Vins Gallico-Storia delle librerie d’Italia– Newton Compton Editori Roma-
Storia delle librerie d’Italia-ai negozi storici ai librai indipendenti, fino alle grandi catene moderne nel libro di Vins Gallico: l’evoluzione della vendita dei libri nel nostro Paese-Le librerie non sono semplici negozi, ma sono qualcosa di più e di diverso. Sono luoghi di incontro, di diffusione culturale, con alle spalle vicende incredibili (personali, aziendali, famigliari). Vins Gallico ricostruisce la storia delle librerie italiane, mostrando l’evoluzione che il commercio dei libri ha seguito, ma soprattutto racconta la storia di una passione, di una devozione, di un’utopia. Dalle botteghe ottocentesche alle soluzioni più moderne, dagli enormi store di catena alle minuscole librerie di quartiere dove c’è posto a malapena per qualche cliente alla volta, questo è un viaggio fra passato…
Nota Biografica di Vins Gallico
L’Autore Vins Gallico è nato a Melito Porto Salvo (RC) nel 1976. Ha pubblicato Portami Rispetto (Rizzoli 2010), Final Cut (Fandango 2015), La barriera (Fandango 2017), A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Giulio Perrone Editore 2022). È stato direttore delle librerie Rinascita e Fandango Incontro a Roma.Vins Gallico (Melito di Porto Salvo, 1976) ha scritto Portami rispetto (Rizzoli), Final Cut (Fandango Libri), La barriera (Fandango Libri), A Marsiglia con Jean-Claude Izzo (Giulio Perrone Editore) e Storia delle librerie d’Italia (Newton Compton). Ha lavorato come editor, traduttore, ufficio stampa, libraio e ha insegnato Lingua e letteratura italiana all’Università di Gottinga e di Brema. Fa parte del consiglio direttivo dei Piccoli Maestri ed è il coordinatore di Scena, ex Filmstudio, luogo storico del cinema italiano.
Le librerie più belle di Roma: la guida
Feltrinelli di Largo Argentina
La Feltrinelli è una delle migliori libreria di Roma, l’ideale per chi ama perdersi tra centinaia di libri. Si estende infatti su tre piani pieni di libri di ogni tipo.
Molto apprezzabile anche il caffè letterario che permette di immergersi nella lettura e di chiacchierare amabilmente sorseggiando caffè e cioccolate calde nella massima comodità.
Giufa
La libreria caffè Giufa è ottima per chi cerca un bel po’ di volumi di narrativa italiana e straniera. Nella libreria possiamo riposarci nei comodi salottini e leggere le molte pubblicazioni a tema arte, cinema, musica, fumetti sia di origine italiana che appartenenti ad altre culture.
Bookabar
Bookabar si espande su 450 metri. Si possono acquistare libri, CD musicali su arte, architettura e persino produzioni artigianali più moderne.
Libreria Caffé Bohèmien
La Libreria Caffé Bohèmien omaggia l’ospite con una elegante cornice novecentesca, dove si possono sorseggiare té e vini davvero gustosi. Gli artisti possono esporre gratuitamente le proprie opere. Si può anche suonare il pianoforte!
Caffè letterario
Il caffè letterario è ricordato come la prima libreria caffè romana. Il locale permette di scegliere tra molti libri e allo stesso tempo sorseggiare tè, caffè. magari mentre si naviga in internet. Il locale colpisce per le scelte particolari in tema di design, permette sia di acquistare che di leggere i libri, insomma è un vero paradiso di relax culturale.
Borri Books a Termini
La libreria Borri Books si distribuisce su tre livelli ed è molto popolata siccome è molto vicina alla stazione. Abbiamo libri di ogni genere (psicologia, teatro, cucina, libri per i più giovani, libri in altre lingue…). Vista la sua vicinanza alla stazione è molto comoda per comprare al volo libri comuni che possono essere trovati in store di queste dimensioni.
Libreria Caffè Mangiaparole
Libreria Caffè Mangiaparole è un locale chic ma accogliente, un luogo pregno di cultura dove si può assaporare un gustoso caffè mentre si legge un libro.
E tu che cosa ne pensi? Quali sono le tue librerie preferite con caffè annesso a Roma? Parliamone qua sotto!
Giacomo Leopardi-Canti-A cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli
Giacomo Leopardi-Canti
Descrizione del libro-Giacomo Leopardi «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le piú terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle piú acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, riaccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta». Giacomo Leopardi
ET Classici
LXXIV – 448
€ 13,00
ISBN 9788806230043
A cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli
Giacomo LEOPARDI
La vita di Giacomo Leopardi in breve
Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798 da una famiglia nobile decaduta. Affidato dal padre Monaldo a precettori ecclesiastici, rivela doti eccezionali: a soli dieci anni sa tradurre all’impronta i testi classici e compone in latino.
Il rapporto coi genitori è molto difficile. Giacomo sta spesso da solo, studia nella grande biblioteca paterna, in dialogo muto con gli autori antichi. Tra il 1809 e il 1816 passa “sette anni di studio matto e disperatissimo”, durante i quali impara alla perfezione varie lingue, traduce i classici, compone opere erudite, studia poesia e filosofia. Questa vita solitaria e reclusa lo mina nel fisico e nello spirito.
Il 1816 è l’anno della “conversione letteraria”, passa dall’erudizione al bello e alla poesia. Invia le sue prime prove a Pietro Giordani, che lo incoraggia. Nel 1817 comincia a scrivere il suo diario infinito, lo Zibaldone (1817-1832) e scrive le prime canzoni civili.
Nel 1819 tenta di fuggire da casa, ma il padre lo ferma: Recanati è ora una prigione e il giovane cade in depressione. La produzione poetica però non ha sosta: compone gli Idilli (L’Infinito, Alla luna …) e le grandi canzoni civili.
Nel 1822 finalmente va a Roma dagli zii materni, ma il viaggio è deludente. Tornato a Recanati, nel 1823 scrive le Operette morali.
Nel 1825 è a Milano, dove lavora per l’editore Stella. In povertà, si sposta tra Bologna e Firenze, accolto nei circoli letterari e nei salotti mondani. Nel 1828 a Pisa ritrova la vena poetica che pareva perduta: inizia il ciclo dei Grandi Idilli.
Tra la fine del 1828 e il 1930 ritorna a Recanati. Ricorderà il periodo come “sedici mesi di notte orribile”, ma è allora che scrive alcuni tra i suoi canti più famosi: La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio…
Con l’aiuto di amici lascia per sempre il “natio borgo selvaggio” e va di nuovo a Firenze. Dall’amore non corrisposto con Fanny Targioni Tozzetti nasce Il ciclo di Aspasia. Nel 1832 sospende lo Zibaldone.
Nell’ottobre del 1833 si trasferisce a Napoli insieme all’amico Antonio Ranieri. Benché ormai molto provato nel fisico, partecipa alla vita culturale partenopea. A Torre del Greco, in fuga dal colera che imperversa in città, compone due tra le sue più grandi poesie: La ginestra o il fiore del deserto (1836) e Il tramonto della luna (1837), che costituiscono il suo testamento poetico e spirituale.
Muore a Napoli il 14 giugno 1837 e viene sepolto accanto all’amato Virgilio.
La Storia, il più celebre e discusso tra i romanzi di Elsa Morante
Descrizione
A questo romanzo (pensato e scritto in tre anni, dal 1971 al 1974) Elsa Morante consegna la massima esperienza della sua vita “dentro la Storia” quasi a spiegamento totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative: da “L’isola di Arturo” a “Menzogna e sortilegio”. La Storia, che si svolge a Roma durante e dopo la seconda guerra mondiale, vorrebbe parlare in un linguaggio comune e accessibile a tutti.
Elsa Morante
RIASSUTO
A Roma, devastata dalla guerra, vive Ida Ramundo una maestra ebrea di trentasette anni, vedova e madre di Nino. Una sera di gennaio del 1941 Ida viene violentata da un soldato tedesco ubriaco. Frutto della violenza è Useppe, un bambino allegro e vivace.
Nel 1943 un bombardamento distrugge la casa di Ida che con i figli si trasferisce in un ricovero per sfollati a Pietralata. Tra stenti, disperazione e umana solidarietà trascorrono gli anni della guerra. Nino si arruola prima nelle camicie nere, poi partecipa alla lotta partigiana. Conosce l’ebreo e anarchico umanitario Davide Segre con cui ritorna a casa.
Nel 1945 alla fine del conflitto per Ida continuano le difficoltà e le sofferenze. Mentre Davide tenta l’inserimento con il lavoro in fabbrica al Nord, Nino non riesce a trovare una sua strada, si dà al contrabbando e resta ucciso in uno scontro con la polizia. Solo la presenza Useppe consente a Ida di superare il dolore. Anche Davide fallito il suo tentativo torna a Roma e diventa amico di Useppe.
Un giorno viene trovato morto nella baracca in cui vive, ucciso dalla droga. Intanto si manifesta l’epilessia, finora latente, di Useppe, di fronte alla quale Ida non può nulla. Una violenta crisi epilettica uccide il bambino. Ida non regge al dolore e perde la ragione. Ricoverata in manicomio muore nove anni più tardi.
Fonte: Wuz.it
Elsa Morante
Recensione del romanzo La Storia della scrittrice Elsa Morante,
con analisi precisa della storia e dei personaggi.
Articolo di Stefano Benucci
Questo non è un romanzo, è un mondo intero! C’è la grande letteratura, ci sono le drammatiche vicende di una famiglia romana negli anni del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra, l’amore, la disperazione la miseria, la fame, il dramma, la tenerezza e c’è la storia di Roma e dell’Italia di quegli anni ed anche la storia del resto del mondo che viene velocemente spartito dalle grandi potenze. Si tratta di un romanzo di ben oltre mille pagine molto articolato e pieno di sfaccettature con decine e decine di personaggi difficile da descrivere in poche righe. Il corso narrativo del romanzo si dipana intorno a Ida, giovane vedova e maestra elementare, di origine ebrea, che vive a Roma con l’irrequieto figlio adolescente Nino (detto Ninnuzzo). Ida, nel 1941, viene violentata da un soldato tedesco. Da questo drammatico evento nasce il piccolo Giuseppe (detto Useppe). Sono tempi durissimi, l’occupazione tedesca, la deportazione degli ebrei, i primi bombardamenti, i rifugi di fortuna, la fame. Mai in nessun libro ho trovato una descrizione così coinvolgente di quello che succedeva in quei giorni. Mai ho letto una così efficace rappresentazione della disperazione, della solitudine, della forza di volontà di una madre che lotta contro ogni avversità per la vita di un figlio. Ninnuzzo è sempre fuori, chissà dove, prima camicia nera e avanguardista, poi partigiano e stalinista, poi contrabbandiere. La povera Ida attraversa gli anni più duri della nostra storia in modo drammatico. Mi fermo qui per non spoilerare ma devo dire anche che il romanzo è infarcito di decine di personaggi credibilissimi, alcuni appena accennati, altri ben definiti che aiutano a capire l’Italia di allora. Una citazione particolare per il piccolo Useppe, personaggio tenerissimo, che nella seconda parte del romanzo diventa protagonista assoluto alla scoperta delle miserie della Roma appena uscita dalla guerra, sempre scortato dalla gigantesca cagna Bella che stravede per lui. Un libro consigliatissimo. L’unica controindicazione è che dà un po’ di dipendenza e che appena finite le 1.300 pagine si prova un senso di vuoto ma del resto con i veri capolavori succede.
-Traduzione di Giovanni Buttafava e Serena Vitale-
ADELPHI EDIZIONI – Milano
In una delle sue vite precedenti Iosif Brodskij fu sicuramente italiano. E quando l’esilio lo costrinse a lasciare la Russia, a cambiare continente e impero, il poeta si affrettò a tornare nel paese per cui aveva sempre nutrito una lancinante nostalgia, che aveva illuminato la sua memoria con squarci di luce anche nei plumbei anni dei soprusi e della persecuzione. Venne in Italia, e lo colse come una vertigine la gioia dell’agnizione: riconobbe volti, vie, piazze, calli, lungarni, luoghi di battaglie, antichissimi compagni di avventure e disastri. Riconobbe soprattutto il profumo del mare e per una volta ancora ammirò i prodigi dell’acqua, la pronuba che aveva per sempre apparentato le sue due patrie: quella reale e quella del ricordo, Pietroburgo e Venezia. In Italia, Brodskij entrava nel paesaggio come la figura del donatore in una pala d’altare. E quel panorama di rovine e smozzicate vestigia esaltava in lui la percezione del fondale necessario di ogni letteratura: il tempo.
Iosif Brodskij- Poeta russo-Iosif Brodskij-Poesie italiane-
Iosif Brodskij- Poeta russo (Leningrado 1940 – New York 1996)
In copertina-Illustrazione tratta dall’ Hypnerotomachia Poliphili, Aldo Manuzio, Venezia, 1499.
ADELPHI EDIZIONI S.p.A-
Via S. Giovanni sul Muro, 14
20121 – Milano
Tel. +39 02.725731 (r.a.)
Iosif Brodskij- Poeta russo (Leningrado 1940 – New York 1996).Di famiglia ebrea, autodidatta, avendo lasciato la scuola a 15 anni, cominciò a pubblicare le sue poesie nel 1958. Processato per “parassitismo”, subì un periodo di reclusione (1964-65). Espulso dal suo paese nel 1972, ha vissuto negli USA, dove sono apparse tutte le sue raccolte di versi: Stichotvorenija i poemy (“Poesie e poemi”, 1965); Ostanovka v pustyne (1970; trad. it. Fermata nel deserto, 1979); Konec prekrasnoj epochi (“Fine di una bellissima epoca”, 1977); Čast reči (“Parte del discorso”, 1977); Rimskie elegii (“Elegie romane”, 1982); Novye stansy k Auguste (“Nuove stanze ad Augusta”, 1983). Altra traduzione italiana: Poesie 1972-1985 (1986). Fedele a una tradizione che egli tuttavia rielabora in modi personali, arricchendola in particolare di suggestioni che provengono non solo dalla lezione di O. E. Mandel´štam e di B. L. Pasternak, ma anche da J. Donne, T. S. Eliot e W. H. Auden, e dalla conoscenza della Bibbia, B. è poeta intimo e speculativo, cantore di una memoria lucida e disincantata, lontano da tentazioni declamatorie. In inglese ha pubblicato una raccolta di saggi, ricordi e ritratti (Less than one, 1986, trad. it. in 2 voll.: Fuga da Bisanzio, 1987, e Il canto del pendolo, 1987), in italiano Fondamenta degli Incurabili (1989). Nel 1987 gli è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura. Negli anni Novanta ha continuato a risiedere negli Stati Uniti, dove ha svolto attività accademica e dove è stata pubblicata la sua ultima raccolta di saggi in inglese, On grief and reason (1995; trad. it. 1998), e una raccolta di poesie, in parte tradotte, in parte composte direttamente in inglese, dal titolo So forth (1996). In traduzione italiana è stata pubblicata la raccolta Poesie italiane (1996), voluta espressamente dal poeta. Nel 1989 era stato “riabilitato” nella sua patria, che negli anni Novanta manifestò un crescente interesse per il poeta. È stata pubblicata una prima raccolta di opere, Sočinenija Josifa Brodskogo (“Opere di Iosif Brodskij”, 4 voll., 1992-95), e dopo la sua morte si è dato inizio alla pubblicazione della sua opera completa. Inoltre sono apparsi alcuni volumi di versi, Bog sochranjaet vsë (“Dio conserva tutto”, 1992) e Pejsaž s navodneniem (“Paesaggio con inondazione”, 1995), e il volumetto dedicato alla poetessa M.I. Cvetaeva (O Cvetaevoj “Sulla Cvetaeva”, 1997). Per suo espresso desiderio è stato sepolto a Venezia.
-Janet Skeslien Charles- La biblioteca di Parigi –
-Editore Garzanti-
Janet Skeslien Charles- La biblioteca di Parigi
Descrizione-Nessuno può far tacere i libri.Parigi,una storia unica in cui tre ingredienti si mescolano alla perfezione: la resistenza durante l’occupazione nazista, il fascino intramontabile di Parigi e la magia dei libri che devono essere sempre salvati e protetti da ogni male.
Parigi, 1940. I libri sono la luce. Odile non riesce a distogliere lo sguardo dalle parole che campeggiano sulla facciata della biblioteca e che racchiudono tutto quello in cui crede. Finalmente ha realizzato il suo sogno. Finalmente ha trovato lavoro in uno dei luoghi più antichi e prestigiosi del mondo. In quelle sale hanno camminato Edith Wharton ed Ernest Hemingway. Vi è custodita la letteratura mondiale. Quel motto, però, le suscita anche preoccupazione. Perché una nuova guerra è scoppiata. Perché l’invasione nazista non è più un timore, ma una certezza. Odile sa che nei momenti difficili i templi della cultura sono i primi a essere in pericolo: è lì che i nemici credono che si annidi la ribellione, la disobbedienza, la resistenza. Nei libri ci sono parole e concetti proibiti. E devono essere distrutti. Odile non può permettere che questo accada. Deve salvare quelle pagine, in modo che possano nutrire la mente di chi verrà dopo di lei, come già hanno fatto con la sua. E non solo. La biblioteca è il primo luogo in cui gli ebrei della città provano a nascondersi: cacciati dalle loro case, tra i libri si sentono al sicuro, e Odile vuole difenderli a ogni costo. Anche se questo significa macchiarsi di una colpa che le stritola il cuore. Una colpa che solo lei conosce. Un segreto che, dopo molto tempo, consegna nelle mani della giovane Lily, perché possa capire il peso delle sue scelte e non dimentichi mai il potere dei libri: luce nelle tenebre, spiraglio di speranza nelle avversità.
Per le nozze del sig. avv. Giuseppe Bongiovanni di Reggio nell’Emilia colla signora Fanny Bolasco Pintor-Pasella di Cagliari. Versi, Reggio-Emilia, Tipi di S. Calderini e figlio, 1881.
Studio su Gian Vincenzo Gravina, prefazione di Giosuè Carducci, Bologna, Zanichelli, 1885.
Dell’ode alla musa di Giuseppe Parini, Firenze, Sansoni, 1889.
Il canto XIX dell’Inferno letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1900.
Prose critiche di storia e d’arte, Firenze, Sansoni, 1900.
La bella donna del Paradiso terrestre, Firenze, Ufficio della Rassegna nazionale, 1901.
Il canto XI del Paradiso letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1903?
Il canto XII del Paradiso letto da Alfonso Bertoldi nella Sala di Dante in Orsanmichele, Firenze, G. C. Sansoni, 1912?
Nostra maggior musa, Firenze, G. C. Sansoni, 1921.
Curatele
Antonio Canova, Sei lettere autografe di Antonio Canova tratte dal Museo civico e raccolta Correr di Venezia da A. Bertoldi, Venezia, Tip. del commercio di M. Visentini, 1879.
Giuseppe Parini, Le odi illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi, Firenze, Sansoni, 1890.
Vincenzo Monti. Poesie, scelte, illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi, Firenze, Sansoni, 1891.
Alessandro Manzoni, Poesie liriche con note storiche e dichiarative di Alfonso Bertoldi, Firenze, G. C. Sansoni, 1892.
Vincenzo Monti, Lettere inedite e sparse di Vincenzo Monti raccolte, ordinate e illustrate da Alfonso Bertoldi e Giuseppe Mazzatinti, Torino-Roma, L. Roux e c., 1893-1896.
Pietro Giordani, Venti lettere inedite di Pietro Giordani con un discorso di Alfonso Bertoldi, Reggio nell’Emilia, Stab. degli Artigianelli, 1895.
Alessandro Manzoni, Prose minori. Lettere inedite e sparse. Pensieri e sentenze con note di Alfonso Bertoldi, Firenze, G. C. Sansoni, 1896.
Ugo Foscolo, Tre lettere inedite di Ugo Foscolo, a cura di Alfonso Bertoldi, Prato, Tip. Giachetti, figlio e C., 1903.
Alfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEAlfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANEBiblioteca DEA SABINA- Alfonso Bertoldi-NOTERELLE MONTIANE-Rivista PAN n°7 del 1935
Biografia di Vincenzo Monti nacque ad Alfonsine, borgo romagnolo facente parte dei dominii dello Stato Pontificio (attualmente in provincia di Ravenna), il 19 febbraio del 1754, figlio di Fedele Maria Monti, un perito agrimensore, e Domenica Maria Mazzari, entrambi proprietari d’un podere nei pressi della zona. Aveva tre fratelli maggiori, Cesare, che fu prete, Giovan Battista, frate cappuccino, e Francesc’Antonio, oltre che cinque sorelle, tre delle quali, Lucia Dorotea, Rosa Geltrude e Maria Maddalena, diventeranno monache. Narrano i biografi che all’età di cinque anni cadde nel fosso del mulino della proprietà, salvandosi miracolosamente.[1]
Ad otto anni fu condotto nella vicina Fusignano, dove ebbe come maestro don Pietro Santoni (1736-1823), che era anche un rinomato poeta dialettale. Nel 1766 entrò nel seminario di Faenza, studiando latino con il famoso Francesco Contoli.[2] Vi rimase dai dodici ai diciassette anni (a tredici prese la tonsura) e nel 1771 manifestò l’intenzione di entrare nell’Ordine Francescano. Privo però di una vera vocazione, accantonò presto l’idea, trasferendosi con il fratello Francesc’Antonio a Ferrara, dove studiò diritto e medicina presso l’Università degli Studi. Dovette lottare per abbandonare definitivamente il borgo natìo, dove la famiglia, totalmente insensibile alla letteratura, voleva trattenerlo. Molto interessante al proposito appare la lettera che il giovane Monti scrisse, nel 1773, all’abate longianeseGirolamo Ferri, suo professore nel seminario faentino:
«La dittatura è passata ai miei fratelli, che hanno intenzione risoluta di levarmi da Ferrara…
Signor Maestro, … se ella scopre per accidente un nicchio, io sono in caso d’entrarvi dentro
a piè pari, e in qualità di quel che si vuole, e presso chiunque.»
(Lettera a Girolamo Ferri, 1773)
Niccolò Tommaseo: apprezzò particolarmente i primi componimenti latini del Monti
Si intravedono subito alcuni elementi chiave della sua personalità, fra cui la tendenza ad accomodarsi a diversi fini a seconda delle esigenze personali. Soprattutto per questo approfondì gli studi biblici, emergenti nella prima parte della sua produzione.
Dimostrò comunque un talento sorprendente e precoce per le lettere e già nel luglio 1775 venne ammesso all’Accademia dell’Arcadia con il soprannome di Antonide Saturniano, ingraziandosi, bello d’aspetto,[3] le prime protettrici, l’anziana marchesa Trotti Bevilacqua[4] e la contessa Cicognini. Cominciò a scrivere versi latini di argomento sacro per farsi notare dagli ambienti ecclesiastici (non si dimentichi poi che a Ferrara spopolavano gli apprezzatissimi e pii poeti Alfonso Varano e Onofrio Minzoni), ma sin d’ora vi si mescolò il profano, come si evince dal Nuovo amore, canzonetta in quartine dello stesso 1775, in cui con un finto pathos unito a distacco si fa riferimento all’amore per una “bella toscanella” conosciuta nel collegio di Santa Trinita di Firenze, dov’era compagna della sorella.[5] Questa infatuazione giovanile evidentemente non fu gran cosa e, quando arriveranno le pene vere d’amore, più avanti, si noterà la differenza.[6]
Esordì con componimenti di vario tipo, tra cui si possono ricordare i sonetti Il matrimonio alla moda e Il ratto di Orizia, debitori di Parini il primo, di Giuliano Cassiani (e del suo Ratto di Proserpina) il secondo, in conformità ai fermenti arcadici del periodo. Copiosa fu ai primordi anche la produzione latina, che delizierà Niccolò Tommaseo.
Poté pubblicare l’anno successivo il suo primo libro, La visione di Ezechiello (in onore di don Francesco Filippo Giannotti, arcivescovo di Minerbio, che aveva visto predicare a Ferrara), impostato sul modello varaniano delle Visioni sacre e morali, che godeva di molta fortuna all’epoca, specialmente nell’entourage arcadico.[7] Di stesso stampo sono altre due Visioni coeve, dedicate ancora ad alti prelati.
Sin dall’inizio si manifesta una tendenza spesso ricorrente nel Monti: la rielaborazione di modelli precedenti. Il poeta non inventa nulla di nuovo, ma nuovo è il modo in cui fonde assieme le fonti, creando così uno stile affatto peculiare. Qui ovviamente è l’Arcadia a dominare (e il suo stile non abbandonerà mai l’ala dell’Accademia) e non si può tacere l’ammirazione nutrita in questo momento per Frugoni, ma evidenti, come si può intuire già dal titolo, sono anche le citazioni bibliche, come fin dall’inizio Dante (soprattutto) e Petrarca sono nomi imprescindibili del suo repertorio.
Il 26 maggio 1778, al seguito del legato pontificio a Ferrara – il cardinale Scipione Borghese – si recò a Roma, per cercare gloria e fuggire l’angustia di un mondo divenutogli troppo stretto, e vi ottenne l’appoggio del celebre archeologoEnnio Quirino Visconti, cui dedicò l’anno seguente un saggio di poesie dall’influsso metastasiano (si consideri solo il titolo dell’ultimo componimento, Giunone placata, che ricorda la Didone abbandonata). Vide la luce, nello stesso anno del Saggio, anche la Prosopopea di Pericle, poema d’occasione suggerito a Monti da Visconti, in seguito al ritrovamento in marzo, in una villa di Tivoli, di un’erma del condottiero ateniese. Tutto ciò funse da pretesto per glorificare l’età presente, considerata superiore a quella classica.
Le opere di questo periodo sono fortemente influenzate dalla necessità di emanciparsi economicamente dalla famiglia ed è quindi naturale che in esse prevalga il tono adulatorio, all’interno, tuttavia, di una cornice stilistica armoniosa e cristallina, in cui gli stilemi neoclassici predominano, anche se non mancano contaminazioni provenienti dalla letteratura sepolcrale e dall’incipiente gusto romantico. In ogni caso, come già a Ferrara, l’intento è quello di sfruttare le occasioni contingenti per accattivarsi la protezione dei potenti.
Per qualche mese, tuttavia, la produzione poetica fu trascurabile e Monti si diede alla lettura di alcuni filosofi, tra i quali Locke, Leibniz, Condillac ed Helvetius.[9]
Nel 1781 il papa romagnolo Pio VI, al secolo Giannangelo Braschi, mecenate e poeta dilettante, aveva chiamato a Roma il nipote Luigi Onesti, unendolo in matrimonio con la quindicenne Costanza Falconieri, che possedeva una ricca dote. L’evento suscitò un profluvio di componimenti arcadici, tra i quali quello del Monti, il poemetto in terzine La bellezza dell’universo, che incantò la platea del Bosco Parrasio e meritò la stima del pontefice, che lo nominò segretario del nipote principe Luigi Onesti (cui era ora stato associato il cognome Braschi), facendolo entrare nelle grazie dell’ambiente papalino.
Un cardinale francese, nel frattempo, gli commissionò, dietro lauta ricompensa, l’ennesima prestazione d’occasione; si tratta di due cantate in onore del Delfino di Francia (una delle quali musicata dal Cimarosa) che era appena venuto alla luce, Luigi Giuseppe.
Infausto nelle intenzioni e nell’esito fu Il Pellegrino Apostolico (1782), in cui con tono enfatico, in due canti, celebrò il successo della visita papale a Vienna, dove Pio VI incontrò l’ostile Giuseppe II, nella speranza di giungere ad una conciliazione. Il poema celebra il successo della spedizione, ma in realtà ben presto la visita si rivelò un fallimento e valse anche molte critiche al vescovo di Roma.
I Pensieri d’amore, un’apertura romantica?
Il suo stile abbandonò la fredda adulazione con gli endecasillabi sciolti Al principe Sigismondo Chigi e ancor più con i celebri Pensieri d’Amore, dove freme di passione disperata per una giovinetta che la critica ha identificato nell’educanda Carlotta Stewart, che Monti aveva conosciuto tra settembre e ottobre a Firenze nella casa della livornese Fortunata Sulgher Fantastici[10] e che aveva pensato di sposare, salvo incontrare il diniego dei parenti di lei, ricchi assai più del poeta, che a Roma viveva ancora miseramente. Fortunata e il principe Sigismondo Chigi furono confidenti delle pene amorose del poeta. Il Chigi (Roma 1736 – Padova 1793), Custode del Conclave, ebbe fama di liberale e molto amava la poesia, che praticò con successo, ricevendo anche i complimenti del Visconti. Spirito libero e aperto, si sposò due volte e dovette subire l’accusa, falsa, di aver avvelenato un cardinale per gelosia.[11]
Il modello delle due opere è da ricercare senz’altro nel Werther, che Monti lesse nell’anonima traduzione francese, e con cui condivideva il nome della protagonista femminile. I Pensieri d’amore adottano uno stile più malinconico e sincero e costituiscono le prime avvisaglie di un avvicinamento, forse non emotivo ma certamente formale, alla poetica romantica, tanto che lo stesso Leopardi ne trarrà ispirazione per alcuni dei suoi componimenti più famosi,[12] come si evince da questi versi:
«Alta è la notte, ed in profonda calma
dorme il mondo sepolto,
…Io balzo fuori dalle piume, e guardo;
e traverso alle nubi, che del vento
squarcia e sospinge l’iracondo soffio,
veggo del ciel per gl’interrotti campi
qua e là deserte scintillar le stelle.
Oh vaghe stelle!…»
(Pensieri d’amore, VIII, 124-132)
Ritorno al neoclassicismo
Testa di Feronia. Reperto datato ultimo quarto del II secolo a.C. e originario di Punta di Leano, Terracina
Tuttavia è ancora presto, la sua poesia rimane nel solco della tradizione arcadica e in sintonia con la lezione degli illuministi. Monti continua a frequentare l’Accademia e qui recita le due opere successive, il sonetto Sopra la morte (alla fine saranno quattro, e vedranno la luce nel 1788), molto popolare all’epoca, e l’ode Al signor di Montgolfier, scritta in quartine. Essa trasse spunto dal secondo volo aerostatico della storia con equipaggio, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783. In una comunione stupita col popolo, Monti ne trae un’opera sincera, non commissionata, imbastita sul paragone tra le imprese della nave Argo e quelle della mongolfiera, in un parallelo volto ad esaltare, come nella Prosopopea, la modernità, e, in un afflato del tutto illuminista, il progresso umano. Benché l’opera sia intitolata ai fratelli Montgolfier, che avevano svolto esperimenti analoghi nei mesi precedenti suscitando grande entusiasmo (tra cui il primo volo umano del 21 novembre su Parigi), il volo descritto da Monti nell’opera non fu realizzato dai Montgolfier bensì dal loro rivale Jacques Alexandre César Charles, assieme a Nicolas-Louis Robert, citati espressamente nel testo assieme a Montgolfier.
Nel 1784 cominciò a metter mano a un testo sul quale sarebbe ritornato per tutta la vita, senza mai riuscire a completarlo. Si tratta della Feroniade, il cui titolo rimanda alla ninfa amata da Zeus e perseguitata da Giunone. Anche qui non manca il pretesto: questa volta si vuole glorificare l’intenzione di Pio VI di bonificare le paludi dell’Agro Pontino, opera che non ebbe lieto esito ma suscitò grande risonanza e anticipò la famosa bonifica mussoliniana. L’opera che ci è stata tramandata conta ben 2000 versi sciolti. L’idea per il tema venne al Monti nel corso delle battute di caccia che conduceva assieme al principe Braschi Onesti nella zona di Terracina, dove vide la fontana Feronia citata da Orazio e si lavò anch’egli ora manusque[13] (le mani e il volto, perché qui ora è naturalmente da intendersi come sineddoche). La critica ha ravvisato gli innumerevoli rimandi stilistici e tematici a Virgilio, mentre Carducci ha parlato di influenza omerica.[14] In ogni caso, sono testimonianze che ben rilevano il gusto neoclassico dell’opera.
Tra il maggio del 1781 e quello del 1783Vittorio Alfieri trascorse il suo secondo soggiorno romano e nell’Urbe fece conoscere alcune delle sue tragedie (sono in particolare gli anni della composizione del Saul, recitato in Arcadia il 3 giugno 1783 alla presenza anche di Monti). Monti, che per Alfieri nutriva un’ammirazione mista a invidia,[15] pensò di virare verso il genere tragico, cercando di soddisfare il pubblico che per opere di questo tipo chiedeva, come ebbe a rilevare Francesco De Sanctis, uno stile che fosse una via di mezzo tra la durezza alfieriana e l’espressività metastasiana.
In questo modo nacque l’Aristodemo, storia dei tormenti di un padre che ha ucciso la figlia per ambizione. La fonte è classica: ci narra la storia in poche righe il greco Pausania, e l’argomento era già stato messo in tragedia nel secolo precedente da Carlo de’ Dottori in un’opera che offre alcuni spunti ravvisabili nel testo montiano.[16] L’opera, rappresentata il 16 gennaio 1787 al Teatro Valle (la prima assoluta risale all’anno precedente, a Parma), riscosse un ampio successo, per quanto non siano poi mancate, in un secondo momento, delle voci critiche. In ogni caso Monti era sempre più protagonista indiscusso della vita letteraria romana. A Parma, inoltre, l’opera fu pubblicata per i tipi di Giambattista Bodoni, editore di prestigio nella città che veniva definita “Atene d’Italia”.
Nell’Aristodemo il rimorso è il vero protagonista del testo, in un’atmosfera a metà strada tra il Racconto d’inverno e Delitto e castigo (seppur non allo stesso livello di pathos e di introspezione psicologica, perché Monti è sempre più leggero, anche quando è solenne) e nella compresenza di varie fonti ispiratrici; oltre a Dante, Petrarca o lo stesso Alfieri, sono ravvisabili le sirene del Nord, tali da giustificare la definizione, per l’opera, di “tragedia sepolcrale”.[17]
Fu durante una rappresentazione privata dell’opera, nel 1786, che il poeta si invaghì della sedicenne Teresa Pichler, che aveva recitato assieme a lui. Questo fu il preludio alle nozze di cinque anni più tardi.[18]
Sull’onda del successo scrisse ancora due tragedie, una modesta, Galeotto Manfredi (1787), e una di maggior spessore, Caio Gracco, che ebbe una gestazione più lunga (1788-1800). La commissione del Galeotto fu assegnata al poeta da Costanza Falconieri, che desiderava una vicenda “domestica”. La trama è tratta dalle Istorie Fiorentine del Machiavelli, dove si narra di come la moglie di Galeotto, signore di Faenza, e figlia di Bentivoglio, signore di Bologna – corrispondente nella realtà a Francesca Bentivoglio e portata sulla scena con il nome di Matilde -, avesse ordito e portato a compimento nel 1488 un complotto per uccidere il consorte, «o per gelosia, o per essere male dal marito trattata, o per sua cattiva natura».[19] Monti, nell’Avvertimento anteposto al testo, dichiara di aver scelto la prima ipotesi, vista la libertà in cui lo lasciavano le varie teorie di Machiavelli.[20]
In una tessitura che richiama un po’ troppo da vicino l’Otelloshakespeariano, Monti non manca di fare polemica, nascondendosi nel personaggio del fido Ubaldo, cui fa da contraltare il traditore Zambrino, sotto le cui spoglie si cela Lattanzi, rivale del poeta. Nonostante ci siano quindi accenti veritieri, l’opera non riscosse successo e il poeta stesso la definì mediocre.[21]
Il Caio Gracco, di cui Plutarco è la fonte principale, riscosse grandi apprezzamenti nella prima milanese del 1802, ma già nel 1788 mostrò i primi fermenti giacobini del poeta, poi temporaneamente rinnegati, mentre la Rivoluzione francese era nell’aria. Si notano però anche tendenze patriottiche, nel riconoscimento della comune origine italica, in un anticipo risorgimentale.
L’ode introduttiva all’Aminta
Nell’aprile 1788 ci fu una nuova collaborazione con Bodoni, che voleva ristampare l’Aminta di Torquato Tasso in occasione delle nozze della figlia ultimogenita della marchesa Anna Malaspina della Bastia, Giuseppa Amalia, con il conte Artaserse Bajardi di Parma (av. 1765-1812). Bodoni chiese al Monti alcuni versi di dedica dell’opera. Nacque così l’ode Alla marchesa Anna Malaspina della Bastia, dove, oltre alle virtù di bellezza e ingegno della nobildonna, si celebrano i meriti della famiglia Malaspina, che ospitò l’esule Dante nel 1306 e che come tale è rimasta protettrice della poesia, tanto che la marchesa prese sotto la sua ala Carlo Innocenzo Frugoni. Questi è qui paragonato a Pindaro e Orazio, nei consueti toni spropositati che in questo caso, nella denuncia degli imitatori del Frugoni, pare volessero colpire in particolare il poeta Angelo Mazza, che aveva stroncato l’Aristodemo.[22] L’ode, composta in endecasillabi sciolti e pubblicata anonima nel 1789, sovrabbonda di riferimenti mitologici ed eleva l’opera tassesca a emblema dell’amore stesso.
Monti reazionario, la Bassvilliana
Il conte Giulio Perticari sposò la figlia di Monti nel 1812 e fu per lui un aiuto nello studio oltre che fraterno amico
«Libertà che stolta
in Dio medesmo l’empie mani adopra.»
(Bassvilliana, vv. 116-117)
Il 3 luglio 1791 sposò Teresa Pikler (Roma, 3 giugno 1769 – Milano, 19 maggio 1834), o meglio Pichler[23] figlia di Giovanni Pichler (1734–1791) famoso intagliatore di gemme della città, ma oriundo tirolese, e di Antonia Selli, romana. La celebrazione fu sobria, lontana dai clamori della ribalta, e si tenne nella chiesa di san Lorenzo in Lucina. Dal matrimonio nacquero due figli, Costanza[24], che poi sposerà il conte Giulio Perticari e coltiverà le lettere entrando anche in Arcadia,[25] e Giovan Francesco (1794-1796), ma quest’ultimo morirà in tenera età. Alla moglie rimase profondamente fedele per il resto dei suoi giorni.
Nel 1793 due artisti lionesi furono arrestati a Roma e rilasciati dal Pontefice. Da Napoli furono inviati due diplomatici francesi quali rappresentanti in missione, Nicolas Hugon detto Bassville (noto come Hugo Basseville), e La Flotte, per ringraziare il Papa. Tuttavia il 14 gennaio 1793 uno di loro, il Basseville, già inviso alla popolazione cattolica, uscì nella pubblica via esibendo il simbolo dei rivoluzionari francesi, la coccarda, stimolando la reazione della folla e subendo il linciaggio. Le guardie pontificie misero La Flotte in salvo, mentre Bassville, colpito alla gola e sottratto alla folla, morì poche ore dopo, pentendosi e confessandosi. L’episodio esaltò gli impulsi antirivoluzionari che si agitavano in Italia e in particolar modo a Roma. Una miriade di opere fu composta per sottolineare la divina punizione cui la sacrilega Francia era andata incontro. La voce più alta la leva Monti nella celebre Cantica in morte di Ugo di Basseville (1793), più comunemente nota come Bassvilliana, composta tra il gennaio e l’agosto di quell’anno. Senza contraddire le proprie basi arcadiche, il poeta traspone i ghiribizzi del suo stile elevato ed etereo in un componimento che ha una portata certamente maggiore rispetto a quelli precedenti. Il successo è immediato, tanto da portare a 18 edizioni nel giro di sei mesi.
Il modello della Bassvilliana, scritta in terzine e in terza rima, è certamente dantesco, ma non manca l’influenza, a livello schematico, della Messiade di Klopstock, che in quegli anni aveva anche pensato di tradurre dal francese (essendo privo di conoscenze del tedesco).[26] Nel nostro «lungo e sproporzionato poema»,[27] un angelo preleva a Roma l’anima del Bassville appena spirato e la porta in terra di Francia, mostrandole i disastri causati dalla Rivoluzione, e provocandone un pianto dirotto alla vista dell’uccisione di Luigi XVI (21 gennaio 1793).
Luigi XVI di Francia
Vengono attaccati gli illuministi più famosi, le cui ombre appaiono come avversari (Voltaire, Diderot, Rousseau, d’Holbach, Bayle…) mentre il re, raffigurato come un santo martire, concede il perdono a Basseville. Il poema piacque al mondo cattolico reazionario e controrivoluzionario. Monti tuttavia, probabilmente già dubbioso e incline a cambiare il proprio pensiero (come avrebbe fatto appena due anni dopo), si fermò al quarto Canto, e passò alla composizione di un’opera più incline ai suoi favoleggiamenti mitici, La Musogonia (1793-1797, in ottave), lasciata anch’essa a metà e foriera di spunti per le opere non lontane di Manzoni (Urania) e Foscolo (Le Grazie).
Indicativa è la chiusa del poema, modificata più volte, indirizzata prima a Francesco II d’Austria e poi a Napoleone, cui si chiede di intercedere per l’Italia. Monti non ebbe mai tentennamenti nel proprio attaccamento alla patria, anche se si volse a diversi “protettori” a seconda dei momenti storici.
Il Maresciallo Auguste de Marmont
Già in odore di simpatie rivoluzionarie, in procinto di aderire alle idee illuministe e giacobine che poco prima deprecava, cercò di trovare pace nel completamento di un’ode già iniziata nel 1792, Invito di un solitario ad un cittadino, chiaramente debitrice della commedia shakespeariana Come vi piace.[28] Questo componimento montiano segue lo schema dell’ode saffica, variandone leggermente le caratteristiche; manca infatti la cesura di quinta negli endecasillabi, mentre il verso conclusivo delle strofe è un settenario e non un quinario. Nell’ode un imprecisato abitatore delle campagne invita un altrettanto anonimo cittadino a fuggire dalle preoccupazioni della corte e dei suoi intrighi, per rifugiarsi in un mondo bucolico dove regna la pace e dove i soli timori sono quelli causati dal cambiamento delle stagioni. In questa ricerca di pace, forse, è ravvisabile il vero Monti.
Inizialmente quindi su posizioni contrarie alla rivoluzione francese, che trovarono spazio anche ne La Feroniade e ne La Musogonia (nello stesso Invito Napoleone è avvertito come minaccia), Monti diede tuttavia presto spazio nuovamente allo spirito che spesso lo contraddistinse: appoggiare il più forte per salvare la pelle. Gli sconvolgimenti politici e l’ormai evidente affermazione di Napoleone (1796) lo portarono a schierarsi dalla sua parte e ad accogliere nella sua casa romana il maresciallo Marmont, che era giunto nell’Urbe per ratificare i patti di Tolentino con cui si umiliava la figura del pontefice. Scrisse anche in questo periodo un sonetto anonimo, Contro la Chiesa dei Papi, in cui preconizza la giusta punizione per una Istituzione che si era allontanata dal proprio spirito originario.
Il Monti, che pure nel frattempo continuava a tenere il piede in due staffe (era ancora stipendiato dalla corte del Papa e cercava di mantenerne i favori fino alla fine), si vide costretto ad abbandonare Roma, dove troppi ormai sarebbero stati i rischi. Fu così che nella notte del 3 marzo 1797 fuggì nella carrozza di Marmont alla volta di Firenze.
Il periodo milanese
L’ardore giacobino: Il Prometeo
«Dolce dell’alme universal sospiro,
Libertà, santa dea.»
(Il fanatismo, vv. 1-2)
Dopo un breve soggiorno fiorentino, dove fu bene accolto e recitò con gran clamore il primo canto del Prometeo nel salotto della marchesa Venturi,[29] e dopo essere passato per Bologna (dove conobbe Foscolo, con cui fu legato da profonda amicizia, e dove lo raggiunsero la moglie e la figlia) e Venezia, il 18 luglio 1797, solo pochi giorni dopo la proclamazione della costituzione della Repubblica Cisalpina, egli giunse a Milano. Il momento è opportuno per un voltafaccia: in modo da cancellare il ricordo della Bassvilliana scrisse tre poemetti in terzine dantesche per rinnegarla (Il Fanatismo, La Superstizione e Il Pericolo, dove divinizza Napoleone ma ancor più si scaglia contro i suoi antichi protettori) e soprattutto il Prometeo, dedicato a Napoleone e rimasto incompiuto all’inizio del quarto canto. Queste opere sono strettamente contemporanee alla lettera inviata da Bologna il 18 giugno 1797 a Francesco Saverio Salfi, in cui Monti cercava di giustificare le proprie scelte passate dicendo di non aver avuto libertà d’opinione. L’autoumiliazione arrivò fino a definire la propria Bassvilliana “miserabile rapsodia”.[30]
A Bologna conobbe Foscolo, cui fu legato, soprattutto nei primi anni, da stima reciproca e da affinità letteraria
Il Prometeo fu il primo testo di un grande ciclo di opere volte a celebrare l’epopea napoleonica, quasi quindi un’introduzione della medesima.[31] Si tratta forse dell’opera montiana più famosa, e il Còrso vi viene esaltato anche oltre i consueti eccessi del poeta romagnolo. Il personaggio del mito viene paragonato, nella dedica, al Bonaparte; come quello si ribellò a Giove e portò il fuoco agli uomini, così questi si rivoltò contro i potenti della terra per dispensare libertà. Si immagina, nel testo, che Prometeo, accompagnato dal fratello Epimeteo, vada tra i popoli profetizzando la venuta di Napoleone, e scenda fin nell’Erebo ad annunciare la notizia.
La consueta felicità artistica non si coniuga, in quest’opera, come nelle altre, con una coerenza strutturale, e soprattutto il protagonista pare inconsistente e privato della drammaticità che ci aveva restituito Eschilo.[32]
L’arrivo del Bonaparte è visto da Monti in questa fase come unica speranza perché l’Italia trovi coesione interna e libertà. Napoleone diviene pari a un Dio dell’Antichità, senza rivali degni in terra. Così anche senza pietà il Monti trasforma gli elogi di cui aveva ricoperto il Papa e il re in altrettanto forti vituperi (rispettivamente in un sonetto e in un inno). Elogi senza freno emergono dalla canzone Per il congresso di Udine, sempre del 1797, dove Napoleone è il “Prometeo nuovo”, ancora una volta. Persino l’onta di Campoformio, che tanto indignò Foscolo, lo porta, in una canzonetta metastasiana dal titolo La pace di Campoformio, a scusare il tradimento in quanto, almeno, è giunta la pace.
In questo periodo Monti subì attacchi da più parti. Il 13 febbraio 1798Giuseppe Lattanzi, poeta romano e suo nemico giurato da tempo, aveva sottoposto al Gran Consiglio una legge secondo cui non avrebbe potuto ricoprire cariche pubbliche chi avesse pubblicato opere antirivoluzionarie dopo il settembre 1792, il che avrebbe precluso ogni carriera diplomatica all’autore della Bassvilliana. La legge fu approvata, ma per fortuna del Monti rimase lettera morta, e questi poté quindi diventare addetto alla Segreteria del Direttorio al dipartimento dell’Estero e dell’Interno della Cisalpina.[34] Siccome le invettive contro Monti continuavano, intervenne nella diatriba Foscolo, con uno scritto in sua difesa.[35] Anche per opera dell’Appiani e di altri, la contesa si sedò infine nel giro di qualche mese.
Per tutta la vita il carattere di Monti fu assai bilioso, ed egli si impegnò in innumerevoli contese letterarie, salvo spesso riconciliarsi con i suoi avversari, secondo il suo ormai ben noto carattere, e secondo l’autodefinizione di Irasci celerem, tamen ut placabilis essem (cioè “Veloce all’ira, altrettanto alla riconciliazione”) contenuta nella Proposta descritta più sotto.
Tra tutti, il bersaglio preferito fu Francesco Gianni, ma non si dimentichino Saverio Bettinelli e altri il cui nome resiste oggi solo grazie a queste beghe di basso livello. Sarebbe stato assai più saggio, disse Pietro Giordani, tacere, lasciando così cadere nell’oblio avversari che tentavano solo di godere di una fama altrimenti impossibile. Ma Monti era «un idrofobo — bofonchiava, il 7 agosto 1816, un Angelo Anelli da Desenzano — bisogna compiangerlo, stargli lontano, e quando si accosta per mordere, difendersi, per non essere offesi, a spada tratta»,[36] e più di tutti lo stroncò Vincenzo Cuoco, che, nel suo Platone in Italia, lo definì divorato dalla bile.[37]
Anche il rapporto con Foscolo andò deteriorando, a partire dal momento in cui questi criticò aspramente la Palingenesi politica (vedere sotto) nelle lettere a Isabella Teotochi Albrizzi. L’anno successivo, nel 1810, litigarono per futili motivi in casa del ministro Antonio Veneri, e anche dall’Inghilterra il poeta zacintio si fece sentire, collaborando a un Essay di John Cam Hobhouse, dove il Monti è condannato come adulatore spudorato e senza principi. Probabilmente giocò un ruolo anche la possibile relazione sentimentale che si diceva esserci tra il giovane Foscolo e la moglie di Monti, Teresa.[38]
Tornati gli austriaci a Milano nel corso della campagna d’Egitto, si aprì la serie delle vendette contro i promotori della Rivoluzione. Coloro che non furono deportati scapparono. Fra questi era Monti, che intraprese un’avventurosa fuga, con pochi denari in tasca, attraverso il Piemonte per giungere a Chambéry, dove condivise le ultime cinque lire con un povero, dimostrando sostanziale bontà d’animo.[39] Qui lo raggiunsero la moglie e la figlia, e insieme arrivarono a Parigi. Nella capitale francese il poeta soffrì per l’oblio nel quale era caduto, e rimpianse la patria lontana. Rese l’esilio meno duro l’amicizia con alcuni valenti uomini di cultura.
Al periodo parigino risale la Mascheroniana, opera in cinque canti in terzine sulla falsariga della Bassvilliana, rimasta incompleta e scritta in occasione della morte dell’amico scrittore, sacerdote e naturalista illuminista Lorenzo Mascheroni, avvenuta il 14 luglio 1800. Il poema svela un Monti moderato, quindi più autentico, deluso sia dai primi che dai secondi entusiasmi, ossia la corte papale e Napoleone, per quanto non manchi la lode a quest’ultimo, dispensatore di pace. Tuttavia l’ispirazione non raggiunge le vette dell’opera-modello, e nelle vicende post mortem di Mascheroni, in un Paradiso immobile abitato da alcune anime a lui culturalmente affini (quali Pietro Verri, Parini, Spallanzani, Beccaria), si avverte uno stridore con il contesto storico che mal si adattava a vagheggiamenti astratti. Ci si duole delle sorti italiche, ma in una situazione astratta, cui a torto si è paragonata l’opera dantesca, perché qui non vi è nulla di soprannaturale. Non mancano tuttavia belle pagine, come quelle dedicate a Parini.[40]
In ogni caso, in una lettera Stendhal raccontò come molti anni dopo, a Milano, durante un pranzo in casa di Ludovico di BremeByron fosse rimasto estasiato nell’ascolto dei versi montiani, segno che la pulizia delle immagini e lo stile classicheggiante continuavano a sostenere il poeta, frutto di un’innata vena lirica.[41]
Il ritorno in patria
Quando Napoleone riprese il controllo della Cisalpina, Monti si lasciò andare ad una canzonetta entusiasta, preludio a un prossimo ritorno in Italia e sincero giubilo per le sorti dell’amata patria: si tratta di Per la liberazione dell’Italia, uno dei suoi componimenti più popolari.
Dopo la battaglia di Marengo, del 14 giugno 1800 Monti si vide infine premiato, e Napoleone ne fece il proprio aedo, il proprio poeta di corte, assegnandogli anche la cattedra di Eloquenza presso l’Università degli Studi di Pavia, che il 25 giugno 1800 fece riaprire dopo la chiusura imposta dagli Austro-Russi. Monti inizierà l’insegnamento solo nel 1802, in quanto decise di rimanere ancora qualche mese in Francia, dove completò l’ultima tragedia, il Caio Gracco, e dove terminò la traduzione de La pucelle d’Orléans di Voltaire.
All’Università di Pavia
Lapide al’interno dell’ateneoL’Università di Pavia dove Monti insegnò tra il 1802 e il 1804
Nel 1802 Monti si insedia all’Università degli Studi di Pavia con la prolusione del 24 marzo, e vi tiene lezioni tra il 1802 e il novembre 1804, ricevendo in seguito la nomina di poeta del governo italico. In questo periodo delle lezioni pavesi Monti si discosta nettamente dai giovanili ardori per i moderni di marca illuminista. Nelle sue lezioni la capacità di “invenzione”, in pratica l’originalità, è accordata solo agli antichi. Il “progresso” concerne le sole scienze; nella poesia non si ha progresso, semmai “regresso” poiché i suoi elementi furono già interamente scoperti dagli antichi.
Di questo magistero pavese ben poco ci è giunto: Monti ricevette numerose censure, oltre all’impedimento della stampa degli ultimi due capitoli della Mascheroniana, pubblicati solo postumi. Questo Monti censurato ci appare distante da quello voluto da De Sanctis, “segretario dell’opinione dominante”; se il governo dovette ripetutamente impedirne gli scritti, è palmare che Monti non ne promuoveva gli interessi. Dunque neanche esatto è definire Monti come “poeta del consenso”.
Delle lezioni pavesi ne sono pervenute solo nove e il frammento di una decima. La lezione VI è consacrata a Socrate (anche la V gli era stata dedicata) e risponde all’obiettivo di promuovere modelli ideologico-letterari “convenienti”. Monti scarta Demostene, nonostante sia un classico giudicato come “modello di eloquenza”: ciò perché lo ritiene inadatto ad essere proposto alla meditazione degli allievi. La sua eloquenza gli appare quasi tutta deliberativa e politica, “pericolosa” per l’attuale forma di stato: non più una “turbolenta democrazia” ma una “tranquilla e temperata repubblica”. “Non più di Demosteni c’è bisogno, ma di Socrati”.[42]
Nel 1804 fu sostituito da Luigi Ferretti, cui non risparmiò polemiche, e sulla cattedra nel 1808 si insediò Ugo Foscolo, che fu subito allontanato per le sue posizioni anti-napoleoniche.
L’aedo di Napoleone
Madame de Staël
Alla fine del 1804 il Nostro fece una nuova importante conoscenza. Il 30 dicembre giunse a Milano Madame de Staël, accompagnata dai tre figli e dal loro precettore, Friedrich Schlegel. Mandato un invito a Monti, si conobbero il giorno dopo: si legarono subito di una forte amicizia, testimoniata dalla fitta corrispondenza del periodo successivo[43], e dalla visita che il poeta farà alla donna a Coppet nel novembre 1805.[44]
Dopo che Napoleone s’incoronò Re d’Italia nel 1805 Monti divenne Istoriografo del Regno e poeta ufficiale di corte, percependo 6000 zecchini annui. Fu anche insignito della Legion d’Onore.[45] Compose molte opere inneggianti a Bonaparte, alle sue vittorie e alla sua politica. L’incoronazione fu il motivo de Il beneficio (1805), commissionato dal governo e sorta di investitura a poeta cortigiano, in cui richiama dall’oltretomba lo spirito di alcuni grandi italiani (tra questi Dante) che individuano nel nuovo re l’unica salvezza. Bodoni ne curò quattro edizioni a spese del governo, fra cui una in folio.
Sopra tutti famoso è il poema Il Bardo della Selva nera (1806), scritto di ritorno da un viaggio in Germania dove aveva fatto parte della delegazione congratulatasi con Napoleone per i recenti successi. Monti tenne fede alla tradizione di lasciare le opere incompiute, e anche qui si fermò, stavolta al principio del canto ottavo. L’opera si ispirò a un testo del poeta sepolcrale inglese Thomas Gray, intitolata appunto Il Bardo.[46]
Gli otto canti (dei quali i primi quattro in versi sciolti e i rimanenti in ottave) volevano cominciare un’opera di elogio totale a Napoleone, di cui si dovevano celebrare tutte le gesta. In questo senso si può leggere la fatica di cui Monti ci dà notizia al principio dell’anno: “[..]un lungo e grande lavoro che mi tiene occupato giorno e notte e Dio sa quando potrò terminarlo [..] ho intrapreso un poema, il cui piano abbraccia tutte le imprese di questo grand’uomo. Ora vedete se ne ho per un pezzo”.[47]
La storia si apre sulla discesa del Bardo Ullino, assieme alla figlia Malvina (sono tutti nomi ossianeschi), verso i resti del campo di battaglia di Albeck, dove il combattimento è appena finito. Qui salvano un giovane ferito, Terigi, e gli danno rifugio. Terigi e Malvina si innamorano, e il soldato comincia a narrare le proprie vicende celebrando il Bonaparte. Tuttavia fa solo in tempo a riportare il successo di Albeck e ad accennare a quello di Austerlitz, perché poi l’opera si interrompe.
Giuseppina di Leuchtenberg andò sposa al re Oscar I di Svezia
Il poema rimane un abbozzo, e sembra quasi un’accozzaglia di cose che gravitano attorno ad un intreccio amoroso che poco aveva a che spartire con l’intenzione dell’opera.[48] Tuttavia, come sempre, si possono cogliere pregi in singoli passaggi, e la variazione di metro dimostra una volta di più come Monti fosse “davvero il Signore d’ogni metro e d’ogni forma”.[48] Del resto, l’opera piacque a Napoleone, che solo si dolse di non comprendere appieno la lingua italiana per gustarne le meraviglie poetiche.[49]
Nel 1782 fu iniziato in Massoneria nella Loggia “La Sincera” di Forlì. Divenne poi membro della Loggia Reale Amalia Augusta di Brescia, la stessa loggia di Ugo Foscolo[50], il 5 ottobre 1806, giorno in cui è ufficialmente costituita la loggia massonica Reale Eugenio a Milano, Vincenzo Monti vi recita la cantata L’Asilo della Verità.[51]
Quando Napoleone vendicò in Prussia le sconfitte contro Federico II, il poeta diede alla luce il breve componimento La spada di Federico II, dove, nel rispetto del vinto sovrano ma sempre nell’adulazione esagerata di Napoleone, il Còrso impugna la spada del nemico e la porta in patria per consegnarla al Palazzo degli Invalidi.
L’ode In occasione del parto della vice-regina d’Italia risale al marzo del 1807 e celebra la nascita di Giuseppina, figlia primogenita di Eugenio di Beauharnais (che Napoleone adottò come figlio e fece viceré) e della sua sposa Augusta Amalia, bavarese. Si intrecciano, al solito, riferimenti mitologici e storici, in una struttura che piacque ad Alessandro Manzoni[52] ma fu implicitamente derisa da Ugo Foscolo.[53]
C’è ancora spazio per La Palingenesi politica, poemetto nel quale Foscolo ha visto una derivazione dalla Pronea di Melchiorre Cesarotti, e che non ha mancato di definire “delirio”.[54] Qui, come Dio ha dato ordine alle cose, così dal caos politico si giunge, per merito dell’imperatore, all’unità delle nazioni (esattamente come avviene nel testo cesarottiano).
Non c’è più freno all’adulazione né capacità di sganciarsi dalle trite apparizioni o dalle ritrite immagini mitologiche. Monti sembra aver smarrito la vena fantastica, forse anche per la difficoltà a sostenere un idolo al quale non sapeva più bene cosa dire. Le propaggini epigonali dell’epopea sono del 1810, La Ierogamia in Creta (in occasione delle nozze viennesi di Napoleone con Maria Luisa), e del 1811, l’anacreontica (barbara come l’Invito descritto sopra) Le api panacridi in Alvisopoli, scritta su commissione del senatore del regno Alvise Mocenigo per celebrare la nascita di Napoleone Francesco, definito “re di Roma”, che, pur piacendo a Pietro Giordani,[55] confermò una stanchezza che sembrava irreversibile, ma che ben presto mostrò altri risvolti, non appena Monti si affrancò dal posticcio ruolo di poeta cesareo.
Il traduttore
«Questi è Monti poeta e cavaliero,
Gran traduttor dei traduttor d’Omero.»
I migliori risultati poetici del Monti sono in realtà costituiti dalle traduzioni, laddove non è frenato dall’esigenza di celebrare o adulare smodatamente, sicché può liberamente mettere in mostra il suo talento dialettico e formale, la sua eleganza compositiva: tra il 1798 e 1799, in una fase di profondo distacco dal suo passato papalino, cura la traduzione in ottave dell’irriverente poema satirico di VoltaireLa Pucelle d’Orléans, sulle vicende di Giovanna d’Arco, in chiave sorprendentemente comica e piena di ritmo (il lavoro sarà poi pubblicato postumo nel 1878).
Un’altra prova di virtuosismo è costituita dalla versione delle Satire di Persio (1803), ma è la traduzione dell’Iliade in endecasillabi sciolti, terminata e pubblicata nel 1810, il suo vero capolavoro.
Sin dai primi anni il testo fu per Monti un’ossessione, e già molto tempo addietro, tra il 1788 e il 1790, aveva fatto una traduzione di alcuni canti.[57] Originariamente, aveva adottato l’ottava, che utilizzò per recitare i canti I e VIII in Arcadia,[58] ma nel 1806 optò definitivamente per l’endecasillabo sciolto,[59] in cui, come detto, fu eseguita la traduzione completa.
Essa non offre sempre un’immagine fedele del testo omerico, ma un suo travestimento in equilibrate forme neoclassiche. Il mondo eroico è rappresentato con continui effetti trionfali, i sentimenti dei personaggi si arricchiscono di sfumature intimiste e malinconiche. Una traduzione che pare costruita sulla misura dell’Italia napoleonica, tra gli echi delle guerre europee e lo spirito militare che penetrava anche nell’Italia prerisorgimentale. Monti, pur conoscendo relativamente il greco, non lo padroneggiava di certo al punto da intendere l’originale. Per questo è ancor più sorprendente il risultato ottenuto; Monti ebbe la capacità di cogliere lo spirito originario dell’opera, e così poté mirabilmente restituirlo. Essendo un’opera di diletto, lontana da scadenze temporali o esigenze encomiastiche, il poeta seppe sguazzarvici, forte di un animo molto a proprio agio quando ha a che fare con le vicende mitologiche, a tal punto che la poesia omerica si illumina per mezzo dell’arte montiana.[60] Celeberrimo è il proemio:
«Cantami o Diva, del Pelide Achille,
l’ira funesta, che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempia), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atrìde e il divo Achille.»
Dopo la sconfitta di Napoleone, Monti non si fece scrupoli nel dedicare pari lodi al nuovo sovrano, l’imperatore d’Austria e Re del Lombardo-VenetoFrancesco I, e ne fu ricompensato conservando il ruolo di poeta di corte, anche se gli zecchini annui si ridussero a 1200. Ci fu tuttavia minore entusiasmo, e tutto ciò che partorì furono due azioni drammatiche rappresentate alla Scala, rispettivamente il 15 maggio 1815 e il 6 gennaio 1816, intitolate Il mistico omaggio e Il ritorno di Astrea.
Il Monti di questi anni rivendica il merito di una “riforma” letteraria intervenuta nel ventennio tra la Bassvilliana e la sua traduzione dell’Iliade, passando per la Mascheroniana; una ripresa dello studio dei classici, e di Dante. Lo afferma in una lettera del 1815, rispondendo all’invito di scrivere lui una prefazione alla Biblioteca Italiana, periodico voluto dall’Austria.
Nella lettera dice anche che due ostacoli lo disturbano: la parte scientifica, per la quale ha bisogno che “altri gli forniscano il materiale”, e il suo riconoscersi come personaggio fondamentale per la letteratura di allora, e quindi la prospettiva di ritrovarsi a parlare di sé stesso nella prefazione (non volendosi dare meriti altrui ma nemmeno omettere ciò di cui si crede meritevole). Importante è la parola “Riforma”, che veniva utilizzata in origine per il Neoclassicismo; ma Monti fa partire questa riforma dal 1793 (il Neoclassicismo nasce secondo Carducci con la pace di Aquisgrana nel 1748 e per gli studiosi più recenti con le scoperte di Pompei e gli scritti di Winckelmann) e la fa concludere al più tardi nel 1812; la descrive come riforma esclusivamente letteraria e quindi in niente debitrice a Winckelmann, alle arti, all’archeologia.
“Riforma” è una parola d’autore. Questo convalida le tesi di Carducci, sul fatto che quello che noi chiamiamo Neoclassicismo si occupasse non della vecchia letteratura (De Sanctis) ma della nuova letteratura. Monti vede il futuro nel passato: per lui il poeta più attuale è Dante. Spezza così il primato petrarchesco di allora in favore di Dante che era considerato duro, aspro, talvolta sgradevole, affiancandovi Omero, “il più grande dei poeti”.
Ancora nel 1815 Monti rifiutò di assumere la direzione della Biblioteca Italiana, e questa fu assunta dall’Acerbi.
Quattro anni più tardi compose un inno a lode di Francesco, Invito a Pallade.
Nel 1822 morì il genero Giulio Perticari, che il poeta considerava come un figlio nonostante un precedente litigio, e a questo dolore si unì la diffamazione cui la figlia Costanza andò incontro, accusata di aver trascurato il marito o addirittura di averlo ucciso. Alcune voci pretesero addirittura l’esistenza di una complicità del padre nel presunto complotto. Addolorata, Costanza tornò a vivere con i genitori.
Nel 1825 la “tenera amica”[64]Antonietta Costa, marchesa genovese, chiese a Monti un componimento in occasione delle nozze del figlio Bartolomeo con la marchesa Maria Francesca Durazzo. Da ciò nacque il Sermone sulla mitologia, poemetto in sciolti, feroce invettiva contro le manifestazioni orride e macabre del romanticismo nordico, colpevole di aver scalzato gli dèi dalla poesia. In particolare depreca la traduzione della Lenore di Gottfried August Bürger fatta da Giovanni Berchet e il ritorno in auge dei temi ossianico–cimiteriali di gusto lugubre preromantico. Evidenti paiono i richiami ad alcune opere critiche di Voltaire[65] ma anche all’ode Gli Dèi della Grecia che Friedrich Schiller aveva pubblicato nel 1788. Ad avvalorare tale tesi è il poeta stesso, definendo Schiller secondo solo a Shakespeare nella gerarchia delle sue preferenze letterarie.[66] Vanno ravvisati anche rimandi all’inno Alla Primavera di Leopardi (1824).[67] Monti prende così posizione classicista nella polemica anti-romantica suscitata da Madame de Staël.
Come si può facilmente immaginare, l’opera non lasciò indifferenti, e in parecchi, ritenendo un simile gusto neoclassico ormai fuori dal tempo, scrissero opere polemiche in risposta al Sermone: la più famosa è quella di Niccolò Tommaseo[68]. Può apparire quindi sorprendente che il vecchio Monti si dimostri ancora così chiuso al gusto romantico, dopo certe virate del passato e della stessa senilità, ma intelligentemente Cesare Cantù dimostrò come fossero qui colpite solo le manifestazioni macabre del Romanticismo (nonostante il montiano Aristodemo che ricordava direttamente Edward Young), antitetiche alla concezione “diurna e solare” della poesia montiana.
Nello stesso anno vibrò di sincera gioia nel celebrare le nozze delle due ultime figlie di Gian Giacomo Trivulzio, Elena e Vittoria, cui dedicò l’idillio Le nozze di Cadmo ed Ermione, dove, alla presenza degli Dèi, esclusa Giunone, si esaltano i protagonisti e con essi la scrittura, di cui Cadmo, il mitico fondatore di Tebe, si dice fosse stato l’inventore.
Il ritratto di Costanza Monti Perticari dipinto da Filippo Agricola
Contemporaneamente, Monti scriveva anche canzoni più intime e familiari, come il dolcissimo sonetto Per un dipinto dell’Agricola, dedicato alla figlia Costanza, che era stata ritratta dal pittore, o come la canzone liberaPel giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler, composta tra il settembre e l’ottobre del 1826. Qui, la moglie e la figlia vengono definite solo conforto alla vecchiaia del poeta, e solo motivo di dispiacere per il prossimo abbandono di un mondo che riserva solo sofferenze. Era come se “la vecchiezza, non che inaridisse la vena dell’affetto, anzi le fece più abbondante. Così, negli ultimi anni del suo vivere, egli era l’aquila che, stanca di tanti arditissimi voli, stanca di alzar le penne fino al sole o di mescersi coi nembi e le procelle, ritornava al nido per riposarvisi, chiudendo le grandi ali sul capo dei suoi cari”. Nell’opera Monti ripercorre anche la propria vicenda letteraria e umana.[69]
Si schierò quindi in difesa dell’uso in letteratura della mitologia e della tradizione classica, ma al tempo stesso mantenne buoni rapporti con gli esponenti delle nuove tendenze romantiche e nel 1827 espresse giudizi entusiastici sulla lettura dei Promessi Sposi. Si inserì nella disputa sulla questione della lingua, ponendosi su posizioni fortemente avverse al padre Antonio Cesari e ai puristi, sminuendo il Trecento per passare in rassegna tutti gli uomini di cultura del Settecento.[70] In questa linea si situano i sette volumi della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, in cui, variando con maestria i toni del discorso, attacca i cruscanti mostrando molti errori da loro commessi in merito a singoli vocaboli.
Negli ultimi anni di vita, a partire dal 1816 e fino alla morte, ritornò sul poema in tre canti in endecasillabi sciolti La Feroniade, iniziato già nel periodo romano per esaltare i progetti di bonifica delle paludi pontine, e ora ripreso con ossessiva cura formale, ma comunque non concluso e stampato postumo nel 1832. La Feroniade è anche un modo di affermare una sua estraneità alla storia e al presente, proprio da parte di uno scrittore che aveva costruito la sua carriera sulla partecipazione della letteratura alle trasformazioni politiche.
Lapide sulla casa in cui morì Vincenzo Monti in via Giuseppe Verdi a Milano
Monti perse gradualmente l’uso della vista e dell’udito, e nell’aprile del 1826 subì un attacco di ictus con emiplegia che paralizzò la parte sinistra della sua persona. L’attacco si ripeté nel maggio 1827, e l’agonia dell’ultimo anno fu alleviata, oltre che dai cari, anche dalle visite di Alessandro Manzoni.[71]
Chiesti i sacramenti, morì in pace. Così Paride Zajotti ci narra il suo ultimo momento di vita, il 13 ottobre 1828, a Milano:
«La mattina del 13 a sette ore e qualche minuto il Monti mandò senz’affanno un facile sospiro, e chinò lievemente la testa; tutti stavano immoti e tacevano: un grido della figlia ruppe quel tetro silenzio. Vincenzo Monti era passato.»
Vincenzo Monti è stato molto criticato per i continui cambiamenti di credo politico (su tutti valga il giudizio espresso dal De Sanctis che lo bolla come «il segretario dell’opinione dominante»)[74]. Cesare Cantù ha voluto definire la famosa lettera al Salfi “inescusabile documento”.[75] Tuttavia le posizioni sono state discordi e si è spesso riconosciuta una coerenza nell’attaccamento alla patria, cui sacrificò le sue opinioni di facciata.[76] Ancora, un paladino della critica fascista come Vittorio Cian ha addossato tutta la responsabilità alla sete mondana della moglie Teresa Pikler, che avrebbe indirizzato il succube marito verso il potente di turno.[77]
I suoi repentini mutamenti di posizione non furono ben visti da Giacomo Leopardi, che lo definì «poeta veramente dell’orecchio e dell’immaginazione, del cuore in nessun modo», anche se certamente le basi della formazione giovanile leopardiana, neoclassica, non possono essere disgiunte dalla lezione montiana. Nello stesso Zibaldone, in fondo si parla per lui anche di “volubilità armonia mollezza cedevolezza eleganza dignità graziosa o dignitosa grazia del verso”, specialmente “nelle Cantiche”.
Del Nostro fu più volte criticata l’ispirazione poetica, dovuta per lo più al bisogno di denaro, ma gli si riconoscevano grandi doti di poeta. Su una posizione abbastanza critica fu Ugo Foscolo, che ironizzò su Monti chiamandolo “gran traduttor dei traduttor d’Omero”, in quanto aveva tradotto l’Iliade senza sapere il greco, ma rielaborando semplicemente in maniera poetica le traduzioni precedenti, soprattutto latine. Tra loro, nonostante tutto, si era stabilita qualche affinità di pensiero. Foscolo difese spesso Monti all’interno di polemiche letterarie, e ammirò sopra tutte le opere montiane La Feroniade.[78] Questo poema fu unanimemente apprezzato, e il Giordani arrivò a dire: “Oh quanto è maggiore d’ogni altra sua cosa! Veramente questa lo manifesterebbe il primo de’ poeti viventi in Europa”.[79]
Foscolo ebbe spesso, come visto, opinioni contrarie al Monti, in specie laddove questi elogiava Bonaparte, né si dimentichi il ruolo profondamente diverso esercitato dai due nella storia della letteratura italiana. Foscolo infatti, più inquieto e ribelle, tese a una forma di intellettuale nuovo, cui era estraneo Monti, ancora legato alla vecchia immagine dell’uomo di cultura e meno percorso da spiriti anticonformisti, che non facevano parte della sua natura.
Tra i contemporanei, Monti godette di particolare favore presso Stendhal, che in merito alla produzione tragica ebbe l’ardire di definirlo “Racine d’Italie”.[80] Vanno ricordati anche gli elogi di Vittorio Alfieri e Giuseppe Parini in merito alla Bassvilliana. Il primo fu “entusiasta appassionato” del poema mentre l’abate disse: “Costui minaccia di cader sempre colla repentina sublimità de’ suoi voli, ma non cade mai”.[81] Alfieri apprezzò anche le tragedie montiane, in particolare l’Aristodemo, quella che più si avvicina al suo spirito per profondità drammatica.
Secondo Giuseppe Mazzini, Monti rappresenta l’ultimo esponente della corrente neoclassica, ormai soppiantata da quella romantica. Il poeta romagnolo avrebbe avuto, sempre secondo Mazzini, solo epigoni che non vale la pena ricordare, eccezion fatta per il brescianoCesare Arici.[82]
In seguito, all’interno di una critica spesso discorde, si sono levate, a lode convinta del poeta, le voci di Tommaseo (che definì “immortali” i Pensieri d’amore[83] ) e di Giosuè Carducci, che apprezzò in particolar modo i temi classicheggianti e il linguaggio arcadico. Carducci curò, tra il 1858 e il 1885, varie edizioni delle poesie montiane, e sul suo esempio lo studioso reggiano Alfonso Bertoldi, allievo di Carducci all’Ateneo bolognese, diede alla luce, anche in collaborazione con Giuseppe Mazzatinti, due edizioni delle poesie e una, monumentale e completa, dell’Epistolario, comprendente lettere scritte tra il 1771 e il 1828.[84] Bertoldi fu il primo a restituirci nella loro interezza i carteggi del poeta. Inoltre, con la cura propria della critica positivista, diede notizie molto precise sulle varie opere, anteponendo a ciascuna un cappello introduttivo in cui, oltre all’occasione che aveva generato il componimento specifico, forniva un breve quadro della situazione storica.[85] Il lavoro bertoldiano è stato il modello degli studi del secolo successivo.[86] Si è vista una particolare fioritura delle opere critiche negli anni a cavallo del 1930, per celebrare il centenario della morte di Monti.
1788 – Sulla morte di Giuda (sonetti), Alla marchesa Malaspina della Bastia (ode)
1793 – Bassvilliana (poema incompiuto), Invito di un solitario a un cittadino
1797 – La Musogonia (poema incompiuto, iniziato nel 1793), Prometeo (poema incompiuto), Il fanatismo, La superstizione, Il pericolo (poemetti), Per il congresso di Udine (canzone)
1799 – Nell’anniversario del supplizio di Luigi XVI (inno)
1800 – Per la liberazione dell’Italia (canzonetta), Dopo la battaglia di Marengo, traduzione dell’opera di VoltaireLa Pucelle d’Orléans → La pulcella d’Orleans
^Alfonso Bertoldi (a cura di) in Vincenzo Monti, Poesie, Firenze, Sansoni, 1957, pp.28 e segg., cfr. anche E.Q.Visconti, Due discorsi inediti, Milano, Resnati, 1841
^Rodolfo Renier, in Fanfulla della domenica, n. del 15 novembre 1903
^Così chiamata in onore della protettrice montiana
^Con il nome di Telesilla Meonia; di grande ingegno e cultura, scrisse anche un poemetto in ottava rima, L’origine della rosa, che tanto rese fiero il padre, come si evince dalle lettere al Perticari e al Lampredi
^Veneri, pp.87 e segg.; cfr anche l’opinione di Arturo Graf e di Carlo Steiner
^Introduzione al Canto I della Bassvilliana in: Vincenzo Monti. Poesie, scelte, illustrate e commentate da Alfonso Bertoldi. A cura di Alfonso Bertoldi. Firenze, Sansoni, 1891.
^Bevilacqua, p.163; è L’Esame su le accuse contro Vincenzo Monti, in cui, oltre a difendere il cantore, si scaglia aspramente contro i detrattori
^Cesare Cantù, Biografia di Vincenzo Monti, Torino, Utet, 1861, p.120
^L’intero brano del Cuoco contro Nicorio [i.e. V. Monti], contenuto solo in alcuni esemplari dell’opera, è riportato in: Guido Bustico, Bibliografia di Vincenzo Monti, Firenze, Olschki, 1924, p.133.
^Per le tappe della diatriba con Foscolo vedere Bevilacqua, pp.163-168
^Tutte le lezioni pavesi che ci sono pervenute si possono leggere in Vincenzo Monti, Prose scelte. Lezioni d’Eloquenza e Lettere (prefazione di Lodovico Corio), Milano, Sonzogno, 1891
^I. Morosini, Lettres inédites de M.me de Staël a V. Monti, 1805, in Giornale storico della letteratura italiana, vol. XLVI, 1905, pp. 1-64
^M. Borgese, Costanza Perticari nei tempi di Vincenzo Monti, Firenze 1941, pp. 51-55
^Nel 1807 scrisse l’epigramma Te deum; Gamelie Dee, per deridere coloro che avevano celebrato la nascita di Giuseppina. L’ode montiana cominciava con le parole “Fra le Gamelie vergini”
^Giordani a Monti, 6 maggio 1811, in Lettere inedite del Foscolo, del Giordani e della signora de Stael a V.M. (a cura di Giovanni e Achille Monti) Livorno, Vigo, p.168
^Si trascrive il testo stabilito nell’Edizione nazionale, vol. II, U. Foscolo, Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bezzola, Firenze, F. Le Monnier, 1961, p. 446: Epigramma IX. Contro Vincenzo Monti. La prima attestazione dell’epigramma foscoliano, tanto elegante quanto sferzante, si trova in una lettera di Camillo Ugoni a Giovita Scalvini del 1812, riferita in: C. Cantù, Monti e l’età che fu sua, Milano, f.lli Treves, 1879, pp. 185-186: «Monti ignora il greco, lo sai. Foscolo ha scritto sotto al suo ritratto: “Questi è Monti poeta e cavaliero, / Gran traduttor dei traduttor d’Omero.”.
^Leone Vicchi, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830. (Decennio 1781-1790), Faenza, P. Conti, 1883, p. 506.
^Veneri p.102; per Cunich cfr. Lettera di V.M. a U.Foscolo del 15 aprile 1807. Nello stesso anno M. inviava a Foscolo la traduzione del Canto I, che quest’ultimo unì alla propria nel celebre Esperimento di traduzione dell’Iliade (1807)
^Per l’opera di Pyrker si valse della collaborazione di Andrea Maffei, suo estimatore e imitatore nei versi che scrisse.
^La Casa Museo di Vincenzo Monti, su casemuseoromagna.it, Coordinamento Case Museo dei Poeti e degli Scrittori di Romagna. URL consultato il 1º agosto 2024 (archiviato il 21 giugno 2023).
^Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Rizzoli, Milano 2013, p. 936.
^Giuseppe Mazzini, Moto letterario in Italia (1837), in Scritti editi ed inediti, Imola, 1910, VIII, pp.350-5
^Niccolò Tommaseo, Dizionario Estetico, Firenze, Le Monnier, p.692; «I brevi sciolti, amorosi, di dodici o venti versi, che nel fervore della passione sfuggirono al Monti, resteranno, io credo, immortali»
^Alfonso Bertoldi e Giuseppe Mazzatinti (a cura di), Lettere inedite e sparse di Vincenzo Monti, Vol I: 1771-1807, L. Roux e c., Torino – Roma 1893; Vol. II: 1808-1828, Roux Frassati e c., Torino 1896; Alfonso Bertoldi (a cura di), Epistolario di Vincenzo Monti, Firenze, Sansoni, sei volumi tra 1928 e 1931
^Vedere la presentazione di Bruno Maier in Vincenzo Monti, Poesie (a cura di A.Bertoldi), Firenze, Sansoni, 1957
Angelo Romano, Vincenzo Monti a Roma, Manziana, Vecchiarelli, 2001.
Angelo Romano, Le polemiche romane di Vincenzo Monti (1778-1797), Manziana, Vecchiarelli, 2005.
Angelo Romano, Bibliografia di Vincenzo Monti (1924-2004), Milano, Cisalpino, 2009.
Alberto Scrocca, Studi sul Monti e sul Manzoni, Napoli, L. Pierro, 1905.
Carlo Steiner, La vita e le opere di Vincenzo Monti, Livorno, Giusti, 1915.
Giorgio Trenta, Delle benemerenze di Vincenzo Monti verso gli studi danteschi e verso la letteratura moderna. Studio comparativo della «Bassvilliana» colla «Divina Commedia», Pisa, Tipografia Editrice Galileiana, 1891.
Quinto Veneri, Vincenzo Monti (1754-1828), Torino, Paravia, 1941.
Leone Vicchi, Della vita e degli scritti di Vincenzo Monti, Cesena, C. Bisazia, 1867.
Leone Vicchi, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830, 4 voll., Faenza , P. Conti (poi Fusignano, E. Morandi), 1879-87.
Vincenzo Monti nella cultura italiana, a cura di Gennaro Barbarisi, 3 voll., Milano, Cisalpino, 2005-06.
Bonaventura Zumbini, Sulle poesie di Vincenzo Monti. Studi, Firenze, succ. Le Monnier, 1886.
Ferruccio Parri-Come farla finita con il fascismo-
Editori Laterza
Ferruccio Parri :«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
Ferruccio Parri
DESCRIZIONE-INTRODUZIONE-RASSEGNA STAMPA
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. Ferruccio Parri, vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Ferruccio Parri
Introduzione.
Cosa resta
di David Bidussa e Carlo Greppi
Abbiamo già detto tante volte che noi non vogliamo fare una storia idealizzata, né credere e far credere quello che non c’è, o presentare gli attori di questi fatti per quello che non sono o non sono stati; essi furono modesti uomini come tutti.
Ferruccio Parri (1961)
Del fascismo Parri è stato uno dei più irriducibili avversari nel corso della sua lunga vita adulta, che percorre integralmente la storia dell’ideologia che ha insanguinato l’Italia, l’Europa e il mondo. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla presa del potere, Parri sente, «come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio» [infra, p. 6], ed è lui il primo a fare della sua «avversione morale», che è «perentoria ed irriducibile», appunto, la cifra con cui affronta la dittatura prima, l’occupazione e la guerra civile poi, e, infine, il costante riemergere del neofascismo in incalcolabili forme, i cui echi arrivano fino all’Italia di oggi, un paese le cui stesse premesse democratiche scricchiolano in maniera preoccupante. Ed è utile, in questo tempo di crisi profonda, ripercorrere i passi di una generazione che ha in gran parte voluto – e in questo Parri è stato maestro – sentirsi «ordinaria».
È quando il fascismo si fa regime, ricorderà Parri, che i giovani d’allora scoprono la democrazia: «Si avverte che al fascismo non è possibile opporre soltanto la polemica antifascista, se la polemica antifascista non riposa sui principi, su una costruzione politica superiore, atti a soddisfare le esigenze primarie di libertà e di giustizia. È dunque allora che si crea, soprattutto fra gli intellettuali – ciò che è essenziale per comprendere la lotta di poi – una prima convergenza di forze, fondamentale a spiegare la storia successiva». Convinto che la vittoria sul fascismo si sia costruita passo dopo passo, in oltre vent’anni di lotte e sacrifici, Parri si oppone in diverse occasioni alla «spiegazione poetica che piaceva al nostro sempre compianto Calamandrei», per la quale di colpo, come per delle «misteriose leggi di natura», era gemmata e può gemmare la Resistenza. Dalla svolta con cui Mussolini instaura di fatto il regime, Parri aveva imparato «che la sconfitta si riparava cercando una soluzione superiore; che contro il fascismo non si combatteva più sulla base del diritto formale della società precedente al fascismo; che le vecchie classi dirigenti erano crollate, erano cadute», e che «occorreva una soluzione diversa, una visione più avanzata».
Queste, come quelle che ritroverete in queste pagine, sono parole di un’attualità a dir poco sconcertante, che ripercorrono la presa di coscienza di un uomo «come tutti» che, poco più che trentenne, si rese conto che quella che riteneva essere la sua ordinarietà diventava di colpo speciale, rara, necessaria, da coltivare in un’Italia che sprofondava nel baratro della dittatura. Un uomo che si rese conto, fin dagli anni Venti, che bisognava disobbedire – e rivendicarlo pubblicamente – e poi combattere: «al nemico non si doveva conceder tregua», ricorderà, «sapevamo che la guerra era necessaria e che una volta iniziata non si poteva più tornare indietro» [infra, p. 22].
Accomunati da questa sua tormentata e costante attenzione per una vision – si direbbe oggi – antifascista, fondamentale e fondante in tempo di crisi, sono tre gli aspetti che ritornano più volte nelle parole di Ferruccio Parri e che a vario titolo lo accompagnano nei momenti salienti della propria vita, tanto da definire il suo vocabolario politico.
Il primo aspetto riguarda una dimensione laica della politica. Il secondo nasce dalla convinzione di dover trovare significati e immagini che parlino a generazioni anche lontane dalla sua, consapevole della consunzione non solo delle parole, ma anche dei sentimenti e delle esperienze se non corroborate da una volontà di rimetterle costantemente tra le cose della propria quotidianità, e dunque non proporle come sacre. Il terzo aspetto, infine, consiste nell’essere consci del fatto che scommettere sul futuro ogni volta significa riprendere in mano il passato.
Veniamo dalla polvere e dobbiamo tornare, tutti, nella polvere. Lo spirito che ci rende uomini, soffia quando vuole e dove vuole. La sua brezza ha animato Ferruccio Parri durante tutta la sua lunga vita. Egli era laico, intellettualmente e politicamente […] ma pochi più di Parri possedevano, fra i suoi ed i nostri contemporanei, le doti cristiane della devozione al dovere, dell’obbedienza ai 10 comandamenti, dell’amore della famiglia e dell’umanità, dello spirito di sacrificio, dell’umiltà.
Sono le parole con cui Leo Valiani, il 9 dicembre 1981, apre la sua orazione funebre per Ferruccio Parri. Un addio tra due amici di vecchia data che si erano da tempo divisi sulle scelte politiche, dopo la prima stagione del Partito radicale, quando Ferruccio Parri dava vita al primo nucleo della «sinistra indipendente».
In quelle parole tuttavia non sta solo il rispetto o l’affetto verso «Maurizio» – il mitico nome di battaglia di Parri nella lotta partigiana – o verso la Resistenza, anche se certamente c’è anche quello, memore di quanto Valiani scriveva nel 1947 quando ricordava, nell’inizio incerto della guerra di liberazione, «Tutti vanno pazzi per lui». Quelle parole non sono solo un sincero riconoscimento della capacità che Parri aveva avuto di tenere insieme le molte anime e i molti protagonisti del movimento resistenziale, che avevano accettato come «linguaggio comune» le «semplici parole di libertà e giustizia» [infra, p. 44], che avevano scelto di stare uniti. La commossa orazione funebre di Valiani svela un lessico laico che in Italia non è mai stato linguaggio condiviso, o comunque mai di maggioranza. Laddove con «laico» si intende il riconoscimento del nesso doveri/diritti nonché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano, ovvero il proseguimento del progetto illuminista enunciato da Kant all’inizio del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? «L’illuminismo – scriveva il filosofo tedesco – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque l’essere laico, nelle parole di Valiani e nella biografia di Parri, indica una tendenza continua a uscire dallo stato di minorità in cui ci si trova e a «camminare con le proprie gambe», non confondendo, come sottolinea Michel Foucault, quella condizione di minorità «con uno stato di impotenza naturale». Dunque pare che compito dell’intellettuale e del politico sia essere ottimisti, laddove, con Johan Huizinga, ottimista non è colui che sottovaluta i pericoli gravi sostenendo che tutto finirà per il meglio, bensì colui il quale, pur valutando in tutta la sua portata la minaccia dell’imminente tracollo, tiene alta la speranza, anche qualora non si scorga all’orizzonte una via d’uscita. Ottimista è chi si sforza costantemente di ricomporre un quadro, ma anche di dare il valore alle cose per poterlo sostenere. In altre parole, riprendendo le azioni che nel pensiero di Parri appaiono necessarie per «farla finita con il fascismo», essere laico significa non cedere il passo, saper progettare e saper trainare. Al primo posto, sostiene Parri all’apertura dei lavori della Consulta [infra, pp. 55 sgg.], ci deve essere «la difesa dell’ordine morale» dell’Italia – e della «Giovane Europa» – di domani, in continuità con lo «spirito di concordia» della lotta di liberazione. Senza impantanarsi, invischiarsi, soffocarsi, rischiando così di favorire il ritorno «a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia» [infra, p. 80].
È un profilo che «Maurizio» ha costantemente presente nella sua riflessione e che nella lezione che tiene nel 1960 – Il CLN e la guerra partigiana –, che abbiamo volutamente sintetizzato con la parola chiave «trasmettere», assume una dimensione paradigmatica. «Trasmettere», infatti, non è solo raccontare perché altri ereditino, ma è soprattutto non celare, non costruire una versione mitizzata del passato per timore della sua dissoluzione, che invece sarà conseguente e logica proprio se quel passato dovesse essere raccontato in versione «eroica». In quell’occasione, in apertura del suo intervento, Parri dice:
Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han da temere della sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo [infra, p. 96].
Del resto, anni prima, lo stesso Parri non aveva taciuto sulla dimensione geograficamente contenuta della Resistenza: «Solo una parte del paese, territorialmente parlando, è stata toccata profondamente dalla Resistenza, e solo una parte della società italiana vi partecipa o l’accetta», aveva detto in un’intervista nel 1957, precisando che Resistenza non era stata la ripetizione del moto solo urbano ed elitista del Risorgimento, al quale non manca mai di riferirsi, ma qualcosa di più profondo e partecipato.
In quella stessa intervista, tuttavia, indica una questione molto importante che spiega l’insistenza di parlare della Resistenza, in particolare rivolta alle generazioni anche lontane da quell’esperienza diretta:
il crollo del fascismo – precisa – ha aperto situazioni e vuoti di portata assai più ampia. È crollata l’impalcatura del regime fascista; non sono stati arrestati gli effetti della sterilizzazione dei cervelli. E così un fondo materasso di conformismo e qualunquismo, che è lo stato psicologico di riposo di un paese senza educazione e di scarsa coscienza democratica, fa da supporto alle vendette, alle paure postume, alle restaurazioni conservatrici, alle pressioni retoriche e clericali.
La sua convinzione è che «non si ama quello che non si conosce», e la prima cosa che si ignora, ripete più volte, è la rilevanza del fatto resistenziale, come scelta – un aspetto su cui avrebbe scritto Claudio Pavone nel 1991 proprio su sollecitazione di Parri –, come condizione straordinaria nella storia italiana. Un fatto eccezionale a opera di uomini per lo più, appunto, «ordinari». È un’osservazione che ripete spesso a partire dal 1949, ogni qualvolta riflette sul significato della esperienza resistenziale nella storia degli italiani: vi ritorna nel 1960 nelle lezioni sull’antifascismo [infra, pp. 93 sgg.], poi nel 1963 in un’intervista che dà all’«Avanti!», poi di nuovo nel 1972 ripercorrendo la scena della caduta del governo da lui presieduto [infra, pp. 37 sgg.]. D’altronde lo diceva già nel 1945, descrivendo il «momento psicologico politico» dell’immediato dopoguerra, tratteggiando quella «marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti», della quale «non ci si deve meravigliare», anche perché tra le miserie, i dolori, le inquietudini e «un così diffuso stato di insicurezza», vanno aggiunti «i delusi, gli spostati, gli avventurieri» e «lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti», dei fascisti [infra, p. 79]. La Resistenza aveva visto una partecipazione popolare senza precedenti, è vero, ma restava un’esperienza di una vasta minoranza, che sarebbe tornata a fronteggiare «l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia» [infra, p. 53].
Accanto a quella preoccupazione sta una convinzione: da una dittatura non si esce solo per crollo del sistema e ripristino delle regole democratiche. I conti con le dittature impegnano anche le generazioni successive se non si affrontano le mentalità che hanno fatto sì che quelle dittature durassero nel tempo.
In breve, anche se Parri non usa questa espressione – lui parla di «sagomatura mentale» –, l’Italia del secondo dopoguerra ha appunto un problema di «mentalità fascista» non affrontata e, dunque, rimasta nel codice culturale, nel senso comune. Per questo è necessario coinvolgere e motivare le giovani generazioni: non per un vago rispetto alla memoria del passato, ma alla rovescia, perché quel tempo possa archiviarsi come passato. In Italia, invece, sostiene Parri, quel processo di liberazione culturale, mentale, linguistico, non ha avuto luogo. Per questo, sostiene, ci troviamo a misurarci con la «continuità dello Stato», espressione che significativamente Parri introduce nel gennaio 1972 [infra, p. 46] e che Claudio Pavone assumerà come parola chiave di lavoro, nel 1973, per profilare il tema del passaggio claudicante tra dittatura e repubblica democratica, in un contesto in cui aveva «ripreso fiato» quell’Italia «maggioritaria, piallata, abbeverata da venti anni di regime» [infra, p. 86].
Tuttavia, dichiarare o riconoscere che quel passaggio sia avvenuto in maniera incerta, che spesso sia stato più formale che reale, non implica scegliere la strada del ripiegamento o della delusione, comunque del mesto «ritorno a casa» o, peggio, a una scelta tutta rivolta al «culto del privato».
C’è una dimensione pubblica su cui Parri insiste, soprattutto guardando al passato da dare in consegna alle nuove generazioni. La sconfitta è prima di tutto rivendicazione dei principi della propria azione, è non venire a patti col nemico, anche quando il nemico domina. È il senso della lettera al giudice nel 1927 [infra, pp. 3 sgg.], un testo che verrebbe da definire profetico e che per molti aspetti ha scolpito l’immagine pubblica di Parri, spesso trasformandolo in un’icona.
Ma Parri non ha nessuna intenzione di rimanere avvolto nella leggenda. Per questo il punto che egli sottolinea ogni volta è ricominciare, con pazienza, si potrebbe dire con tenacia. E dunque la logica non è mettere le lapidi o porre il problema della liturgia dell’eroe. Parri, a differenza di Calamandrei, ragiona sul fare la propria parte, evita cioè l’elemento eroico e retorico del martire e ragiona sulla possibilità di azione che ci è data, e anche sul ricominciare daccapo.
È un criterio che appare con nitidezza nel 1933, quando Parri scrive un saggio su Carlo Pisacane. Come è stato sottolineato dallo storico Guido Quazza, Parri in Pisacane legge e trova una parte di sé: sono soprattutto i temi ad attirarlo, quelli cioè legati al dopo 1848, al tempo della sconfitta e dell’esilio di un protagonista assoluto del Risorgimento, agli incontri che l’esule Pisacane fa, alle conversazioni che si hanno tra sconfitti, come scrive Gramsci. Avvicinandosi a un uomo del passato, Parri riflette sull’esperienza dell’esilio come opportunità «per crescere» anziché condizione «per piangere». Invito su cui, significativamente, in anni a noi vicini ha proposto pagine di grande spessore Edward Said.
Ne discende che porgere il testimone della storia non è consegnare il fardello del passato, ma è un modo di fare catena generazionale, e dunque di dare senso alla storia. In questo c’è un superamento della dimensione del militante rivoluzionario e del combattente che Jean-Paul Sartre inquadra nel personaggio di Goetz nel dramma Il diavolo e il buon Dio; e c’è, in parallelo, la dimensione della caparbietà con cui Albert Camus descrive Sisifo, non già nella disperazione dell’attimo successivo alla caduta, ma nella determinazione di Sisifo a scendere di nuovo negli inferi per tentare di nuovo la lotta all’oppressione. «In ciascun istante – scrive Camus – durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
Così era stata, in fondo, la Resistenza armata, che stabilì «vincoli di solidarietà morale, che sopravvivono ai litigi e non si cancellano mai», scrive Parri [infra, p. 125]. Così erano stati gli «uomini di allora» che «non hanno meriti speciali, ed hanno commesso gli errori che commettono gli uomini, anche se in buona fede; ma qualche merito deve essere rivendicato, soprattutto in difesa e a onore dei caduti. Il principale di questi meriti è forse la chiarezza della visione di quel momento». Sono parole che «Maurizio» pronuncia quasi vent’anni dopo la Liberazione, evocando una determinazione e una chiarezza di vedute che forse in molti casi sono poi mancate, al momento della sconfitta, quando il vento della restaurazione e della reazione è tornato a soffiare con arroganza. Ed è questo, crediamo, uno dei pericoli che nel nostro tempo rendono così urgenti le parole e gli scritti di Ferruccio Parri: lo spaesamento che rende una chimera la laicità – nella sua accezione più nobile – della politica, il non trovare più significati che possano percorrere quelle catene generazionali che lui aveva immaginato con forza, il non essere più in grado di impugnare il nostro passato per dotarci di nuove parole chiave, necessarie a farla finita, una volta per tutte, con il fascismo. All’inizio degli anni Sessanta, ricordando di aver presentato una legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano, Parri sosteneva di non essere stato mosso dalla preoccupazione per il fenomeno politico del neofascismo in sé, ma per «i problemi morali dei giovani»: «Sono questi movimenti giovanili che si ripetono, è questa facilità di propaganda che ci impensierisce: questo periodico ritorno a sistemi, a ideologie di violenza, che non vogliamo e che non dobbiamo volere».
Ideologie di violenza che dobbiamo, a tutti i costi, sgominare.
Riferimenti bibliografici
Il brano in esergo è tratto dalla relazione «Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione» tenuta da Parri il 26 giugno 1961 e pubblicata in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, p. 615, così come le due citazioni seguenti nel secondo capoverso (ivi, pp. 613-614) che evocano quelle qui in Il CLN e la guerra partigiana [infra, pp. 93 sgg.]; mentre la prima riflessione sulla sconfitta citata è in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200.
Il testo dell’orazione funebre di Valiani si trova in Parri la religione laica del dovere. Testimonianze di Riccardo Bauer, Arturo Colombo, Giovanni Spadolini, Leo Valiani, in «Nuova Antologia», n. 2141, gennaio-marzo 1982, pp. 19-25 (il passo citato è a pp. 19-20). L’espressione «Tutti vanno pazzi per lui» è in Leo Valiani, Tutte le strade conduconoaRoma, introduzione di Claudio Pavone, il Mulino, Bologna 1995 (I ed. 1947), p. 104.
Il testo di Kant è ripreso da Immanuel Kant, Antologia degli scritti politici, selezione italiana di scritti a cura di Gennaro Sasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 47-55 (la citazione è a p. 47, i corsivi sono nel testo); le parole di Foucault sono in Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2017, p. 36 (ed. or. Le Gouvernement de soi et des autres, Seuil/Gallimard, Paris 2008); per Huizinga si veda Johan Huizinga, Nelle ombre del domani,a cura di Rodolfo Lancia, Aragno, Torino 2019, p. 3 (ed. or. In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, H.T. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem 1935).
L’intervista di Ferruccio Parri ad Antonio Spinosa Solo una parte…, del dicembre 1957, è in «Resistenza», poi in Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 232-236 (i passi citati sono a p. 233 e a p. 234).
Il libro di Claudio Pavone cui si fa riferimento è Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. I testi di Parri del 1949 e del 1963 sono ricompresi in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 512-528 e pp. 530-534. Per una scelta dei testi di Claudio Pavone dedicati al tema della «continuità dello Stato» si veda il suo Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg., nonché la bibliografia ivi citata.
Il saggio su Pisacane, lunga recensione alla monografia di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932, poi Einaudi 1980) è ora in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 74-98 (si veda anche Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi [1931], ora in Id., Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1973, pp. 511-525); il giudizio di Quazza su Parri è in Guido Quazza, Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Rochat, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Ferruccio Parri. Sessant’anni di storia italiana, introduzione di Luigi Anderlini, De Donato, Bari 1983, p. 43. Il riferimento a Gramsci è in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1816. Il riferimento a Edward Said è al suo Riflessioni sull’esilio, ora in Id., Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-231. Per Jean-Paul Sartre si veda Il diavolo e il buon Dio, Mondadori, Milano 1976 (ed. or. Le Diable et le Bon Dieu, Gallimard, Paris 1951); per Albert Camus, Il mito di Sisifo (ed. or. Le Mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942), in Id. Opere, Bompiani, Milano 2000, pp. 316-317.
Le ultime due citazioni sugli uomini della Resistenza e quelle sull’MSI sono in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Arbizzani, Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano cit., p. 205 e p. 214.
Gli otto scritti di Parri riprodotti nel volume sono ripresi da: Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 63-65, 132-142, 110-113, 566-576, 179-193, 576-582, 547-566, 582-588.
Salvo indicazione contraria, le note a piè di pagina sono presenti nell’edizione originale.
Ferruccio Parri -foto segnaletica-
Disobbedire.
Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
Nel dicembre 1926 con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti, Ferruccio Parri prepara e realizza l’espatrio di Filippo Turati, con un motoscafo, da Savona a Calvi in Corsica. Mentre Turati, Pertini e Oxilia proseguono per Nizza, Parri e Rosselli, ritornati con il motoscafo a Marina di Carrara, vengono arrestati, nonostante tentino di sostenere di essere reduci da una gita di piacere.
La lettera al giudice di Ferruccio Parri, all’epoca trentasettenne, è datata 18 febbraio 1927 ed è la dichiarazione di assunzione di responsabilità per un atto, ma soprattutto per una decisione che voleva dire disobbedire, venire meno agli ordini del regime in cui ormai era permessa un’unica voce, quella del fascismo. Ma il documento non ha valore solo per questo. Parri insiste, nella sua lettera, sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi. È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.
Illustrissimo signor Giudice istruttore
La mia volontaria e meditata partecipazione all’espatrio clandestino dell’onorevole Turati è stata determinata – come già le dichiarai, signor Giudice – da moventi strettamente politici. I quali tuttavia dalla deposizione che ho già reso in sue mani – su questo punto necessariamente sommaria – non risultano con quella assoluta chiarezza che deve essere attributo e privilegio di un atto di così piena consapevolezza. Mi consenta pertanto, signor Giudice, di completare per questa parte le mie dichiarazioni.
Non mi hanno guidato ragioni di personale rancore verso il regime; non ambizioni o delusioni o vendette da soddisfare: insisto nel definire motivi strettamente secondari lo stesso sdegno del momento e la sollecitudine per l’uomo nobilissimo minacciato.
Mi onoro di aver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione – cui non son mancati riconoscimenti ed elogi –; non ho mai seguito – come le dissi – movimenti di estrema; alieno in genere dalla vita politica, e per questo rimasto sempre estraneo ai partiti, nessuna responsabilità ho certo da rimproverarmi rispetto agli anni torbidi del dopoguerra.
Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista.
Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettissimo conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali calpestati, della nazione lacerata.
Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, alla loro coscienza è affidata per le speranze dell’avvenire la tradizione del passato.
Questa tradizione è nell’aspirazione, perenne nella nostra storia migliore, alla libertà ed alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia nella storia del mondo.
Chi, come il fascismo ha fatto, oblia e – cieco – rinnega questa eredità ideale, perduti insieme freno e timore, fatalmente degrada il suo dominio politico a sopraffazione: menzogna ed ipocrisia si fanno strumenti di governo e ragioni di corruzione e corrosione, cade ogni norma e limite di moralità pubblica, è consentita ogni offesa alla dignità personale, si disfrena, serva e padrona dei potenti, la bestialità umana.
Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che l’esperimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia maturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, restituendogli ansiosa sete dei beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di difesa. Secondo Risorgimento di popolo – non più di avanguardie – che solo potrà riallacciare il passato all’avvenire.
È in noi la certezza che libertà e giustizia,idee inintelligibili e mute solo a tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di classi e di popolo.
Nella fede in queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo.Contro le nostre persone esso ha bastone e manette, contro la nostra fede è inane. Non ha invero che i sofismi dei suoi retori e servi.
Esso ci bestemmia, ebbro, antinazione. Ma io, signor Giudice, che credevo al valore civile della storia nazionale che insegnavo in scuola, io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi.Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio.
Quando il novembre ha portato la totale sommersione di ogni traccia e modo, nonché di resistenza, di vita pubblica, nello sconforto e nell’accasciamento generale ho sentito degno e doveroso dar opera ad una protesta non sterile e non effimera, che rompendo il silenzio plumbeo fosse viva riaffermazione di fronte all’avvenire di un’Italia migliore. Protesta e riaffermazione che ormai potevano vivere solo oltre confine, mentre la paura del regime con la minaccia delle sue leggi pretendeva vietare ciò che la sua stessa violenza rendeva necessario. Leggi nate dalla paura e dalla violenza, senza radici perché nella coscienza civile, senza diritto quindi al rispetto, persuadenti anzi alla ribellione.
È da questa posizione di spirito, signor Giudice, che deriva il mio atto, è questa diretta e consapevole coerenza con il mio passato che gli conferisce – io credo – una significazione particolare.
Ho invero con l’onorevole Turati un legame che vince ogni diversità di origine ed ogni possibile discordanza del passato: un legame per oggi e per domani essenziale, quale è quello della devozione a quelle idee, dell’avversione a questo clima. L’onorevole Turati per l’altezza del suo animo e per l’onoranda dignità della sua vita poteva a buon diritto rappresentare, sopra ogni divisione e tendenza, di fronte alla civiltà europea, la condanna dell’ottenebramento italiano,la riaffermazione di quei principi ideali nei quali la storia moderna si riconosce, riaffermazione anche di un’Italia che sia patria libera ed equa a tutti gli italiani.
Nessuna jattanza e nessuna libidine di facile martirio da parte nostra.
Ma poiché ora la legge fascista ci chiama a rispondere del nostro atto, con orgoglio ne rivendichiamo la prima e più diretta responsabilità,con tanto più orgogliosa coscienza oggi che nulla più si oppone ai trionfatori; oggi che è pregio delle coscienze più diritte percuotere l’accidia e la ipocrisia della vita pubblica con l’esempio del sacrificio, se anche modesto; oggi che più bisogna sferzare la generale flaccidità e schiaffeggiare la viltà delle classi dirigenti con un esempio di fedeltà alle idee, oggi che è più veemente in noi di fronte all’orizzonte più chiuso la certezza dell’avvenire. Signor Giudice, la legge della fazione colpendoci ci onorerà.
Ferruccio Parri
Combattere.
Venti mesi di guerra partigiana (1945)
Testo del discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945, nel corso di una manifestazione organizzata dal Partito d’Azione per presentare Parri e Leo Valiani, segretario del partito per l’Alta Italia, venuti a Roma in rappresentanza del Comitato Nazionale di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI). Oltre a Valiani ci sono anche il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), e Luigi Longo, vicecomandante come «Maurizio» ed ex ispettore generale delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna.
Il discorso è forse il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano, e costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri» (come si scrive già all’epoca), del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea, al contrario del Risorgimento, è che gli italiani c’erano e che dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva che possa guardare al futuro democratico all’orizzonte.
I morti ci comandano
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico Valiani. Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate, per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola; per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato… a tradimento a raccontarvi qualche cosa del movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento, un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
Voi vivete da qualche tempo in un regime (come dire?) di inflazione declamatoria; e permettete allora che vi faccia un rapporto in uno stile da ragioniere, togliendo da esso tutto quanto possa sollecitare i vostri applausi.
Nascita del movimento partigiano
Immagino che voi possiate facilmente comprendere come sia nato il nostro movimento partigiano: nacque per germinazione spontanea nei giorni del collasso, dello sfacelo. Molti furono i soldati che allora si diedero alla macchia e ad essi si aggiunsero pochi ufficiali che avevano lo stesso spirito di indipendenza. A questi primi nuclei si sono aggiunti poi professionisti, studenti, operai spinti tutti dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare con le armi per lavare una vergogna, una vergogna nazionale. Si sono formate in questo modo le prime bande nelle valli alpine e si formarono i primi Comitati di liberazione nazionale che ebbero il loro punto di unione nel CLN di Milano: questo decise di darsi un ordinamento militare e un comando militare del quale feci parte anch’io.
La stessa cosa, in maniera forse meno programmatica, avvenne nelle altre regioni, soprattutto in Piemonte dove il movimento della resistenza prese subito un grande impulso e fu diretto con molto vigore.
Cominciarono subito i primi scontri. E i primi scontri sono stati atroci. Nella provincia di Cuneo si ebbero rappresaglie feroci. Nei tedeschi vi fu immediatamente il freddo, crudele proposito di estirpare sul nascere e dalle radici questo movimento partigiano. Nel Novarese, nel Bresciano, vi sono stati combattimenti accaniti, nei quali i nostri si sono portati generalmente bene e in alcuni punti molto bene. Avemmo perdite crudeli, ma acquistammo la convinzione che c’era in tutti una capacità combattiva ragguardevole e che il movimento insurrezionale, che si prevedeva immancabile, ci avrebbe trovato con le armi impugnate. Questa sensazione ci fece superare le prime incertezze e le grandi difficoltà incontrate e, passata questa prima fase di incertezze e di disorientamento, abbiamo cominciato il lavoro di organizzazione. Questo lavoro ha marciato piuttosto lentamente nell’inverno, per le difficoltà del soggiorno e della lotta sulle montagne. Non ci scoraggiammo e ci parve di aver raggiunto un risultato veramente notevole quando, nel febbraio ’44, potemmo annoverare circa novemila uomini raccolti in formazioni, per modo di dire, regolari. Da noi questi uomini erano male armati, meglio armati erano in Piemonte, dove i partigiani avevano potuto con maggiore facilità impadronirsi di armi. Ci pareva di avere già un esercito di una certa importanza, ma, passato l’inverno e divenuta più facile la vita dei partigiani nelle vallate, e avuti i primi lanci di armi e di equipaggiamenti dagli alleati, potemmo organizzarci meglio e le nostre file si accrebbero con rapidità.
Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col richiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l’afflusso di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità. Disponemmo allora che si formassero nelle vallate dei campi di istruzione, ma questo nostro desiderio fu fortemente inceppato dal nemico che intensificò la lotta contro i partigiani. Fascisti e tedeschi, passato il primo momento di incertezza in cui non riuscivano ad afferrare il bandolo del movimento partigiano, si gettarono poi risolutamente alla offensiva con rastrellamenti su vasta scala e battute nelle montagne con reparti molto forti, provvisti di autoblinde e anche di cannoni. I risultati di queste offensive furono per noi disastrosi, ma il movimento partigiano era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa, tanto che nell’estate del ’44 potevamo contare su di un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino ad un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine.
Organizzazione militare del movimento partigiano
Eravamo intanto riusciti a dare una forma quasi regolare all’organizzazione militare. Il Comitato militare che si era costituito in un primo tempo fu da noi trasformato in Comando militare provvisto di regolari servizi: un ottimo servizio di informazioni degno di un esercito regolare, organizzato con grande ……….
Ferruccio Parri
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BIOGRAFIA
Fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo in Italia. Rifiutata la tessera del PNF fu costretto a lasciare l’insegnamento e si dedicò subito all’attività di antifascista, per la quale fu più volte arrestato. Insieme ai Rosselli organizzò l’espatrio di Filippo Turati e Sandro Pertini. Negli anni Trenta mantenne i contatti con i gruppi antifascisti italiani che si erano formati in Francia, in particolare con Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio del 1943, con l’invasione dell’Italia da parte dei nazisti, fu uno dei capi e organizzatori della resistenza all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Diventò il leader del Partito d’Azione e nel 1945 fu Presidente del Consiglio. Il suo governo di unità nazionale però, lacerato dai contrasti tra partiti eterogenei, durò poco. Nel 1946 uscì dal Partito d’Azione e con La Malfa fondò il Partito della democrazia Repubblicana, che poi in seguito confluì nel Partito Repubblicano, e venne eletto come deputato nell’Assemblea Costituente. Fu senatore di diritto nella prima legislatura appoggiando il primo governo De Gasperi. Nel 1953 abbandonò il PRI, in contrasto con la decisione di votare la nuova legge elettorale definita poi “legge truffa”, e diede vita con Calamandrei al Movimento di Unità Popolare che, pur ottenendo un risultato elettorale deludente fu determinante per far mancare il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Nel 1963 venne nominato senatore a vita.
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta-
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
DESCRIZIONE-Torino operaia e fascismo- Una storia orale –Questo libro, pubblicato per la prima volta quarant’anni fa e tradotto in inglese pochi anni dopo, è basato sulla memoria di circa settanta donne e uomini nate-i tra il 1884 e il 1922, intervistate-i nella seconda metà degli anni settanta, comparata con una serie di fonti d’archivio (rapporti di polizia, cinegiornali dell’Istituto Luce, documenti giudiziari). I protagonisti, appartenenti alla classe operaia torinese, raccontano la loro visione della vita, della storia, di se stessi, evocando il periodo fascista e il rapporto ambivalente tra Mussolini e le masse. Si delinea così un quadro multiforme della Torino operaia degli anni venti e trenta nel secolo scorso: i divertimenti e le canzoni popolari, la condizione delle donne, l’atteggiamento verso i meridionali, la religione, il fascismo nella vita di tutti i giorni.
Ne emerge un quadro di piccoli episodi di «resistenza» quotidiana come graffiti e scherzi, una cravatta rossa o una vecchia canzone socialista, ma anche da eventi traumatici come l’aborto, unico mezzo di controllo della fertilità largamente disponibile ancorché clandestino. È quindi documentata una negoziazione quotidiana col potere che va al di là del semplice dilemma consenso/dissenso. Un capitolo finale è dedicato a un evento «mitico» della Torino operaia e antifascista: il silenzio degli operai della Fiat in risposta al discorso del duce, nel corso dell’inaugurazione della Fiat Mirafiori nel 1939. Il testo combina approcci mutuati dalla storiografia, dall’antropologia, dalla psicologia e dalla microsociologia, offrendo un ampio spettro di forme narrative e metodologiche e una riflessione sui meccanismi della memoria e sul suo rapporto con il presente in cui è elaborata. La sua riproposta invita ad attualizzare il ruolo centrale di una categoria politica e sociale come la vita quotidiana in quanto luogo privilegiato della soggettività, e a prendere in considerazione quanto i «grandi mutamenti» devono a «decisioni individuali».
Luisa Passerini
Autore-Luisa Passerini-Emerita di Storia all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha usato fonti orali, scritte e visuali per lo studio dei soggetti del cambiamento sociale e culturale, dai movimenti di liberazione africani ai movimenti operai, delle donne e degli studenti. Ha indagato il rapporto tra il concetto di identità europea e quello di amore romantico. Tra i suoi libri: La quarta parte (Manifestolibri, 2023); Storie d’amore e d’Europa (L’ancora del Mediterraneo, 2008); Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività (Bollati Boringhieri, 2003); L’Europa e l’amore (Il Saggiatore, 1999); Storie di donne e femministe (Rosenberg & Sellier, 1991); Mussolini immaginario (Laterza, 1991); Autoritratto di gruppo (Giunti, 1988).
Editore-Officina Libraria
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Officina Libraria, “casa editrice” in latino umanistico, ha vocazione internazionale ed è specializzata in pubblicazioni d’arte e illustrati.
Fondata nell’ottobre 2006 a Milano e oggi a Roma, l’Officina Libraria di Marco Jellinek e Paola Gallerani ha pubblicato da allora oltre 450 titoli, che spaziano dalla saggistica storico artistica alla fotografia, dal design di gioielli alla ceroplastica, aprendo di recente alla storia e alla letteratura.
Molti dei volumi più ricercati sono produzioni o coedizioni con prestigiose istituzioni italiane e straniere: dalla I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (l’imponente catalogo della collezione di dipinti, la collana I Tatti Research Series), al Kunsthistoriches Institut di Firenze e al Centro Internazionale Studi di Architettura Andrea Palladio; dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano (la guida di tutti i dipinti esposti e il catalogo della mostra 100 anni di scultura) alla Galleria Borghese (le mostre su Bernini, Picasso e Valadier e i prossimi cataloghi ragionati delle Sculture e degli Arredi), le Gallerie Nazionali Barberini Corsini (diversi cataloghi e i 100 capolavori), dal Museo del Bargello (il catalogo ragionato degli avori) all’Accademia Carrara di Bergamo (100 capolavori, il catalogo ragionato dei dipinti del XIV-XV secolo) per citarne alcuni. Senza dimenticare il musée du Louvre, di cui Officina è il solo coeditore italiano: con la preziosa collana di facsimili del Cabinet des dessins, la serie dei cataloghi ragionati dei disegni italiani e i volumi per mostre come Giotto, Messerschmidt, Valentin de Boulogne, Rembrandt fino a Le corps et l’ame, sulla scultura italiana del ’500, insignito del Prix du catalogue d’exposition 2021, e che nell’edizione italiana accompagna la mostra Il corpo e l’anima al Castello Sforzesco di Milano.
Che si tratti di cataloghi di mostre, opere di fondo, guide o saggistica applichiamo all’editoria contemporanea, che ha tempi di produzione sempre più serrati, l’attenzione e la cura editoriale d’altre epoche, sia nella redazione che nei progetti grafici e nella riproduzione delle immagini. Alla base del nostro lavoro c’è il progetto culturale di fare libri di qualità, nei contenuti e nella forma, restituendo all’editore quel ruolo di mediazione culturale e non semplice marchio di produzione che gli è proprio, nella scelta dei progetti, nell’interazione con autori, istituzioni e committenti, nella realizzazione dei volumi, e nella loro promozione e diffusione a pubblicazione avvenuta, sia attraverso le librerie (in Italia siamo distribuiti da Messaggerie Libri; in Francia da Daudin (DOD & Cie), in US-UK e resto del mondo da ACC Art Books) che nei principali bookshop di mostre e musei, e con campagne mailing specifiche presso le biblioteche italiane e straniere.
Gli editori
Marco Jellinek
Marco Jellinek • Laureato in chimica e filosofia alla University of Kansas, ha cominciato ad occuparsi di editoria nel 1987 come redattore e responsabile commerciale extra-librario alla Jaca Book di Milano, per passare alla Disney Libri come senior editor e poi come direttore marketing da Skira. Nel 2002 ha fondato la 5 Continents Editions e nel 2005 la consociata Equatore che ha diretto fino all’ottobre 2006, pubblicando prestigiosi volumi d’arte e fotografia, come Parate Trionfali e New Guinea, rispettivamente vincitori dei premi Justus Lipsius e 2006 AAM Museum Publications Design Competition.
È la mente economica e strategica di Officina Libraria e le scelte editoriali poggiano sulla sua cultura storico artistica, seconda soltanto alla sua passione per la montagna.
Paola Gallerani • Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano, è stata caporedattore della 5 Continents Editions dalla sua fondazione al maggio 2006, occupandosi del coordinamento editoriale dei volumi d’arte e saggistica e di tutte le coedizioni con il musée du Louvre. Ha collaborato con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, catalogando l’archivio Giovanni Testori, di cui è la principale esperta, e ha insegnato Organizzazione delle attività editoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Nell’ottobre 2006 fonda con Marco Jellinek l’Officina Libraria, occupandosi oltre che della direzione editoriale anche della grafica della maggior parte dei volumi. Dal 2011 si occupa anche di LO, l’etichetta per bambini, scegliendone i titoli con Marco, spesso traducendoli e a volte inventandoli (anche con lo pseudonimo di Amélie Galé). Nel 2016 crea Ab Ovo edizioni, il marchio di Officina dedicato a salute e benessere.
Descrizione del libro di Carlo Greppi–Editori Laterza–Il capitano Jacobs è un buon soldato, rispettoso delle gerarchie, onesto. Improvvisamente nel 1944, assieme al suo attendente, decide di passare, armi in pugno, dalla parte dei partigiani. Sceglie di combattere contro i propri camerati. Perché lo fa? Inseguendo la parabola di quest’uomo viene alla luce una grande storia dimenticata: furono centinaia i tedeschi e gli austriaci a percorrere lo stesso cammino. Un piccolo esercito senza patria e bandiera, una pagina unica nella storia d’Italia.
Sui monti di Sarzana, proprio lungo la Linea Gotica, dove nel 1944 i combattimenti infuriavano con maggiore ferocia, il capitano della marina tedesca Rudolf Jacobs, ottimo soldato, abbandonò le proprie fila. Non lo fece per fuggire da una guerra ormai persa, ma per unirsi ai partigiani garibaldini, fino a morire eroicamente durante l’assalto a una caserma delle Brigate nere fasciste. Apparentemente la sua sembra la storia di un’eccezione, commovente e coraggiosa, ma pur sempre un’eccezione rispetto alla nostra idea dei tedeschi zelanti combattenti della Germania nazista, fedeli fino al suo crollo. Eppure questa eccezione non fu così solitaria e isolata: parliamo di centinaia di uomini, almeno mille secondo le stime degli storici. O erano di più? Tedeschi e austriaci, ‘banditi’, ‘disertori’, ‘senza patria’, che hanno saputo dire di no agli ordini ingiusti, che hanno rigettato la legge dell’onore e del sangue per scegliere quella della libertà e della coscienza. Partendo da tracce labili, quasi svanite – un nome su una lapide, poche righe nei documenti ufficiali, qualche ricordo dei partigiani sopravvissuti –, questo libro è un’indagine appassionata e coinvolgente che ci trascina alla riscoperta di una pagina di storia che nessuno in Italia ha mai raccontato in questo modo.
Solo la coscienza non inaridisce,
questo fiero, aspro paesaggio di giustizia,
questo fortino contro il rimorso.
Siegfried Lenz, Il disertore (1952)
Sotto una stella armata
1.
Brema, Germania nord-occidentale, domenica 26 luglio 1914.
Poche ore prima di quel pianto apparentemente inconsolabile, gran parte del mondo era totalmente all’oscuro delle macchinazioni dei potenti del Vecchio Continente. Dopo il durissimo ultimatum austroungarico alla Serbia di tre giorni prima, l’Europa sta entrando in guerra. Spalleggiato da un incondizionato sostegno tedesco, l’impero asburgico ha deciso che la sua pazienza è finita, e si percepisce il montare di uno scontro generalizzato, e non limitato alla regione balcanica. Non succedeva da oltre quarant’anni, dal conflitto franco-prussiano del 1870-71, che gli eserciti si scontrassero nel cuore dell’Europa – su altri scenari non avevano mai smesso di esportare distruzione, chiaro, ma questa è un’altra storia. E, soprattutto, una guerra così nessuno l’aveva ancora vista mai. La crisi continentale apertasi da meno di un mese con un colpo di pistola a Sarajevo deflagrerà nel giro di una manciata di ore, questa volta, nel conflitto più devastante della modernità. Ma nessuno, in questa domenica d’estate, può davvero intuire la portata epocale di quello che sta cominciando. Cinque giorni più tardi la Germania dichiarerà guerra alla Russia e due giorni dopo le truppe tedesche entreranno in Francia; nelle settimane successive i cadaveri si conteranno già a centinaia di migliaia – alla fine del conflitto, i morti della sola Germania saranno oltre due milioni.
La madre del bambino che viene al mondo, Frieda Rosenthal, compressa com’è nell’ultimo, definitivo sforzo di darlo alla luce, difficilmente sta pensando all’inquietudine che la circonda. Ma essere nati a luglio del 1914, e per la precisione in quegli ultimi giorni che hanno visto scattare il perverso meccanismo delle alleanze senza possibilità di fare marcia indietro, diciamocelo, non è cosa da poco. Forse si intende questo, quando si dice che qualcuno è nato sotto una stella. L’astro che osserva la venuta al mondo a Brema di Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs, il 26 luglio dell’anno in cui si schiantano le speranze in un progresso generatore di futuro e milioni di giovani europei si preparano ad andare alla guerra, è circondato dall’euforia e dal terrore, sentimenti vagamente intrecciati in tutti e in ciascuno. Perché, poi, quello della popolazione tedesca compattamente e ferocemente convinta di questo nuovo conflitto è in parte un mito – la realtà, nella storia e nel presente, è spesso molto diversa da come appare a un primo sguardo superficiale. Proprio il 26 luglio, a voler seguire i tratti contraddittori di quella stella che sbircia la nascita di Rudolf Heinrich Otto Max, si scatenano massicce proteste contro la guerra in tutta la Germania: dureranno fino al 30 del mese, coinvolgendo oltre 750.000 tedeschi. Anche a Brema, nella città vecchia, il 28 si tengono ben sette corposi assembramenti che rigurgitano una folla tenacemente contraria al gioco al massacro che si intuisce stia per cominciare. Sfogliando i giornali locali degli ultimi giorni di quella settimana scarsa, decisiva per le sorti della Germania e dell’umanità intera, si colgono da un lato l’incertezza e la paura ma anche, è vero, una sprezzante arroganza, quel “sentimento nazionale” che è sempre pronto a tutto, pur di nutrire se stesso. Anche a fagocitare padri, fratelli, figli altrui e propri. La tensione montata da Sarajevo al cuore della Mitteleuropa è alle stelle: anche a Brema, come nel resto della Germania e come, gradualmente, nel continente intero, i manifestanti vengono randellati, caricati, ostracizzati – e chi si oppone al conflitto diventa presto, agli occhi della maggioranza della popolazione, nemico della nazione. “Traditori della patria”, per usare una formulazione che incontreremo: Landesverräter, in tedesco. Traditori, siete solo dei maledetti traditori.
All’inferno e ritorno: così titola il grande storico britannico Ian Kershaw la sua opera monumentale dedicata all’Europa “nell’era dell’autodistruzione”, fornendoci un frame per leggere, in linea con una cornice interpretativa ormai fiorente e consolidata, quello che si spalanca nel 1914 come un interminabile conflitto che cova una sua seconda fase in una lunga, drammatica pausa, la Guerra dei Trent’anni, con un “comune denominatore ideologico” – il nazionalismo. Tutto cominciò, nella via via più lucida percezione degli europei, in quei giorni finali di luglio del 1914: “La convinzione che la guerra fosse necessaria e giustificata, e l’autoconsolatorio presupposto che sarebbe stata una cosa spiccia – una breve, eccitante ed eroica avventura coronata da una vittoria rapida e con poche perdite – era penetrata in ampi settori della popolazione, molto al di là delle classi dirigenti europee. Questo aiuta a spiegare come mai in tutti i paesi belligeranti tanta gente fosse così euforica, perfino entusiasta, mentre la tensione, che non toccò il grosso della popolazione fino all’ultima settimana di luglio, andava montando fino a esplodere nella guerra generale”. Il sigillo di questo inizio, per la Germania, lo si può forse apporre al 31 luglio, quando 50.000 cittadini tedeschi, a Berlino, acclamano il Kaiser Guglielmo II in un discorso che diventerà immensamente celebre. “Nella lotta che ci sta davanti io non conosco più partiti nel mio popolo. Adesso tra noi ci sono soltanto tedeschi”, ribadisce il Kaiser nei giorni successivi. Rudolf Heinrich Otto Max Jacobs – per la sua famiglia e per noi sarà semplicemente Rudolf – ha cinque giorni, è in effetti tedesco, e la sua esistenza sarà integralmente incastonata in questi trent’anni.
Venuto al mondo nell’anticamera dell’inferno, lo vedrà e cercherà la via del ritorno, con tutte le sue forze. È nato sotto una stella armata, Rudolf, mentre intorno a lui qualcuno ragiona e grida che no, questa carneficina la si deve fermare.
2.
A dirla tutta, tra i tanti figli illustri di Brema, una città che all’alba della Grande Guerra conta 250.000 abitanti, ce n’è uno che spicca su molti per chiara fama: il suo nome è Ludwig Quidde. Storico di formazione, quando Rudolf nasce Quidde è ormai un uomo di 56 anni che da molto tempo si batte contro la politica estera aggressiva del Kaiser e, più in generale, per la pace tra le nazioni. Non è certo l’unico, intesi: mentre infuriano i nazionalismi, gli imperialismi, il razzismo e il darwinismo sociale che – in forme e misure diverse – legittimano la guerra come strumento di regolazione dei rapporti di forza, in Europa non mancano gli afflati di contrapposizione a un’idea di senso di appartenenza esclusiva, asfittica, chiusa. Innanzitutto l’internazionalismo socialista e l’universalismo di frange del composito mondo cristiano, che si fronteggiano e a tratti convergono. E poi una rete pulviscolare di realtà associative – come il Bund Neues Vaterland, di cui lo stesso Quidde fa parte – e di semplici donne e uomini, non di rado cresciuti nella prosperità e nel benessere, che intendono sinceramente favorire la cooperazione tra i popoli e tra gli stati attraverso forme di associazionismo di vario tipo. “Pacifismo” è una parola potente, per uomini come Ludwig Quidde. Una parola alla quale dedicare l’intera propria vita, oscillando tra momenti di riconosciuta pavidità – Quidde non si pronuncia sull’aggressione tedesca del Belgio, per dirne una – e invidiabili squarci di coerenza.
Quidde, ad esempio, avrebbe potuto fare del mestiere di storico la sua vita. Ma ha avuto la carriera accademica stroncata vent’anni prima, in seguito alla pubblicazione di un infuocato pamphlet che, pur riferendosi all’imperialismo dell’antica Roma, accusava implicitamente Guglielmo II e le mire espansioniste della Germania di fine Ottocento, in una sorta di parodia nella quale accostava il Kaiser a Caligola, e che gli era costata tre mesi di galera. Si era tenacemente impegnato per ridurre l’ostilità tra la Francia e la Germania dopo il conflitto del 1870-71, e proprio a maggio del 1914, poche settimane prima dello scoppio del conflitto mondiale, è diventato presidente della Deutsche Friedensgesellschaft (DFG), la Società tedesca per la pace, che conta circa 10.000 membri per lo più appartenenti alla piccola borghesia, e che guiderà per quindici anni. Esiste ancora oggi, scopro, con una straordinaria e nitida specifica in aggiunta: “Resistenti Uniti contro la Guerra” (Vereinigte KriegsdienstgegnerInnen). La Società aveva raggiunto addirittura il traguardo del Nobel con la baronessa Bertha von Suttner, seconda donna dopo Marie Curie a vincere il prestigioso premio e prima ad aggiudicarsi quello per la pace, che era stata intima amica proprio di Alfred Nobel. Lei stessa, nel ritirarlo, aveva mostrato una profetica consapevolezza di quello che il prossimo futuro avrebbe potuto riservare al Vecchio Continente: “I sostenitori del pacifismo – aveva detto – sono ben consapevoli di quanto siano limitati il loro potere e le loro capacità di influire. Sanno di essere ridotti di numero e di avere scarsa autorità, ma quando considerano realisticamente chi sono e l’ideale che servono, si sentono servitori della più grande di tutte le cause. Dipende dalla soluzione di questo problema se l’Europa diventerà un cumulo di rovine e di fallimenti, o se riusciremo a evitare questo pericolo pervenendo più rapidamente all’era della pace e del diritto”. Era il 1905, e i quattro decenni successivi avrebbero in effetti generato quel “cumulo di rovine e di fallimenti” da lei pronosticato, anche se la baronessa non lo vedrà, perché muore a 71 anni il 21 giugno 1914, pochi giorni prima dell’attentato di Sarajevo. Come non può saperlo Quidde, ritirando il medesimo premio insieme al francese Ferdinand Édouard Buisson, nel 1927. Nella lecture che tiene il 12 dicembre, al cui testo rimetterà più volte mano nei quattro anni seguenti, insiste sul fatto che il programma di disarmo propugnato dalla maggioranza dei pacifisti nei decenni precedenti sarebbe ormai “ridicolo”: “un disarmo drastico e completo è oggi il nostro obiettivo”, altrimenti il disastro è dietro l’orizzonte. Ma la sua, per quanto supportata da schiaccianti evidenze, è ormai pura utopia.
Il clima è irrimediabilmente precipitato, e Quidde lo sa. “Una razza forte scaccerà le deboli” è il mantra del Mein Kampf, il “vangelo” dell’austriaco Adolf Hitler che punta tutto sul riscatto tedesco da affidare a un “uomo forte” (lui stesso, naturalmente), con idee chiare e nemici altrettanto chiari. La Germania e il suo popolo, la Volksgemeinschaft, l’Herrenvolk di cui già si parlava nel secolo precedente (il “popolo di dominatori”, appunto), devono avere diritto al loro “spazio vitale” (Lebensraum) recuperando i territori perduti e prendendosi quelli che ritengono necessari, soprattutto a est. La storia è per Hitler una “lotta totale tra i popoli”: predica la necessità di gerarchie tra esseri umani auspicando con foga l’annientamento dei deboli. La “razza forte”, per prevalere, deve distruggere le altre.
Hitler non è certo l’unico a soffiare sul fuoco della politica di potenza nazionale, né – in Germania – a criticare i trattati di Versailles, e cerca di farsi anzi collettore di una serie complessa di istanze. Molti tedeschi vogliono infatti “rifarsi” perché sulla sola Germania grava l’imposizione della colpa – da lei forzatamente riconosciuta nel noto articolo 231 del Trattato del 1919 – della guerra, e questa trasversale voglia di rivincita nazionale si sposa così a rivendicazioni sociali che coinvolgono ampi strati della Germania inquieta degli anni Venti, nella quale l’ormai anziano Quidde è tra i pochi che invitano alla ragione. Il vento della storia soffia, di nuovo, verso un conflitto generalizzato.
L’anno in cui tutto precipita, lo sappiamo, è il 1929, lo stesso in cui peraltro Quidde lascia la presidenza della Società tedesca per la pace. Rudolf ha 15 anni ed è ancora uno scolaro del Realgymnasium di Brema, mentre suo padre osserva con immensa preoccupazione la crescita improvvisa del partito dell’agitatore austriaco, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP). Il 3 ottobre di quell’anno muore infatti Gustav Stresemann, il politico conservatore che – pur non lesinando misure anche dure – era stato tra coloro che avevano cercato di salvaguardare la tenuta della repubblica di Weimar e dei suoi rapporti internazionali. La scomparsa di Stresemann segna simbolicamente la fine di un’epoca, per la Germania. Tre settimane più tardi, a New York crolla la borsa valori: per i nazionalsocialisti è la grande occasione. Nel giro di tre anni e pochi mesi arrivano al potere, inaugurando una delle epoche più buie della storia dell’umanità, mentre Rudolf frequenta la Seemannsschule di Amburgo, l’istituto nautico fondato da armatori e mercanti della città anseatica cinquant’anni prima.
Sappiamo che suo padre invita immediatamente Rudolf, che nel frattempo ha compiuto 18 anni, a proseguire gli studi e ad abbandonare la Germania per tenersi alla larga dal clima di violenza che si sta facendo asfissiante. Rudolf è ancora giovane, si deve fare le ossa. Imparerà, e ci metterà molto tempo, che la pace – e il suo concittadino Quidde lo sapeva bene – si può fare anche con le armi.
3.
“Per i traditori della Patria e per i disertori, che magari si sono anche vantati di aver combattuto al fianco dei partigiani e di aver ucciso dei soldati tedeschi, non c’è alcuno spazio tra di noi. Siffatti apprendisti senza onore non devono aspettarsi alcun rispetto nemmeno da quelli che sono stati fin’ora nostri avversari. Verranno isolati e trattati nel modo che si sono meritati […] Le nostre leggi militari hanno piena validità, oggi come ieri. Chi le trasgredisce deve portarne inesorabilmente le conseguenze”. Queste parole senza possibilità di fraintendimento sono vergate a giugno 1945 nel Deutsches Hauptquartier Bellaria, il quartier generale tedesco del campo di prigionia di Bellaria, dal comandante Karl von Graffen, che negli ultimi giorni di guerra era stato nominato comandante del LXXVI Panzerkorps sullo scacchiere italiano. Siamo alla fine di quella che molti definiscono la Guerra dei Trent’anni del Novecento, tre decenni e qualche mese dopo le parole con cui il Kaiser Guglielmo II, a Berlino, auspicava – intimava – che davanti a lui ci fossero “soltanto tedeschi”. E sette anni dopo il boato con cui una folla di 250.000 persone nell’Heldenplatz di Vienna invocava l’annessione tedesca dell’Austria, prima di certificarla con oltre il 99 per cento dei voti in un plebiscito che nel 1938 aveva saldato le due nazioni in un solo destino, in quella che sarà un’unica “comunità di popolo armata in guerra”. Così non è stato, almeno in parte: davanti al comandante del LXXVI Panzerkorps non ci sono solamente soldati che hanno inseguito quel sogno di dominio nazionale.
Alle spalle delle spietate minacce di von Graffen, sul suolo italiano e su tutto il globo terracqueo, quel “cumulo di rovine e di fallimenti” previsto dalla baronessa von Suttner quarant’anni prima. Eppure – c’è sempre un “eppure” – queste parole lasciano trasparire qualcosa di immenso. E cioè che von Graffen minaccia inesorabili conseguenze per chi, tedesco, con spudorata doppiezza o vestito di sincera convinzione, ha “combattuto al fianco dei partigiani”. E più in generale per chi si è macchiato del più infamante dei gesti che si possano immaginare, in tempo di guerra: la resa ai nemici, la diserzione, il tradimento – Special Germans, li chiamano gli Alleati. Tedeschi e austriaci speciali, con traiettorie imprevedibili, come molto più spesso erano stati imprevedibili i percorsi di tutte le nazionalità da loro arruolate più o meno a forza: soprattutto cecoslovacchi, polacchi e sovietici di varie provenienze.
In quello stesso campo di prigionia – il lager 12 – erano infatti presenti diversi soldati della Wehrmacht che durante il conflitto avevano disertato, e si erano uniti alla Resistenza italiana. Alcuni dei loro nomi li sappiamo: il sottufficiale Karl Berger, il caporalmaggiore Oskar Blümel, il caporalmaggiore Erich Stey, il caporale austriaco Franz Maier. Dubito che abbiano conosciuto Rudolf, eppure qualcosa li univa. Innanzitutto il fatto che, a differenza di Quidde e della baronessa von Suttner, a loro nessuno avrebbe neanche mai pensato di dare un premio Nobel. Anzi. Il futuro avrebbe riservato, a quegli uomini, quasi solo sguardi e parole taglienti come quelli del comandante von Graffen – quasi solo disprezzo, e al massimo poche briciole di compassione.
“Lui ha combattuto con loro”, avrebbero detto i concittadini, i parenti, gli amici: “Ha rivolto le armi contro di noi”.
4.
Quando ti uccidono più volte, forse non sarai mai morto per davvero. Se hai dimostrato di saper essere un uomo protagonista del tuo tempo ma guidato da valori universali, che trascendono quel tempo stesso, il tuo nome resterà scolpito da qualche parte – nella memoria dei luoghi, in una lapide dimenticata, tra documenti accartocciati, nei sussurrii della gente del posto. Si dirà “lui aveva combattuto con i nostri. Lui, che era tedesco”. Si tramanderà un racconto, che così manterrà viva la tua storia, finché qualcuno non la spolvererà per raccontarla battagliando con l’oblio.
Questo è quanto accaduto a chi, vestendo la divisa delle forze armate tedesche, ha saputo dire di no, seguendo non gli ordini liberticidi e criminali della “patria” ma la propria coscienza, pur sapendo che avrebbe potuto morire non una ma due volte. Se da un lato avrebbe potuto essere ucciso in battaglia, combattendo contro i suoi ex commilitoni e i loro alleati fascisti, dall’altro il suo nome – questo invece era pressoché certo – sarebbe stato a lungo cancellato dalla memoria pubblica del suo paese. Sarebbe stato complicato, anche se si fosse persa la guerra, celebrare i disertori, queste anime rinnegate che avevano scelto il lato giusto della storia, intralciando la cavalcata del Reich millenario per inseguire, al contrario, un altro ideale.
Già nella riedizione della prima grande narrazione della guerra partigiana di Roberto Battaglia, uscita postuma, sono inserite ex novo alcune pagine dedicate al tema su cui lo storico scrive in maniera pionieristica negli anni Sessanta. E tra gli stranieri che si unirono alla Resistenza ricorda anche i disertori dell’esercito tedesco (nati nel Reich o altrove), che appaiono “nelle file del movimento partigiano in quasi tutte le regioni del Nord”. Stiamo parlando di un nucleo numericamente non trascurabile anche secondo gli storici tedeschi che avrebbero proseguito questo filone di ricerca, arrivando a suggerire l’ipotesi che fossero centinaia. Come avrebbe sottolineato Claudio Pavone molto tempo dopo, si sarebbe addirittura tentato di costituire reparti composti integralmente da disertori della Wehrmacht, e le stime più aggiornate confermano le sensazioni dei primi storici della Resistenza: questi uomini capaci di scarti improvvisi e senza possibilità di ripensamento erano certamente svariate centinaia, questo è il dato dal quale devo e dobbiamo partire. E lo stesso vale per diversi altri teatri di guerra, come la Francia, la Jugoslavia e la Grecia (dove furono oltre mille), anche se in questi casi come in quello dell’Europa orientale è difficile raggiungere delle stime certe: va detto che le biografie a nostra conoscenza hanno raggiunto ormai da tempo, allargando lo sguardo al continente, un ordine complessivo quantificabile in diverse migliaia.
Per la sola 10ª armata di stanza in Italia i dati disponibili parlano di 3.582 casi di diserzione e allontanamento non autorizzato, circa la metà dei quali di nazionalità tedesca o austriaca, e una parte considerevole di loro si unì al partigianato italiano – era uno stillicidio continuo, come rilevava la giustizia militare tedesca nel corso del conflitto. Schegge, in confronto a storie epiche confrontabili, come quella dei molti ex soldati italiani che si unirono alla Resistenza francese o greca, o come quella della Divisione partigiana Garibaldi, in Montenegro, dove 20.000 italiani prima appartenenti all’esercito fascista combatterono fianco a fianco ai partigiani locali, e tra i 6.500 e gli 8.500 di loro morirono per la libertà degli ex nemici. Ma schegge commoventi, che si fanno ossessionanti e irrompono brutalmente, con costanza, nei pensieri di chi studia questi anni. Schegge che, a un certo punto, non lasciano più scampo, e pretendono di essere indagate.
Un giovane studioso cui va il merito di essere stato il primo a provare a operare una ricognizione sistematica su questi disertori nella penisola, Francesco Corniani, ha osservato che in termini assoluti si tratta di un numero limitato, “se rapportato al milione di soldati circa dell’esercito tedesco che furono presenti tra il 1943 e il 1945 in Italia” – uno su mille, a spanne. Eppure l’esistenza di questa nutrita minoranza dimenticata, sulla quale non ha svolto “nessuna ricerca mirata” neanche la Commissione storica italo-tedesca (2009-2012), è un dato dal portato storico, civile, etico e simbolico strabiliante. Rivoluzionario. “Dopotutto, chi controlla i valori del mondo?”, chiede un commilitone di Walter Proska, il riluttante disertore del romanzo di impianto autobiografico di Siegfried Lenz, Der Überläufer,scritto nell’immediato dopoguerra ma uscito solo nel 2016: “Tu e tu soltanto”, si risponde.
L’aspetto più entusiasmante della storia, in fin dei conti, si cela nelle traiettorie biografiche dei suoi protagonisti, come l’archetipico Walter Proska, o come Rudolf. E, in questo caso più che in molti altri, si possono – si devono – ricostruire. Sapendo che saranno innumerevoli i vuoti, gli inciampi, le informazioni che vorremmo e che non potremo avere. Fin dalla riedizione del 1964 della Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia il simbolo anche problematico, tra gli addetti ai lavori, di queste vite utopiche di veri e propri “partigiani dell’umanità” che scelsero il loro versante della lotta senza adagiarsi sui confini imposti alla nascita, è Rudolf, quell’uomo nato a Brema nella “crisi di luglio” del 1914. Ma chi era veramente? È possibile scoprirlo? E quali domande pone a noi oggi la sua parabola umana?
Per quelle inaspettate coincidenze che l’indagine del passato spesso ci fornisce, quell’uomo portava un nome, Rudolf, che molti anni dopo avrebbe raccontato una storia non accomunata solamente dall’omonimia. Una storia di un altro Rudolf, una storia diversa.
Ma – per gli interrogativi che scatena – non poi così tanto.
Saremmo stati diversi?
1.
“Esistevano dei tedeschi buoni?”. È il 1989, un anno fondante per la nuova Europa aperta che si intravede all’orizzonte e in cui inizia a infuriare il dibattito sulla “guerra civile europea”, e Nuto Revelli – ex partigiano, insuperato indagatore della storia sociale italiana – rivolge questa domanda a C.M., un combattente della Resistenza belga ebreo, di madre polacca e padre russo. “No, nessun tedesco buono. Forse uno per uno, sì. Ma due insieme non buoni”, gli risponde C.M.
Revelli, un reduce del freddo glaciale del fronte russo dove aveva maturato un’irriducibile opposizione ai fascismi, aveva narrato diverse volte e per iscritto la sua esperienza – la sua “conversione” all’antifascismo, verrebbe da dire. “Sparare vuol dire credere in qualcosa di giusto o di sbagliato”, aveva scritto a inizio anni Sessanta ne La guerra dei poveri a proposito dei giorni di settembre del 1943 in cui finì il suo fascismo “fatto di ignoranza e presunzione”, e scelse la lotta contro i fascisti repubblicani di Salò e i loro alleati nazisti. Come avrebbe più volte raccontato, il suo odio per i tedeschi durante e in seguito alla campagna di Russia era via via cresciuto, diventando coriaceo, insopprimibile. E lo sarebbe rimasto per decenni – nonostante ne avesse incontrati, di tedeschi antinazisti, durante la lotta di liberazione.
“Nei venti mesi della guerra partigiana distinguevo i tedeschi della Wehrmacht dalle SS, ma non i tedeschi dagli austriaci. Erano tutti tedeschi per me, tutti uguali, tutti nazisti”: la sua leggendaria – rivendicata – incapacità di voler andare oltre quell’odio quasi atavico, coltivato con rancore, però, a un certo punto, incontra un ostacolo. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta comincia a ossessionarlo la storia di un “cavaliere solitario” che era diventato un disperso nel Cuneese nel corso della guerra 1943-45. E cerca spasmodicamente di ricollegare le poche tracce consunte di questa storia dai contorni così incerti, da “sordomuto” (Revelli non parlava né capiva il tedesco, né poteva accedere a Google Translate, ovviamente). Oltre a interrogare una miriade di testimoni e a mettersi alla caccia di una documentazione che pare impossibile da trovare, Revelli si confronta anche con diversi storici, tra cui Christoph Schminck-Gustavus, professore di storia del diritto e storia sociale all’università di Brema. Proprio Schminck-Gustavus, a distanza di poco dal dialogo con il partigiano belga, gli manifesta il suo disagio: “Magari il vostro odio di allora vi ha accecati, fino al punto che non vedevate più quei tanti poveri diavoli” che indossavano malvolentieri la divisa tedesca. In effetti, per Revelli e per molti altri, era stato così, e proprio l’incontro con una nuova leva di storici tedeschi che indaga più a fondo e racconta i crimini del nazionalsocialismo inizia a scavare dubbi nelle sue certezze. Due anni prima, a oltre quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, ha scritto questo di Christoph, diventato nel frattempo una frequentazione preziosa: “la sua presenza amica mi fa riflettere. Non ho fatto passi avanti verso il cavaliere solitario, ma il mio ‘tedesco buono’ l’ho trovato”.
Cinque anni dopo questa prima folgorazione – e il capitolo del libro dedicato a questa ricerca, Il disperso di Marburg, si intitola “La svolta” – finalmente, grazie all’aiuto decisivo di un altro storico, l’italiano Carlo Gentile, il bandolo della matassa si sgroviglia e il “cavaliere solitario” guadagna una provenienza (Marburg), un nome – Rudolf, appunto – e un cognome, Knaut. Non molto altro, in realtà, ma anni di vicoli ciechi e false piste alla fine approdano al punto che sogna chiunque si metta su una traccia, sperando di arrivare da qualche parte. “Il sentimento di pietà è così profondo da annullare ogni compiacimento per il risultato conseguito”, annota Revelli a proposito di quel tedesco di Marburg che usciva solo a cavallo tutte le mattine dalle “Casermette” di San Rocco, alle porte di Cuneo, e che un giorno venne catturato e ucciso da un gruppo di partigiani. E che lui insiste, tra le pieghe del suo resoconto impostato quasi come un diario di bordo, a definire il suo “tedesco buono”, nonostante lo stesso Gentile non accetti questa ipotesi e lo inviti “amichevolmente a ritornare con i piedi per terra”. Revelli pare avere una necessità spasmodica di trovare pietà per tutti i combattenti, anche per se stesso.
In realtà Rudolf Knaut non era affatto un “buono”. Certo, come ha osservato Luigi Bonanate, è “il simbolo più banale e più anti-eroico della figura del disperso (di tutte le guerre)”, figura immensamente cara a Revelli per via della sua personale esperienza in Russia, ma non è “né migliore né peggiore di tanti combattenti”, degli oltre sette milioni di morti tedeschi e austriaci della seconda guerra mondiale. Revelli si ostina a voler vedere un “buono” in Knaut, un uomo che, sebbene non fosse iscritto al Partito nazionalsocialista di Hitler, si presume che fosse sistematicamente impegnato in attività antipartigiana con il suo battaglione. Se pensiamo che possa esserci dell’ingenuità in questa clemenza ex post di Revelli, però, ci sbagliamo.
“Credo di non aver dimenticato nulla di quei tempi in cui la ferocia era all’ordine del giorno” – scrive in uno dei passaggi più memorabili de Il disperso di Marburg. “Ma voglio che ogni tanto i freni della razionalità si allentino, voglio ogni tanto sognare a occhi aperti. Quante volte, in quei tempi della malora, mi dicevo che in guerra erano i buoni a pagare, non i peggiori”. E questo, nella nostra storia, è sicuramente vero.
2.
Uno degli ultimi giorni del secolo scorso, intervenendo subito prima di un dibattito tra Revelli e il pubblico, il suo amico Christoph Schminck-Gustavus – “tedesco buono”, lui sì – chiede alla platea: “Come ci saremmo comportati noi?”. Immagino la commozione sua e degli astanti, mentre prosegue: incalza chi lo ascolta definendo certo un po’ “farisaico” il pensiero “che avremmo opposto resistenza, che sarem[m]o stati coraggiosi, che saremmo stati un po’ diversi dal normale, da quella normalità che ha permesso che andasse in rovina quasi tutta l’Europa, che morissero milioni e milioni di uomini”. “Saremmo stati diversi?”, chiede Schminck-Gustavus al pubblico, e a tutti noi. Forse, o forse no. Gli avrebbe fatto eco, molti anni dopo, il conturbante criminale di guerra (hollywoodianamente e ordinariamente “cattivo”) Max Aue, voce narrante e protagonista del romanzo Le benevole di Jonathan Littell, con tutt’altro tono: “Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me, ma non siete migliori. Perché se avete l’arroganza di pensarlo, qui comincia il pericolo”.
Naturalmente il fatto che questa domanda, “saremmo stati diversi?”, l’abbia posta un tedesco – seppure in un invidiabile italiano – non deve essere passato inosservato. Negli ultimi tre quarti di secolo è spesso bastato l’accento, di un tedesco, per sentire quel piglio “fanatico, cinico, arrogante, spietato”, “quasi a indicare un’essenza antropologica imperitura”, quasi a significare l’incarnazione del male, come avrebbe osservato Filippo Focardi una dozzina d’anni più tardi. Lo fa nel capitolo “Uomini o tedeschi?” del saggio Il cattivo tedesco e il bravo italiano, un pilastro della storiografia italiana più recente che ci mostra come lo sforzo di addossare tutte le colpe della guerra non solo alla Germania nazista ma, per induzione, a tutti “i tedeschi”, avesse coinvolto a trecentosessanta gradi il mondo della cultura e della politica, anche antifascista, con lo scopo di riabilitare l’Italia, nel dopoguerra, nella cornice internazionale. Ma, parallelamente, era rimasta viva la ricerca di “bagliori di umanità non spenta dall’omologazione imposta dal regime”, in scia alla tradizione pacifista – con tutti i suoi chiaroscuri – incarnata da von Suttner e Quidde, a quella socialdemocratica e conservatrice, a quella con connotazioni religiose rappresentata dal pastore protestante Martin Niemöller e dal teologo Dietrich Bonhoeffer, a quella più controversa di parte dell’establishment militare con il suo apice nell’ultima estate di guerra, fino a percorsi di militanza radicale con le salde radici fin nel 1933, quando il nascente regime aveva cominciato immediatamente a internare, a decine di migliaia, i suoi oppositori (soprattutto comunisti, socialisti e sindacalisti), mentre altre decine di migliaia di antinazisti trovavano riparo in esilio. È stato stimato che furono quasi un milione i tedeschi internati nei campi di concentramento del regime, a diverso titolo componenti della “complessa galassia delle resistenze tedesche”. Quanto di questo è trapelato, all’epoca dei fatti e poi nella loro memoria, in Italia?
Fin dall’immediato dopoguerra sulla penisola avevano iniziato a circolare racconti puntuali e locali relativi a tedeschi – non di rado relativamente anziani – che si erano comportati umanamente, senza per questo scalfire oltre la superficie una raffigurazione fondamentalmente “permeata dall’astio antigermanico”. Focardi ha messo in rilievo come, nonostante il tentativo di contrastarlo recuperando, tra le altre cose, il meglio della “cultura di Weimar” e più in generale frammenti dell’“altra Germania”, questo archetipo del tedesco guidato dall’obbedienza acritica e incondizionata fosse un convincimento ben presente dall’Ottocento risorgimentale e con radici addirittura nella contrapposizione fra latinità e germanesimo in epoca romana. Cresciuto esponenzialmente con la propaganda del primo conflitto mondiale, era poi esploso con il nazismo e con una diffusa sensazione di “asservimento” all’alleato – con cui l’esercito fascista gareggiava in ferocia su diversi fronti – nella prima fase del conflitto mondiale. Questo stereotipo del “barbaro” aveva così inquinato anche nel corso della guerra di liberazione il vissuto di tutti i tedeschi, nessuno escluso, “distorcendo anche la percezione di quanti di loro avevano compiuto concretamente un atto di rottura o quantomeno di distacco nei confronti del Terzo Reich, ovvero i disertori e gli oppositori politici”. Al punto che persino nelle Lettere della Resistenza europea (1969) che ne includono dieci di antinazisti tedeschi e austriaci, si ragiona intorno all’odio maturato nei confronti di un “popolo di assassini”. A questo si erano affiancati, in parziale controtendenza, sporadici riferimenti a tedeschi che avevano abbandonato la lotta, mossi più che altro da nichilismo e disperazione, senza coscienza politica, e più in generale a coloro che nel corso della guerra venivano definiti Wehrkraftzersetzer – “disfattisti”, in sostanza.
Considerando la decisa impennata dettata dal panico delle ultime settimane di guerra che rese anche difficile contarli, tuttavia, i disertori delle forze armate tedesche possono essere stimati nell’ordine delle centinaia di migliaia sui circa venti milioni di combattenti (anche di origine ebraica) impegnati sui vari fronti. Furono oltre 22.000 le sentenze di morte per diserzione emanate, e almeno 15.000 vennero in effetti applicate come auspicava Hitler già nel Mein Kampf: se un uomo in guerra può morire, scriveva il futuro dittatore austriaco, il disertore deve. E infatti molti altri – chissà quanti – vennero giustiziati su due piedi: fucilati o impiccati all’albero più vicino dai loro ex commilitoni.
Ma limitiamoci a osservare i dati certi, per ora: 15.000 esecuzioni. È una cifra impressionante, se comparata con i 48 giustiziati nella guerra precedente dal Reich tedesco e con i 40 messi a morte dalla Gran Bretagna e i 146 dagli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, e considerando le centinaia di migliaia di disertori che, scampata la pena capitale, vennero imprigionati o spediti in “battaglioni punitivi”. Se da un lato non bisogna dimenticare, come ha rivelato negli anni Novanta – innanzitutto in Germania e in Austria – la Wehrmachtsausstellung, la mostra itinerante sulla guerra di sterminio e sui crimini della Wehrmacht, che la guerra ai civili non era stata fatta solamente dalle unità più spietate e più ideologicamente vicine al nazismo (SS e Gestapo), ma anche da molti soldati e ufficiali, né che molti “uomini comuni” parteciparono senza farsi troppi scrupoli al massacro spesso prendendoci anche gusto, dall’altro la vicenda dei disertori è un elefante che si aggira in un silenzio spettrale tra le rovine della guerra europea dei Trent’anni. E va raccontata, anche se questo dovesse significare dibattersi fra tracce rarefatte, sbiadite.
Se raramente questi disertori si unirono alle fila nemiche e lo fecero per ragioni ideali, non si può sottovalutare che – come ha mostrato una ricognizione di 16.000 lettere di soldati, sui tre miliardi di missive e pacchi fatti transitare dalla Feldpost tedesca tra il 1939 e il 1945 – i ragazzi e gli uomini tedeschi che combattevano sui vari fronti vedevano la loro guerra “attraverso il prisma non solo dell’ideologia ma anche della tradizione familiare di ciascuno, delle sue letture, della sua esperienza, del suo rapporto con la storia e del modo in cui collocava se stesso nella storia”. Non era facile scostarsi da quella narrazione nella quale rimbombavano i discorsi ottocenteschi sull’Herrenvolk, e che attingeva a piene mani dalla guerra miseramente persa, quella prima: i principali teatri delle operazioni della seconda guerra mondiale, infatti, avevano visto la generazione dei padri battersi nel conflitto precedente, e questi giovani di nuovo in armi avevano spesso “bisogno di sentirsi parte di una lunga genealogia di combattenti”. Per questa ragione le storie di chi remò controcorrente, di chi si mise di traverso cercando di arginare la tracimante marea nazionalista che aveva travolto (quasi) ogni cosa, in patria e oltre, hanno qualcosa di stupefacente.
Nell’estate del 1944, ad esempio, dopo lo sbarco in Normandia la Wehrmacht si trovò vicina al punto di rottura, e le sistematiche diserzioni riguardavano soldati inquadrati precedentemente a est, alsaziani e Volksdeutsche, ma anche tedeschi nati nel Reich (Reichsdeutsche) e austriaci, come ha notato lo storico militare Antony Beevor: “Alcuni erano soldati che non credevano nel regime nazista o che, più semplicemente, odiavano la guerra […] Il generale Lüttwitz, comandante della 2ª Divisione panzer, rimase sconvolto quando tre dei suoi austriaci disertarono passando al nemico e avvertì che i nomi di tutti i disertori sarebbero stati resi pubblici nelle loro rispettive città, così da poter prendere misure contro i loro parenti. ‘Se qualcuno tradisce il suo stesso popolo’ annunciò ‘la sua famiglia non appartiene più alla comunità nazionale tedesca’”. Un alsaziano che cercò di unirsi a una colonna di profughi francesi, racconta ancora Beevor, venne picchiato a morte dai soldati della sua compagnia, e il suo cadavere con le ossa fratturate venne gettato nel cratere di una bomba – “il capitano proclamò che questo era un esempio di ‘Kameradenerziehung’, un’‘educazione al cameratismo’”. Non stupisce che chi aveva ancora energia e coraggio valutasse di passare tra i ranghi del nemico: non è certo un caso che, sul fronte orientale, Himmler decise di proibire la parola “partigiano”, per riferirsi ai gruppi di civili che affiancavano le forze regolari sovietiche, ordinando di utilizzare il termine “banditi” (Banditen), largamente in uso in tutta Europa, o in alternativa il termine franc-tireurs, espressione che i tedeschi conoscevano bene per via della guerra del 1870-71. Il lemma “partigiano” poteva fare presa sui soldati tedeschi, persino nella “guerra assoluta” contro l’URSS, dove fin dalle ore precedenti l’attacco un militare tedesco passò le linee per avvisare i nemici. Dovrebbe trattarsi dell’operaio comunista berlinese Wilhelm Korpik o del caporale Alfred Liskow, falegname comunista bavarese, che è l’unico disertore (e) del quale è citata l’identità nella raccolta di documenti dell’URSS sulla “grande guerra patriottica” e che venne probabilmente non creduto e fucilato dai sovietici. In realtà sappiamo che di militari passati a dar manforte ai “rossi” ce ne furono diversi altri (persino dei generali come Rudolf Bamler), e furono numerosissimi nel celebre e leggendario “Battaglione punitivo 999” – che poi in Grecia vedrà un altissimo tasso di diserzione –, dove erano assegnati i comunisti tedeschi, e in genere gli antinazisti; i passaggi di campo, considerando anche quelli dei combattenti locali, possono essere stimati in decine di migliaia. Le loro storie, e innanzitutto la lungimirante diserzione di Liskow, a guerra in corso vennero talvolta utilizzate per la propaganda antinazista: tra le più emozionanti rimane la vicenda del muratore comunista Fritz Schmenkel, di Stettino, catturato in Bielorussia dai suoi ex camerati dopo oltre due anni di lotta con i partigiani sovietici e fucilato nel febbraio del 1944.
Anche durante la lotta contro i nazifascisti, le Resistenze europee avevano ben chiaro, con gradazioni e convinzioni diverse a seconda della regione geografica e del posizionamento politico, che il nemico non doveva essere demonizzato in toto, e si moltiplicavano gli appelli che lo invitavano a disertare, e a unirsi ai combattenti per la libertà. Sebbene pochi, i “giusti” c’erano, nelle città e sui fronti più disparati. Uno era Joe J. Heydecker, un fotografo della Compagnia Propaganda 689 della Wehrmacht che partecipò come Revelli all’invasione dell’Unione Sovietica e che nel corso dell’occupazione della Polonia fotografò, a rischio della vita, le condizioni degli ebrei del ghetto, consegnando ai posteri una delle più vigili e strazianti testimonianze dello sterminio nazista. Anche tra le vittime in molti cercarono fin da subito di vedere questi “giusti”, per poter credere in un mondo diverso.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, è tra i pionieri di questa ricerca dei tedeschi che non fossero complici, alla quale dedica tutta la sua vita di superstite, non senza ricorrenti ritrosie, in maniera ondivaga, “a tratti entusiasta, a tratti frustrante”. Già nel suo ritorno a casa si sorprende a cercare per le vie di Monaco, “fra quella folla anonima di visi sigillati, altri visi, ben definiti, molti corredati da un nome: di chi non poteva non sapere, non ricordare, non rispondere; di chi aveva comandato e obbedito, ucciso, umiliato, corrotto. Tentativo vano e stolto: ché non loro, ma altri, i pochi giusti, avrebbero risposto in loro vece”.
Sotto il “cumulo di rovine e di fallimenti”, a ben cercare, ha sempre covato un’altra narrazione – un contromovimento presente sottotraccia anche in tutta la letteratura resistenziale del continente, e non solo nei percorsi di ricerca e nelle testimonianze dei combattenti e dei sopravvissuti. Sono squarci della narrativa, come “l’ufficialetto” austriaco unitosi alla Resistenza ne Il partigiano Johnny di Fenoglio, “appena un ragazzo, ma pallido e già stempiato […] straordinariamente smilzo, e la divisa naturalmente gli andava larga, ma senza effetto buffo, anzi con un incredibile incremento di romanticità”; accompagnato da una “totale, immascherabile, propagantesi tristezza”. Ricorda, per contrasto, il tedesco catturato – e soprannominato “Fritz” – che nel racconto fenogliano Golia non osa neanche colpire i partigiani con le palle di neve. È “una pasta frolla, non sembra nemmeno un soldato tedesco”, nella descrizione del comandante Sandor; è un soldato tedesco che aveva combattuto anche “l’altra” guerra e che, dopo una lunga convivenza in banda, finisce “giù piatto come una rana”, la faccia nella neve, in una sorta di beffardo e tragico regolamento di conti che ha più a che vedere con la brama di autostima di un minuto partigiano giovanissimo – “Carnera” – che con il comportamento di Fritz, alias “Golia”.
Uno dei picchi più alti di questa ricerca in apparenza destinata al fallimento lo incrociamo nello straordinario Educazione europea di Romain Gary, un romanzo scritto a guerra in corso e ambientato nella Polonia occupata dai nazisti, nel quale troviamo un dialogo tra il protagonista – un ragazzino, Janek – e il suo mentore, Dobranski, che gli vuole dimostrare “fino a che punto ci assomigliamo, noi e loro”. E gli racconta la storia di quando “il terrore tedesco era al colmo”:
“Allora mi domandavo: come può il popolo tedesco accettare tutto ciò? Perché non si ribella? Perché si sottomette e accetta questo ruolo di boia? Certo, coscienze tedesche ferite, oltraggiate in ciò che hanno di più semplicemente umano, si ribellano e si rifiutano di obbedire. Quando, però, vedremo i segni della loro ribellione? Ebbene, a quel tempo un giovane soldato tedesco venne qui, in questa foresta. Aveva disertato. Veniva a unirsi a noi, a mettersi al nostro fianco, sinceramente, coraggiosamente. Non vi erano dubbi: era un puro. Non si trattava d’un membro del Herrenvolk, si trattava di un uomo. Aveva sentito il richiamo di ciò che in lui vi era di più semplicemente umano, e aveva voluto togliersi di dosso l’etichetta di soldato tedesco. Ma noi avevamo occhi soltanto per questo, per l’etichetta. Tutti sapevamo che era un puro. La purezza la senti, quando ti capita di trovarla. Ti acceca, in mezzo a questo buio. Quel ragazzo era uno dei nostri. Ma aveva l’etichetta”.
“E allora?”
“E allora noi lo abbiamo fucilato. Perché aveva addosso l’etichetta: tedesco. Perché noi ne avevamo un’altra: polacchi. E perché l’odio era nei nostri cuori… Qualcuno, a mo’ di spiegazione, o di scusa, non so, gli aveva detto: ‘È troppo tardi’. Ma sbagliava. Non era affatto troppo tardi. Era troppo presto…”.
Dobranski aggiunse:
“Ora ti lascio. Arrivederci”.
E si allontanò nella notte.
3.
Quando le preoccupazioni ti assediano, non è inconsueto che tu ti svegli all’alba. Forse ti sei già costruito un giudizio inappellabile sul baratro in cui è precipitata la Germania, ma hai due figli, uno di pochi mesi e l’altro di due anni, e devi prendere tempo. Vuoi prendere tempo, dannazione – ci va un coraggio immenso, per osare. Per essere “un puro”.
Rudolf non può aver letto Educazione europea, questo è certo, perché uscirà di scena prima che il romanzo di Gary veda la luce. Conosce invece, con ogni probabilità, alcune delle storie della Resistenza tedesca, che non saprà mai farsi un movimento tendenzialmente strutturato e diffuso come invece accadrà in tutta Europa, è vero, ma che ha sempre innervato la Germania nazista, anche negli anni più bui. Avrà sentito parlare, ad esempio, di Georg Elser, carpentiere e falegname, che a due mesi dallo scoppio della guerra ha mancato il Führer di 13 minuti in un attentato dinamitardo, uno tra le decine di mancati tirannicidi che si sono avvicendati in dodici anni di nazionalsocialismo. Nel frattempo Rudolf si è da poco sposato con Herta Jacke, e ha avuto due figli, Rudolf (nato già nel 1937, prima del matrimonio) e Wilhelm, venuto al mondo il 14 febbraio del 1939 a Brema, pochi mesi prima che calasse l’oscurità sul continente, con l’invasione nazista della Polonia.
Papà Rudolf ha fatto di tutto per non essere arruolato nelle forze armate tedesche, trovando una legittima motivazione nella sua condizione familiare e nel fatto che è ancora impegnato con gli studi. D’altra parte ha già prestato servizio militare a partire dall’ottobre del 1935: negli anni Trenta compie un percorso di formazione da marinaio in patria e all’estero, probabilmente in India, allargando così il suo orizzonte. Tornando sul suolo tedesco ha però disobbedito al padre, che aveva ampiamente previsto la tormenta che si stava abbattendo sulla Germania e sull’Europa intera, e l’aveva supplicato – lo abbiamo visto – di stare lontano dal centro degli eventi. Ora, quando gli anni Trenta sfumano nei Quaranta, vive con la famiglia nel sobborgo Francop di Amburgo. La città diventerà celebre per via di un’istantanea e di una storia. L’istantanea: quella foto che immortala un uomo a braccia conserte, in una posa quasi di sdegnosa disubbidienza, immerso in una folla oceanica tesa nel saluto romano a Hitler, nel 1936, in occasione del varo di una nave.
La storia è invece la vicenda della St. Louis, la nave capitanata da un connazionale di Rudolf, il capitano Gustav Schröder, che ha tentato in ogni modo, nell’estate del 1939, di portare in salvo quasi mille ebrei oltre Atlantico, salvo essere poi costretta a fare marcia indietro, perché nessuno, nelle Americhe, li voleva. La vicenda ha avuto un’immensa eco in tutto il mondo, e quasi certamente Rudolf ha osservato la tenacia di Schröder chiedendosi se lui sarebbe stato capace di fare altrettanto – per non parlare delle migliaia di volontari tedeschi e austriaci che in questi medesimi anni si sono battuti per la Repubblica contro i fascismi, nella guerra civile spagnola.
È un giovane uomo nel pieno delle proprie forze, Rudolf, e suppongo cerchi spiragli di coerenza in quella prigione a cielo aperto che è diventata la Germania. Secondo la sorella, ma non a parere del resto della famiglia, è – o almeno era stato – un Weiberheld, un donnaiolo: una foto di quegli anni in divisa da marinaio cattura il suo sguardo vivace, i capelli tirati all’indietro, leggermente rasati sulla tempia, un’occhiata in camera che sembra chiedere “sto bene, così?”. Ha la vita davanti, Rudolf, e pare esserne del tutto consapevole: se in un ritratto di coppia scattato in occasione del suo matrimonio mantiene uno sguardo austero, con il papillon bianco quasi a scomparire sulla camicia altrettanto candida nell’uniformità cromatica, in un quadretto familiare con il figlio Rudolf jr. cogliamo lateralmente il sorriso sincero di un uomo raggiante. La fossetta sulla guancia destra, la mano del figlio appoggiata con delicatezza sulla sua spalla – si intravede una felicità che chi non ha vissuto non sa di poter provare. Quanto inciderà sulle sue future scelte?, mi chiedo.
Perché la Germania – la Germania nazionalsocialista, ora – pronuncia a più riprese il suo nome. Avere 25 anni allo scoppio della guerra, per Rudolf, è una dannazione e un’opportunità: deve lasciare la sua famiglia, come milioni di altri suoi coetanei, e rispondere alla chiamata alle armi, e questa è la maledizione. Ma può fare carriera, con alle spalle la sua formazione da marinaio alla Seemannschule e i suoi studi da ingegnere, seppur interrotti a più riprese: nonostante riesca per diverso tempo a scampare l’arruolamento, gli viene infine intimato di partecipare alla realizzazione del “Vallo Atlantico”, un progetto mastodontico con l’obiettivo di rendere la “fortezza Europa” nazista inespugnabile, ad Amburgo-Altona e a Saarburg. Presta giuramento alla Marina di guerra – la Kriegsmarine – l’8 maggio del 1941 e a fine agosto del 1942, quando il mondo sta entrando nel quarto anno di guerra, si trova a nord di Brema, nella Bassa Sassonia (a Wilhelmshaven). Un tedesco di 28 anni, in pieno conflitto mondiale, difficilmente può evitare di prenderne parte.
Ed è così che Rudolf, nato sotto una stella armata a Brema e diventato adulto per le vie del mondo e nella turbolenta Amburgo, richiamato dalla Marina il 25 settembre del 1943, dopo qualche mese con la Maas-Flottille nell’Europa settentrionale arriva infine in Italia – un fronte che diventerà presto secondario, ma sul quale i vertici delle forze armate tedesche ripongono ancora fiducia. Sul suo ruolino militare non risultano sanzioni disciplinari. Servono gli uomini migliori per arrestare la risalita della penisola degli Alleati, e per annichilire quei piantagrane dei “banditi” italiani, che imperversano intorno alle Alpi Apuane.
4.
Secondo alcuni dei partigiani protagonisti di questa stagione, la banda del marinaio sarzanese Flavio Bertone, nome di battaglia “Walter”, proprio nell’estate del 1944 prende il nome “Ugo Muccini”, in ricordo di un militante comunista che si era arruolato nelle Brigate Internazionali nella guerra civile spagnola ed era morto eroicamente a Sierra Cabals, nel corso della leggendaria battaglia dell’Ebro, non ancora trentenne. Secondo altri, il nome della banda i cui primi nuclei nascono nella valle del fiume Magra sarebbe stato acquisito ben prima, mentre è certo che dall’autunno la denominazione sarebbe stata questa, fino al termine della guerra, una volta costituitasi come Brigata garibaldina d’assalto. La banda guidata da “Walter”, il cui commissario politico è Paolino Ranieri (“Andrea”), in ogni caso, dopo essersi spostata nell’entroterra, a giugno partecipa alla liberazione del paese di Bardi, non lontano da Parma, e da questo colpo di mano nasce l’esperienza della repubblica partigiana del Ceno – un’esperienza pionieristica nell’Italia occupata –, alla quale fa seguito l’istituzione del vicino Territorio libero della Val Taro, con una popolazione di oltre 40.000 abitanti. Le fotografie scattate agli uomini di “Walter” e “Andrea” a Bardi ci mostrano un gruppo compatto di giovani determinati, che vogliono fare la differenza non solo nei luoghi dei quali la maggior parte di loro è originaria. La porzione di territorio dalla Spezia a Parma in cui si stanno muovendo è cruciale per gli Alleati: la presenza delle Alpi Apuane e dell’area appenninica che porta da Genova a Modena rende infatti alquanto impervia la zona nella quale non è in sostanza possibile ingaggiare scontri in campo aperto. Né, per i partigiani, sarebbe sensato.
Quella della banda di “Walter”, e vale in generale per la Resistenza italiana, è guerra di guerriglia: un conflitto asimmetrico, contro un nemico che ha risorse spropositate e armamenti con un raro potenziale distruttivo. L’occupazione nazista è iniziata a settembre del 1943, e nelle settimane successive in un’ampia area dell’Italia centrosettentrionale è sorto il governo vassallo fascista della Repubblica sociale italiana, per proseguire la guerra al fianco dello storico alleato. I diversi sbarchi angloamericani hanno rapidamente liberato l’Italia del sud, e il fronte si è incancrenito per circa otto mesi sulla Linea Gustav, dove combattono truppe arruolate in ogni dove, in uno schieramento e nell’altro – anche qui è davvero una guerra “mondiale” che coinvolge decine di stati e di nazionalità. Dopo lo sfondamento della Gustav a maggio, grazie al contributo determinante delle truppe coloniali francesi e del corpo di spedizione polacco, i tedeschi sono definitivamente in ritirata dal Mezzogiorno, incalzati anche dai combattenti provenienti dal Corno d’Africa come quelli della “Banda Mario”, che avrà tra i suoi ranghi un melting pot di combattenti di almeno otto nazionalità tra cui un viennese, Emerich Schafranek. La pressione alleata sta spingendo gli avamposti tedeschi più meridionali verso il sud della Toscana: in quell’area i disertori sono numerosi, rileva Carlo Gentile – lo storico che aiutò Revelli nella sua ricerca –, e la disciplina risulta “fortemente compromessa”. Il Comando supremo della Wehrmacht tenta di “reagire a quelle tendenze disgregative mandando in Italia un reggimento di Feldjäger, un corpo speciale di polizia militare dotato di pieni poteri e incaricato di intercettare fuggiaschi e disertori alle spalle della linea di combattimento per rispedirli al fronte”.
“Te la fanno vedere loro, la diserzione”, commenta portandosi un dito teso alla tempia Walter, il protagonista diciassettenne del romanzo Morire in primavera di Ralf Rothmann, ambientato in un altro teatro di guerra (quello ungherese, dove Walter è trascinato suo malgrado) ma che delinea perfettamente i rischi che la diserzione comporta: “La polizia militare vede chiunque a mille metri di distanza e ti impicca su due piedi, senza processo. Sono dei veri bastardi. Probabilmente rischi di meno se riesci a tenerti fuori fino alla fine”.
Nella regione lo sa bene il diciannovenne tedesco Günter Frielingsdorff, pittore e studente d’architettura, “un bel ragazzo, un bel moro, alto” secondo una testimone, che già a ottobre del 1943 ha disertato insieme a un compagno, aggregandosi alla Resistenza nel Grossetano: dopo varie peripezie, si è unito a una banda di dieci giovani italiani – con loro “lo spezzino” trentottenne Mario Becucci – nella macchia di Monte Bottigli, una trentina di chilometri a sud di Grosseto. Durante un rastrellamento in seguito a delazione, iniziato la notte tra il 21 e il 22 marzo 1944, Frielingsdorff riesce a salvarsi sfondando audacemente la parete della capanna in cui si trova per fuggire nella boscaglia, dove i fascisti lo inseguono sparando all’impazzata – gli abitanti del luogo ricorderanno che “gli passavano sopra le pallottole”, come in un film. Ma è la bruta realtà: “il fatto che soltanto uno della banda è riuscito a fuggire all’annientamento, dimostra che la sorpresa è riuscita in pieno”, commenta poi il capo fascista della provincia ai suoi “gregari”, rivolgendo il suo “vivo plauso” agli autori materiali di quella che passerà alla storia come la strage di Istia d’Ombrone. Gli undici compagni di Frielingsdorff – tutti tranne Becucci fra i 19 e i 24 anni – vengono fucilati la mattina stessa, e gli esecutori si allontanano dal luogo dell’eccidio cantando. La sera del giorno seguente il disertore tedesco si presenta a un podere “tutto strappato” (ricorda un’altra testimone) con i piedi sanguinanti e, rimasto nella zona, partecipa alla guerra di liberazione nella banda di Monte Bottigli “Sempre Presente”, mantenendo il nome di battaglia “Gino” e ottenendo il riconoscimento di partigiano combattente – con lui combatterà anche un coetaneo austriaco, Frurin Chlofch. Nelle vite di molti dei ragazzi come Frielingsdorff e Chlofch – che alla fine della guerra avranno vent’anni – e come gli undici ragazzi della strage di Istia d’Ombrone che Frielingsdorff scampa a testa bassa nella boscaglia, in fondo, “a parte la guerra non era successo ancora molto”. Leggo questa osservazione folgorante nel “romanzo di fatti” di Christiane Kohl intitolato Villa Paradiso, ambientato proprio in Toscana e che illumina la complessità tra i ranghi delle forze armate tedesche, mostrando parecchie e diverse possibilità dell’agire umano anche nella schiera dei carnefici, sebbene non appaiano disertori in senso stretto fino ai “titoli di coda” del libro, dove l’autrice racconta di un renano senza nome che, fuggito dal fronte orientale, raggiunge rocambolescamente i partigiani italiani per unirsi a loro. Le descrizioni di Kohl ci aiutano anche a restituire la giusta tinta – fosca – a quanto sta accadendo sulle colline toscane: “La regione si stava progressivamente trasformando in uno scacchiere su cui si svolgeva una guerriglia confusa e disordinata. I tedeschi, che vedevano avvicinarsi lo scacco matto, rappresentato dalle truppe inglesi sempre più vicine, si vendicavano con maggior accanimento sulle pedine più piccole, ovvero sulla popolazione civile italiana. Intanto gli abitanti si aspettavano che la guerra sarebbe terminata nel giro di pochi giorni, con l’arrivo degli alleati: la vita era come una violenta raffica di vento, capace di far precipitare la gente dalla speranza alla paura e viceversa, in una continua altalena”.
L’Autore
Carlo Greppi-
Carlo Greppi,storico, ha pubblicato numerosi saggi sulla storia del Novecento.Per Laterza cura la serie “Fact Checking”, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020), ed è autore anche di 25 aprile 1945 (2018) e Il buon tedesco (2021, Premio FiuggiStoria 2021 e Premio Giacomo Matteotti 2022).
RASSEGNA STAMPA
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