, Mondadori, 1942.
I Taccuini 1914-1943, a cura di Fernanda e Paola Ojetti, Firenze, Sansoni, 1954. [edizione censurata, con molti passi espunti]
Ricordi di un ragazzo romano. Note di un viaggio fra la vita e la morte, Milano, 1958.
I taccuini (1914-1943), a cura di Luigi Mascheroni, prefazione di Bruno Pischedda, Torino, Aragno, 2019, ISBN 978-88-841-9989-8.
Aforismi
Ojetti è celebre anche per i suoi aforismi, massime e pensieri, molti dei quali sono raccolti nei 352 paragrafi di Sessanta, volumetto scritto dall’autore nel 1931 per i suoi sessant’anni e pubblicato nel 1937 da Mondadori.
Lettere
Venti lettere, Milano, Treves, 1931.
Lettere alla moglie (1915-1919), a cura di Fernanda Ojetti, Firenze, Sansoni, 1964.
Intitolazioni
Presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi si è tenuta una mostra dedicata alle fotografia scattate per la rivista e che costituiscono il Fondo Ojetti.[7]
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte- Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Editore Laterza
Articolo scritto da Domenico BULFERETTI per la Rivista PEGASO n°5 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Benedetto CROCE
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Descrizione-
Nell’indagine crociana si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Biografia di Benedetto Croce
Benedetto CROCE
Biografia di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neoidealismo.
Presentò il suo idealismo come «storicismo assoluto», giacché «la filosofia non può essere altro che “filosofia dello spirito” […] e la filosofia dello spirito non può essere altro che “pensiero storico”», ossia «pensiero che ha come contenuto la storia», che rifugge ogni metafisica, la quale è «filosofia di una realtà immutabile trascendente lo spirito». In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Con Giovanni Gentile – dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti – è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell’idealismo e del neoidealismo italiano che assieme a Gentile contribuì a fondare, partendo dall’aspra critica fatta al materialismo storico e alla filosofia di Marx in Materialismo storico ed economia marxista.
La dottrina crociana improntata alla storiografia ebbe grande influenza politica sulla cultura italiana; Croce, in particolare, con la sua “religione della libertà, è ricordato come guida morale dell’antifascismo”, tanto che fu anche proposto come Presidente della Repubblica italiana. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, insieme con Luigi Einaudi.
Alcune riserve sulla sua estetica, sulla critica letteraria (in particolare sulla sua definizione di «poesia») e sulla superiorità attribuita alla filosofia rispetto alle scienze nell’ambito della logica, tuttavia, sono state espresse in tempi successivi.
D’altra parte, il pensiero di Croce, specialmente quello politico, ha goduto di apprezzamenti più recenti e di una “riscoperta” anche al di fuori dell’Italia, in Europa e nel mondo anglosassone (specialmente gli Stati Uniti d’America), dov’è riconosciuto, al pari di pensatori come Karl Popper, come uno dei più eminenti teorici del liberalismo europeo e un autorevole oppositore di ogni totalitarismo. Il liberalismo politico crociano distinto dal liberismo economico fu causa di disaccordo con un altro importante esponente del liberalismo italiano come Luigi Einaudi.
Leone Ginzburg -Contributo alla celebrazione di Dostoevskij Fëdor Michajlovič-
Articolo scritto per la Rivista PEGASO n°4 del 1931 diretta da Ugo Ojetti
Dostoevskij Fëdor MichajlovičLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJLeone GINZBURG Contributo alla Celebrazione di DOSTOJEVSKIJDostoevskij Fëdor Michajlovič
Biografia di Dostoevskij Fëdor Michajlovič-
Dostoevskij Fëdor Michajlovič
Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821 come Fëdor Michajlovic Dostoevskij ed è considerato il maggior romanziere russo grazie alla sua prolifica produzione letteraria. La sua formazione avviene in un ambiente piuttosto religioso e autoritario, tanto che alla morte della madre viene costretto dal padre, medico aristocrativo decaduto, a frequentare la scuola del genio militare di San Pietroburgo che frequenta malvolentieri dal momento in cui il suo vero amore è già la letteratura.
Subito dopo il diploma, rinuncia alla carriera militare per scrivere invece il suo primo romanzo, Povera gente, che ha un grande successo. Successivamente scrive Il sosia e Le notti bianche, deludendo parzialmente i suoi primi estimatori. Tra questi un critico, Belinskij, che lo aveva acclamato come scrittore esordiente.
Nel 1849 Dostoevskij aderisce a un circolo di intellettuali socialisti e per questo viene condannato a morte, anche se poco dopo arriva la grazia da parte dello Zar Nicola I e la condanna a quattro mesi di esilio in Siberia e quattro di arruolamento forzato.
Nel 1857 Dostoevskij sposa una giovane vedova: subito dopo il matrimonio torna alla letteratura con Il villaggio di Stepancikovo e Il sogno dello zio.
Nel 1861 inizia a scrivere in qualità di giornalista per la rivista Il tempo. Qui compaiono due nuove opere: Memorie da una casa di morti (racconto dell’esperienza siberiana) e Umiliati e offesi.
Dopo un viaggio in Inghilterra, Francia e Germania esprime giudizi netti e negativi sulla civiltà occidentale, poi fonda il periodico Epoca e pubblica due opere che lo consacreranno definitivamente nell’Olimpo degli scrittori: Memorie del sottosuolo e Delitto e castigo. Entrambe gli procureranno buona fama ma scarso successo economico.
Rimasto vedovo, nel 1867 sposa in seconde nozze la propria stenografa, Anna Snitkina. Pubblica poi Il giocatore, romanzo autobiografico in cui confessa la sua rovinosa passione per la roulette.
La sua situazione economica non è delle migliori: per sfuggire ai creditori si trasferisce all’estero con la moglie e scrive un altro romanzo che gli procurerà una fama imperitura: L’idiota. Una volta tornato in Russia nel 1873 pubblica I demoni.
Segue un periodo molto prolifico che lo porterà a scrivere I fratelli Karamazov e che si protrae fino al 1880. Nel 1881 muore improvvisamente a Pietroburgo.
Dostoevskij Fëdor Michajlovič
le principali opere di Dostoevskij:
Povera gente (1846);
Il sosia (1846);
Le notti bianche (1848);
Il villaggio di Stepancikovo (1859);
Il sogno dello zio (1859);
Memorie da una casa di morti (1861-62);
Umiliati e offesi (1861);
Memorie del sottosuolo (1865);
Delitto e castigo (1866);
Il giocatore (1867);
L’idiota (1868-69);
I demoni (1873);
L’adolescente (1875);
Diario di uno scrittore (1876-81);
I fratelli Karamazov (1879-80)
Biografia di Leone Ginzburg
Leone Ginzburg
Leone Ginzburg- Nacque a Odessa dagli ebrei Fëdor Nikolaevič Ginzburg e Vera Griliches. Era l’ultimo di tre fratelli: lo precedevano Marussa (1896) e Nicola (1899). Era in realtà figlio naturale dell’italiano Renzo Segré, con cui la madre aveva avuto una fugace relazione mentre si trovava in villeggiatura a Viareggio; Fëdor lo aveva però riconosciuto come suo e Leone stesso lo considerò sempre come il proprio padre. Figura importantissima nell’infanzia di Leone fu l’italiana Maria Segré (sorella del suo padre naturale) che sin dal 1902 viveva presso la famiglia in qualità di istruttrice. Insegnò ai tre fratelli il francese e l’italiano e fu lei a creare i rapporti tra i Ginzburg e l’Italia. Leone fu per la prima volta in Italia nel 1910, quando trascorse le vacanze a Viareggio con la madre e i fratelli. Questa consuetudine si ripeté anche negli anni successivi sino allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914: in quell’occasione la madre e i fratelli maggiori tornarono a Odessa mentre il figlio minore, per evitargli un pericoloso viaggio in mare, rimase nella Penisola con la Segré che divenne per lui quasi una seconda madre. Il giovane Ginzburg visse in Italia per tutta la durata del conflitto, dividendosi tra Roma e Viareggio. Frattanto, passati attraverso la Rivoluzione di ottobre, i parenti rimasti in Russia si trovavano in difficoltà: nonostante avessero sostenuto la rivolta, i Ginzburg dovevano soffrire nuove pesanti limitazioni. Il primo a lasciare Odessa, nel 1919, fu Nicola il quale, temendo il richiamo alle armi, si trasferì a Torino dove si iscrisse al Politecnico. L’anno successivo tutta la famiglia si era stabilita a Torino e fu raggiunta da Leone che si iscrisse alla seconda classe del “Liceo Classico Vincenzo Gioberti”. Nel 1921 i Ginzburg si spostarono ancora una volta: furono a Berlino dove il padre aveva avviato una nuova società commerciale assieme a un amico. Leone dovette quindi riprendere la lingua russa e fu iscritto alla scuola russa della città dove proseguì gli studi ginnasiali. Nell’autunno 1923, mentre il padre restava in Germania per lavoro, la famiglia si riportò a Torino e qui Leone preparò, nel 1924, l’esame ginnasiale. Tra il 1924 e il 1927 concluse gli studi classici frequentando il liceo Massimo d’Azeglio. Fu studioso e docente di letteratura russa, partecipò allo storico gruppo di intellettuali di area socialista e radical-liberale (tra gli altri, Norberto Bobbio, Vittorio Foa, Cesare Pavese, Carlo Levi, Elio Vittorini, Massimo Mila, Luigi Salvatorelli) che collaborarono alla nascita a Torino della casa editrice Einaudi. In campo politico fu un federalista convinto, attivo antifascista, dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana nel 1931 aderì al movimento “Giustizia e Libertà”. Fu per questo arrestato il 13 marzo 1934 in seguito alle ammissioni dell’antifascista giellino Sion Segre, arrestato con Mario Levi l’11 marzo, e su segnalazione del chimico francese René Odin, informatore dell’OVRA. Condannato a quattro anni di carcere, con cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, beneficiò di due anni di condono condizionale. Rilasciato nel 1936, proseguì la sua attività letteraria e di antifascista. Nel 1938 sposò Natalia Levi (meglio nota come Natalia Ginzburg), dalla quale ebbe due figli e una figlia: Carlo Ginzburg, poi divenuto noto storico, Andrea, economista, e Alessandra, psicanalista. Nel giugno del 1940 fu mandato al confino a Pizzoli, in Abruzzo, fino alla caduta del fascismo. Liberato nel 1943 alla caduta del fascismo, si spostò a Roma dove fu uno degli animatori della Resistenza nella capitale. Nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, fu torturato dai tedeschi perché rifiutò di collaborare. Morì in carcere, in conseguenza delle torture subite, la mattina del 5 febbraio 1944. È sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/Leone_Ginzburg
– Bino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo Soffici –
Edizione Vallecchi, Firenze 1935
Articolo di Giuseppe De Robertis per la Rivista PAN diretta da Ugo Ojetti- n°4 del 1935-
Bino BINAZZIBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI: Poesie. Introduzione di Ardengo SofficiBino BINAZZI-Rivista la Brigata
Breve Biografia di Bino Binazzi
Bino BINAZZI-nacque a Figline Valdarno il 12 novembre 1878 e morì a Prato il 1 maggio 1930.Emigrato a Prato da Figline Valdarno all’età di vent’anni, Binazzi non riuscì a completare gli studi universitari per le ristrettezze economiche e dovette accontentarsi, per vivere, di lavorare a lungo come istitutore in vari collegi (tra i quali il Cicognini, dove ebbe modo di insegnare greco e latino al giovane Malaparte). Dotato di una vasta e solida cultura, tenne rubriche di critica letteraria per vari periodici e conobbe, frequentando il caffè fiorentino delle Giubbe Rosse, molti dei più bei nomi della cultura italiana: Svevo, Savinio, Marinetti, Palazzeschi, Moretti, Carrà e Morandi, Papini e Soffici, fino a Dino Campana, di cui intuì subito la grandezza, curando la prima edizione dei “Canti orfici”. Buon poeta egli stesso e acuto saggista, Binazzi, temperamento schivo, non volle mai “promuovere” troppo la sua opera, anche se da questo gliene derivò una costante amarezza, con la sensazione di essere ingiustamente marginalizzato. Fra i suoi scritti più apprezzati, Cose che paiono novelle (1913) e La via della ricchezza (1919). In un’epoca in cui la massoneria attirava ancora gli spiriti liberi – e non soltanto politici, militari, imprenditori, manager e professionisti -, Binazzi fu iniziato a Prato, nel 1906, presso la loggia “Intelligenza e lavoro”; fu anche socialista, benché l’amico Soffici lo dichiarasse, pochi anni dopo la morte, un fascista convinto (forse per guadagnare un po’ di benevolenza verso la figlioletta di lui, rimasta orfana di entrambi i genitori).
Binazzi fu legatissimo alla sua città d’adozione, pur non nominandola spesso nelle sue opere; piace allora lasciare qui la sua figura melanconica con i versi di una delle sue rare serene poesie (Ciro Rosati e Arnaldo Brioni erano due noti insegnanti della R. Scuola professionale di tessitura e tintoria di Prato, poi Istituto Tullio Buzzi):
Io, Rosati e Brioni tre alchimisti atei
o panteisti secondo le occasioni,
in un momento di nostalgia
ci s’era fatti monaci,
ma monaci di lusso
non frati da strapazzo,
in una bianca badia
detta del Buonsollazzo.
Bino Binazzi Insieme a Francesco Meriano, nel 1916 fondò una rivista: “La Brigata”, che però ebbe breve vita. In seguito fu collaboratore del “Nuovo giornale” di Firenze e redattore del “Resto del Carlino”. Già a diciannove anni cominciò a pubblicare volumi di versi che molto debbono al Carducci, al D’Annunzio, al Pascoli e ai poeti crepuscolari.
Canti Orfici di Dino Campana
Bino Binazzi: Gli ultimi bohêmiens d’ltalia. DINO CAMPANA
da «IL RESTO DEL CARLINO» (Bologna), 12-IV-1922
È balzato fuori dalle mie valigie di nomade un libercolo, che mi è particolarmente caro. Una curiosità bibliografica ormai rara a trovarsi che assomma in se le grazie di una brochure francese, e la ingenuità grossa e casalinga del Sesto Caio Baccelli o del Barbanera.
Questo libro è un gran libro. Forse la più potente e originale raccolta di liriche, che abbia prodotto il ventiduennio di questo secolo di burrasche e di bestialità. L’autore? Dino Campana, nome ancor quasi sconosciutissimo, come ho dovuto dolorosamente accorgermi, facendo degli assaggi in certi angoli di penombra, ove ancora si raduna qualche pavido gruppo di giovani dediti alle lettere.
Egli irruppe improvvisamente come una meteora dalle miriadi di colori sotto i cieli alquanto bigi del futurismo prebellico; poi, quando ancora la ecatombe umana non era compiuta, dileguò nelle tenebre della follia. Ma il suo passaggio aveva lasciato fra lo scialbore elettrico e malato della atmosfera letteraria italiana un odor pirico di sagra e di battaglia: battaglia classica, omerica, serena, senza ferocia e senza cretineria. E ai lirizzatori dei colorini delle «mente glaciali» e dei visi flosci dei bardassa e delle veneri volgivaghe aveva insegnato la lirica degli azzurri alpini e delle vastità oceaniche e la bellezza del corpo sodo e seminudo ďun mozzo genovese o ďuna lavandara dell’Appennino, accordante, fra le nevi e fra le rocce, il ritmo del suo stornello di calandra al fiotto della sorgente che alimenta il bozzo limpido alla sua fatica di purificatrice delle umane sozzure.
Ma io non posso e nessuno potrebbe dir della poesia di Campana in modo da farne avere un benché minimo sentore a chi legga. È necessario per farsi un’idea della forza, stranezza, originalità di questa lirica elementare aver sotto gli occhi il libercolo introvabile, ormai; e che nessun editore, tra i tanti editori che vegetano lungo tutto lo stivale, pensa nè penserà mai di ripubblicare.
Intanto come il suo grande antenato Torquato Tasso, Dino Campana, in una cella di manicomio, scrive e scrive; e gli illustri psichiatri, che capiscono di poesia sempre infinitamente meno di quel che un poeta capisca di psichiatria, vietano a critici e ad artisti di esaminare le carte vergate dal pazzo sublime. Quanto più savi i custodi del manicomio di SanťAnna, che permisero almeno libertà e gloria alle liriche del gran recluso, autor della Gerusalemme!
Ma chi potrà dire adeguatamente della lirica di Campana «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto barbaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi ďoro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi, nell’arabesco di marmo, un mito si cova, che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea?».
Occorre aver letto. E per chi volesse cercare il volumetto raro dirò che esso porta il titolo di Canti Orfici e che fu stampato a Marradi nella tipografia F. Ravagli, l’anno 1914.
*
Fra gli ultimi bohêmiens ďltalia Dino Campana è il più tipico ed il più grande. Nessun altro ebbe una vita di miseria avventurosa da paragonarsi alla sua.
Assillato da un sogno incoercibile di vastità e di libertà, egli ha percorso nel suo trentennio il più lungo e il più doloroso di tutti i calvari. Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni.
A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo – un altro è ben diverso nelle sua modestia e mediocrità di impiegato – del signor direttore delle Scuole.
A Bologna qualcuno lo ricorda studente universitario di chimica, bisbetico ed irascibile, sognante come un alchimista e niente affatto freddo e positivo come uno scienziato. Sovversivo, anarcoide, imperialista, violento e tenero al tempo stesso; di una mobilità sentimentale che percorreva rapida come il fulmine tutta la gamma del sentimento umano: dalla mitezza più francescana alla violenza rasentante, a volte, la ferocia, egli non aveva in se alcuna possibilità di giungere a buon termine nello studio accademico intrapreso. Difatti, dopo aver lasciato dietro di sè una scia di stramberie memorabili, un bel giorno disertò le aule universitarie e il gabinetto delle soluzioni, delle miscele e delle reazioni per studiare una chimica più vasta, che avesse per materia ďesperienza il mondo intero e per gabinetto l’universo.
Anche Shelley fu un chimico mancato. La coincidenza non è fortuita. La chimica è la scienza del mistero e del miracolo. n gran fatto leggendario della Genesi può vedersi riprodotto entro le minuscole dimensioni di una fialetta di vetro o di un crogioletto di platino. Nulla è sostanzialmente più adatto ad attrarre la curiosità di un poeta cosmico; di un grande poeta.
Ma la ragione stessa, che indusse il poeta ad iniziarsi alla disciplina del chimico è quella che ne determina la più o meno sollecita evasione.
Shelley fu espulso dallo studio della scienza per ragioni indipendenti dalla sua volontà. Ma c’è dà giurare che, in ogni modo, egli sarebbe stato un infedele per amor della poesia. Campana la ruppe senz’altro di propria spontanea volontà; quantunque, a volte, nelle sue pellegrinazioni di nomade, sentisse sorgere in se la tarantola di non so quali velleità di innovatore della disciplina abbandonata.
*
Poiché Campana non aveva il módo di poter secondare il suo spleen con viaggi regolari e bene equipaggiati, dovette, con un coraggio davvero inaudito, romperla completamente cogli usi e le costumanze e convenienze della sua classe piccolo-borghese, per entrare nella vera categoria dei girovaghi, ciarlatani, suonatori ambulanti, accattoni, saltimbanchi, truccatori di ogni genere.
In verità il salto nel mondo della «leggera», per un tempera-mento facile alla suggestione come quello del nostro, era alquanto pericoloso.
Era un tuffarsi a capo fitto nei marosi ďun giorno di tempesta, senza aver prima misurato la propria vigoria di nuotatore. Tanto più meritoria ne fu l’audacia, in quanto, sia pure attraverso esperienze inenarrabili, il Campana potè, un giorno, tornare a riva recando alto fra le mani già candide, e ormai arrozzite da mestíeri, cui non erano nate, il rotolo manoscritto dei suoi Canti Orfici.
Ma l’esperienza fu troppo aspra. Di qui l’ottenebramento improvviso delle sue facoltà. Nella diuturna, disumana tensione, parve che la corda centrale della grande lira si fosse spezzata…
*
Ma intanto, nella sua opera si sente per la prima volta la vibrazione lirica dell’anima del nostro popolo migrante in cerca di pane o di fortuna. Entro un ampio periodo strofico si può saltare, attraverso vastità oceaniche, dal silenzio solitario di una estancia argentina con nenie di gauci «suadenti il lontano sonno» alla gaiezza festiva di una primavera fiorentina o all’affaccendamento lieto di un pomeriggio autunnale bolognese, quando
le torri nel tramonto accese
fra il vicendevole vento
di dietro i palazzi vegliano le imprese
gentili del serale animamento.
E risultato più grande di questa sua vita di gaucho, di carbonaio, di minatore, di poliziotto, di zingaro al seguito di una tribù di bossiaki russi, di saltímbanco, di tenitore di un tiro a bersaglio, di sonator ďorganetto e di mille altre diavolerie, fu una cultura linguistica e letteraria veramente di eccezione.
A volte, a sentirlo parlare con un mescolio di frasi appartenenti a tutte le lingue, ci si domandava come poteva fare a ritrovar tutta l’antica bellezza dell’idioma materno.
E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava, colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo, specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa. E le lingue di tutti questi popoli eran da lui si bene possedute da render via via la illusione ancora più perfetta.
*
Quando giunse – diremo così – alla ribalta della notorietà letteraria non era più giovincello. Aveva provata ogni amarezza ed ogni esaltazione umana. Aveva conosciuto il fasto multicolore di mille sagre e di mille kermesses e anche il fondo oscuro di qualche prigione e di qualche manicomio.
Si presentava come un tipo attraente e sconcertante al medesimo tempo. Parlava lento, come se l’italiano che usciva dalla sua bocca fosse la traduzione faticosa da qualche lingua straniera. Pure a certi momenti, quando le facoltà luminose del suo intelletto, accendendosi tutte, lo ponevano in istato di grazia, riusciva a dir delle cose addirittura meravigliose, anche per profondità. Sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei vari popoli con pochi tocchi dà maestro. Ma, mentre si aspettava intenti ancora una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale.
Ed allora se la prendeva con Tizio o con Caio (con letterati sempre) e poteva anche offendervi e minacciarvi. Poi tornava buono, tenero, piangente. Si umiliava per esaltare altrui, mendicava affetto con disperata trepidazione. Chi sa che cosa vedeva la sua anima, lassù in quella altitudine e in quella vastità, ove egli la aveva condotta? Quali abissi dinotava lo stridulo sarcasmo della sua risata?
Egli era di natura aquilina; e, anche dal fondo dell’inferno, poteva sentirsi sicuro della forza delle sue ali e pensare che l’azzurro era ancora per lui, ogni volta che avesse dato un colpo di ascensione colle remiganti robuste.
Ma un debole, che gli fosse stato vicino in quei momenti non poteva non provare un senso di sgomento.
*
AI suo ingresso nei milieux letterari di Firenze e di Bologna egli non mutò le sue abitudini. Colla sua «nobel tasca de paltone», ove conservava, coi documenti di girovago, un giornale con un articolo del sottoscritto e uno con una nota critica di Cecchi andava di tavolino in tavolino per i caffè più noti a vendere i suoi canti.
E spesso scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva coi suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana è un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che 1’acquirente non le avrebbe mai capite.
AI Paszkowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai. Tutto il pubblico dei frequentatori lo imparò a conoscere e a considerarlo colla più viva curiosità.
*
Egli, ogni tanto, si appartava dagli amici per leggersi in pace l’articolo mio o la nota di Cecchi. Si calcola che li abbia letti migliaia di volte. Perché era sensibilissimo alla lode; e giungeva anche a sollecitarla con ingenue adulazioni. Ma era difficile che fosse contento, quando qualcuno avesse scritto di lui. Piano piano venne nella persuasione – giusta del resto – di essere un poeta grandissimo e che nessun elogio gli fosse adeguato.
Poi cominciò una specie di mania di persecuzione.
«Son triste a morte e presto morirò, mio caro Bino. Ti mando un grande bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti».
É l’ultimo saluto che egli mi inviò – tanto triste! – prima di varcar la soglia di Castel Pulci, succursale della Clinica Psichiatrica fiorentina.
Povero Campana! Chissà chi, fra tutti, sia il pazzo? Egli è in fondo un tradito dalla vita e dagli uomini. Troppo vasta fu la sua visione e troppo anguste le strettoie, ove la meschinità altrui lo costrinse. La sua fatica fu ultra-umana; e la sua angoscia non ha limiti.
Possa almeno la sua grande musa confortarlo qualche volta nello squallore del suo tragico asilo.
E chi sa che egli non trovi più adeguata e dolce compagnia fra il popolo sognante dei suoi compagni di ricovero che fra la bestialità zuccona e sanguinaria delle novissime generazioni, da cui egli un tempo e vanamente sperò gratitudine, plauso e gloria.
Bibliografia:
M. Bartoletti Poggi, “Bino Binazzi”, in “Poeti italiani del Novecento.La vita, le opere, la critica”, a cura di G. Luti, Roma, Nuova Italia scientifica, 1986, pp. 35-36
V. Franchini, “Bino Binazzi- Il poeta, lo scrittore, il giornalista nel quarantesimo della morte in un carteggio inedito con Giovanni Papini, Quaderni de “Lo Sprone”, Firenze, 1970.
Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ‘800 e ‘900. L’area fiorentina, a cura di E. CAPANNELLI – E. INSABATO, Firenze, Olschki, 1996, pp. 97-98-
La Poesia e la Pazzia di Campana-Di Giuseppe Ravegnani
Da «La Stampa» di sabato 4 agosto 1928
Quando, sul principio del ‘14, per i rozzi tipi del Ravagli di Marradi uscirono i Canti Orfici di Dino Campana, grande e chiassosa fu l’entusiastica meraviglia, specialmente nei gruppi dei giovani dediti alle lettere. Dei critici di fama, soltanto Emilio Cecchi ne parlò, in un colonnino della Tribuna. Gli altri, silenzio e noncuranza. Così, il nome di Dino Campana, poeta antico, passò, dopo una felice giornata di gloria. Infatti, chi mai ancora oggi ricorda la sgraziata «brochure» giallina, simile più a un lunario paesano che a un libro di canti?
In quei tempi poco tranquilli, di battaglie e di ricerche sperimentali, la poesia aveva un nome solo: Arthur Rimbaud; e la fredda rarefatta luce delle Illuminations o di Une saison en enfer abbacinava la nostra gioventù letterata, guidandola verso un lirismo che fu chiamato puro e mediterraneo. Erano i giorni della Voce di De Robertis e dell’Acerba di Papini; da qualche anno Soffici aveva pubblicato il suo saggio sopra Rimbaud, che allora era sembrato un capolavoro; i volumi gialli del Mercure de France si vendevano come bibbie; e la bohème trionfava nei suoi ultimi rappresentanti.
Di Dino Campana, nato a Marradi, di famiglia agiatamente borghese, e fuggito poco più che ventenne pel mondo, già si favoleggiava. La sua vita agitata, le sue stramberie memorabili, il suo inquieto nomadismo, il suo carattere torbido ed esasperato lo imparentavano con i Varlaine, i Rimbaud, i Corbière, cioè con i tre Re Magi della poesia moderna. Lo si sapeva studente di chimica mancato come Shelley, e come Shelley bello di viso e di corpo, suonatore ambulante d’organetto e di piffero, saltimbanco, ginnasta, gaucho, minatore, zingaro in una tribù di bossiaki russi, tenitore di un tiro a bersaglio, poliziotto, prestigiatore, carbonaio, sovversivo, anarcoide, imperialista, in giro per l’Europa e per le Americhe, ora in un ospedale e ora in un manicomio, ora ricco e ora squattrinato, ribelle a leggi e a costumi, anima in pena in cerca di pane, di poesia e di gloria. Che volete di più? Tanto bastava per farne una specie di mito, una figura di “poeta, maledetto”, uno di quei spettri vaganti, di cui cantò Verlaine nel suo soggiorno a Londra, assieme al poeta del profetico Bateau.
Bino Binazzi, che con amore d’amico ha curato presso il Vallecchi la stampa dell’Opera completa di Campana, aggiungendo ai Canti Orfici le poche poesie della Voce e della Riviera Ligure (Canti Orfici ed altre liriche. Opera completa, con prefazione di Bino Binazzi. Vallecchi editore. Firenze, 1928), così ce ne parla: «E nel suo aspetto fisico di paltoniere pareva che ogni razza avesse stampato un suo carattere peculiare. A volte, in momenti in cui i suoi occhi si gonfiavano di tenerezza e la sua faccia appariva stanca, ricordava colla sua barba incolta, il viso pieno e il naso un po’ corto, la fotografia famosa di Verlaine seduto sotto la pergola dinanzi a un boccale di vino di Borgogna; a volte, specie quando incedeva calcando bene i tacchi e arrembando le spalle e girando attorno gli occhi celesti in atto di sagace ed attento raccoglitore di impressioni e di aspetti notabili, era un tedesco spiccicato; spesso il tipo slavo specie in certi suoi accessi di misticismo caotico e nichilistico, si accentuava in modo da farlo parere un figlio genuino della steppa». Oppure: «sentenziava di popoli e di stirpi con acume di storico lungimirante, caratterizzava l’arte o la poesia dei varii popoli con pochi tocchi da maestro. Ma, mentre si aspettava, intenti ancora, una luce dalla sua parola, la sua bocca si slargava in una sghignazzata faunesca, che aveva un suono sgangherato tutto primordiale». Anche nella pagina scritta, dopo qualche periodo meravigliosamente limpido e perfetto, noi riudiremo cotesta risata, nata dalla misteriosa ombra della follìa.
Spesso, Campana girava per i caffè più in voga, a vendere i suoi canti; e allora, narra sempre Binazzi, egli scherniva i compratori; li guardava in faccia scrutandone la natura filistea; poi rideva col suo riso di bel fauno dorato (a proposito, non ho detto ancora che Campana era un bel giovanotto) strappando pagine al libro venduto, sotto lo specioso e poco lusinghiero pretesto che l’acquirente non le avrebbe mai capite. Al Paskowski, a Firenze, scene gustosissime di questo genere ne successero assai».
Dopo pochi anni dalla pubblicazione dei Canti Orfici, Dino Campana, già tormentato da una specie di buia manìa di persecuzione, venne rinchiuso a Castel Pulci, pazzo.
***
Oggi, a quasi quindici anni di distanza, l’opera di Campana viene a mostrarsi in diversa luce: più ferma e più composta. Se allora, per i gusti dei tempi, essa apparve come la tipica e più alta espressione del modernismo lirico; e perciò applaudita e difesa proprio in quei punti dove la fiamma dell’ispirazione in tenebre crolla; oggi, invece, a chiunque la riguarda senza preconcetti, ma con l’animo di scoprirla nelle sue umili e genuine qualità, si rivela indistruttibilmente classica e antica. Perciò Dino Campana non può essere né Rimbaud né Corbière, perché poeta antico e, pur contro la sua cultura caotica e frammentaria, italico.
Basta il largo, solenne preludio dei Canti a farci avvisati: «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso».
Classico nel tono, nella misura e sodezza della lingua, e più ancora nei temi e in quel senso vivo di storia e di mito attivi, di religiosa pacatezza, di immortale razza, di regalità invincibile, di purità serena e liliale. Ed è strano come quest’uomo, girovago di tutte le terre, affaticato in ogni duro mestiere, a ogni patria straniero e a sé stesso, che aveva imbastardito il suo con altri dieci lontani linguaggi – egli parlava «con un mescolìo di frasi appartenenti a tutte le lingue!» – rimanesse nativo, perdutamente latino, innamorato delle sue piazze, delle sue donne, delle sue marine. In ciò la fresca antichità delle sue scritture, la nobile compostezza delle sue immagini oh! quelle dame ai balconi «poggiate il puro profilo languidamente nella sera», — l’armoniosa grazia dei suoi casti paesi.
Al suo primo apparire, il senso di questa poesia fu tradito dalla vita del poeta stesso: da quella invadente esperienza romantica che la travagliò e la corrose. La poesia non giunse mai alla costruzione intatta e intera di sé stessa, ma galleggiò frammentaria sulla pagina, franta in gridi, in bagliori, in animamenti evocativi. Ed evocativa, infatti, è sempre la grande arte: quella che riallaccia in onde canore il presente al passato, l’effimero all’eterno. Ora, i Canti Orfici di Campana son fatti di questa intangibile materia lirica, che la singhiozzata esistenza non seppe del tutto velare, ma soltanto spezzare e comunicare attraverso una sintassi povera e secca e per mezzo d’un impressionismo d’intenzioni moderne.
Eppure, nonostante cotesti snaturamenti, quale ricchezza di sintesi in cotesto canto! Quale aderenza e vivezza figurativa! Il poeta, per via d’eliminazioni, giunge alla sostanza pura, all’essenza, alla purità. Talvolta, v’insiste, si ripete, segue svagato i motivi melodici e i centri ispirativi; e allora il periodo si accentra su una parola, come sopra un gorgo. «O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un dio nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno avevi rapito una melodia di carezze».
Questo strano e allucinato giuoco di ellissi, che fors’anche può dare la impressione di una impotenza del poeta a liberare la sua materia lirica da un’ansia strettamente umana, si ripeterà spesse volte, sino a emigrare in regni completamente ermetici e intricati, come nei versi fumosi e stranamente concentrici dedicati a Genova:
Come nell’ali rosse dei fanali
Bianca e rossa nell’ombra del fanale
Che Bianca e lieve e tremula salì…
Ora di già nel rosso del fanale
Era già l’ombra faticosamente
Bianca…
Bianca quando nel rosso del fanale
bianca lontana faticosamente
L’eco attonita rise un irreale
Riso: e che l’eco faticosamente
E bianca e lieve e attonita salì…
Chi sa quale visione rarefatta, dalla sua lucida altitudine di veggente, i suoi occhi vedevano, senza che la chiarezza del poeta potesse in qualche modo racchiuderla nei versi?
***
Forse da qui la falsa concezione di Une saison en enfer italiana. Ma, chi si fermasse a simili momenti di brancolante farneticazione, pretendendola vertice di poesia, non saprebbe godere la vera grandezza di Campana. Il quale, nonostante cotesti improvvisi velarii, spalanca compatte e immacolate chiarezze, non soltanto nei frammenti di prosa descrittiva, ma anche nei versi delle sue poche poesie. Ecco, ad esempio, una perfetta quartina: Firenze: Uffizi:
Azzurro l’arco dell’intercolonno
Trema rigato tra i palazzi eccelsi:
Candide righe nell’azzurro: persi
Voli: su bianca gioventù in colonne.
E la piena calda classicità delle Immagini del viaggio e della montagna:
Pare la donna che siede pallida giovine ancora
Sopra dell’erta ultima presso la casa antica:
Avanti a lei incerte si snodano le valli
Verso le solitudini alte degli orizzonti:
La gentile canuta il cuculo sente a cantare.
E il semplice cuore provato negli anni
A le melodie della terra
Ascolta quieto: le note
Giungon, continue ambigue come in un velo di seta.
Di selve oscure il torrente
Sòrte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocce
Lambe ed involge aereo cilestrino… E il cuculo col più lento due note velate
Nel silenzio azzurrino.
Qui, non abbiamo soltanto una poesia d’immagini, come per lo più è quella del Campana; ma s’alzano cotesti versi da una adamantina chiarezza spirituale e da schiette sensazioni che si traducono in musica e architettura. Forse, è cotesto uno dei pochi saggi maggiormente completi dei Canti Orfici: il segno d’una meta, alla quale, col tempo, Campana sarebbe giunto, purificando quell’originale materia lirica, ch’egli impastava dentro l’anima con l’affocato romanticismo delle sue esperienze. L’anelito alla verità, il tormentoso senso religioso della vita, certa stanchezza pessimistica che gli veniva da letture moderne, non gli avrebbero impedito di mettere sempre più a nudo il suo spirito italico, pieno di largo respiro, e affiorante in lui non appena il suo occhio si intratteneva con ogni cosa, che vivesse d’antica storia: le piazze delle vecchie città, i castelli turriti, i porti delle preziose repubbliche, o la fresca Italia paesana, tra colli e pianure, corse dal canto perenne dei fiumi. Ogni suo canto, infatti, è pieno di mito: «Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre all’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati fantasmi, notturna estate mediterranea».
E mito sono anche le terre, le donne, i cieli: ogni cosa che il suo istinto infallibile sente vicina al suo cuore, e ch’egli traduce in evocative pitture, da meraviglioso pittore com’egli è. Le Alpi: «mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi, congerie enormi di fede e di sogno, colle mille punte nel cielo; vidi le Alpi levarsi ancora più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno». Bologna: «dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio». Una donna: «ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino».
Quindi, non poesia decadente; né “poeta maledetto” il suo autore, nonostante la parte pittoresca della sua tradita esistenza. Poeta classico, invece, d’una classicità omerica, di quella classicità cioè che nei secoli si perde, luce perenne della nostra razza. In questa luce i Canti Orfici di Dino Campana bruciano, anche se, sopr’essa, spesso la follia stampa la sua bieca ombra.
Luigi Pintor , intellettuale eternamente critico con la “sua” sinistra, giornalista, fondatore e animatore del “manifesto”, era stato anche deputato, aveva 78 anni. Fino all’ultimo lo ha assistito la moglie Isabella.
Pintor sfuggÌ alla condanna a morte durante la guerra di Liberazione, entrò nel Comitato centrale del Pci, fu condirettore de ‘L’UnitÀ.
Poi, deputato dal 1968 al 1972.
Nel 1969 fu radiato dal Pci insieme al gruppo dei ‘dissidenti’ e fondò ‘Il manifesto’.
La sua storia si può definire quella di un comunista ‘politicamente scorretto’, prendendo in prestito il titolo del suo ultimo libro che racconta, criticandoli, gli anni del governo dell’Ulivo, dal 1996 al 2001.
Nato a Roma il 18 settembre 1925 da Giuseppe e da Adelaide Dore, Luigi Pintor trascorse la sua fanciullezza a Cagliari.
Tornato a Roma, si avvicinò al movimento antifascista clandestino. Era il fratello minore dell’intellettuale antifascista Giaime Pintor, nato nel 1919, e che morì il 1 dicembre 1943 a causa dello scoppio di una mina nel tentativo di passare il fronte, lungo il Garigliano, davanti a Castelnuovo al Volturno
Pintor partecipò alla guerra di liberazione nelle fila dei Gap.
E arrestato dalla famigerata banda Koch, sfuggi ¬ alla condanna a morte. Poi vennero gli anni del dopoguerra e del Pci. Pintor fu un dirigente di primo piano del partito e nel partito combattè lunga serie di battaglie sempre da sinistra, su posizioni “ingraiane”.
Fino al 1969, quando la sua critica, per il “centralismo democratico” del Pci di allora, divenne troppo pesante da sostenere.
Nel comitato centrale del Pci del 5 giugno del 1965, si registrò un fatto clamoroso al momento del voto: quattro componenti, tra cui Luigi Pintor, votarono contro la relazione che a nome della segreteria era stata svolta da Paolo Bufalini. La lotta tra la destra e la sinistra del partito si fece più aspra, mentre si manifestò per la prima volta in modo esplicito il dissenso.
Passarono quattro anni e Pintor fu di nuovo protagonista di una battaglia storica all’interno del Pci per la manifestazione e la libertà di dissenso nella vita del partito.
L’8 febbraio 1969, in occasione del XII congresso del Pci a Bologna, Pintor, il più noto tra i delegati della sinistra, affiancato da Rossana Rossanda, Aldo Natoli e Massimo Caprara, pronunciò un vivace intervento in contrasto con la maggioranza del partito.
Era l’inizio di una insanabile divergenza.
Fu Alessandro Natta in una storica riunione del Comitato centrale (25 novembre 1969) a chiedere e ottenere la radiazione dal Pci del gruppo del Manifesto.
Con Pintor vennero cacciati dal Pci anche Aldo Natoli, Rossana Rossanda, Lucio Magri e Massimo Caprara.
Li seguirono Valentino Parlato e Luciana Castellina.
L’accusa?
L’aver “cristallizzato” il dissenso in un piccolo movimento organizzato che aveva “osato” darsi anche un periodico: “Il manifesto”, appunto.
Un’accusa che oggi suona quasi ridicola ma che, allora, traumatizzò e divise larghi strati del Pci.
Poi, il “manifesto” come partito durò relativamente poco.
Nel 1987, dopo molte battaglie, rientrò di fatto nella sinistra indipendente.
Come giornale, “Il manifesto” (per la prima volta in edicola il 28 aprile 1971) vive e combatte anche oggi la sua battaglia di “coscienza critica” della sinistra italiana.
Pintor ne è stato il primo direttore e lo ha condotto in diverse altre occasioni alternandosi con altri membri del collettivo redazionale.
Pur non essendo uno scrittore di professione, Luigi Pintor ha sempre coltivato uno stile pungente anche negli articoli giornalistici, talvolta raffinato, e non di rado arricchito di letterarietà. E proprio nell’ultimo decennio la scrittura ha preso quasi il sopravvento nella sua attività pubblicando diversi libri, tutti per la casa editrice Bollati Boringhieri, fondata dall’amico Giulio Bollati.
Nel 1991 ha dato alle stampe ‘Servabo’ in cui, utilizzando una parola di derivazione latina con il significato di conservare, ha rievocato 50 anni di vita. Nel 1998 ha pubblicato un ‘romanzo’ dal titolo ‘La Signora Kirchgessner’; sono poi seguiti nel 2001 ‘Il Nespolo’ e nel 2002 ‘Politicamente Scorretto’, in cui ha riproposto cronache del quinquennio 1996-2001.
Strutturare i soggetti storici. Un paio di riflessioni a partire da Giosuè Carducci
Giosuè CARDUCCI
La personalità e la parabola politica di Giosuè Carducci è emblematica del complesso rapporto tra intellettuale e movimento politico, continuamente oscillante tra esigenze di autonomia e necessità organiche di un’organizzazione strutturata. Se l’individualismo lirico rischia di sfociare in posizioni idealistiche, l’intellettuale organico può essere schiacciato da meccaniche che ne cancellano l’autonomia. Articolo di Roberto FINESCHI
Se le vacanze in Maremma ti portano a Bolgheri e Castagneto, non si può non pensare a Carducci; e se per hobby ti occupi di teoria politica, non puoi non metterti a riflettere su una figura il cui sviluppo politico e intellettuale fornisce spunti interessanti. Innanzitutto bisogna tenere a mente che il nostro è, intellettualmente, un gigante: la sua poesia può piacere o meno o essere più o meno “invecchiata”, ma si tratta di un individuo colto, brillante, audace, reinventare delle metrica classica nella modernità, grande critico letterario. Talvolta non si percepisce fino in fondo la dimensione veramente assoluta di siffatte menti, come quelle di Dante, Leopardi ecc., le cui capacità sono letteralmente sbalorditive; studiare attraverso la poesia il loro lato più umano e intimo occulta talvolta la loro assoluta eccezionalità. Ma non di questo intendo parlare.
Carducci è figlio di un medico mazziniano, democratico radicale, che in prima persona si espone nelle lotte nazionali, ma con una evidente dimensione sociale. Nel ’48 a Castagneto – pure lì c’è la rivoluzione – riesce a mediare tra rivendicazioni contadine e rigidità padronale trovando un compromesso che garantisce una, seppur parziale, redistribuzione delle terre incolte (le “preselle”). Profondamente anticlericale, non teme le conseguenze delle sue prese di posizione e questo porta la famiglia a peregrinare a lungo per l’opposizione dei potentati locali (abbandonano Bolgheri perché durante la notte prendono a fucilate l’abitazione del “mangiapreti”). Giosuè ha quello spirito e quelle idee; la sua lotta è culturale e intellettuale; celebra “Satana” (nel senso della razionalità, della mondanità, di tutto ciò che lo spirito religioso tradizionalista considerava peccaminoso e stigmatizzabile con il “ il vade retro Satana”, come commenta lo stesso Carducci in una sua lettera) [1]. Il suo non è dunque un astratto patriottismo nazionalistico, ma è imbevuto di cultura democratica, di progresso intellettuale e civile [2]. È un intellettuale impegnato, convinto e battagliero, di un classicismo moderno, erede di Giordani e di quella tradizione in cui si può inserire pure il Leopardi delle poesie civili o della Ginestra.
Lo sviluppo dello Stato italiano “unito” è una doccia fredda: il parlamentarismo trasformistico, il particolarismo e l’interesse laido schifano lui come tutti quei giovani più sinceri ed entusiasti. Come reagisce? In due direzioni diverse. Da una parte, anche a causa dei lutti familiari, con toni intimistici, per certi aspetti pre/decadenti, in cui il senso di morte e fallimento prende piede (i molti fini che entusiasticamente si era posto non sono stati raggiunti) [3]; dall’altra, politicamente, assume posizioni conservatrici, sia celebrando indirettamente la corona (anche se sotto la maschera dell’apprezzamento per la regina e con l’idea del sovrano simbolo dell’unità nazionale) [4], sia condividendo il dirigismo crispino, in cui si vede l’unico severo argine alla generale corruttela e pochezza morale della vita politica. La frustrazione esistenziale lo porta però anche a un conformismo borghese rassegnato alla vita così com’è: le molte amanti, non nascoste alla moglie, con alcune delle quali ha delle vere e proprie relazioni di anni, ma che amanti restano; le abbuffate (le “ribotte”) con gli amici in cui si mangia e si beve fino allo sfinimento. Si potrebbe forse fare un audace collegamento con La grande abbuffata di Marco Ferreri, [5], in cui sesso e cibo diventano l’unica pratica esistenziale affermativa, ma palliativa e alla fine autodistruttiva, di fronte alle convenzioni sociali delle quali tutti i protagonisti sono perfetti rappresentanti.
Questo schematicissimo quadretto mi suggerisce l’idea di un Carducci in qualche modo esempio d’eccellenza di un soggettivismo politico destrutturato, in questo senso “idealistico”, che non si riduce a lui ma che è rappresentativo di un atteggiamento che ha almeno due limiti di fondo: il primo è la distanza tra ideale e reale, vale a dire l’incapacità di comprendere in maniera sufficientemente precisa come la propria azione si collochi all’interno di dinamiche complesse. Questo è probabilmente, più in generale, uno dei limiti storici dei Democratici risorgimentali, non del solo Carducci. Il secondo è l’incomprensione del fatto che il soggetto del cambiamento storico non può essere una somma di individualità: per essere collettivo deve essere strutturato, altrimenti il senso di questa parola resta rarefatto e operativamente inefficace, almeno superato il momento dell’acme rivoluzionario. Qui, di nuovo, la superiorità operativa e istituzionale dei moderati rispetto alle trame cospirative dei democratici; e la più chiara “coscienza di classe” dei primi su interessi e obiettivi di lungo termine rispetto ai secondi.
La questione politica dell’organizzazione si sviluppa sia internamente a un movimento come struttura, sia esternamente come processo egemonico all’interno della società. Si tratta di un corpo collettivo che si individua per il ruolo funzionale degli individui che lo compongono, ma che si articola – e si è articolato storicamente – come pluralità. Il concetto di blocco storico implica all’interno dello stesso schieramento progressista rapporti tra classi diverse – classi che si definiscono funzionalmente per il loro ruolo nella riproduzione sociale – tra le quali esiste un rapporto di predominanza direttiva – egemonia – e che insieme mirano e talvolta riescono a “fare epoca”, vale a dire a determinare un cambiamento della configurazione economico-sociale complessiva. L’organizzazione e l’egemonia di un soggetto di questo tipo è complessa, stratificata e organica. Come organismo ha delle “regole” di funzionamento che, nella prospettiva della salvaguardia del corpo complessivo, trascendono l’individuo e impongono restrizioni all’arbitrio individuale, richiedono quella che una volta si chiamava disciplina. Come organismo ha un corpo che per diventare egemone al di là dei confini della propria organizzazione, soprattutto in periodi di “guerra di posizione”, ha braccia e gambe istituzionalizzate nella società, come sindacati, giornali, associazioni culturali, e via dicendo. Una presenza tangibile, anch’essa regolata.
L’organizzazione vive e si regge nella misura in cui la sua pratica e i suoi obiettivi rispondono alle esigenze storiche delle classi che la compongono e opera una trasformazione all’interno della società. Essendo essa stessa una piccola società, ha le proprie regole, le proprie convenzioni, i propri protocolli, il proprio conformismo che rischiano di diventare stretti, se non soffocanti, nella misura in cui l’organizzazione non ha una pratica corrispondente alle suddette esigenze storico-trasformative e quindi instaura dinamiche coercitive e conflittuali soprattutto con quei membri più originali e sensibili che intendono prima di altri le criticità, ma che non necessariamente sono capaci di formulare alternative. Meccanismi che creano delle fronde sono più o meno costanti, il problema storico sorge quando le dinamiche degenerative sono tali e così forti da mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’organizzazione; non solo per la pressione di forze esterne antagoniste, ma per l’incapacità interna di elaborazione e adeguamento.
Che c’entra questa assai succinta silloge di una teoria del partito, di evidente gramsciana memoria, con Carducci? Il poeta-vate, cantore ufficiale dell’alta cultura dell’Italia umbertina, mi pare rappresentativo della difficile dialettica esistente tra grande intellettuale – quale Carducci fu – e movimento politico. E più in generale tra idealità intellettuale e pratica politica. Da spavaldo democratico, repubblicano e radicale, il nostro finisce, banalizzando all’eccesso, frustrato e conservatore. Si potrebbe tirare in ballo il velleitarismo piccolo-borghese di fronte alla dura legge dei grandi processi storici, ma sarebbe una spiegazione solo parzialmente vera e scolastica, che non terrebbe conto dei problemi oggettivi di fronte ai quali l’intellettualità si pone, con le sue esigenze di libertà di pensiero e di critica in un contesto organizzativo in cui ciò potrebbe essere consentito solo entro certi limiti, talvolta particolarmente angusti. Intellettuale organico non può però significare intellettuale meccanico (smetterebbe infatti automaticamente di essere un intellettuale).
Carducci ebbe, in qualche modo, il suo partito, la massoneria, come molti altri intellettuali e politici democratici del tempo. Essa però non aveva un contenuto di classe veramente alternativo al progetto moderato, se non nel radicalismo anticlericale e in un repubblicanesimo democratico, che però non andava a toccare gli squilibri economico-sociali che affliggevano l’Italia. Si trattava in sostanza di un contenuto non radicalmente alternativo e quindi velleitario rispetto alle grandi questioni storiche dell’epoca. Il trasformismo era nelle cose stesse e Carducci si limita a rivendicare un onore e un legalismo di contro alla corruttela del presente, per il quale vede soluzioni nel dirigismo. Un vicolo cieco. Pur nella ristretta prospettiva qui proposta, egli può dunque essere rappresentante emblematico – e mostrare le criticità – di come si sviluppi una dinamica oggettivamente complessa tra un certo tipo di alta intellettualità potenzialmente rivoluzionaria e progressista e un’organizzazione politica pratica e ideale che cerchi di essere egemone. [6] Al di fuori dell’organizzazione non pare si riescano a ottenere successi operativi duraturi, ma la sua gestione è complessa e affetta da continue instabilità oggettivamente possibili. Riferimenti al presente – o al passato recente – non sono puramente casuali.
Articolo di Roberto FINESCHI
Note:
[1] A Satana è una sua celebre ode del 1863 (uscita con varianti in innumerevoli pubblicazioni e raccolte successive). Nella lettera a Giuseppe Chiarini del 15 ottobre 1863 scrive: “È inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti con la formola «Vade retro Satana»; cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all’autorità e alla forza, la materia e la forma degnamente nobilitate”.
[2] Carducci scrive su “Il popolo” di Bologna nel dicembre 1869: “Io, oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E […] io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita su l’universo”.
[3] In Traversando la Maremma toscana (1885) recita: “Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano; / E sempre corsi, e mai non giunsi il fine; / E dimani cadrò”. Già nel 1874 in Davanti San Guido, 103-04, diceva “E quello che cercai mattina e sera / Tanti e tanti anni in vano, è forse qui”.
Per scherzare su quel “cadrò”, nel senso del “morirò”, si consideri che in una lettera a Adele Bergamini del 18 aprile 1885 Carducci affermava: “Il mio naturale si fa più triste. Quando Le dicevo che non stavo bene, non era romanticismo. La morte mi ha tirato la prima scampanellata [paresi a un braccio – ndr]. Non vorrà la potente signora aspettar troppo ch’io vada. E sonerà di nuovo”. Carducci morirà nel 1907, circa… 22 anni dopo.
[4] Celebri, per es., le poesie Piemonte o Alla regina d’Italia.
[5] La Grande Bouffe, di Marco Ferreri, celebre film del 1973 con Andréa Ferréol, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli.
[6] Come è ben noto, Gramsci affronta diffusamente questi temi nei suoi Quaderni. Interessante come discuta proprio di questo – cioè del rapporto tra elaborazione intellettuale e la tesi della teoria come “ancella” della pratica – in relazione alla soluzione “d’ufficio” da parte di Stalin, che pare non dispiacere a Gramsci, del dibattito tra i “dialettici” capitanati da Deborin e i “meccanicisti” capitanati da Bucharin (Quaderno 11, §12). In questo passo Gramsci commenta: “Si tratta cioè di fissare i limiti della libertà di discussione e di propaganda, libertà che non deve essere intesa nel senso amministrativo e poliziesco, ma nel senso di auto-limite che i dirigenti pongono alla propria attività ossia, in senso proprio, di fissazione di un indirizzo di politica e culturale. In altre parole: chi fisserà i «diritti della scienza» e i limiti della ricerca scientifica, e potranno questi diritti e questi limiti essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavorio di ricerca di nuove verità e di migliori, più coerenti e chiare formulazioni delle verità stesse sia lasciato all’iniziativa libera dei singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali. Non sarà del resto difficile mettere in chiaro quando tali iniziative di discussione abbiano motivi interessati e non di carattere scientifico. Non è del resto impossibile pensare che le iniziative individuali siano disciplinate e ordinate, in modo che esse passino attraverso il crivello di accademie o istituti culturali di vario genere e solo dopo essere state selezionate diventino pubbliche ecc.”.
Fonte- Associazione La Città Futura- | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Responsabile Adriana Bernardeschi–
Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-Poesie di Mario RIVOSECCHI-“PIETRA e COLORE”-
Mario RIVOSECCHI-
Biografia di Mario Rivosecchi,conosciuto soprattutto per le sue raccolte di poesie, in cui spesso evoca i paesaggi e i luoghi della sua terra natìa, nasce a Grottammare nel 1894 e qui trascorre i primi 10 anni di vita. Il Rivosecchi visse poco a Grottammare, dove sicuramente non avrebbe potuto compiere gli studi formativi che ai suoi tempi si realizzavano soprattutto negli Atenei delle grandi città. Ebbe la fortuna di vivere a Roma , Firenze e Bologna, respirando l’aria dei ferventi moti artistici e letterari dell’epoca. In queste città d’arte, la cui atmosfera è ricca di storia e cultura, si appassiona e si avvicina allo studio dell’arte. Le sue origini sono modeste: il padre, ferroviere, nel 1904 si trasferisce a Bologna e successivamente a Roma e Firenze, dove Mario finisce il Liceo e inizia a frequentare il caffè “Giubbe Rosse”, ritrovo di molti poeti, scrittori e pittori del movimento “Futurista”. Nel 1915 entra nell’esercito e parte per il fronte. Reduce di guerra, nel 1918 si sposa e si laurea in giurisprudenza per poi iscriversi alla facoltà di Filosofia e, una volta laureato, ottiene l’incarico in materie letterarie presso “L’Istituto Tecnico” di Tolentino dove si trasferisce con la famiglia. Uomo dai mille interessi culturali studioso di letteratura e Storia dell’Arte, dimostra una volontà e una passione incrollabile nell’arricchire con nuove esperienze culturali e artistiche la propria cultura. Nel 1925, pubblica la sua prima raccolta di liriche: “MENTASTRO”. Conseguita l’abilitazione all’insegnamento di Storia dell’Arte, si trasferisce a Roma insegnando al Liceo “Visconti” e al Liceo Artistico di via Ripetta; malgrado vivesse da anni a Roma non dimenticò tuttavia il suo paesino d’origine dove, d’estate, ritornava spesso per ritrovare gli amici dell’infanzia, in particolare Vittorio Fazzini, ebanista e scultore, padre di Pericle. Fu proprio Mario a convincere Vittorio ad assecondare il talento artistico del figlio convincendolo a farlo studiare a Roma, aiutandolo ad entrare all’Accademia di Belle Arti e successivamente a vincere una borsa di studio che gli permise di mantenersi a Roma per continuare gli studi. Allievi di Mario Rivosecchi al Liceo “Visconti” furono molti giovani antifascisti: Antonello Trombadori, Bufalini, Giorgio Amendola. Nel 1938, Rivosecchi assume la direzione del Liceo Artistico e dell’Accademia di Belle Arti di Roma, mentre il primogenito, Ivo, viene arrestato per attività antifascista. Al termine della guerra trascorre un periodo difficile, sia per motivi di salute, sia per le ingiuste accuse mosse da alcuni colleghi che lo additarono come “colui che aveva tratto profitto dal fascismo”, solo perché nel 1932 fu costretto a prendere la tessera del partito a pena di esclusione dall’insegnamento. Nel 1954 esce la 1ª edizione di “Pietra e Colore”, una raccolta di liriche arricchita di disegni di Fazzini e Guttuso; quasi tutte le poesie scritte da Rivosecchi nascono durante i soggiorni estivi a Grottammare, dove il luogo preferito per ispirarsi è la “Vedetta Picena”. Nel 1974, vince il premio “SYBARIS” per la poesia. Tra le raccolte di poesie ricordiamo: “Mentastro”, “Fiore di Vento”, “Alberi amici”, “Pietra e colore”, “Ascesi”. Nelle poesie di Rivosecchi vi è un’identità di musica, pittura e poesia con connotati descrittivi ed evocazioni atmosferiche tali da rendere ogni poesia un piccolo “quadretto” contemplativo. Fonte –Sito web del Comune di GROTTAMMARE (Ascoli Piceno)
Lorenzo Rocci “padre” del famoso dizionario di Greco
Lorenzo Rocci, “padre” del famoso dizionario è nato a FARA IN SABINA (RI): breve biografia e genesi di un’opera grandiosa.
(Fara in Sabina, 11 settembre 1864 – Roma, 14 agosto 1950)
Circa 150.000 lemmi, 2074 pagine, 4148 colonne, più o meno 3 chilogrammi di peso, un lavoro durato oltre 20 anni. Questi sono soltanto alcuni degli straordinari numeri di quello che potremmo definire la “Cappella Sistina” dei vocabolari: il mitico “Rocci”, dalla sua inconfondibile copertina in pelle di colore blu.
E’ trascorso un secolo da quando il gesuita padre Lorenzo Rocci, nato nel 1864 a Fara in Sabina, iniziò in solitaria e con una pazienza certosina il suo “opus magnum”, armato soltanto di appunti e schedine scritte di proprio pugno, per redigere il primo e a tutt’oggi più noto dizionario di greco antico, che da lui prese il nome.
Per oltre mezzo secolo, dalla sua pubblicazione nel 1939 seguita a quattro anni di distanza da quella della versione definitiva, “il Rocci” ha costituito in regime monopolistico la croce e la delizia di generazioni di studenti ginnasiali e liceali che padre Lorenzo (bontà sua), anche dopo la morte che lo colse a Roma nel 1950, ha continuato ad aiutare con le sue innumerevoli citazioni e le famose “frasi fatte” già interamente tradotte in italiano, che da sole potevano trarre d’impaccio i più incerti durante le sempre temibili “versioni dal greco”, fatte in classe sotto lo sguardo vigile del professore di lettere classiche.
La stessa Società Editrice Dante Alighieri, di cui ha fatto la fortuna, riferisce le parole d’ammirazione e ringraziamento pronunziate nei confronti del nostro da un altro illustre grecista, il professor Franco Montanari, che nel 1995 ha pubblicato un nuovo vocabolario di greco realizzato però da un “team” composto da una trentina di ricercatori, cui nel 2011 ha fatto seguito l’aggiornamento del primo “Rocci”, per renderne più facile la comprensione ai moderni studenti con l’eliminazione di alcuni arcaismi ormai usciti dal linguaggio comune, frutto anch’esso del lavoro di una dozzina di studiosi dotati di computer.
E per riprendere il paragone iniziale, come Michelangelo che, tutto rapito dal suo capolavoro, poteva lavorare per ore in posizione supina e con le braccia all’insù, disteso su una tavola sospesa ad una ventina di metri d’altezza senza sentire dolore e fatica, così non era raro vedere padre Rocci seduto alla sua scrivania, in una stanza piena di libri, mentre scorreva i suoi appunti “facendo impressione perché, per quanto era preso dal lavoro, per non perdere la concentrazione dimenticava spesso di togliersi il soprabito in pieno agosto”, come raccontò il suo allievo padre Giuseppe Peri.
Figlio di un modesto artigiano, Lorenzo Rocci entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù, completando gli studi filosofici e teologici all’Università Gregoriana e poi quelli classici alla Sapienza, dove si laureò nel 1890. A partire dal 1903 iniziò ad insegnare latino e greco nel Collegio gesuitico di Villa Mondragone, a Frascati, per una carriera destinata a durare oltre quarant’anni.
Grammatico, metricista, storico, agiografo e memorialista, padre Lorenzo fu però prima di tutto un eccelso latinista ed un formidabile grecista, come già ebbero modo d’intuire i componenti della commissione del suo esame di laurea, fra i quali figurava il poeta Giosuè Carducci che, nonostante il noto anticlericalismo, si complimentò personalmente con lui dicendogli: “Lei non solo ha fatto molto bene, ma farà benissimo!”.
Dopo la pubblicazione di numerosi saggi, testi scolastici e grammatiche greche e latine, ecco allora affacciarsi in padre Rocci l’idea di dotare finalmente gli studenti di un vocabolario greco – italiano scritto nella nostra lingua, e non semplicemente tradotto a sua volta da ottocenteschi dizionari di autori tedeschi o inglesi.
La prima copia della sua immane fatica la regalò al coltissimo Papa Pio XII, il quale l’apprezzò a tal punto che lo ringraziò con un biglietto autografo con scritto: “Veramente il tuo lavoro – diletto figlio – benché altissimo per gli scolari, non è un semplice manuale, ma si presenta con tali caratteri di ampiezza e dottrina, anche nuova e recondita, da spiccare tra quanti simili si son pubblicati finora in Italia, anzi da vincerli facilmente”.
Ma padre Rocci, oltre che un esimio studioso e letterato, fu prima di tutto un uomo dalla fede profonda il quale, il tempo che non impiegava negli studi o nell’insegnamento, lo trascorreva nel proprio confessionale nella Chiesa del Gesù, a Roma.
Sul letto di morte, che lo colse all’età di 86 anni, ancora lucidissimo dopo l’estrema unzione volle fumarsi un ultimo sigaro, prima di spirare con la bonarietà e serenità di chi era conscio, in vita sua, di aver ricevuto, ma soprattutto di aver donato tanto a tanti, inclusi i diritti d’autore della sua opera coi quali i Gesuiti avrebbero contribuito a finanziare e finanziano ancora le loro missioni estere.
Lorenzo Rocci (Fara in Sabina, 11 settembre 1864 – Roma, 14 agosto 1950)è stato un presbitero, grecista e lessicografo italiano, noto soprattutto come autore del primo moderno e completo Vocabolario greco-italiano.
Foto della casa natale del Rocci sono di Alessandra Finiti-
Lorenzo Rocci “padre” del famoso dizionario di GrecoLorenzo Rocci “padre” del famoso dizionario di GrecoFara in Sabina (RI)-Casa natale di Lorenzo Rocci-Foto di Alessandra FINITIFara in Sabina (RI)-Casa natale di Lorenzo Rocci-Foto di Alessandra FINITILorenzo Rocci “padre” del famoso dizionario di Greco
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.