Piero Rattalino-LA TESTA DEL SERPENTE-Manualetto del pianista per passione
Prefazione di Luca Chiantore-Zecchini Editore
La musica dal vivo – quella che chiamiamo classica usando un po’ a sproposito un termine che è diventato fin troppo polivalente – si trova oggi nella condizione di un piccolo esercito che, rifugiatosi in una città-fortezza, resiste all’assedio di due potenti nemici, l’Esercito della Rete e l’Esercito dell’Intelligenza Artificiale. La città resiste eroicamente, ma sa che nessuno arriverà a soccorrerla e constata invece che i viveri cominciano a scarseggiare, che l’acqua è stata razionata, che le munizioni si vanno esaurendo. Gli assediati capiscono allora di dover preparare il piano di una sortita da “o la va o la spacca”, una sortita che miri a rompere l’assedio, a riprendere l’iniziativa e a concludere la guerra con un compromesso soddisfacente e onorevole per tutti. Usciranno perciò dalla città non come combattenti ma come messaggeri di pace, armati di rose e garofani, non di spade e lance.
Usciamo di metafora. Questo libro parte dalla premessa che la musica dal vivo non è stata in grado di contrastare la concorrenza della rete e che oggi è insidiata da tre gravi problemi, interdipendenti: il reperimento di fondi, l’assottigliarsi delle presenze del pubblico, la limitata creatività della interpretazione, e quindi il limitato appeal del prodotto che viene messo sul mercato. L’interpretazione ha percorso durante il Novecento il cammino di una grandiosa utopia: applicarsi a scoprire e trasmettere al pubblico il pensiero del compositore, e quindi l’autenticità dell’opera. E ha conseguito risultati di assoluto valore. Ma quei risultati sono stati conservati nelle registrazioni e sono oggi disponibili in rete, e una parte del pubblico esistente si sta orientando in tal senso e, soprattutto, il numerosissimo pubblico potenziale che alla rete si è già rivolto non passa alla musica dal vivo.
Il piano di pace consiste nello spostamento dalla realizzazione del pensiero alla realizzazione dell’emozione che squassò il compositore mentre creava la musica, mentre cioè cascava in quello stato di divina follia che, come ci insegnò Platone, è l’arte. La sortita viene proposta ai pianisti per passione, professionisti e dilettanti, che si sentono impegnati a operare non in una terra di fede condivisa ma in una terra di missione.
Piero Rattalino ci ha lasciati pochi giorni fa, appena dopo aver posto la parola “fine” a questa sua ultima fatica letteraria, che è insieme un testamento spirituale e un coraggioso atto di proposta verso il futuro. Partendo dalla figura del “musicista per passione”, del dilettante di talento, Rattalino propone una nuova didattica pianistica che è insieme estetica e sociologica, che vada di pari passo a una nuova forma di concerto (il RecitarSuonando) e a una vera rivoluzione del rapporto tra pubblico e artisti. Un testo su cui meditare, l’estremo regalo del più grande esperto e divulgatore pianistico degli ultimi 50 anni.
Il fascismo dalle mani sporche- Dittatura, corruzione, affarismo
a cura di Paolo Giovannini – Marco Palla
Editori Laterza- Bari
DESCRIZIONE
Truffe, tangenti, arricchimenti inspiegabili, legami con la mafia: il fascismo tutto fu tranne che una ‘dittatura degli onesti’. Un regime, che pretendeva di forgiare un ‘uomo nuovo’ e di correggere i mali dello Stato liberale, vedeva in realtà estendersi il malaffare fino ai gangli centrali dello Stato. Un vero e proprio salto di qualità nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo che spiega il successo e le rapide fortune personali di alcuni protagonisti di questi anni: dal caso del magnate dell’industria elettrica privata, Giuseppe Volpi, a quello del capo di Stato maggiore Ugo Cavallero. Ma ‘mani sporche’ sono anche quelle di alcuni degli esponenti più importanti del regime come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza o il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi. Pratiche tanto comuni da diventare tragicomiche se guardiamo alle vicende dei ‘pesci piccoli’ a caccia di buone occasioni nelle colonie dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia. Un iceberg,quello della corruzione, di cuiMussolini era pienamente consapevole tanto da dedicare costanti attenzioni al suo occultamento attraverso censura e propaganda.
Introduzione di Marco Palla e Paolo Giovannini
La parabola storica del fascismo dalle origini alla seconda guerra mondiale, dal movimento al partito e al regime, mostrò svariati segnali coevi dell’emergere, discontinuo e dissimile nei tempi e nella morfologia, e quasi sempre occultato dalla propaganda, di una sorta di ‘questione morale’ relativa ai molteplici episodi e casi di corruzione e di affarismo, di interessi privati in atti d’ufficio, o – come diremmo oggi – di conflitto di interessi: in una parola, di un peculiare rapporto tra fascismo/fascisti in quanto istituzione al potere e uso privato (talora manomissione e appropriazione indebita) della cosa pubblica.
Le lotte intestine fra ras locali e nascenti gerarchi ‘in doppiopetto’ nella fase di iniziale stabilizzazione al potere, dopo la marcia su Roma fino al 1925-26, videro l’avvicendamento al comando dei potentati in periferia o anche in grandi città segnato non di rado da denunce del malaffare e dei pragmatici risvolti per così dire pecuniari e privatistici di defenestrazioni e cadute in disgrazia. La liquidazione del ‘populista’ Padovani a Napoli, lo scandalo soffocato sul nascere sulle trame affaristiche di Giampaoli a Milano, le oscure vicende legate agli intrighi attorno al primo podestà di Milano, Belloni, in cui rischiò di essere invischiato il fratello di Mussolini, Arnaldo, la rivincita degli ex liberali che a Firenze ripresero le redini del potere sul parvenu Tamburini, che aveva lucrato sul gioco d’azzardo e tenuto sotto controllo buona parte del racket della prostituzione e delle case di tolleranza, potrebbero essere menzionati come le punte di un ben più consistente iceberg.
All’intensa e maniacale sommersione di quell’iceberg il capo del governo, che stava nel frattempo edificando una dittatura con manifeste tendenze verso uno Stato totalitario, dedicò un’attenzione costante, introducendo la censura sulla stampa che veniva integralmente fascistizzata e irreggimentata dall’alto e dal centro, potenziando il cardine dell’incipiente apparato propagandistico dello Stato-partito con l’onnipresente e tentacolare Ufficio stampa alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri, costruendo insomma gradualmente un complesso e pervasivo ‘discorso pubblico’ in cui il fascismo era presentato come l’unico decisivo elemento propulsore della moralizzazione italiana. Nella politica di ‘andare al popolo’ sancita dalla nomina di Starace a segretario nazionale del Pnf alla fine del 1931, con la creazione nel 1934-35 prima di un sottosegretariato e poi di un ministero della Stampa e propaganda dotato di un ingente budget di spesa pubblica, Mussolini in prima persona e un po’ tutti gli organismi di massa del regime e non poche delle sue istituzioni piccole e grandi seguirono la disposizione superiore e inderogabile di descrivere l’Italia come un paese dove la cronaca nera, i crimini e i suicidi, per non parlare poi degli illeciti amministrativi, contabili, finanziari, erano del tutto scomparsi e la corruzione in generale, e quella legata alla politica in particolare, era stata sradicata. La macchina per la ricerca del consenso popolare funzionò a lungo, con notevole efficacia di risultati, negli anni Trenta, e, quando non riuscì a suscitare entusiasmo o adesioni fanatiche, per lo meno centrò il target di una specie di manzoniano e antichissimo ‘troncare e sopire’, diffondendo nuove versioni di arcaiche e meno arcaiche forme di conformismo.
I segnali di guerra, accolti dallo spirito pubblico con una certa apprensione, una volta tradottisi in guerra vera e propria, per quanto lungamente annunciata e proclamata, rappresentarono una svolta epocale, mettendo per primi i combattenti italiani alla prova dei fatti e di realtà belliche disastrose per le forze armate nazionali, con il manifestarsi tra soldati e ufficiali delle campagne balcaniche, africane, russe, di una distonia e poi un distacco dai falsi miti e dalle false illusioni di una guerra facile e vittoriosa: per primo fu Roberto Battaglia, nella sua pionieristica Storia della Resistenza italiana, a concettualizzare il fenomeno dell’‘antifascismo di guerra’, che tendeva in modo abbastanza naturale a trasmettersi dai soldati combattenti alle loro famiglie in Italia. Il fronte interno cominciò a sviluppare, come testimoniato da innumerevoli segnalazioni delle varie polizie fasciste, una specifica casistica di prese di distanza dal regime che a lungo risparmiarono Mussolini nel periodo 1940-43, investendo tuttavia tutto il resto della classe dirigente dello Stato-partito, in particolare sommergendo di odio e ripulsa la casta privilegiata dei gerarchi che conducevano una vita dispendiosa e lussuosa al di sopra e in aperto contrasto e quasi beffa e spregio dei sacrifici e delle ristrettezze della vita quotidiana della maggior parte della popolazione, alle prese con il tesseramento e il razionamento dei generi alimentari primari. Gli affari di una gerarchia corrotta, tuttavia, erano sulla bocca di tutti ma ancora non sfociavano in insofferenza manifesta o, sul piano politico, in una sorta di indignazione collettiva capace di insorgere contro il regime fascista e di ribellarsi apertamente al suo duce.
Negli anni della guerra combattuta sul territorio italiano, una svolta si verificò con la liberazione di Roma nel giugno 1944, con la fine del governo Badoglio e la formazione del primo governo a composizione ciellenistica e l’avvio del processo di epurazione. Emerse allora, all’interno del più ampio ambito delle sanzioni contro il fascismo, una vera e propria specifica definizione di ‘profittatori del regime’, che derivava dalla unanime convinzione politica delle varie forze antifasciste che cooperavano nel Comitato di liberazione nazionale – bipartito in quello romano/centro-meridionale e in quello del Nord o Comitato di liberazione nazionale Alta Italia – e che intendevano aprire una pagina nuova nell’ambito istituzionale, legislativo, amministrativo, iniziando rapidamente a defascistizzare lo Stato e a costruire su basi nuove un’autentica democrazia. Tuttavia, i profittatori fascisti potevano costituire un più o meno vasto insieme di persone, individui e gruppi che era molto più facile identificare tramite un solidale sforzo politico che non attraverso una codificazione del reato, di imputazione giuridica assai generica se non discrezionale.
La volontà di fare i conti con il fascismo e con i fascisti che dal regime avevano lucrato carriere e successi anche patrimoniali corrispondeva bene all’indignazione di buona parte dell’opinione pubblica, mentre secondo la celebre battuta di Nenni soffiava forte il «vento del nord» a cambiare l’aria stantia della vecchia Italia monarchica e fascista. Quel vento però non tardò ad affievolirsi e l’intero meccanismo istituzionale, politico e giuridico, dell’epurazione si avviò a una graduale ma sempre più veloce archiviazione. Le corti di assise straordinarie svolsero parimenti un intenso lavoro di istruzione e messa a processo degli autori dei vari reati di collaborazionismo, inclusi quelli sommariamente rubricabili come ‘economici’, ma cessarono il loro operato nell’inerzia della nuova fase 1946-47. I beni razziati agli ebrei italiani nel 1943-45 dalla Rsi, e anche quelli in vario modo ceduti da cittadini e famiglie ebraiche sotto la costrizione o il ricatto della congiuntura delle leggi antisemite del 1938, non furono restituiti che in minima parte.
Nella complessa transizione italiana del 1945-48, con la liberazione seguita però abbastanza presto dai riflessi nazionali della Guerra Fredda, iniziò in parte a disperdersi la memoria dell’indignazione e della ripulsa del fascismo, con la sua classe politica corrotta e il suo duce sempre disponibile a coprire scandali e ruberie. Si dimostrò sotterraneamente persistente uno dei miti e canoni propagandisti del regime totalitario, la presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e in parte della sua dittatura. Anzi, in seguito, con il trascorrere del tempo, a ogni emergere di scandali e denunce del malaffare nelle cosiddette Prima e Seconda Repubblica, il ‘discorso’ neofascista, tacitamente accolto dalla ‘maggioranza silenziosa’ dell’opinione media e ‘moderata’, finì per contrapporre una democrazia screditata a un regime immaginario ma, per così dire, intonso dalla corruttela affaristica. Da Tangentopoli nel 1992 a oggi, per quello che ormai è un lungo quarto di secolo, è parso più credibile, agli occhi di parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal ‘cono d’ombra’ delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi.
La storiografia sul fascismo, in linea generale, ha considerato affarismo e corruzione come elementi pressoché ‘fisiologici’, ma anche come aspetti tutto sommato marginali, comunque di non primaria importanza per la comprensione del fenomeno fascista, meritevoli al massimo di qualche rapido accenno. Il tema dell’affarismo e della corruzione, pur spesso presente o evocato, non è stato sottolineato con vigore e continuità. Uno dei primi libri, pamphlet e testimonianza più che ricerca o analisi sistematica, a sollevare apertamente la questione fu quello dell’antifascista fiorentino Ernesto Rossi, che prendeva di mira l’avidità della classe dirigente economica, connivente e complice del regime, ma tralasciava di approfondire il nesso sistematico dello ‘scambio’ reciproco di favori, convenienze e sostegni tra politici fascisti e ambienti finanziari, bancari e del grande capitalismo industriale, che del profitto si occupavano per così dire in modo professionale e strutturale. Le prime storie generali del periodo fascista, da Salvatorelli (1953, poi in edizione ampliata con la collaborazione di G. Mira, 1964) a Carocci (1959) non posero il problema. Gli storici professionali ‘pionieri’ (Aquarone, De Felice, Santarelli) e una prima serie di indagini archivistiche successive tra metà anni Sessanta e metà anni Settanta si concentrarono sulla ricostruzione pur necessaria dei lineamenti istituzionali della fisiologia, e a volte della patologia, del regime facendo emergere come momento centrale della discussione storiografica soprattutto la questione del consenso.
Restarono ancora a lungo sullo sfondo o ai margini i nessi tra regime e corruzione, con qualche meritoria eccezione. Per esempio lo storico inglese Adrian Lyttelton mise in luce, grazie al ricorso frequente alla prospettiva di indagine che partiva dalle periferie e non dal centro, un vasto retroterra di corruzione, carrierismo e affarismo già nel processo di conquista e stabilizzazione al potere del fascismo fino al 1929. In varie sintesi generali di storia del regime fascista il tema del carrierismo e del rampantismo degli uomini nuovi fascisti, della rapacità del nuovo establishment dei gerarchi, della corruzione e dell’affarismo endemici, stentava a figurare tra i principali e più rilevanti, sia in sede puramente informativa e descrittiva sia in ambito interpretativo. Seppure affarismo e corruzione avessero certamente avuto un peso e un costo notevoli nel funzionamento dello Stato fascista e continuino a suscitare l’interesse di studiosi dell’età liberale e della prima guerra mondiale, in anni abbastanza recenti neppure due ampi e assai articolati dizionari hanno ritenuto l’argomento meritevole di specifiche voci.
Significativamente diverso è il caso di quelle opere nelle quali la dimensione periferica e anche i sia pur sommari ritratti biografici di gerarchi maggiori e minori sono tenuti nel massimo conto, come nel libro di Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, e con particolare evidenza negli studi di Paul Corner, dove emerge la valenza euristica di un approccio attento a tali questioni. L’esame complessivo dei cosiddetti duri e puri dello squadrismo ha messo in luce numerosissimi risvolti prosaici e affaristici delle loro carriere. Mentre corruzione e malversazioni hanno trovato un’adeguata considerazione in biografie di importanti gerarchi, studi di alcuni anni addietro hanno dimostrato che affarismo e corruzione a livello centrale non rappresentavano una degenerazione del tardo fascismo, di un regime ormai ripiegato su sé stesso, ma costituivano già una realtà dei primi anni, come attestato dallo scandalo dei residuati bellici, che aveva contribuito non poco a intorbidare il clima politico nei primi tempi del governo Mussolini, e dall’affare Sinclair Oil, che era arrivato a toccare lo stesso presidente del Consiglio.
Interventi storiografici (soprattutto di storici stranieri) hanno poi messo in evidenza il forte contrasto che si venne a stabilire fra un regime che pretendeva di correggere i mali dello Stato liberale, di forgiare un «uomo nuovo», e il proliferare durante il Ventennio dell’affarismo, della corruzione, del clientelismo e del nepotismo, in una forma addirittura assai più estesa rispetto al passato.
Su tali questioni si sono soffermate anche opere recenti di taglio giornalistico, che non di rado sacrificano il rigore storiografico a favore di un sensazionalismo o di uno ‘scoopismo’ teso soprattutto ad accattivarsi l’attenzione di un vasto pubblico. Così il libro di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, dal titolo anacronistico ma di forte richiamo Tangentopoli nera, dedicato a «malaffare, corruzione e ricatti all’ombra del fascismo», promette di restituire «per la prima volta in modo organico» – come recita la quarta di copertina – «la verità sulla corruzione dei gerarchi, la faida interna al Partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell’Italia del Ventennio», attraverso l’uso delle «carte segrete di Mussolini». Si tratta di un libro piuttosto discontinuo, che, se non è del tutto inservibile, lascia comunque parecchio a desiderare dal punto di vista scientifico, mentre la documentazione utilizzata, proveniente dagli archivi nazionali britannici, risulta spesso essere nient’altro che la riproduzione di quella conservata a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato. Le sue acquisizioni, in definitiva, non aggiungono granché rispetto a quanto già noto, ma hanno almeno il merito di sollevare il problema sia pure con metodologia criticabile sul piano storiografico professionale.
Eppure le fonti per studiare seriamente questi argomenti non mancano di certo, come dimostrano anche i contributi qui proposti. Presso l’Archivio centrale dello Stato sono disponibili vari fondi che permettono approfondimenti in questo senso: dal Carteggio riservato della Segreteria particolare del duce, dove si trovano – pur con qualche significativa assenza rispetto all’inventario – vari fascicoli su gerarchi e altre personalità di spicco del regime o su spinose questioni, alle carte della Polizia politica (con i fascicoli per materia e personali), agli archivi fascisti, alle buste dell’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, ecc. Recente è l’acquisizione di un importante fondo sugli ‘arricchimenti illeciti’ (in corso di riordino e inventariazione) che risale alla seconda metà del 1943 ed è il risultato di una duplice committenza: dapprima esso fu commissionato dal governo Badoglio subito dopo il 25 luglio, con l’evidente intento di delegittimare il regime appena crollato, poi passò in gestione a Mussolini, tornato al suo posto con la Repubblica sociale italiana, secondo un orientamento che mirava a distruggere la reputazione dei gerarchi che si erano rapidamente messi a disposizione di Badoglio e del re, e soprattutto quella di coloro che gli avevano votato contro il 25 luglio.
A livello provinciale in particolare la documentazione prefettizia, come anche quella prodotta dalle questure e dagli enti locali, contribuisce a far luce su episodi e situazioni di corruzione e affarismo che in vari casi vanno al di là del cosiddetto ‘beghismo’, degli scontri fra fazioni contrapposte, dei contrasti fra una piccola e media borghesia emergente in camicia nera e il vecchio notabilato, permettendo di focalizzare da un interessante punto di vista specifiche dinamiche del potere locale, il costituirsi di rinnovate reti di interessi e di rappresentanza, il rapporto del centro con le molteplici e diverse periferie e viceversa. Dagli studi finora condotti emerge un’endemica conflittualità interna ai fascismi provinciali, conseguente alla perniciosa mescolanza fra le deteriori pressioni personalistiche dei capi e le istanze politico-affaristiche connesse con il controllo del territorio, tant’è che essi – nonostante i ripetuti tentativi in tal senso messi in atto dai vertici governativi e del partito – non appaiono praticamente mai pacificati.
Gli studi sul fascismo locale, facilitando lo scavo archivistico, possono contribuire efficacemente alla ricostruzione dei contorni del fenomeno. Ad esempio ci si chiede quale quadro generale emergerebbe dall’insieme dei diversi casi trattati da Leandro Arpinati nel periodo in cui, come sottosegretario del ministero dell’Interno, intraprende un’opera di moralizzazione dei fascismi provinciali e dispone accertamenti sulle fortune economiche di vari gerarchi. Certamente si trattò di casi non legati in un’unica trama, ma che comunque compongono i tasselli di una realtà che appare assai diffusa. O, negli anni 1930-31 della segreteria del Pnf retta da Giovanni Giuriati, quali possibili risultati potrebbero fornire le fonti archivistiche in merito alla verifica analitica delle espulsioni in massa di circa 200.000 iscritti al partito per indegnità o per veri e propri reati connessi al carrierismo e in generale alla manomissione della cosa pubblica.
Con i saggi presentati in questo libro i curatori vogliono ribadire, nello specifico di questi contributi storiografici professionali, l’acquisizione ormai consolidata di più stagioni di studi scientifici, che forse ha il limite di non essere riuscita a trovare gli opportuni canali di diffusione nella più generale cultura di massa e negli stessi vari livelli della divulgazione di memoria e dell’insegnamento scolastico di ogni ordine e grado. Non si affronta, con questi contributi, una più generale questione di come si siano svolti nel periodo fascista gli affari e le transazioni economiche, finanziarie, bancarie; di come si siano approcciati al regime fascista i potentati economici, gli imprenditori e i manager, insomma i professionisti degli investimenti, dell’allocazione di risorse e della gestione produttiva, privata e dei grandi apparati pubblici di interventismo economico. Restano deliberatamente al di fuori della nostra cernita gli imprenditori tout court come Agnelli, Benni, Donegani e tanti altri che Ernesto Rossi definì i ‘padroni del vapore’, coinvolti strutturalmente nel regime fascista.
Tuttavia abbiamo scelto di includere nel libro un ritratto che evidenzia la natura politica e la statura politica di un grosso calibro come il magnate dell’industria elettrica privata Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, il più eminente tra le figure di uomini d’affari designati a far parte degli esecutivi fascisti in tempi diversi, quali Guido Jung o Vittorio Cini: Volpi fu uno dei pochissimi, come anche Alberto Pirelli, a essere regolarmente ricevuto in udienze periodiche dal duce, mantenendo per tutto il Ventennio fino alla caduta del luglio 1943 una stretta prossimità anche personale con il dittatore. Abbiamo anche deciso di includere nella casistica qui presentata figure di collegamento e sutura tra industria privata e dicasteri militari come il capo di Stato maggiore che sostituì, nel 1940, il maresciallo Badoglio, cioè Ugo Cavallero, il quale aveva in precedenza affiancato alla carriera militare la presidenza del gruppo industriale Ansaldo.
In buona sostanza, con la scelta di gerarchi come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza, il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi, alcuni casi di gerarchie provinciali come quelle di Verona o Palermo, ovvero esaminando anche fortune e insuccessi dei ‘pesci piccoli’ alla caccia di buone occasioni d’affari in colonia soprattutto nel neonato impero italiano dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia, ci siamo concentrati sul più specifico nesso politica-affari e sulla facilitazione che la prima componente di questa endiadi ha dato al successo della seconda componente. Se accanto alla monarchia e all’élite militare il mondo dell’establishment economico e finanziario italiano accompagnò benevolmente e sorresse costantemente le origini del fascismo, legittimandone la presa del potere, fu poi la politica come professione a garantire una scorciatoia al successo in affari dell’ambiziosissimo, astuto e spregiudicato Farinacci, o a consentire a un modesto armatore livornese come Costanzo Ciano, e ai suoi famigliari, di diventare non solo tra i più ricchi, ma tra i pochissimi super-nababbi del regime, con il capolavoro del più importante legame matrimoniale della storia del regime: quello tra i rispettivi primogeniti – Edda e Galeazzo – di quella nuova famiglia ‘allargata’ che furono dall’inizio degli anni Trenta i Mussolini-Ciano.
Nelle ricerche dello storico e politologo francese Musiedlak è stata debitamente documentata con fonti archivistiche primarie la vera e propria bulimia patrimonialistica di vari gerarchi: Farinacci, che comprò immobili e proprietà al ritmo di circa uno all’anno tra il 1936 e il 1941; il delfino di Galeazzo Ciano, Alessandro Pavolini, acquirente di due fattorie in provincia di Firenze per 4 milioni di lire (e proprietario di un’abitazione romana talmente sontuosa da avere una sala cinematografica inclusa nell’immobile); il gerarca protettore dell’intellettualità, Giuseppe Bottai, che acquistò a Casal Palocco «un villino di 42 stanze» per un valore di 4 milioni. Gli studiosi non hanno tuttavia ripreso uno dei dati più clamorosi documentati da Musiedlak, e cioè le due occasioni in cui furono stanziate ingenti somme di denaro pubblico da parte di uno dei due rami del Parlamento in favore del duce, riscontrabili dall’archivio del Senato del Regno d’Italia e precisamente sui libri mastri contabili; si tratta di somme registrate come spese inserite a bilancio: una prima, del 31 agosto 1936, come «offerta per la celebrazione della fondazione dell’impero», su cui non ci sono dubbi essere costituita da denaro, ma di cui il documento non menziona l’ammontare né se sia stata effettivamente erogata e incassata dal beneficiario, cioè dal capo del governo; una seconda l’11 giugno 1938, per l’esercizio 1937-38, indirizzata al cav. Benito Mussolini, con mandato esecutivo per 1 milione di lire pur senza indicazione di causale – una somma ingente per l’epoca, che corrispondeva all’insieme annuo (932.000 lire) delle indennità versate a tutti i senatori –; fondi pubblici sottratti alle casse del Parlamento, ovvero allo Stato, erogati per la prima volta senza la benché minima giustificazione tanto più obbligatoria quanto più enorme e non certo simbolica era l’entità della elargizione. Non conosciamo altri particolari, ma gli episodi appena menzionati sono più che sufficienti a proiettare uno spesso ‘cono d’ombra’ sul duce in affari in prima persona.
Non è inutile rammentare che ben prima del successo fascista e dell’esercizio del suo potere di dittatore, Mussolini si era dimostrato un abile, spregiudicato e incredibilmente ‘veloce’ sollecitatore e collettore di finanziamenti: dagli esordi poche settimane dopo l’espulsione dal Psi nel 1914, quando mise in piedi ‘dal nulla’ il quotidiano milanese «Il Popolo d’Italia», con una redazione, tipografia, società editrice che avrebbero conosciuto grande espansione, per ovvie ragioni, durante il Ventennio; e proseguendo, sempre affiancato dal più fedele braccio destro nella persona del fratello Arnaldo, con la fondazione dei fasci di combattimento nel 1919, in particolare con la gestione personale anche finanziaria dei proventi in favore del fascio milanese, e con ulteriori incrementi nel periodo 1921-25 e un flusso regolare di enormi introiti del Pnf per tutto il corso successivo del regime.
Insomma, i fattori che consentono di qualificare sul piano storico di lungo periodo il regime fascista come un momento che fa compiere, per così dire, un salto di qualità e rilevanza al nesso politica-corruzione-affarismo sono molteplici, ed emergono a nostro parere con chiarezza da tutti i contributi qui raccolti, ed esemplarmente dal saggio di apertura di Paul Corner, che li inquadra in un contesto sia analitico sia interpretativo assai innovativo. La soggezione degli altri poteri all’esecutivo e in particolare la subalternità della magistratura al governo e la vera e propria obliterazione del potere di contrappeso e di controllo parlamentare degli eventuali o reali abusi del potere ministeriale procedettero di conserva e sempre in parallelo con la propaganda che occultava scandali o semplici infortuni di percorso, nella dilatazione di inediti livelli di centralizzazione politico-istituzionale e amministrativa che rispetto al fascismo facevano impallidire il trasformismo pur corrotto dell’Italietta liberale. Tra i tanti elementi, con la dittatura e l’onnipresenza del partito unico del regime si apriva la strada del successo, non incidentalmente ma strutturalmente, ai più audaci e spregiudicati gerarchi, che godevano quasi sempre di una sorta di impunità preventiva, e rappresentarono rispetto al personale politico prefascista, non raramente improvvisato e talora sprovveduto, una nuova inedita fase di professionalizzazione della politica, ma non certo nel pluralismo e nella democrazia dei valori e dei comportamenti: professionisti della politica, come segretari federali e gerarchi di ogni ordine e grado, che vivevano degli stipendi, prebende e gratifiche varie che solo la politica garantiva loro e che molto spesso, anzi nella maggior parte dei casi, riuscirono a conservare il maltolto dal punto di vista patrimoniale anche dopo la fine del regime e della dittatura.
Anche la letteratura coeva o immediatamente successiva alla fine dei regimi fascisti aveva registrato con sarcasmo l’ampiezza dei fenomeni di corruttela delle dittature totalitarie, tutte tese a celarli e a presentarsi come immacolate e incorruttibili. Così recita il magnifico ‘elogio’ della corruzione che l’esule tedesco Bertolt Brecht mise in bocca a due esuli incontratisi per caso nel ristorante della stazione di Helsinki durante il periodo dei grandi successi militari del Nuovo ordine europeo nazista (il testo, redatto nel 1940-41 e rimasto incompiuto e inedito, fu pubblicato postumo nel 1961):
lo spirito umanitario, di questi tempi, non si potrebbe mantenere senza la corruzione, che è pure una forma di disordine. Lei trova umanità se trova un impiegato che intasca qualcosa. Con un po’ di corruzione talvolta può persino ottenere giustizia. Io, per raggiungere il mio turno nella fila all’Ufficio passaporti in Austria, ho dato una mancia. A un impiegato gli ho visto in faccia ch’era di animo buono e avrebbe intascato. I regimi fascisti ce l’hanno con la corruzione proprio perché sono disumani.
E di non minore ferocia fu Carlo Emilio Gadda, che nel 1944-46 iniziò a redigere la tormentata stesura del suo Eros e Priapo:
Ontogeneticamente, cioè quanto all’«evoluzione» individuale (nel lor caso involuzione), erano giovanissimi, giovani e giovinastri, talvolta addirittura puberi […]. Socialmente provenivano, dico gli arrivati primi, i conti palatini, la guardia scelta, la coorte pretoria e quelli che si autodefinivano «élite», e con loro i paradigmi, i campioni, i manganellatori tipo, senza professione specifica e dunque senza disciplina o morale o civile o tecnica, provenivano dalle squallide lande dell’insipienza e del tedio, dalla sciagura del non aver che fare, dalle brame onnicupienti d’una «infantile» povertà. […] Alati d’una subita impellenza ascensionale corto-circuitante i normali gradini dell’ascendere, e d’una lubido rapace cortocircuitante le normali fatiche del lavoro e del profitto e del guadagno legittimo, ecco ecco la lor duplicata levità li ha tolti fuora dalle parificate lane e parificate groppe del gregge: li ha sublimati allo stipendiucolo del bidello, al premio del sicario «una tantum», alla media agiatezza della spia, all’agiatezza del provocatore o del ruffiano, al sedente fasto della sanguisuga, ai sommi onori del pacco di merda: corporativo e non.
Il tema dell’affarismo e della corruzione durante il fascismo ha avuto anche varie – sia pure incidentali – rappresentazioni cinematografiche, rivestendo un ruolo centrale in particolare nel film del 1962 Anni ruggenti, diretto da Luigi Zampa. Il protagonista, l’assicuratore Omero Battifiori (magistralmente interpretato da Nino Manfredi), arrivato da Roma, viene scambiato dai maggiorenti di una cittadina meridionale per un funzionario del Pnf inviato in incognito dalla direzione centrale per un’ispezione politico-amministrativa nel comune, dando luogo a una commedia degli equivoci che coinvolge soprattutto il podestà don Salvatore (Gino Cervi) e il segretario politico del fascio don Carmine (Gastone Moschin), «i forchettoni», impegnati, con altri, a evitare che l’ispettore scopra le loro molteplici malefatte e ruberie ai danni della povera gente, peraltro di pubblico dominio. Come dice a Battifiori in modo allusivo il personaggio interpretato da Salvo Randone, il dottor De Vincenzi, l’agente delle assicurazioni avrebbe fatto molti più affari se invece che contro la grandine avesse assicurato «i cittadini contro i furti», aggiungendo subito dopo che «i ladri di qui sono molto più furbi», tant’è «che nessuno di loro è mai stato arrestato».
Il presente volume – frutto di un progetto di ricerca intrapreso da alcuni anni, i cui primi parziali risultati sono stati pubblicati in un recente fascicolo monografico di «Storia e problemi contemporanei» – non riunisce atti di un convegno né di uno o più seminari propedeutici. Gli studiosi di generazioni diverse che hanno collaborato si sono trovati a convergere sulle linee guida loro proposte dai curatori e hanno raggiunto, ciascuno nel proprio ambito e sviluppando le proprie specifiche ricerche in autonomia, una complessiva sintonia interpretativa che di per sé è forse esemplificativa del rilievo del tema. A tutti gli autori e all’editore va il nostro non solo formale ringraziamento.
L’auspicio è che questo libro possa stimolare ulteriori ricerche sul piano scientifico, soprattutto sul piano locale e con la moltiplicazione di biografie anche ‘minori’, e che possa suscitare interesse e curiosità anche oltre la cerchia degli specialisti e della storiografia professionale. La circolazione delle tematiche storiche del ‘fascismo dalle mani sporche’ presso un pubblico di lettori più ampio, meno incline a seguire le sirene del sensazionalismo e più attento ai molteplici risvolti culturali e alle implicazioni per così dire ‘civiche’ della lettura e rilettura del nostro passato nazionale, sarebbe la gratificazione migliore per l’impegno di curatori e autori.
Corruzione di sistema? I ‘fascisti reali’ tra pubblico e privato di Paul Corner
1. Dittatura e corruzione
È un fatto generalmente riconosciuto che le dittature sono spesso – anzi, quasi sempre – corrotte. Il che è un paradosso, dato che quasi sempre le dittature nascono con il fermo proposito di eliminare la corruzione. L’autorappresentazione degli uomini ‘nuovi’ che cercano di sostituirsi ai ‘vecchi’ è quella di un vento purificatore che spazza via un mondo politico degenerato e corrotto. Se, molto spesso, il dittatore afferma la sua legittimità al potere attraverso discorsi sprezzanti sulle istituzioni parlamentari e rappresentative, ciò avviene perché quelle istituzioni sono percepite come inefficienti, fonte di divisione, e, soprattutto, corrotte. Gli esempi di questo tipo di giustificazione dell’assalto al potere non mancano, e non è necessario allontanarsi dall’Italia per trovarne uno fra i più calzanti. Nei primi anni di vita il fascismo denunciò la decadenza del vecchio regime liberale e in particolare l’inefficienza del Parlamento, considerato semplicemente il luogo di accordi e compromessi all’insegna della corruzione, e promise la ‘moralizzazione’ della vita pubblica attraverso l’eliminazione della vecchia classe politica. Che questa moralizzazione fosse realizzata con l’olio di ricino e il manganello poco importava agli squadristi; anzi, sia la purga che la bastonatura erano viste come azioni ‘purificatrici’ di un mondo che aveva venduto i suoi valori. Nel nuovo mondo fascista non ci sarebbe stato più spazio per la corruzione e per i corrotti; gli interessi nazionali avrebbero messo al bando tutti gli intrallazzi privati e personali.
La realtà, come sappiamo, era molto diversa. Nonostante la costante reiterazione del tema della moralizzazione della vita pubblica, il fascismo fu caratterizzato da un alto livello di corruzione, da un affarismo sfacciato, e da un clientelismo e nepotismo senza precedenti. Il potere pubblico – ad esempio, il potere del segretario di una federazione provinciale – veniva spesso usato per scopi privati; la cura e la coltivazione di interessi privati attraverso un ruolo pubblico – l’affarismo – erano pratiche comuni. In questo il fascismo era simile ad altri regimi dittatoriali. L’esempio più evidente è rappresentato dal regime di Hitler, che denunciava la corruzione e la decadenza della Repubblica di Weimar ma non esitava a ‘comprare’ l’appoggio di generali e industriali attraverso l’elargizione di sontuose ville, terreni, grandi tenute (tutti sequestrati ai nemici del nazismo), né muoveva un dito contro il vertiginoso arricchimento di alcuni dei suoi gerarchi. Sotto Stalin l’immensa burocrazia sovietica era notoriamente sensibile alla corruzione, molto spesso l’unico modo per farla funzionare. E nella Romania comunista l’accumulo di ricchezze da parte di Ceauescu e sua moglie era evidente a tutti quelli che li circondavano – la bilancia da cucina in oro massiccio era forse una spia di un certo tipo di comportamento –, ma a nessuno dei funzionari passava per la mente di denunciare questa rapina di Stato in quanto erano essi stessi il prodotto e i beneficiari del medesimo sistema corrotto. E si potrebbe andare avanti, parlando della Cina del dopo-Mao, dell’Africa e dell’America Latina… Dittature e corruzione sembrano andare sempre assieme.
Che la corruzione non sia limitata ai regimi dittatoriali è evidente; sappiamo bene che anche in democrazia la tangente, la bustarella e il finto appalto sono prassi comune. Ma non c’è in democrazia quel rapporto stretto fra il regime dittatoriale e la corruzione che sembra esistere in quasi tutte le dittature. È un rapporto che fa pensare a qualcosa di funzionale, quasi di strutturale, come se facesse parte del regime stesso e non rappresentasse un cancro esogeno o marginale che il regime non è in grado di controllare. Viene da chiedersi pertanto quale fosse il ruolo della corruzione e dell’affarismo in regimi che, formalmente, si proposero al mondo come regimi della retta via e della morale. Posto il quesito in termini più concreti e meno astratti, ci si potrebbe chiedere perché Mussolini, che era indubbiamente a conoscenza dell’alto livello di corruzione che esisteva all’interno del Pnf e del modo in cui i gerarchi sfruttavano le loro posizioni per arricchirsi personalmente – basti pensare a Farinacci –, non agisse contro le cattive abitudini ma guardasse sempre dall’altra parte, quando necessario.
Prima di cercare una risposta, può essere utile procedere con alcune osservazioni di carattere generale. Nei regimi ci sono certamente delle persone corrotte, ma va sottolineato che il regime dittatoriale è, in un certo senso, corruttore della società che domina. La coercizione – aperta o implicita – sulla quale esso si basa richiede un atto di sottomissione da parte della popolazione che la rende, volente o nolente, in qualche modo complice del regime stesso. L’atteggiamento che sembra caratterizzare gran parte della popolazione che vive sotto una dittatura – il conformismo pubblico, vissuto in forme e gradazioni diverse – rappresenta l’accettazione dei limiti imposti dal regime, spesso a costo di non poter esprimere e, a volte, quasi neanche formulare i pensieri privati. Va ricordato che molto spesso i regimi governano dall’alto popolazioni povere e che il potere di distribuire scarse risorse – case, lavoro, licenze, talvolta persino il cibo – permette alla dittatura di esercitare una forma di ricatto nei confronti della popolazione; in un regime ‘del bastone e della carota’ è meglio mirare alla carota che subire il bastone, la dacia è evidentemente meglio del campo di lavoro forzato. All’interno di questo quadro, gli spazi per l’indignazione individuale o collettiva di fronte agli abusi di potere sono molto limitati, e la volontà di reagire è ancora più circoscritta.
Václav Havel aveva perfettamente compreso la corruzione morale della popolazione della sua Cecoslovacchia quando scriveva del verduraio che, la mattina, accanto alle carote e alle cipolle, affiggeva nella vetrina del negozio un cartello con lo slogan ‘Operai del mondo, unitevi!’, pur essendo totalmente indifferente al senso della frase. Lo faceva, spiegò Havel, perché nel mondo comunista «si faceva così», ma lo faceva anche per nascondere a sé stesso la sua condizione subordinata rispetto al potere – in fondo, lo slogan avrebbe potuto essere anche accettabile, quindi perché non mostrarlo? In tal modo, il verduraio «viveva dentro una bugia», sapendo bene che gli operai del mondo non si sarebbero mai uniti, ma comportandosi come se quello slogan rappresentasse realmente un qualche tipo di verità. Attraverso il suo conformismo, il verduraio si rendeva complice del sistema e, in quanto complice, aiutava il sistema a sopravvivere.
Complicità con il potere non significa di per sé corruzione, almeno non nell’accezione usuale della parola. Ma può essere molto importante nel creare un terreno in cui può svilupparsi la corruzione vera e propria. Il regime dittatoriale, infatti, distrugge sempre la sfera pubblica, impedendo la formazione di una vera opinione pubblica in grado di commentare, criticare, biasimare, e forse modificare, i comportamenti di coloro che detengono il potere. In tali circostanze, le complicità – anche coatte – con il regime possono generare un clima morale che accetta come inevitabile ciò che non è in grado di cambiare. Pertanto, chi è corrotto e chi corrompe, chi fa affari sporchi e illeciti, non subisce la pressione di un’opinione pubblica nella misura in cui ciò avviene solitamente in una società aperta.
Tale considerazione è pertinente rispetto a quel fattore, centrale per qualsiasi discorso sulla corruzione nei regimi dittatoriali, rappresentato dall’assenza di controlli su chi esercita il potere, sia a livello di vertice nazionale sia a livello locale. Se non esiste un giornalismo libero, con libera stampa e mass media autonomi, un potere giudiziario indipendente, un Parlamento con una vera opposizione in grado di istituire commissioni di inchiesta, se la polizia è in mano al partito o al governo, non ci sono ostacoli all’abuso del potere; è la discrezionalità della dittatura che determina tutto. Anche le elezioni o le pratiche plebiscitarie, se ci sono, non rappresentano un elemento di freno ai comportamenti illeciti; la popolazione è controllata ed è comunque in qualche modo complice del regime. Nonostante che tutti gli elementi del potere dominante possano essere percepiti o perfino emotivamente avversati dalla popolazione, quel clima morale di non-protesta, generato dal ricatto implicito esercitato dal potere, interviene a facilitare la prevaricazione. Fra chi detiene il potere cresce quasi inevitabilmente una forte sensazione di impunità di fronte agli scarsi o inesistenti controlli – sensazione di impunità che molto spesso corrisponde concretamente a ciò che avviene nella realtà.
Ovviamente non tutti i regimi dittatoriali sono uguali. I rapporti di forza fra chi domina e chi è dominato possono variare, anche se le caratteristiche di fondo cambiano poco. Si può osservare una differenza maggiore fra i vari regimi nei livelli di controllo dell’economia. Nell’Urss il controllo da parte dello Stato era pressoché totale, mentre nell’Italia fascista e nella Germania nazista la sfera economica manteneva una certa autonomia. Anche in questi due casi, però, la mano della dittatura si faceva sentire in quanto, là dove vigevano comunque il primato della politica e un certo livello di dirigismo di Stato, i rapporti fra economia e politica erano sempre rapporti di scambio, con concessioni ma anche favori ripagati – il terreno ideale per la corruzione, il clientelismo e l’affarismo. Come vedremo, una delle caratteristiche più evidenti dell’Italia fascista era la rete di interessi privati che si sviluppò intorno alla gestione ‘politica’ dell’economia.
2. Fascismo e corruzione
Fra le armi più efficaci utilizzate dalle dittature c’era il ricatto, un ricatto di sistema, con un messaggio molto semplice: o collabori con il regime o subisci le conseguenze del tuo rifiuto. Più o meno esplicito, il ricatto era sempre presente. Si traduceva non solo nella necessità di osservare determinati comportamenti, ma anche – se si voleva far carriera, intraprendere un’attività commerciale, far funzionare un’industria, esercitare una professione senza intralci – di cercare, mantenere e coltivare appoggi politici, e, avendo il regime il monopolio del potere politico, il prezzo di questi appoggi veniva deciso in gran parte dai rappresentanti del regime stesso.
Il fascismo italiano non faceva eccezione. Non che l’Italia non avesse avuto problemi di corruzione anche prima dell’avvento del fascismo. Giolitti si era guadagnato il titolo di ‘ministro della malavita’ da parte di Gaetano Salvemini per il modo in cui utilizzava il trasformismo e il clientelismo allo scopo di garantirsi una maggioranza in Parlamento, basata più su scambi che su principi; e come dimostrò la Commissione d’inchiesta sulle spese di guerra, ovvero sui sovrapprofitti realizzati dagli industriali durante la prima guerra mondiale (commissione soppressa da Mussolini appena arrivato al potere), la manomissione dei fondi statali non era una novità. C’è comunque materia per ritenere che la corruzione e l’affarismo raggiungessero nuovi livelli sotto il regime fascista.
Come prevedibile, l’elemento del ricatto risulta evidente nel finanziamento delle organizzazioni locali del Pnf e – spesso associato con le stesse fonti di finanziamento – nella realizzazione di cospicue fortune da parte di alcuni fra i gerarchi più in vista. Il fundraising del partito aveva diverse facce. Molto comune era la richiesta fatta dal fascio a noti personaggi locali, i quali in qualche misura dipendevano dal beneplacito del fascio per il loro lavoro, di un ‘contributo volontario’ alla causa del fascismo. Si trattava, di fatto, di un atto di estorsione, dato che l’entità del contributo veniva decisa dal fascio e non di rado riguardava grosse somme.
Una variante molto comune della prassi di estorsione consisteva nel vendere pubblicità sul giornale del fascio locale a persone che non avevano bisogno di quella pubblicità; anche qui furono richieste somme molto elevate per un servizio non voluto ma pressoché obbligatorio. Una strategia più diretta (e più chiaramente delinquenziale) fu il controllo, nelle grandi città come Milano e Genova, del commercio e dei mercati centrali attraverso l’imposizione di una tassa che in realtà non era altro che un ‘pizzo’ di tipo mafioso. In tutti questi casi il rifiuto di pagare poteva avere conseguenze disastrose – chiusura del negozio, ritiro del permesso, boicottaggio dello studio legale, appalti negati, e così via. In più e peggio – almeno negli anni Venti – lo spettro della violenza squadrista non era mai molto remoto. Chi rifiutava di versare il suo ‘contributo volontario’ rischiava la bastonatura, la devastazione dello studio, l’incendio del negozio, da parte di persone che risultavano sempre ignote alla polizia e alla magistratura.
Un’altra variante di prassi estorsiva riguardava il posto di lavoro. Se nei primi anni Venti i braccianti agricoli avevano dovuto scegliere fra l’adesione al sindacato fascista e la fame, anche i lavoratori di altri settori si trovarono a fare più o meno la stessa scelta: lavoro o fame. In altre parole, il posto di lavoro aveva un valore e in certe zone i fascisti non esitavano a monetizzare quel valore approfittando in modo sfacciato di situazioni di disperazione. A Napoli, ad esempio, alcuni operai lamentavano il fatto che il fascio locale imponeva una tariffa a chi voleva lavorare e che chi non la pagava non lavorava: «500 lire per un manovale, 1500 per un muratore, prezzo da concordare per gli apprendisti meccanici e così via». Altri operai, questa volta a Pescara, raccontavano del federale che aveva venduto i posti a chi voleva andare in Africa orientale come emigrante (500 lire per garantire la partenza). Non sorprende che in alcune città i fascisti venissero chiamati «sanguisughe» e definiti «buoni solo a spillare soldi alla povera gente».
In questo quadro di estorsione e di sfruttamento del monopolio di potere, non poteva mancare il mercato della tessera del partito. Com’è noto, con effetto progressivo durante il corso del Ventennio (e, a volte, con un sorprendente ritardo), la tessera del Pnf divenne il passaporto per alcuni tipi di lavoro. L’importanza della tessera era evidenziata soprattutto dalle dichiarazioni di chi non la possedeva, di chi rischiava di perderla o di chi era stato espulso dal partito. Secondo un informatore che scriveva nel 1938, «oggi, definitivamente, non essere iscritti al partito vuol dire non poter trovare nessun lavoro», opinione confermata da un fascista che osservava che «il ritiro della tessera, vale a dire del pane», poteva avere delle conseguenze molto gravi, e di un altro, espulso, che pregava di essere riammesso al partito e «alla vita». Lo stesso Mussolini, nell’avvertire Farinacci che rischiava l’espulsione dal partito per il suo persistente ‘frondismo’, ricordava al ras cremonese che «chi è fuori del partito, muore». Tale era l’importanza della tessera che si sviluppò un mercato di tessere falsificate, rilasciate da burocrati corrotti, che dovevano non solo attestare l’appartenenza al partito ma anche indicare una data di adesione della ‘prima ora’, per consentire al portatore di beneficiare dei privilegi riservati ai membri della ‘vecchia guardia’. Come venne più volte osservato all’epoca, il numero dei ‘Sansepolcristi’cresceva via via ogni anno che passava.
Lucrare dove possibile sembra essere stato l’obiettivo di non pochi dirigenti fascisti, ma la destinazione precisa dei soldi, passati sopra o sotto la scrivania, è difficile da stabilire. Come in altri regimi di questo tipo, la mancanza di una qualsiasi forma di trasparenza permetteva la deviazione dei fondi in diverse direzioni. È evidente, comunque, che se una parte dei contributi estorti doveva servire a far funzionare l’organizzazione fascista, una parte anche notevole finiva nelle tasche dei fascisti stessi. Solo così si può spiegare il fenomeno del repentino arricchimento di molti dei nuovi dirigenti fascisti, persone spesso di modeste origini sociali che già alla fine degli anni Venti si erano abituate a vivere nel lusso. Anche se il confine fra la donazione spontanea e la tangente è spesso molto labile, esistono pochi dubbi sul fatto che i nuovi ricchi dovevano molto non solo al fatto di essersi appropriati di fondi versati al fascio, ma anche a donazioni più o meno ottenute con la concussione e a offerte ‘interessate’, intese a mantenere buoni rapporti con chi deteneva il potere. L’evidente rapporto di scambio che operava dietro queste elargizioni verso i fascisti aveva un costo, ma presupponeva anche un eventuale premio. A Milano, ad esempio, nel 1928, in occasione del matrimonio di Mario Giampaoli, capo del fascismo in città, imprenditori e commercianti si misero in fila per offrirgli regali. Si diceva che il gerarca avesse ricevuto regali per più di un milione di lire – soldi peraltro spesi male, perché Giampaoli fu rimosso da Milano ed espulso dal partito (per malaffare) meno di un anno dopo.
I gerarchi fascisti avevano molte possibilità di sfruttare il rango per vantaggi personali. L’avvocato Roberto Farinacci, ad esempio, era in grado, con dubbie credenziali professionali, di chiedere e ottenere parcelle a sei cifre per interventi in casi giudiziari in cui il suo peso politico veniva usato per ‘aggiustare’ la sentenza. Che Farinacci fosse, alla fine degli anni Trenta, un uomo molto ricco non era un segreto per nessuno, ma anche molti altri gerarchi disponevano di somme che non erano giustificate dal loro stipendio. Nel 1942, in piena guerra, Giuseppe Bottai acquistò una villa di 42 stanze per 4 milioni di lire; nello stesso anno, per una cifra analoga, Alessandro Pavolini comprò due fattorie fuori Firenze. L’origine di questi soldi resta sconosciuta – certamente somme che andavano ben oltre le possibilità offerte da uno stipendio ministeriale – anche se un indizio si può forse trovare nel comportamento di Luigi Federzoni che, come presidente del Senato, nel 1929 si aumentò lo stipendio da 25.000 lire annue a 125.000 senza dire niente a nessuno (e senza che nessuno avesse qualcosa da ridire). Non contento, incrementò anche le sue indennità parlamentari, raggiungendo nel 1939 uno stipendio annuale di 263.000 lire: al confronto, la paga annuale di un bracciante agricolo nel 1938 era di circa 2.000 lire. Al processo del 1947 i beni di Federzoni vennero valutati quasi 8 milioni di lire.
Ma i rapporti di scambio più premianti per molti gerarchi fascisti nascevano dagli stretti legami esistenti fra la politica e il mondo dell’industria, delle banche e di quegli istituti parastatali che avevano visto uno straordinario sviluppo durante gli anni Trenta. Qui il regime aveva enormi possibilità di patronage; erano in palio nomine alle cariche più alte, posti nei consigli di amministrazione, prestiti, contratti, concessioni, appalti per lavori pubblici – un mondo che ragionava sempre in termini di centinaia di milioni di lire e dove, molto spesso, la mano del governo di Roma poteva essere decisiva nell’andamento delle cose. Come è evidente, lo scambio fra economia e politica aveva dei vantaggi per entrambe le sfere. I posti di dirigente o membro dei consigli di amministrazione offrivano lauti compensi ai fascisti (o ai loro amici e sostenitori) che li occupavano, mentre per le società coinvolte avere una linea diretta con il ministero a Roma tramite i consiglieri fascisti poteva costituire un asset prezioso. Naturalmente le società dovevano pagare un prezzo, richieste pressanti di contributi e ‘sussidi’ per i progetti dei fasci locali e per l’organizzazione nazionale erano sempre all’ordine del giorno, ma al tempo stesso chi pagava sperava di poter contare su un occhio favorevole del regime. Si formava dunque un intreccio per così dire ‘virtuoso’ fra il mondo politico e quello economico, che offriva benefici a entrambi, ma a trarne particolari vantaggi erano quei fascisti che, riusciti ad entrare nei gangli del mondo dell’industria e della finanza grazie all’operato del partito, si trovavano nella posizione di poter incidere sulle decisioni di società di importanza nazionale e, di conseguenza, con un’influenza enorme da sfruttare come sembrava loro più opportuno.
3. Percezioni e impunità
Che la corruzione e l’affarismo restino nascosti, una faccenda gestita all’interno delle strutture del regime stesso, è un tratto tipico di molti regimi dittatoriali; ad eccezione dei casi clamorosi e difficili da nascondere, la zona ‘sporca’ dei ricatti e degli intrallazzi non arriva all’attenzione del pubblico, se non attraverso voci e sospetti non suffragati da prove. Per questo motivo spesso non è semplice valutare con precisione la natura e l’estensione del fenomeno. Diverso, invece, è il discorso sulla percezione dei livelli di corruzione e di affarismo da parte dell’opinione pubblica, che arriva spesso ad esagerare l’entità di quel mondo che non riesce a vedere bene ma della cui esistenza non dubita.
Tali considerazioni valgono appieno per l’Italia fascista. A giudicare dalle relazioni degli informatori fascisti, dalle spie della polizia, dai rapporti delle autorità locali di prefetture e questure, per non parlare delle lettere anonime, esiste lungo il Ventennio – ma in modo crescente quanto più ci si avvicina alla seconda guerra mondiale – la convinzione in almeno una parte dell’opinione pubblica che il regime fascista fosse un regime intimamente corrotto. Benché spesso derivino da fonti che vanno utilizzate con cautela, le accuse rivolte al regime e ai fascisti puntavano sempre il dito sui funzionari locali del partito – in particolare, sui segretari federali – incolpati di utilizzare la propria posizione pubblica per realizzare obiettivi privati, ed erano troppo concordi e convergenti per essere attribuite soltanto ai nemici del regime o alle malelingue. Al riguardo bisogna ricordare che il fascismo, sin dai primi anni, aveva attratto una certa componente criminale e che, nonostante le purghe del partito degli anni Venti, essa non era stata del tutto sradicata. Indicativo è il fatto che nel 1935 l’intero gruppo dirigente di Perugia venisse denunciato per criminalità e che le fedine penali di molti, attestanti condanne per attività criminali, venissero allegate alla denuncia.
La più comune fra le denunce di abuso di posizione riguardava ciò che potremmo definire lo stile di vita del federale: grandi automobili, i posti migliori nei ristoranti migliori, uniformi ‘napoleoniche’ indice di un narcisismo dilagante, il palco al teatro con il contorno di belle donne. Questo stile di vita, più che evidenziare direttamente la corruzione, esibiva gli attributi vistosi del potere locale, spesso portati all’eccesso da persone nuove alla politica, ma a chi denunciava simili comportamenti veniva spontaneo chiedersi da dove provenivano i soldi per le macchine, i pranzi e le donne. L’uomo che nel 1937 racconta (con un misto di rabbia e di invidia, come si avverte fra le righe) che il federale di Piacenza «dedica ogni sua attività allo sport del tamburello e alle gite sulle spiagge adriatiche ove […] col pretesto di visitare una colonia estiva, passa lunghi giorni in graziose compagnie femminili» non poteva non notare che le spese di queste giornate provenivano da fondi pubblici. La stessa constatazione si legge in una lettera anonima inviata al duce nel 1939: «Qui a Perugia essi [i funzionari fascisti] spendono il denaro pubblico in modo sfacciato e scandaloso», e anche in questo caso le accuse sono le stesse: grandi macchine («una potente Alfa-Romeo, del costo di oltre 70.000 lire») e frequentazioni pubbliche di «volgari prostitute».
Vere o no, le denunce di questo tipo riflettevano ciò che appare come un disagio generalizzato, quando si trattava di verificare l’onestà dei funzionari fascisti. In parte era un disagio che nasceva da un fattore che abbiamo già osservato, e cioè la totale mancanza di trasparenza che circondava le finanze dei fasci locali; la gente poteva fare il conto del denaro che entrava – bastava moltiplicare il costo della tessera per il numero degli iscritti per farsene un’idea – ma non riusciva a capire come venivano spesi quei soldi: «È da tutti risaputo che la maggioranza degli iscritti al partito versano annualmente delle somme non indifferenti che assommano a parecchie centinaia di lire, mentre vengono versate al centro solo tre lire per ogni iscritto al partito. Tutti si domandano dove vanno a finire le somme versate dai fascisti e tutti non si sanno spiegare la ragione per la quale non debba venir mai fatto un resoconto». In effetti, quando le situazioni locali degeneravano al punto che da Roma veniva inviato un ispettore, le relazioni che questi ispettori compilavano raccontavano spesso di ammanchi, di elargizioni senza causale, di ‘sussidi’ pagati ad amici senza alcuna giustificazione, di ‘missioni’ in altre città con tanto di alberghi e ristoranti di lusso. Tali situazioni davano man forte a chi si lamentava del fatto che «i caporioni del fascismo sono tutti dei mangioni e dei profittatori» o che «il requisito necessario per rivestire le alte cariche politiche e amministrative è quello della delinquenza raffinata».
Se la finanza allegra e lo stile di vita eccessivo attiravano le critiche un po’ dappertutto, a volte le denunce avevano a che fare con faccende più squallide. In alcune relazioni, si legge che l’abuso della posizione di potere si estendeva anche alla richiesta di prestazioni sessuali rivolta a donne che in qualche modo dipendevano dal funzionario fascista. Del gerarca di Savona, che aveva costituito un istituto commerciale serale femminile, si diceva che «le favorite passano nel suo ufficio durante le ore di lezione, e quelle che soddisfano i suoi piaceri trovano lavoro». Ancora più esplicita la denuncia di un cittadino padovano, che in una lettera a Starace spiega il modo migliore per ottenere un lavoro a Padova: «ha un figliolo da occupare? occorre che abbia una bella mamma o una sorellina». Casi di questo genere riflettevano i rapporti di forza in una situazione in cui il cittadino non aveva alternative o possibilità di ricorso. Nel Ventennio il regime aveva il coltello dalla parte del manico ed era difficile e a volte rischioso mettersi a discutere.
Guardando sempre alle realtà locali, la percezione generalizzata del marcio trova conferma anche in altre circostanze, in cui i federali mostrano di preferire la strada più diretta della criminalità spiccia. Uno dei casi più clamorosi è quello di Clodo Feltri, federale di Modena alla fine degli anni Trenta, che secondo l’ispettore del partito aveva mescolato polvere di marmo alla farina per aumentarne il peso (suo cugino era proprietario della principale azienda molitoria della provincia), aveva venduto illegalmente a terzi la benzina ‘rossa’ destinata esclusivamente a usi agricoli (egli stesso era il direttore della locale filiale Agip) e aveva concesso al cognato alcuni contratti per lavori edili finanziati dallo Stato. Qui potere incontrollato e familismo sono molto evidenti. Ma Feltri non era l’unico. Nel 1934, a Savona, il federale venne accusato di «aver ricavato quest’anno una somma considerevole dalla gestione dei campi estivi» e il sospetto spingeva ignoti a scrivere sui muri «Duce, lega le mani ai profittatori». Verso la fine degli anni Trenta diversi federali furono accusati di aver guadagnato grosse somme con la raccolta di oro e di altri metalli preziosi – raccolta mai trasferita, o trasferita solo in parte allo Stato. Non sorprende pertanto trovare un vecchio fascista che nel 1939 scriveva a proposito delle «infiltrazioni di numerosissimi elementi profittatori e di nessuna fede» che avevano preso in mano il partito, né che altri protestassero per il fatto che «si lascia che la nuova casta creata dal regime faccia soldi a palate, a destra e a manca».
Il quadro dipinto dalle denunce di prefetti, fascisti, informatori e cittadini comuni è chiaro. Arrivati al 1940, pochi erano disposti a negare l’esistenza di una corruzione su larga scala all’interno del partito; la percezione popolare era quella di un Pnf organizzato per assecondare gli appetiti dei suoi capi. Ma più che la corruzione in sé, ciò che colpisce è il manifesto senso di impunità che accompagnava l’attività dei corrotti. Regnava fra i ras e i funzionari fascisti la sensazione di poter fare quello che volevano; alcuni lo affermavano esplicitamente – ‘Chi mi può toccare?’ – e, molto spesso, avevano ragione.
Il senso di impunità dimostrato dai capi fascisti, che tanto nuoceva all’immagine del fascismo fra una popolazione pesantemente colpita dalla crisi economica, si può spiegare in diversi modi. In parte nasceva dal fatto che il partito, più che un’organizzazione impersonale e rigidamente disciplinata, era in realtà un reticolo di rapporti clientelari e personali in cui ciò che contava non era la correttezza dei comportamenti ma la fedeltà a – e l’appoggio di – un particolare capo. Essere ‘uomo di Balbo’ o ‘uomo di Ciano’ spesso rendeva quella persona intoccabile, anche da parte della magistratura. Per i capi locali i guai seri cominciarono con la perdita dell’appoggio del padrino e non con la denuncia per abuso di potere. Certo, il segretario del Pnf poteva agire contro i corrotti – di fronte a gravi abusi gli ispettori arrivavano da Roma e compilavano i loro rapporti, a volte molto critici sui poteri locali –, ma tutti sapevano che, nella peggiore delle ipotesi, la conseguenza più probabile di una punizione sarebbe stata la rotazione, ovvero un incarico diverso in un posto diverso. La parola d’ordine era sempre quella di evitare scandali in grado di screditare il partito agli occhi della gente. Non sorprende dunque che il cittadino si sentisse impotente di fronte al regime; era difficile contestare la corruzione dei funzionari perché ci si trovava davanti a un muro di omertà fascista che mirava solo ad insabbiare qualunque protesta.
Ma il senso di impunità aveva anche origini più lontane. Sin dall’inizio del movimento fascista gli squadristi avevano agito contro la legge e nella presunzione – che si dimostrò spesso giustificata – di non essere perseguibili per le loro azioni di fronte alla magistratura. Convinti di aver trovato l’Anello di Gige che rende invisibili, essi sostenevano di rispettare una legge superiore dettata dalla nazione e non esitavano a ridicolizzare le autorità dello Stato liberale e a umiliare prefetti e polizia. Le azioni e le dichiarazioni di Italo Balbo durante l’occupazione di Bologna nel 1922 sono una sintesi di questo atteggiamento di sfida. E anche se con la svolta del 3 gennaio 1925 (quando anche Mussolini invocò una legge superiore) e con i provvedimenti successivi la posizione degli squadristi venne ridimensionata, i primi anni di lotta avevano lasciato un tipo di imprintingche affermava la soggettività del diritto, assai difficile da sradicare. Come non pochi prefetti furono costretti a constatare, per tanti fascisti l’atteggiamento del ‘Qui comando io’ oppure ‘Obbedisco solo a Mussolini’ restava il principio fondamentale della rivoluzione fascista determinandone l’azione per tutto il Ventennio. I frequenti litigi tra federali e prefetti rappresentavano, in realtà, non solo il contrasto fra le diverse interpretazioni delle competenze del partito e dello Stato, ma anche un conflitto fra la legge dello Stato, che il prefetto doveva far rispettare, e una fantomatica ‘legge fascista’, derivante dalle vittorie degli anni Venti, alla quale faceva appello il federale.
Conseguenza non ultima dell’interpretazione fascista della legge era anche l’incapacità – o, meglio, la non volontà – da parte dei fascisti di distinguere fra ciò che era pubblico e ciò che era privato. Per molti, l’idea che ‘la legge è del più forte’ aveva in parte annullato la distinzione, in quanto gli squadristi erano avvezzi a mostrare scarso rispetto per la proprietà privata, soprattutto di quella dei nemici del fascismo, e ad appropriarsi di quello che volevano. Quest’atteggiamento era ulteriormente incoraggiato dall’interscambiabilità di ‘fascismo uguale nazione’, che induceva i fascisti più rozzi a pensare che tutto ciò che era parte della nazione apparteneva ai fascisti. Si creava così una sorta di sentimento di ‘credito’ e di ‘diritto’ a varie ricompense e prebende di potere; per quelli che avevano conquistato la nazione i lauti premi offerti anche dall’affarismo e dalla corruzione apparivano in qualche modo dovuti.
In molti casi, dietro a questi comportamenti arroganti e spavaldi, che persistettero ben oltre la prima fase della ‘battaglia fascista’, c’era il desiderio del dirigente fascista, una volta assurto al potere, di essere riconosciuto dall’élite tradizionale. Causa non ultima della corruzione del tipo descritto qui sopra – cioè la corruzione legata agli abusi di potere a livello provinciale e locale – è la necessità degli ‘uomini nuovi’ alla politica di legittimare le proprie posizioni all’interno della società locale. Sconfitta la spinta intransigente di Farinacci che avrebbe voluto un radicale cambiamento nella classe dirigente, e ignorata l’invocazione di Augusto Turati di «mettere una camicia nera ad ogni posto di comando», in molte città i fascisti si trovarono costretti a venire a patti con l’élite della società provinciale. Per alcuni fascisti ‘rivoluzionari’ la questione non mancava di sollevare problemi, com’è testimoniato da scontri anche molto duri in alcuni luoghi; ma per altri la prospettiva di poter far parte dell’establishment era troppo seducente. Non solo ciò sembrava legittimare agli occhi dei concittadini il controllo esercitato dal fascismo, ma si apriva la strada a tutta una serie di privilegi e di possibilità di affari che permettevano al capo fascista di sedersi effettivamente allo stesso tavolo dei maggiorenti locali. Dall’altra parte, per l’élite locale corrompere il federale con offerte e promesse allettanti era la strada maestra per limitare il più possibile l’ingerenza del partito nelle proprie faccende ed anche – come abbiamo già visto – per sfruttare le possibilità offerte da qualche contatto utile a Roma.
Si spiegano così le lotte interne che caratterizzarono i fasci locali, soprattutto sul finire degli anni Venti e per tutto il decennio successivo. Come abbiamo avuto occasione di osservare altrove, il ‘beghismo’ diffuso esprimeva solo di rado differenze di opinione sul significato del fascismo o sul percorso da seguire per realizzare fino in fondo la ‘rivoluzione fascista’; molto più spesso rappresentava semplicemente un conflitto per il potere fra gruppi rivali, in quanto il potere apriva la porta a possibilità che andavano ben oltre il diritto all’uniforme ‘napoleonica’.
Una delle lamentele più persistenti contro i capi fascisti nelle lettere anonime e nei rapporti degli informatori riguardava l’‘accumulo di cariche’ da parte dei boss del fascismo locale. Come abbiamo già accennato, molto spesso al segretario federale veniva offerto un posto nel consiglio di amministrazione della Cassa di risparmio, nel comitato direttivo dell’ospedale locale, nella redazione del giornale cittadino, per non parlare dei posti nei consigli di amministrazione delle industrie del luogo – tutti incarichi remunerati, che gli permettevano di moltiplicare diverse volte il suo stipendio di federale, di per sé non indifferente, senza dover fare altro che presenziare a qualche riunione. Alcuni fascisti di spicco arrivavano a sedere in più di venti consigli di amministrazione. Qui si vede come, per il giovane e rampante fascista, l’ambizione e il desiderio di riconoscimento si intrecciassero con la ben più banale ma concreta ricerca di arricchimento. E se agli inizi degli anni Trenta, di fronte al malcontento popolare suscitato dal fenomeno dell’accumulo delle cariche, il partito cercò di reagire con un decreto contro tale prassi, non c’è però alcuna evidenza che quel provvedimento abbia avuto effetto. Il decreto, come le ammonizioni di Mussolini contro lo stile di vita esagerato dei fascisti provinciali (la ‘Consegna’ del 1933), restò lettera morta. Il potere delle realtà locali di condizionare i comportamenti dei funzionari fascisti era evidentemente molto più forte.
Naturalmente non tutto il fascismo provinciale era una palude di corruzione e di affarismo; c’erano federali onesti come federali corrotti. Colpisce comunque il tono di esasperazione e di indignazione che emerge da molte denunce – firmate anche da fascisti di lungo corso – per le condizioni del partito alla fine degli anni Trenta e durante i primi anni di guerra. Il ‘succo’ dei commenti era che molti fascisti avevano utilizzato il potere dello Stato per favorire i propri interessi privati, ignorando totalmente le condizioni di estrema difficoltà in cui si trovava buona parte della popolazione. Come scriveva un fascista, l’Italia era divenuta «un campo da razziare non una nazione», dove il denaro pubblico veniva sistematicamente rubato e sperperato da un ceto dirigente «parolaio, confusionario, e spesso corrotto». Un altro fascista convinto annotava nel suo diario che «raramente le menzogne e la frode si sono sistemate nelle abitudini consuete di un grande popolo come si stanno attualmente instaurando nella classe dirigente del popolo italiano». Più articolato, ma fededegno, il commento di un informatore, che protestava per «una politica interna in mano ad elementi che servono solo in apparenza il capo e il fascismo, ma che in realtà servono unicamente la propria vanità e il proprio esclusivo interesse» e concludeva scrivendo che «mai come oggi fu corrotta l’Italia borghese». Come risulta evidente, la percezione di un sistema corrotto era molto diffusa.
4. Una corruzione funzionale
Viene da chiedersi perché il fenomeno della corruzione, così largamente riconosciuto fra tutti quelli che avevano a che fare con le reti di influenza dei fascisti, non venisse affrontato in modo più determinato. Per quali motivi, alla fine del Ventennio, la corruzione era molto più diffusa di prima dell’avvento del fascismo? Perché quel movimento che aveva promesso la ‘moralizzazione’ della vita pubblica non seguiva le sue stesse prediche? In parte – lo abbiamo visto – la corruzione non veniva colpita perché si cercava di evitare scandali che avrebbero messo il fascismo in cattiva luce. Se alla fine degli anni Trenta il fascismo era diventato soprattutto ‘esteriorità’, come sostenevano gli osservatori più acuti, almeno le apparenze di rigore morale dovevano essere mantenute; la facciata pubblica del regime non doveva tradire i segni della malattia interna. Al riguardo, una magistratura accondiscendente facilitava le operazioni di copertura.
Il medesimo intreccio fra corruzione, affarismo e rapporti di scambio coinvolgeva anche alcuni dei gerarchi più alti – ossia quelli che in teoria avrebbero dovuto agire contro il malcostume. Non conveniva a nessuno lanciare una campagna moralizzatrice, perché chi si permetteva di denunciare altri rischiava di trovarsi contro l’intero Stato maggiore del fascismo. In un ambiente caratterizzato da ciò che Salvatore Lupo ha definito «la politica dei dossier» – cioè l’affannosa ricerca, da parte di tutti, di materiali da utilizzare, se necessario, contro gli altri – i rischi, per chi era tentato di gettare la prima pietra, erano molto forti; pertanto la convivenza negli affari assicurava un’omertà di collusione. In effetti, nei rari momenti in cui la corruzione venne additata come causa dell’espulsione di qualche gerarca dal partito, si trattò di solito di persone già cadute in disgrazia per altri motivi, per cui l’accusa di corruzione era più che altro la giustificazione di facciata.
Ma torniamo alla domanda che abbiamo posto all’inizio: perché Mussolini non intervenne per fermare ciò che veniva percepito come una corruzione endemica e un affarismo generalizzato? Il duce era certamente a conoscenza del fenomeno; e chi pensava che non lo fosse – ed erano in tanti – si illudeva, anche se il mito dell’ignoranza del capo tornava indubbiamente comodo e serviva, semmai, a rafforzarne il culto di uomo sobrio e integerrimo in mezzo ai corrotti e agli opportunisti. L’indifferenza di Mussolini di fronte alla corruzione è da attribuire a fattori legati alla struttura del fascismo stesso e ai suoi modi di governo e controllo. Innanzitutto si può sostenere che Mussolini apprezzasse il fatto che quell’intreccio tra il fascismo e il mondo degli affari, anche se gestito e alimentato da persone corrotte, rappresentasse comunque la penetrazione del regime negli ambiti che più contavano nel paese e andasse pertanto considerato un punto di forza per il fascismo. In questo quadro il comportamento dei singoli attori appariva di importanza secondaria; ciò che contava erano i rapporti di potere, e avere fascisti alla direzione di banche e nei consigli di amministrazione di grandi e medie industrie significava gestire il potere. Lo stesso discorso valeva per i problemi spiccioli delle periferie: il federale corrotto e immorale rischiava la sua posizione solo se i suoi comportamenti minacciavano di mettere a repentaglio il controllo fascista della provincia. Per il resto, come sta a indicare l’indifferenza del duce, le grandi macchine, i ristoranti di lusso, e le donne ‘di facili costumi’ non erano poi così importanti e andavano semmai ascritte alla terribile e potente turbina della ‘rivoluzione fascista’.
C’è tuttavia da aggiungere un’ulteriore considerazione. Chi mai avrebbe potuto realizzare la bonifica del partito? E con quali conseguenze? A differenza di Hitler, Mussolini non disponeva delle SS, una guardia pretoriana pronta ad agire contro i corrotti del partito. La Milizia non era minimamente paragonabile alle SS (semmai somigliava più alle SA) e, come risulta dalle relazioni dei prefetti, molti militi erano corrotti quanto i loro compagni di partito. Invocare l’intervento della polizia sarebbe stato possibile – Bocchini sapeva fare bene il suo lavoro –, ma il risultato di una purga effettuata dallo Stato sarebbe stato un partito molto indebolito nei quadri e, soprattutto, danneggiato nel suo status di portabandiera della rivoluzione fascista. In effetti, il problema riguardava proprio la struttura del potere mussoliniano. Riformare il partito dall’interno, eliminando i corrotti e inserendo persone capaci e oneste (ammesso che se ne trovassero, dato che arruolare quadri efficienti rappresentò sempre un problema per il regime), rischiava di rendere il partito troppo forte; aggredire il Pnf dall’esterno, utilizzando soprattutto la polizia e la magistratura, avrebbe reso il partito subordinato e troppo debole. A Mussolini serviva il partito – su questo non c’è dubbio –, ma il Pnf non doveva essere né troppo forte, in grado di contestare il suo potere (come Farinacci e Adelchi Serena ebbero modo di imparare a proprie spese), né troppo debole.
In un colloquio del 1943, prima della caduta del fascismo, Mussolini parla «delle indigestioni del totalitarismo», riferendosi alle difficoltà sperimentate nel mantenere un ‘equilibrio’ fra i diversi centri di potere nel paese – e fra questi centri c’era anche il Pnf. Nell’economia del potere mussoliniano il partito aveva un suo ruolo – veicolare il consenso, certamente, ma anche controbilanciare altri centri di potere – e cambiare la natura del partito avrebbe potuto distruggere quel faticoso ma funzionale equilibrio. In una dittatura per molti versi policratica, un partito dominante, realmente totalitario e moralmente inflessibile, avrebbe creato non pochi problemi per tutti, in primo luogo per Mussolini, che sin dal 1925 aveva capito che l’Italia non avrebbe accettato un fascismo intransigente. Dal suo punto di vista era preferibile un partito immobile e stagnante, occupato con le ‘esteriorità’ e tenuto assieme da grandi e piccoli abusi di potere, rispetto a un partito dinamico, fatto di veri ‘uomini nuovi’, che avrebbe contrastato tutti quei compromessi, anche a livello locale, su cui poggiava il regime. Assai lontano dalle promesse di un fascismo ‘moralizzatore della vita pubblica’, pertanto, il partito corrotto e inefficiente faceva parte di un complesso sistema di equilibri, con la corruzione e i vari affarismi che fungevano da collante per tenere insieme un segmento non piccolo della classe dirigente fascista.
Lo squadrismo al potere. La parabola di Roberto Farinacci di Matteo Di Figlia
Il giovanissimo Ettore non si assunse – né poteva, appunto perché giovanissimo e considerando la struttura di una famiglia siciliana – il ruolo di investigatore, di coordinatore, di guida del collegio di difesa. Avrà senza dubbio «meditato» (espressione che ricorre nelle sue lettere quando parla di una qualche difficoltà da superare), sul problema: ma proprio nel porselo come problema è da credere riuscisse a vivere il caso con più distacco e meno ansietà degli altri familiari. Che poi delle sue deduzioni, della sua soluzione del problema gli avvocati si avvalessero è del tutto improbabile. Quasi tutti «principi del foro» – e l’unico che non lo fosse era Roberto Farinacci: ma la sua nullità professionale era ad usura compensata dalla temibilità politica – c’è da immaginarsi con quale freddezza o addirittura spregio avrebbero accolto ogni profano suggerimento.
Così, nel suo La scomparsa di Majorana, Leonardo Sciascia parlava en passant di Roberto Farinacci, individuando nella sua «temibilità politica» il motivo per cui era entrato nel collegio di avvocati che rappresentò la famiglia Majorana in beghe giudiziarie precedenti la scomparsa di Ettore. Quando Sciascia scrisse il libro, pubblicato per la prima volta nel 1975, erano già disponibili un paio di biografie del gerarca, del quale ovviamente si parlava molto anche negli studi generali sul fascismo e l’Italia mussoliniana. Non so, però, se lo scrittore di Racalmuto abbia attinto a questa letteratura storiografica o se invece abbia dato conto di un rumore di fondo, di una memoria del periodo fascista che, sospesa nel pulviscolo dei racconti familiari o dei ricordi personali, era giunta fino all’Italia degli anni Settanta.
Di certo, l’idea che Farinacci si giovasse del suo peso politico anche nella professione di avvocato era diffusa sin dagli anni Trenta. Nella trascrizione di una intercettazione telefonica del 1939 leggiamo, ad esempio, che un avvocato rifiutava il nome di un collega per un patrocinio in Cassazione indicando senza indugio quello di Farinacci: «no; oggi Farinacci supera tutti. Fa annullare in Cassazione certe sentenze che nessuno immaginerebbe mai […], Farinacci supera tutti, ha più influenza». Quest’ascendente era stato costruito nel tempo, attraverso una pervicace prassi volta all’acquisizione di una visibilità strettamente connessa al suo essere considerato leader del fascismo intransigente. Organizzatore delle violentissime squadre cremonesi nei primi anni Venti, assertore di una fascistizzazione completa del paese nel periodo successivo, era stato messo a capo del Partito nazionale fascista dopo la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, ma aveva perso la carica di segretario nazionale un anno dopo (1926). Le ragioni di questo allontanamento erano profonde e avevano a che fare con il conflitto con Benito Mussolini, intento ad attenuare il clima di terrore in cui le squadre avevano gettato il paese. Sui suoi giornali «Cremona nuova» e, poi, «Il Regime fascista», Farinacci non smise mai di auspicare fascistizzazioni feroci dell’establishment italiano, di scagliarsi contro coloro che, giunti al fascismo dopo la marcia su Roma, non potevano a suo dire essere considerati affidabili interpreti delle politiche del regime. Né mancò di lanciare strali contro i suoi avversari fascisti cui attribuiva arricchimenti illeciti, accusandoli di aver tradito la rivoluzione. Ne derivarono continui contrasti col duce, stremato dai suoi richiami moralizzatori e consapevole di quanto lo stesso Farinacci avesse avuto modo di migliorare le sue condizioni di vita:
Quanto alla pezzenteria ed alle fortune – gli scriveva nel 1928 – io non contesto che tu fossi un pezzente nel 1922, ma nego nella maniera più recisa che tu sia rimasto un pezzente anche nell’anno di grazia 1928 – sesto del regime Stop. I veri pezzenti non vanno in automobile e non frequentano alberghi di lusso Stop. La demagogia del falso pezzentismo mi est odiosa come l’esibizionismo pescecanesco Stop.
Lo stesso concetto gli veniva ribadito da altri gerarchi: «io ora vado in automobile – gli disse Leandro Arpinati in una agitata riunione svoltasi poco tempo dopo –, ho la serva, tutte cose che prima non avevo. […] Ho una posizione sociale che prima non avevo e che mi permette un determinato tenore di vita. Tu stesso che fai l’avvocato io credo che tu non pensi che saresti diventato il grande avvocato Farinacci se non fossi l’ex segretario del partito».
Oltre che ergendosi a paladino dell’intransigentismo, però, Farinacci si difendeva mettendo insieme dossier sui suoi avversari, dai quali potevano evincersi malefatte e illeciti su cui costruire questioni morali
Gli autori
Paolo Giovannini
Paolo Giovannini insegna Storia contemporanea all’Università di Camerino. Ha studiato la storia sociale della psichiatria, del movimento cattolico e del fascismo. Tra le sue pubblicazioni, La prima democrazia cristiana. Progetto politico e impegno culturale (Edizioni Unicopli 2014), La psichiatria di guerra. Dal fascismo alla seconda guerra mondiale (Edizioni Unicopli 2015) e Un manicomio di provincia. Il San Benedetto di Pesaro (1829-1918) (Affinità Elettive 2017).
Marco Palla
Marco Palla ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Firenze. Ha studiato a lungo il periodo 1914-1945 e ha pubblicato, tra l’altro, Firenze nel regime fascista 1929-1934 (Olschki 1978), Fascismo e Stato corporativo (Franco Angeli 1991) e Mussolini e il fascismo (Giunti 1993). Ha curato volumi sullo Stato fascista, la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, l’antifascismo a Prato e la storia della Resistenza in Toscana.
RECENSIONE– Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA
IL FASCISMO DALLE MANI SPORCHE-
Dittatura, corruzione, affarismo
Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA
-Quaderno 4103 -pag. 517 – 518-Anno 2021-Volume II
La storiografia relativa al Ventennio mussoliniano ha considerato a lungo i temi dell’affarismo e della corruzione tutto sommato marginali. Le prime ricostruzioni generali del periodo non si occuparono affatto di questi argomenti, ma un gran numero di contributi più recenti ha messo in rilievo come simili fenomeni non abbiano caratterizzato solo il tardo fascismo, ma siano stati presenti anche in quello degli inizi e, rispetto allo Stato liberale, in una forma addirittura più estesa. Il quadro di insieme è apparso dunque caratterizzato da truffe, tangenti, legami con la mafia, arricchimenti rapidi e inspiegabili; quella di Mussolini fu, quindi, tutt’altro che una «dittatura degli onesti».
È quanto viene documentato in questa raccolta di saggi curata da Giovannini e Palla, ai quali va riconosciuto il merito di aver illustrato in maniera esauriente il nesso tra politica e affari, nonché quanto la prima componente di questo legame sia stata decisiva nell’agevolare il successo della seconda. Detto altrimenti: il regime che intendeva forgiare un «uomo nuovo» e correggere nel contempo le storture dell’Italia post-unitaria vide al contrario estendersi a macchia d’olio il malaffare, che raggiunse il cuore delle istituzioni statali.
Nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo durante l’epoca fascista vi fu insomma un vero e proprio «salto di qualità»: una dinamica in grado di spiegare i successi e la notevole accumulazione di ricchezze che riuscirono a realizzare alcuni tra i protagonisti della scena economica e finanziaria di quegli anni: da Giuseppe Volpi, magnate dell’industria elettrica privata, al generale Ugo Cavallero, presidente dell’Ansaldo, fino all’imprenditore Alberto Pirelli.
Le cosiddette «mani sporche» furono però anche quelle di alcuni esponenti di primo piano del regime, come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza e il giovane pesarese Raffaello Riccardi, ai quali occorre aggiungere una miriade di «pesci piccoli» che, dopo la conquista dell’Africa orientale, ricercarono occasioni propizie nelle colonie, provando a «oliare» le ruote giuste.
Una pratica, quella della corruzione, della quale lo stesso Mussolini era pienamente consapevole, tanto da dedicare costanti attenzioni – mediante l’attività della censura e della propaganda – al suo occultamento. Così, da un lato, venne elaborato un «discorso pubblico» finalizzato a indicare nell’ormai consolidato regime fascista l’unico elemento moralizzatore presente nel sistema istituzionale italiano e, dall’altro, rimase costante la disponibilità del Duce a coprire scandali e ladrocini.
Frutto di un’attenta consultazione dei fondi conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, questo volume sfata dunque il mito della presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e, in parte, del suo sistema dittatoriale: un’immagine rimasta però curiosamente nella memoria di molti e che si sarebbe riaffacciata verso la fine del secolo, quando avrebbe preso piede la tendenza a contrapporre un sistema democratico ormai screditato a un regime che sarebbe rimasto invece sostanzialmente immune dalla corruttela affaristica. Osservano al riguardo i due Curatori: «Da Tangentopoli nel 1992 a oggi […], è parso più credibile, agli occhi di una parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal “cono d’ombra” delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi» (p. VII).
È pertanto probabile che molti contributi forniti dalla storiografia non siano purtroppo riusciti a trovare gli opportuni canali di diffusione nell’ambito della cultura di massa né dei vari ordini e gradi nei quali si articola l’insegnamento scolastico.
RECENSIONE–il manifesto
Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo a cura di PAOLO GIOVANNINI – MARCO PALLA Roma – Bari, Laterza, 2019, 272, € 22,00.
Titos Patrikios-Le parole nude-Antologia con testo greco a fronte-
Editore Interlinea-Novara
Testi di Giovanni Conte-Traduttore Katerina Papatheu
DESCRIZIONE –
Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti europei attuali, nato ad Atene nel 1928, ha partecipato alla resistenza, durante l’occupazione nazifascista, rischiando l’esecuzione, e alla guerra civile. Mandato al confino durante i regimi di destra che si sono avvicendati fino al 1974, è sopravvissuto alla brutalità delle due guerre e della polizia e alle torture, grazie a una scrittura assidua, febbrile, incessante. È un poeta che s’interroga, e il suo verso è un sentiero ritmico che protrae quasi all’infinito il suo sentire, è un percorso della memoria che può riempire i vuoti della vita. “Nessun verso oggi può rovesciare i regimi /[…]/ se non per sollevare un angolo di verità”. A questo servono appunto i poeti, perché “a un certo momento scelgono, denunciano, sperano, / chiedono /[…]/ passando in rassegna le cose già accadute / la poesia cerca risposte / a domande non ancora fatte”. Edizione, con inediti, a cura di Katerina Papatheu, con una nota di Giuseppe Conte.
Titos Patrikios
Biografia di Titos Patrikios
Titos Patrikios, figlio di due noti attori del teatro greco, è nato ad Atene nel 1928. Durante l’occupazione nazifascista ha partecipato alla Resistenza e nel 1944 ha rischiato l’esecuzione. Dal 1951 al 1954 è stato confinato nelle isole di Makrònissos e di àghiostratis, e dal 1954 al 1959 ha vissuto ad Atene come «confinato in congedo». Laureato in Giurisprudenza all’Università di Atene, è diventato avvocato, lavorando anche come giornalista. Molto attivo nel campo culturale, è stato, nel 1954, fra i fondatori dell’importante rivista letteraria “Epitheòrisi Technis”. Dal 1959 al 1964 è stato a Parigi dove ha studiato Sociologia e Filosofia a l’école des Hautes études e ha lavorato come ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique. Nel 1967, all’avvento della dittatura dei colonnelli, sfuggendo all’arresto, lascia la Grecia e vive a Parigi, dove lavora come consulente all’Unesco, e a Roma, dove lavora alla FAO. Dal 1976 vive ad Atene.
Dopo l’esordio come poeta nel 1943 sulla rivista studentesca “Xekìnima tis Niòtis”, la sua prima raccolta di versi, Strada sterrata, risale al 1954. Seguirono le raccolte Apprendistato (1963), Fermata a richiesta (1975), Poesie, I (1976), Mare promesso (1977), Controversie (1981), Specchi a fronte (1988), Deformazioni (1989), Apprendistato, ancora (1991), Il piacere delle dilazioni (1992), Poesie I, II, III (1988), La resistenza dei fatti (2000), La Porta dei Leoni (2002), Il nuovo tracciato (2007), Poesie, IV (2007), Brama d’amore che scioglie le membra (2008), La casa (2009), Convivenza col presente (2011), La poesia ti trova (2012). Ha pubblicato anche quattro volumi di racconti e numerosi saggi letterari, sociologici e giuridici. Due suoi libri di sociologia, scritti in francese e tradotti in inglese, spagnolo e russo, sono pubblicati dall’Unesco (1972, 1976) e due altri scritti in inglese e francese sono pubblicati dalla FAO (1970, 1974). Ha tradotto in greco, tra gli altri, testi di Spinoza, Lukàcs, Hannah Arendt, Walt Whitman, Majakowskij, Neruda, Saint-John Perse, éluard, Aragon, Brecht, Balzac, Stendhal, Valéry. Sue poesie sono state pubblicate in tutti i paesi europei e in Messico, Cile, Brasile, Egitto, Marocco, Cina. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia (Altérations, Parigi 1991; Apprentissage, Parigi 1996); due in Germania (Spiegelbilder, Colonia 1993; Das Hans, Berlino 2010). Un’antologia di suoi versi è pubblicata negli Stati Uniti (The Lions’ Gate, 2006). Un’ampia antologia delle sue poesie tradotte in italiano da Nicola Crocetti, La resistenza dei fatti, è uscita nel 2007 in Italia da Crocetti Editore. Interlinea ha pubblicato le due antologie con testo greco a fronte La casa e altre poesie (tradotto dallo stesso Crocetti, nel 2009) e Le parole nude nel 2013.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios in Italia si ricorda il Premio Brancati, Zafferana Etnea 2007, Premio Letterario Internazionale l’Aquila-Carispac 2009, Premio internazionale di Poesia Civile di Vercelli 2009, Premio Feronia Città di Fiano 2011. Nel 2004 il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
« C’est le livre que j’aurais voulu écrire. » Giorgio Bocca (ancien partisan,reporter, cofondateur de La Repubblica)
Résumé
Paru chez Einaudi en 1962 et régulièrement réédité depuis, La Guerre des pauvres fait revivre, à partir du journal tenu par l’auteur, un chapitre héroïque méconnu de l’histoire de l’Italie, depuis la campagne de Russie (il s’engage en juillet 42) jusqu’à la Libération (Cuneo est libérée fin avril 45). Officier du corps expéditionnaire italien sur le front de l’Est dans la division Tridentina, Revelli raconte l’immense défaite et la retraite tragique qui, à la suite de la contre-offensive russe sur le Don, jettent à travers la steppe gelée des dizaines de milliers d’hommes, dont peu survivront. Après, écrit-il, sa vie ne sera plus la même. Quittant l’armée, il prend les armes dans le maquis des Alpes et mène au jour le jour, comme chef partisan puis en tant que commandant de l’une des brigades antifascistes Giustizia e libertà, un autre combat – contre les détachements mussoliniens de la République de Salò et contre les troupes hitlériennes. Au fil des jours et des pages de ce livre-vérité s’affirment la cohérence d’un destin individuel, la dignité des humbles pris dans la folie absurde de l’histoire, la force du témoignage sur « la guerre vue d’en bas ». Portées par une prose sèche et abrupte, une écriture blanche de mémorialiste qui s’invente en marchant et en luttant, loin de la rhétorique du combat ou du sentiment.
Entre Le Sergent dans la neige de Mario Rigoni Stern (1953) et La Guerre sur les collines de Beppe Fenoglio (1968), une autre voix s’élève, qui confère à ces antimémoires de guerre la dimension d’une épopée.
Traduction et annotation d’Angela Guidi et Lucie Marignac
Préface d’Éric Vial
Postface d’Emmanuel Laugier
Inédit en français
De Nuto Revelli ont été traduits : Le Monde des vaincus, Maspéro, 1980 ; Le Disparu de Marburg, Rivages, 2006 ; Les Deux Guerres. Guerre fasciste et guerre de libération, ICIP, 2020.
Photographie de couverture : Jean Gaumy, 2008
Nuto Revelli.
L’auteur
Né et mort à Cuneo, dans le Piémont, profondément attaché à ces montagnes qu’il arpenta en chasseur alpin, puis comme partisan après l’armistice du 8 septembre 1943, Nuto REVELLI (1919-2004) est l’une des grandes figures de la Résistance italienne. Son œuvre d’écrivain (il publie dix livres entre 1946 et 2003) s’enracine tout entière dans son expérience de la guerre et dans sa connaissance intime des paysans pauvres du Piémont.
Le préfacier
Éric VIAL, professeur d’Histoire contemporaine à l’université de Cergy-Pontoise, est spécialiste de l’histoire de l’Italie auXXe siècle, en particulier de l’émigration italienne en France. Il a notamment publiéLa Cagoule a encore frappé – L’assassinat des frères Rosselli2010), De Gaulle. Portrait-mosaïque(2017) et dirigéJean Moulin, l’âme de la Résistance(2012). Rue d’Ulm, il a traduit et présenté des textes de Piero Gobetti,Libéralisme et révolution antifasciste(2010), puis l’ouvrage de Sabino Cassese,L’Italie, le fascisme et l’État(2014).
Le postfacier
Essayiste, critique littéraire et poète, Emmanuel LAUGIER est né en 1969 au Maroc. Son premier livre, L’œil bande, paraît en 1996 (rééd. 2016). Suivent une quinzaine de recueils dans lesquels il explore la synthèse entre espaces mémoriels et expérience du présent. Il s’emploie à restituer une disparité de perceptions et d’informations dans l’oscillation d’une écriture en rupture constante de rythme. Aux éditions Nous, il a publié en 2020 Chant tacite.
Nuto Revelli
Sommaire
Préface De Modène à Paraloup, par Éric VIAL
Note de l’auteur
Préambule
La retraite sur le front russe. 16 janvier-10 mars 1943
Le retour en Italie. 17 mars-26 juillet 1943
La guerre de partisan. 8 septembre 1943-27 août 1944
En France avec la brigade Carlo Rosselli. 28 août 1944-23 avril 1945
Italie. La libération de Cuneo. 24-29 avril 1945
Notes
Postface Le présent crénelé de l’action, par Emmanuel LAUGIER
Ci sono importanti celebrazioni a Milano e in Lombardia per i 150 anni dalla morte di Manzoni, il grande scrittore che segnò un’epoca della nostra storia letteraria (Alessandro Manzoni è morto il 22 maggio 1873). Con I Promessi Sposi, è infatti colui che ha portato nelle nostre lettere il romanzo storico in auge in Europa nell’Ottocento e lo ha reso letteratura popolare e non solo destinata alle elite.
Articolo di Carmelina Sicari –Il rigore con cui Manzoni si preparò a questa impresa è noto, per una serie di saggi paralleli tra cui La storia dellacolonna infame, nota anche la cura linguistica che lo ha portato a redigere ben tre edizioni dei Promessi Sposi con la cosiddetta edizione ventisettana, del 27 appunto, che è fondamentale per comprendere il lento evolversi del testo finale.
Ma il piano della storia intesa alla maniera romantica come l’angelus novus secondo l’espressione di Benjamin che animava le lettere, è minacciato da ben tre insidie: Clio, la musa della storia cadeva nell’eccesso di erudizione, Talia, musa della satira, dettava talora un’ironia incontenibile e stridente ed Euterpe, musa della morale, un moralismo gravoso. Russo appunto ricorre lui, che è tra i lettori più autorevoli del Manzoni, alla metafora delle tre muse.
Ma c’ è un’altra insidia che germina all’interno dell’opera, la Provvidenza. Se l’erudizione dilata lo spazio delle grida in modo spropositato all’inizio del romanzo, elementi di profonda riflessione attraverso le cronache sui fatti di Milano e sulla peste si trovano nel cuore dell’opera e contribuiscono notevolmente all’intelligenza degli avvenimenti. Così la cronaca del Ripamonti (La peste di Milano del 1630), l’accenno alle relazioni del Settala. Ed è altrettanto vero che il moralismo deturpa talora la narrazione con interventi ingiustificati e così l’ironia. Ma da questi vizi lo scrittore trae alimento per pagine sublimi.
La descrizione della peste è tra le più alte pagine della letteratura mondiale con la figurazione dei monatti ma anche con l’intensità drammatica della narrazione e l’ironia suggerisce la figurazione immortale del sentimento del contrario in don Abbondio, eroe della paura. Il coraggio uno non se lo può dare, obietta al cardinale che gli parla da eroe del coraggio con una frase che resta immortale.
Ci sono pagine dettate dalla presenza della provvidenza che ispira pietà che è il fondamento dell’umanità. Le pagine del perdono che hanno come protagonista padre Cristoforo hanno una profonda epicità mentre quelle di Cecilia sono dominate da un intenso tono elegiaco. L’uomo vecchio duella nella scena del perdono con il nuovo ma è destinato a soccombere. L’orgoglio, lo spirito dominante del tempo, viene vinto dal senso profondo di umiltà. La solennità nel brano della madre di Cecilia (cap. XXXIV), dall’incipit Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…. ci dice l’elemento di profonda pietà elemento virgiliano del pianto delle cose.
Il piano della storia dunque inficiato e corroso da moralismo, ironia e erudizione, tuttavia si apre ad effetti artistici altissimi. La provvidenza, ossia l’intervento dell’alto nelle vicende terrene sembra comprometterne l’autonomia ma anche qui si aprono sprazzi di grande potenza narrativa come il canto dell’anima che è l’addio ai monti (cap. VIII) o la notte dell’innominato (cap. XXI) con una profondità drammatica che giunge ad altezze tragiche. Lucia costretta ad abbandonare quanto le è caro, effonde in espressioni liriche altissime il suo pianto. L’innominato, roso dal sentimento profondo di colpa, passa in rassegna la sua vita disperatamente e poi il popolo rivisitato in senso cristiano della storia non è quello romantico, ha subito una metamorfosi profonda Nel rapporto umili-potenti, questi ultimi vengono giudicati a seconda di come si comportano con i primi.
Certo lo scrittore fu oggetto, come Napoleone, l’eroe del 5 Maggio, di immensa invidia e di pietà profonda, di sconfinato amore e di altrettanto astio. L’irrisione carducciana è pari all’accusa di paternalismo di Gramsci o a quella di aridità di Moravia. Carducci beffeggia il manzonismo degli stenterelli. Gramsci trancia implacabile un giudizio di moralismo ne I quaderni dal carcere e Moravia titola il romanzo I Promessi sposi: “Il romanzo d’amore senza amore”.
Ancor oggi ci sono ammiratori e detrattori ma il genio di Manzoni resta incontrastato. Niente può scalfire la gloria del romanziere se all’anniversario della sua morte, lo stesso Presidente della Repubblica interviene
La sua fu vera gloria.
Alessandro Manzoni
Carmelina Sicari
Autrice dell’Articolo-Carmelina Sicari è stata Dirigente Scolastico del Liceo Classico di Melito Porto Salvo e dell’Istituto Magistrale di Reggio Calabria. Si occupa da tempo di letteratura contemporanea e di semiotica con opere su Pirandello e sull’Ariosto. Ha collaborato a molte riviste letterarie tra cui Studium, Persona, Dialoghi… Ha all’attivo numerose pubblicazioni su La canzone d’Aspromonte, Leopardi e il Novecento letterario. Continua a sostenere nel presente il Movimento culturale Nuovo Umanesimo di Reggio Calabria di cui è stata ideatrice.
Les Éditions de la Découverte viennent de publier une étude, L’œuvre-vie d’Antonio Gramsci, que l’on peut considérer comme la plus complète et la plus actuelle en français sur la biographie et l’œuvre du philosophe italien Antonio Gramsci (1891-1937), l’un des penseurs majeurs et des plus convoqués du marxisme.Membre fondateur du Parti communiste italien, dont il fut un temps à la tête, il est emprisonné par le régime mussolinien de 1926 à sa mort. Les auteurs, Romain Descendre et Jean-Claude Zancarini, sont deux enseignants de l’École Normale Supérieure de Lyon, où ils animent depuis dix ans un séminaire d’études consacré à Gramsci et ses 33 Cahiers de prison. L’Œuvre-vie aborde les différentes phases de son action et de sa pensée – des années de formation en Sardaigne et à Turin jusqu’à sa mort le 27 avril 1937, en passant par ses activités de militant communiste et ses 11 années d’incarcération dans les geôles fascistes – en restituant leurs liens avec les grands événements de son temps : la révolution russe, les prises de position de l’Internationale communiste, la montée au pouvoir du fascisme en Italie, la situation européenne et mondiale de l’entre-deux-guerres. Grâce aux apports de la recherche italienne la plus actuelle, cette démarche historique s’ancre dans une lecture précise des textes – pour partie inédits en France –, qui permet de saisir le sens profond de ses écrits et toute l’originalité de son approche.
Antonio Gramsci
Analysant en détail la correspondance, les articles militants, puis les Cahiers de prison (I Quaderni) du révolutionnaire, cette biographie rend ainsi compte du processus d’élaboration de sa réflexion politique et philosophique, en en soulignant les leitmotive et en restituant « le rythme de sa pensée en développement ».
Au fur et à mesure que Gramsci progresse dans la rédaction des Cahiers, écrivent les auteurs, il comprend que la “philosophie de la praxis” a besoin d’outils conceptuels nouveaux, philosophiques et politiques à la fois, et il se charge de les inventer et de les faire évoluer au cours de son existence : «hégémonie», «guerre de position», «révolution passive», «classes subalternes». Autant de concepts qui demeurent utiles pour penser aujourd’hui encore notre propre monde «grand et terrible».
Evolena
LE LIVRE: L’œuvre-vie d’Antonio Gramsci, de Romain Descendre et Jean-Claude Zancarini Editions La Découverte
La Grande Guerra non è stata un’esperienza omogenea per la popolazione civile. Nella cosiddetta “zona di guerra”, a ridosso dei fronti di combattimento, le donne subirono in anteprima gli effetti di una guerra totale: bombardamenti e devastazioni, commistione con le truppe, requisizioni, violenze, stupri, evacuazioni e profugato. Il coinvolgimento nelle vicende belliche accentuò il loro ruolo di vittime, ma stimolò anche per converso un protagonismo più attivo con l’assunzione di ruoli e incarichi rilevanti sul fronte interno. Il libro analizza questi diversi aspetti, mettendo a fuoco le ripercussioni sulla vita quotidiana, il dibattito politico, la mobilitazione delle donne, l’attività dei Comitati di assistenza civile, il ruolo e l’azione di alcune figure di protagoniste. Il quadro che ne emerge, per alcuni versi inedito, mostra una realtà a lungo oscurata nella ricostruzione delle memorie, aggiungendo un tassello importante alla storia della Grande Guerra in una prospettiva di genere.
INDICE
Nadia Maria Filippini, Introduzione
I. Su diversi fronti: passaggi e figure
Maria Teresa Sega, Senza pace. La guerra divide il movimento delle donne
Liviana Gazzetta, Battaglie ideologiche. La mobilitazione cattolica femminile
Stefania Bartoloni, I molti fronti di Elisa Majer Rizzioli, infermiera della Croce rossa italiana
Simonetta Soldani, La guerra di Ernesta Bittanti, moglie e vedova del “martire” Battisti
II. Eventi e luoghi
Bruna Bianchi, Vivere a Venezia durante la guerra. Le donne, la povertà, il trauma, la protesta
Nadia Maria Filippini, Le donne nei Comitati di assistenza civile
Annamaria Longhin, L’associazionismo cattolico femminile tra azione sociale e pratica religiosa
Franca Cosmai, Le portatrici carniche e cadorine: una peculiare forma di mobilitazione femminile nella zona di guerra
Daniele Ceschin, Dopo Caporetto: donne in fuga e vittime di violenza
Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989
Prefazione di Anna Foa-Editori Laterza
Epilogo
La distanza che vi è tra voi e il vicino che non vi è amico è in verità più grande di quella che è tra voi e la persona che amate e che vive al di là delle sette terre e dei sette mari. Giacché nel ricordo non vi sono lontananze; e nell’oblio vi è un abisso che né la voce né l’occhio potranno mai accorciare.
Kahlil Gibran-Il giardino del profeta, 1933
DESCRIZIONE
L’eclisse dell’antifascismoracconta l’intreccio tra storia italiana, paradigma antifascista e memoria della Resistenza e della Shoah. È in questo contesto che il mondo ebraico del dopoguerra ha assunto un ruolo di protagonista della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia. I percorsi che questo volume segue sono tre: la storia politica del nostro Paese, la memoria della Resistenza e del fascismo e la memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato contribuendo a forgiare l’Italia democratica. Un paradigma quello antifascista – e il suo uso politico – non privo di conseguenze anche nell’oggi.
Pilastro della narrazione de L’eclisse dell’antifascismo è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.
AUTORE
Manuela Consonni insegna alla Hebrew University of Jerusalem al Dipartimento di storia ebraica.Si occupa di storia contemporanea europea ed ebraica, di studi della Shoah, di memoria e testimonianza, e di studi di genere. Tra le sue pubblicazioni va ricordato il libro apparso in ebraico nel 2010 per la Magnes University Press,Resistenza or Shoah: The History of the Memory of the Deportations and Extermination in Italy, 1945-1985.
Prefazione di Anna Foa
È un libro, questo di Manuela Consonni, che farà probabilmente discutere. Perché tocca temi tuttora scottanti del nostro dibattito storiografico e politico, e lo fa senza aderire a nessuno degli schieramenti esistenti.
L’autrice, storica dell’Università di Gerusalemme, propone un’interpretazione originale del modo con cui il nostro Paese ha costruito, fin dalla liberazione, il paradigma interpretativo della sua storia, quello antifascista. Un paradigma che, pur senza mai essere completamente rigettato e nemmeno rimesso formalmente in discussione dalla politica, si è trasformato in un paradigma essenzialmente culturale. A sostegno della sua tesi, Consonni analizza minuziosamente la memorialistica resistenziale e della deportazione, sottolineando il ruolo della memoria e della questione ebraica nella costruzione di quella che potremmo chiamare “l’ideologia della Repubblica”.
Per Consonni, fin dai primi anni i partiti della Repubblica hanno preferito non fare un serio bilancio del passato, rimuovendo le responsabilità del fascismo e del regime di Salò, e affrettandosi a gettare esclusivamente sui nazisti le colpe di quanto era accaduto. Con l’amnistia varata da Togliatti allo scopo di promuovere l’inserimento del Partito comunista nell’area della politica di governo, si posero tutte le premesse per la debolezza politica del paradigma antifascista, presto ridotto a pura retorica celebrativa e relegato nella sfera della cultura. La memorialistica ha sostanziato l’antifascismo culturale, il ricordo dei campi nazisti ha portato il mondo ebraico a partecipare dell’etica resistenziale, mentre sul piano politico la Guerra Fredda ha reso l’antifascismo sempre più un fenomeno di opposizione, appartenente esclusivamente alla sinistra. Con cambiamenti e cesure, naturalmente.
La nuova resistenza dei ragazzi degli anni Sessanta lo ha riportato in auge, insieme a quelle che apparivano come aperture del centro-sinistra, mentre successivamente il richiamo strumentale delle Brigate Rosse alla Resistenza ha posto le basi per il suo declino. Nel frattempo, la memorialistica ha ricostruito la questione ebraica isolandola rispetto alla Resistenza, e rompendo quel legame strettissimo tra ebrei e sinistre, tra ebrei e lotta contro il nazifascismo, che aveva caratterizzato i primi decenni dopo la liberazione. La Shoah, così come si è andata costruendo a livello memoriale dagli anni Settanta in poi, nella sua unicità e nella sua separazione dalla Resistenza, alienata – potremmo dire – dalla storia e dalla percezione degli ebrei italiani, ha contribuito forse anch’essa, in qualche misura, all’eclisse dell’antifascismo, o perlomeno alla sua monumentalizzazione. E anche la storiografia, fino ai primi anni Settanta ancora intenta a ricostruire il fascismo e la Resistenza all’interno di questo paradigma, ha cominciato a fornire interpretazioni diverse.
L’analisi che Manuela Consonni dedica all’intervista di Renzo De Felice sul fascismo si inserisce in questo quadro, ma sembra mettere tra parentesi gli aspetti maggiormente accolti in questo vivace dibattito: quelli sul consenso. In realtà, il rifiuto del consenso fa parte del paradigma antifascista e della sua volontà di dimostrare che la maggioranza degli italiani non aderì veramente al fascismo ed è quindi monda da colpe. Ne rappresenta però anche il punto debole: di lì vengono la rimozione delle leggi razziali, durata fin quasi agli anni Novanta nella società e nella cultura del nostro Paese, quella delle colpe di Salò, e il mito del buon italiano. Solo che fino ad un certo momento questa lettura storiografica è stata parte del paradigma antifascista, mentre una nuova interpretazione “revisionista” contribuisce a minarne la credibilità.
Manuela Consonni costruisce la sua argomentazione sul nesso tra la duplice elaborazione memoriale – quella della Resistenza e quella della deportazione ebraica – e la cultura politica italiana. Questo nesso fa emergere anche la singolarità del percorso italiano, naturalmente ancorata nella storia del nostro Paese, nel ventennio fascista, nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, nel complesso rapporto tra la liberazione ad opera degli angloamericani e la Resistenza armata.
Ma tale singolarità emerge anche nel tipo di bilancio storico e memoriale che in Italia viene fatto del periodo fascista e del periodo della deportazione, non solo degli ebrei, evidentemente, ma anche dei politici e dei militari (come quella assai meno nota dei carabinieri).
Un altro aspetto interessante del percorso tutto italiano è rappresentato dalla mole di libri, scritti, memorie, che dalla fine della guerra in poi, con modalità diverse ma pressoché ininterrottamente, continuano ad essere pubblicati, contrariamente all’immagine di un lungo silenzio affermatasi quasi unanimemente nella storiografia. Una messe di scritti che in queste pagine vengono riportati alla luce, ricostruiti, ricollocati nel loro contesto, in quel che rappresenta uno dei risultati più innovativi di questo volume.
Le ragioni del declino, della eclisse di questo paradigma fondante sono, come sempre accade, innumerevoli: il contesto internazionale, con la fine della Guerra Fredda e poi la caduta del comunismo, ne rappresenta probabilmente la ragione primaria, forse anche perché il paradigma antifascista ha rappresentato per molto tempo un fattore di impedimento, per la sinistra italiana non comunista, nel denunciare i misfatti del cosiddetto “comunismo reale”. Come ci si poteva schierare contro l’Unione Sovietica, che a Stalingrado aveva salvato il mondo dalla barbarie nazista, che aveva liberato Auschwitz? Rinunciando al comunismo non si finiva forse per approdare nelle braccia del fascismo? I pochi che lo hanno fatto sono assurti al ruolo di eretici a tutte le religioni, a tutte le politiche.
La strumentalizzazione del paradigma antifascista lo ha però svuotato del suo significato: rendendolo retorico e condivisibile da chiunque – sostiene Consonni –, ne ha determinato le debolezze e poi la caduta. Certo, c’erano in gioco esigenze anche importanti della politica, per esempio quella di fingere un’Italia tutta antifascista per potersi sedere al tavolo dei vincitori anziché a quello dei vinti. Ma c’erano anche, purtroppo, la continuità della macchina statale fascista, del potere giudiziario, la difficoltà di riparare alla vergogna delle leggi razziali, la strumentalità stessa con cui si sono usati gli ebrei e la questione ebraica, come dimostrano le lucide e premonitrici pagine di Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, qui analizzate con particolare finezza. Il rifiuto degli ebrei di separarsi, inizialmente, dalla Resistenza, la loro esigenza di presentarsi come italiani e combattenti (e tutti sappiamo quanti di loro hanno ingrossato le file della guerra di liberazione) ha una ragione di più in questa strumentalizzazione da parte di chi, dopo aver dato la caccia agli ebrei, era pronto ad usarli per sbiancarsi le mani.
Il libro di Manuela Consonni pone questi e molti altri problemi, lascia spazio al dibattito sulle questioni irrisolte, ne apre molte che pensavamo chiuse, invita ad affrontarle dal punto di vista storico e politico. A patto di non dimenticare ancora una volta che la rimozione e la cancellazione del passato sono tra le tendenze italiane più diffuse, quasi una sorta di caratteristica nazionale.
D’altronde le svolte, nel nostro Paese, comportano sempre la rimozione, come abbiamo visto e continuiamo a vedere anche nell’Italia di oggi. E questa è forse la ragione che le rende tanto fragili.
Dicembre 2014
Introduzione
L’eclisse dell’antifascismo intende percorrere la storia del “paradigma antifascista”, cioè dell’antifascismo eretto ad asse portante e idea fondante della Repubblica italiana, dalla sua nascita al suo declino. Il suo sottotitolo, Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, spiega la struttura non sistematica del testo che, sebbene organizzato in tre parti, dedicate ciascuna ad un periodo diverso di questa storia – il periodo dal 1943 al 1948, quello tra il 1948 e il 1967, quello infine che copre gli anni Settanta ed Ottanta fino alla dissoluzione del mondo comunista, iniziata dalla Perestrojka di Michail Gorbaëv nel 1987, ma iscritta nella memoria storica europea dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 – procede per biopsie storiche, che abbracciano dibattiti politici e storiografici, la stampa, specifiche riviste, molte recensioni, innumerevoli memorie. Le diverse fonti si alternano nella discussione accentuando ora alcuni aspetti ora altri, tutti però convergenti nel sottolineare come l’antifascismo, nella sua storia e nella sua cultura, sia stato il momento più alto, di maggiore tensione ideale e morale che l’Italia repubblicana abbia mai vissuto.
Il libro si sostanzia attraverso l’intreccio di tre percorsi: quello della storia politica del nostro Paese, quello della memoria della Resistenza e del fascismo e quello della memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. Il fatto di trattare simultaneamente la politica e la cultura politica antifascista (includendo in quest’ultima il descritto dibattito memoriale) mette in una luce diversa, rispetto a quanto finora accettato, lo stretto legame tra l’antifascismo e la sua cultura e la deportazione politica e lo sterminio ebraico in Italia, fra italiani ed ebrei italiani, distinguendo il momento della scrittura da quello della sua recezione nel tempo. Nel volume, inoltre, si intende mostrare come il mondo ebraico del dopoguerra assuma sin dall’inizio un ruolo autonomo, di protagonista politico della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia.
Pilastro della narrazione è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, ne rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.
L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato cha ha contribuito a forgiare l’Italia democratica. Esso è l’ideologia di quanti, nel 1945, si impegnarono a ricostruire l’Italia e a darle un posto accanto alle nazioni che avevano sconfitto il nazifascismo, consentendo, pur nelle forti differenze ideologiche, a partiti disparati e divisi di formare coalizioni di governo e di iniziare l’opera di ricostruzione di un Paese distrutto, materialmente e moralmente, dalla guerra fascista, dalla deportazione e da una terribile occupazione. Esso costruisce, in altre parole, le coordinate istituzionali e politiche su cui si regge la difficile e dolorosa transizione dal fascismo alla Repubblica. Una repubblica sorta sull’alleanza dei partiti usciti dalla lotta di liberazione, il cui schema interno riflette, in modo profondo, il carattere d’emergenza dell’ampia alleanza antifascista tra le due grandi potenze, gli Usa e l’Urss, che avevano cooperato alla sconfitta del nazismo e del fascismo. Tale alleanza era fondata su due concezioni diverse dell’antifascismo che esprimevano, a loro volta, visioni discordanti dell’interpretazione del passato: per gli americani e i loro alleati occidentali la lotta contro il fascismo era stata una lotta della democrazia contro le forze oscure che avevano violato la pace e perpetrato crimini di guerra e reati contro l’umanità; per i sovietici, invece, la chiave di lettura era costituita dall’opposizione del binomio fascismo/antifascismo: una questione di natura ideologica, quindi.
Il processo di Norimberga riassume perfettamente nella sua conduzione e nei suoi esiti la tensione tra questi due poli narrativi. In Italia, dove la narrazione storica non fece proprio il linguaggio giuridico dei processi – perché non ce ne furono, almeno non nella stessa misura della Francia o delle due Germanie –, e dove la guerra di liberazione e i suoi morti erano divenuti il passato su cui ricostruire il Paese, si generò più che nelle altre nazioni un racconto interamente declinato sull’antifascismo, ma privo del lessico processuale e di una rielaborazione critica del passato fascista.
Con la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti e con la Guerra Fredda il paradigma antifascista si incrina, ma resta comunque al centro della cultura politica e storiografica italiana, pur perdendo efficacia sul terreno dell’alleanza politica allargata. L’antifascismo rimane forte e indiscusso soprattutto nei partiti di sinistra – comunisti e socialisti, ma anche nei partiti laici non marxisti – che lo ritengono centrale per la vita democratica del nostro Paese. Per gli uni e per gli altri esso rappresenta l’idea a cui aggrapparsi per proteggersi dagli attacchi della destra conservatrice. Viceversa, non è tanto l’antifascismo quanto l’anticomunismo a prevalere nell’ideologia politica dei partiti che vincono le elezioni nel 1948, emarginando le sinistre dal governo, mentre l’antifascismo e il suo paradigma interpretativo si spostano al centro della sfera culturale. Cultura e politica iniziano una separazione destinata a durare a lungo, il cui impatto e le cui contraddizioni si trascinano fino ad oggi. Alla radice di questa separazione ci sono anche le debolezze intrinseche alla nascita stessa del paradigma antifascista e al suo uso politico: si rimuovono le colpe del fascismo, privilegiando la continuità dello Stato rispetto alla necessità di fare i conti col passato.
Il paradigma antifascista resta tuttavia parte integrante dell’immagine del Paese che, mentre rifiuta il fascismo, trae dalla memoria della lotta di liberazione la spinta ad appellarsi alle masse contadine ed operaie perché partecipino alla vita democratica e dal ricordo della deportazione politica e dello sterminio ebraico – coltivato grazie ad una vasta memorialistica, senza dubbio la più grande in Europa – ricava la dolorosa consapevolezza di una battaglia ancora aperta, da proseguire perché eventi come quelli occorsi non abbiano a ripetersi.
In tale processo, il timore di un possibile rigurgito del fascismo sembra farsi concreto nel dibattito sia politico che culturale della sinistra, e uno sguardo retrospettivo mostra come questa possibilità fosse percepita come una realtà forte e pericolosa, tanto da far diventare l’antifascismo il cardine di ogni discorso politico-istituzionale e culturale sul passato. La destra democristiana e la destra fascista appaiono, in questo contesto, fenomeni quasi del tutto assimilabili, mentre l’anticomunismo sembra a volte stravolgere anche l’antifascismo, persino quando esso torna a farsi carne e sangue dell’Italia politica, soprattutto a sinistra. Il dibattito sul fascismo si fa, allora, vivace e attento, e la storiografia ne approfondisce gli aspetti sociali, politici, culturali. Il processo ad Adolf Eichmann, tenuto a Gerusalemme nel 1961, è un esempio paradigmatico di questa tensione: esso formalizza infatti, sul piano storico, la morte degli ebrei nei campi di concentramento come resistenza al fascismo, oltre a riempire di nuovi contenuti la memoria dello sterminio ebraico, grazie all’emergere della figura del testimone come suo depositario storico. Va precisato, per il nostro discorso, il cambiamento occorso a causa della guerra dei Sei giorni del 1967, il cui impatto e i cui esiti si protraggono fino ai nostri giorni. La guerra lampo israeliana provoca la rottura dell’alleanza fra una parte del mondo ebraico e la sinistra politica, mettendo in questione l’antifascismo ebraico, mentre si afferma una sinistra filoaraba e antisraeliana, e l’antisionismo si presenta, nella nuova lettura postcoloniale, come il riflesso di una società in cui l’odio verso gli ebrei non ha smesso di riprodursi, ma va in cerca di nuovi attributi su cui sfogarsi.
Successivamente il paradigma antifascista comincia a mostrare i primi segni di logoramento e ad apparire ‘sfalsato’ rispetto alla situazione politica e sociale del Paese. Ad isolarlo politicamente sono dapprima la strategia della tensione e poi il terrorismo con la sua pretesa di portare a compimento una Resistenza incompiuta. Sul piano storiografico è la revisione profonda del fascismo avviata in Italia dall’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice e dal dibattito nato intorno al libro, dieci anni prima che esplodesse la Historikerstreit in Germania, a rendere fragile l’antifascismo ormai incapace di rappresentare ancora un sostegno ideologico efficace dello Stato. Contemporaneamente anche la memoria dello sterminio ebraico prende le distanze da quella della deportazione politica e della Resistenza, caratterizzandosi per un paradigma “vittimologico” che vedrà il suo maggiore sviluppo dopo la dissoluzione del mondo comunista, e che non comprenderà in sé la lotta contro il nazifascismo ma solo i suoi morti ebrei. L’eclisse del paradigma antifascista in Italia precede così il suo tramonto in tutta Europa con il 1989.
Malgrado sia venuto meno il conflitto ideologico tra i custodi dell’ortodossia marxista e i fautori del mondo libero, l’antifascismo rimane tuttavia il luogo privilegiato per reinterpretare e capire l’Italia repubblicana, quella di ieri ma forse e soprattutto quella di oggi, senza ambiguità ideologiche e senza equivoci. Sine ira et studio.
M.C.
Gerusalemme, dicembre 2014
Ringraziamenti
La mia gratitudine va a tutti coloro che mi hanno aiutata, sostenuta, sopportata, consigliata e accompagnata in questo lavoro.
In particolare ringrazio Sara Airoldi, Reuven Amitai, Michele Battini, Avi Bauman, Louise Bethlehem, Giovanni De Luna, Dan Diner, Bettina Foa, Luigi Goglia, Carina Grossman, Carola Hilfrich, Natalia Indrimi, Shulamit Laron, Eli Lederhendler, Manuela Leoni, Giovanni Levi, Stella Levi, Avishai Margalit, Andrea Marinucci, Dario Massimi, Maren Niehoff, Charlette Ottolenghi, Silvio Pons, Pier Paolo Portinaro, Yoav Rinon, Fegie Schwartz, Fiammetta Segrè, Moshe Shlukowski, Dimitri Shumski, Maurizio Tagliacozzo, Mario Toscano.
E poi grazie agli amici delle sere dello shabbat: Sharon e Zeev Tamuz, Ayelet Gross, Shai Zeltzer e Eytan Horowitz.
Un ringraziamento speciale ai miei genitori.
E un altro ancora ad Anna per la sua pazienza, affetto, per i consigli fondamentali e le parole importanti e decisive.
E, poi, ancora un ultimo grazie ad Abed per la costanza e per la saggezza.
I. Il paradigma politico e culturale
Nei primi anni del dopoguerra l’Italia del postfascismo fu dilaniata da una serie di contraddizioni fra le diverse forze che avevano combattuto insieme nella lotta di liberazione. Questa condizione segnò la fine delle speranze in un mutamento politico e sociale radicale, tale da costituire una chiara condanna dell’esperienza fascista, che aveva trascinato il Paese negli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, e l’instaurarsi di una complessa dialettica fra le varie forze in campo.
Possiamo riconoscere alle radici dell’ethos repubblicano e patriottico italiano cinque momenti fondamentali: il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo e l’avvento del governo provvisorio di Pietro Badoglio; l’8 settembre 1943, data dell’armistizio firmato a Cassibile; il 25 aprile 1945, il giorno della liberazione di Milano e quello in cui il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) proclamò ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) e la condanna a morte dei maggiori gerarchi fascisti (tra cui Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato a Dongo tre giorni dopo); il 2 giugno 1946, il referendum istituzionale che segnò il passaggio dalla monarchia alla repubblica; il 1° gennaio 1948, giorno in cui, dopo 18 mesi di lavoro, l’Assemblea Costituente approvò il nuovo testo costituzionale. Il fondamento dei valori che legò insieme queste cinque fasi storiche fu il paradigma antifascista, che legittimò la futura democrazia dall’interno, proponendo da subito la Resistenza come il punto di partenza per la riaffermazione dell’identità nazionale italiana ormai smarrita.
La ricostruzione, basata su questo paradigma, della vita politica e culturale della società italiana fu caratterizzata dalla tensione ideologica tra le diverse forze politiche che avevano sconfitto il fascismo e il nazismo, forze che erano tornate ad essere, dopo la breve e comune parentesi resistenziale, ideologicamente antagoniste e in lotta per il potere. L’alleanza che durante la guerra si era stabilita tra libertà e uguaglianza sociale, tra mondo cattolico e liberale e mondo socialista e comunista, era un’alleanza fra ideologie che si presentavano come interpretazioni universali del mondo, in particolare il cattolicesimo e il comunismo. La loro lotta comune contro il nazifascismo era stata una lotta contro un’ideologia altrettanto universale, che interpretava la storia umana in termini razziali, nel contesto di un biologismo politico e sociale. Finita la guerra, venne meno la necessità storica di tale coalizione e le forze in campo tornarono a confrontarsi nell’arena politica, opponendo il principio della libertà individuale a quello dell’eguaglianza sociale.
Da parte del mondo cattolico e liberale l’antifascismo veniva rivendicato soprattutto in quanto capitale simbolico da utilizzare per il controllo dei poteri politici e istituzionali. L’antifascismo socialista e comunista, da parte sua, si richiamava al modello sovietico e comportava la fedeltà al comunismo, entro cui collocava la sua stessa partecipazione alla Resistenza. Fu la tensione tra questi due poli d’attrazione a caratterizzare il paradigma antifascista. Esso, però, fu non solo il risultato dello scontro ideologico e politico contro il fascismo ma, soprattutto dopo la guerra, anche la forma istituzionale attraverso cui si tentò di risolvere il problema della continuità storica dello Stato dopo il crollo del regime fascista. Alla fine della guerra, si trattava non solo di modificare – all’interno di una sostanziale continuità dello Stato – la forma di governo, ma di rifondare l’unità nazionale e il fondamento dei valori su cui si sarebbe basata la legittimità del potere politico. Se il conflitto tra le forze della Resistenza e il fascismo aveva determinato la sconfitta dello Stato fascista, la marcata divisione fra i partiti vittoriosi rendeva necessario un paradigma comune molto forte.
Come osservò Antonio Baldassarre, il paradigma antifascista, nel suo essere universalmente riconosciuto, delimitò lo spazio all’interno del quale le forze sociali e politiche avrebbero potuto radicare la legittimità del nuovo potere democratico forte. Ma determinarne i confini non significava ugualmente stabilire i motivi della legittimazione stessa. Nella situazione storica dell’immediato dopoguerra, il paradigma antifascista funzionò come sostegno ideale e politico della nuova forma istituzionale. Esso ebbe però bisogno di costruire una sua memoria del passato, dal fascismo alla Resistenza, e di renderla politicamente attiva. In questo contesto, l’assunzione storica e morale di responsabilità collettiva verso il passato della guerra, della deportazione e dello sterminio, e la politicizzazione della memoria determinarono due alternative conflittuali e in competizione, caratterizzate durante il processo di transizione verso la democrazia, ma forse e ancora più nel corso della sua stabilizzazione, dalla permanente tensione tra l’idea di aver chiuso i conti con il passato fascista e la consapevolezza di non aver ancora iniziato a farli.
Visto sotto questo profilo il paradigma antifascista svolse quindi una duplice funzione: rappresentò il legame storico con il passato antifascista utilizzato per costruire il nuovo Stato democratico e il modello che pose le condizioni formali per la legittimazione del nuovo ordine, convalidando il riconoscimento reciproco delle forze politiche in campo. La democrazia avrebbe potuto così ricevere la propria giustificazione istituzionale. Al tempo stesso, fuori dalla politica istituzionale, il paradigma antifascista consentì la costruzione di un epos patriottico e antifascista ancorato, nello specifico contesto della memoria, alla tensione ideologica e di opposizione al fascismo che solo la Resistenza e la guerra partigiana potevano offrire. Questo intreccio fece sì che la memoria divenisse un elemento costitutivo del paradigma antifascista.
Dopo la liberazione di Roma nella primavera del 1944, nel Nord le formazioni partigiane rimasero sole a fronteggiare l’attacco nazifascista. La sollevazione, che si concluse con l’insurrezione armata del 24 aprile 1945, ebbe inizio con lo sciopero del 18 aprile a Torino, che si estese poi a tutte le regioni settentrionali, sicché al loro arrivo le autorità alleate trovarono un’Italia del Nord già in parte libera dai tedeschi. Il moto stesso dell’insurrezione antinazista e antifascista aveva determinato una situazione per molti aspetti ‘prerivoluzionaria’ in tutta l’Italia che si trovava a nord della Linea Gotica, la parte più importante del Paese, sotto l’aspetto industriale. Già dal settembre 1943, nel memoriale steso ad uso interno dell’esecutivo piemontese del Partito d’Azione, Giorgio Diena e Vittorio Foa avevano sottolineato questa condizione di fluidità politica, avevano cioè constatato la finis Italiae e la possibilità di un cambiamento in senso rivoluzionario: “In seguito all’armistizio e alla doppia invasione, l’Italia non esiste più come forza autonoma. Essa è oggi un semplice oggetto di destinazione militare, e se non interverrà un fatto nuovo, essa sarà in avvenire un semplice oggetto di destinazione politica”. Secondo la loro opinione, spettava alle formazioni partigiane la responsabilità di creare un nuovo progetto che, con la sua carica di rinnovamento e di rottura, avrebbe potuto estendersi all’intero Paese, permettendo di dare vita, in assenza di ogni carica istituzionale, a nuove autorità con iniziativa autonoma. Solo a queste condizioni l’Italia avrebbe cessato di essere, oltre che “passivo campo di battaglia”, una “semplice espressione geografica”.
In altri termini, Foa e Diena sostenevano che l’unico modo per impedire all’Italia postfascista di avviarsi verso soluzioni politiche reazionarie, e di diventare un agente passivo nelle mani di forze esterne, era un’iniziativa popolare sotto la guida del Comitato di Liberazione Nazionale: tale iniziativa non solo avrebbe dovuto avere un carattere rivoluzionario, di cambiamento radicale, ma doveva aver luogo in sede precostituente, per spostare i rapporti politici e sociali prima ancora della messa in funzione dei meccanismi costituzionali e legislativi, ed inserirsi nella situazione di assenza o di semicarenza dell’autorità che si sarebbe inevitabilmente ripresentata al momento della ritirata tedesca.
Se ciò non avvenne fu – come affermò Palmiro Togliatti nel discorso tenuto al Consiglio nazionale del Partito comunista il 7 aprile 1945, alla vigilia della liberazione del Nord e dell’ordine di insurrezione alle Brigate Garibaldi – grazie alla scelta politica fatta dal Pci con la svolta di Salerno: “Noi sapevamo benissimo che facendo una politica di unità nazionale entravamo in contatto ed anche in collaborazione con elementi che avremmo dovuto combattere (…), ma sapevamo anche benissimo che le condizioni del nostro Paese, dopo il crollo del fascismo come avvenne il 25 luglio e dopo il crollo di ogni resistenza italiana all’invasore tedesco come si sviluppò l’8 settembre, erano tali nelle regioni già liberate che non esisteva la possibilità di liberarsi da questo contatto. Vi era qualcuno più forte di noi e più forte anche di tutte le forze del blocco democratico che lo impediva”. Togliatti comprese, cioè, l’aspetto ‘esterno’, la collocazione internazionale dell’Italia: “Il quadro politico italiano nella sua lotta antifascista” era stato “assolutamente non rivoluzionario”, era stato quello “di un Paese che a causa del fondersi di elementi più avanzati del capitale finanziario con sopravvivenze feudali” aveva conservato “caratteristiche profondamente reazionarie”.
Nella primavera del 1945, con la liberazione e grazie alla presenza di dirigenti politici usciti dalla Resistenza, sembrò che gli ideali della lotta partigiana fossero finalmente giunti al potere, ma il fallimento immediato del primo governo postfascista, formatosi nel giugno di quell’anno sotto la guida di Ferruccio Parri – personaggio di spicco del Partito d’Azione e celebrato comandante partigiano nella guerra al nazifascismo – e comprendente tutte le forze confluite nel Comitato di Liberazione Nazionale, dimostrò che il contrasto tra apparenza e realtà non avrebbe potuto essere maggiore. La vecchia burocrazia e la grande industria, passate quasi indenni attraverso il fascismo e la guerra, continuavano a rappresentare il tessuto connettivo della società italiana. Conservatrici per formazione, l’una e l’altra erano amareggiate dalla riduzione del loro potere sociale ed economico, e ne attribuivano la colpa non alla guerra provocata dal fascismo bensì alla nuova realtà politica e a quei partiti che avevano assunto la direzione del Paese. Il fantasma dell’epurazione politica le spinse ancora più a destra, contrastando attivamente l’indirizzo preso all’interno del Movimento di Liberazione. Di ciò scrisse lo stesso Parri anni dopo, affermando che nonostante la liberazione l’Italia era rimasta in gran parte lo stesso Paese fascista dei vent’anni precedenti.
La spinosa questione dell’epurazione politica dominava la scena nazionale, con la conseguente necessità di punire i colpevoli dei delitti fascisti, insieme al costante pericolo di un ritorno offensivo del fascismo. Sebbene fosse stato lo stesso Badoglio, nel febbraio del 1944, a creare l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, l’epurazione politica venne accolta con timore e preoccupazione. Il suo fallimento non fece che riflettere il fallimento politico in atto, nonché la rinuncia a un più generale rinnovamento, che avrebbe dato origine a nuove realtà politiche e istituzionali. Un’epurazione di vasta portata avrebbe potuto realizzarsi solo se il fascismo fosse stato riconosciuto come un fenomeno politico e sociale profondamente radicato nella vita italiana e non fosse stato invece considerato, come sosteneva Benedetto Croce, un incidente di percorso, un’improvvisa e nefasta malattia di un corpo sociale per altro fondamentalmente sano. Dietro la rinuncia all’epurazione politica dello Stato stava il tipo di accordo raggiunto nell’aprile del 1944: il re, quello stesso re che aveva chiamato il fascismo al potere, era rimasto al suo posto anche se aveva ceduto le proprie funzioni; il principe ereditario era diventato luogotenente generale del Regno, e insieme a lui erano stati esclusi da ogni forma di indagine e di punizione il generale Badoglio e tutta una serie di alti ufficiali, anch’essi gravemente compromessi col regime.
L’epurazione così come venne realizzata rappresentò nella sostanza un insieme di provvedimenti che, sia pure del tutto giustificati singolarmente, finirono con l’apparire come il prodotto di procedimenti casuali se non addirittura dettati da desiderio di vendetta. Coloro che ne rimasero colpiti, sia pure in misura inefficace, o che temevano di essere colpiti in seguito, tesero a rialzare la testa, a criticare a voce sempre più alta le commissioni giudicanti e gli atteggiamenti dei partiti che ne erano responsabili. L’eliminazione, nel marzo del 1946, dei prefetti politici (giudici regionali) posti in carica dal Cln nelle zone che erano state liberate fu un altro riflesso di questa tendenza.
Il fallimento dell’epurazione è da considerarsi tutt’altro che un episodio marginale nella ricostruzione italiana del dopoguerra. La sua mancata realizzazione provocò un cambiamento nello stato d’animo di larghi settori dell’opinione pubblica, diventò il catalizzatore di un blocco sociale di orientamento conservatore o reazionario che si opponeva ai partiti che, in un modo o nell’altro, si presentavano come innovatori e progressisti. Difatti una incisiva politica di epurazione avrebbe potuto realizzarsi solo se fosse stata imposta dall’esterno, dalle forze alleate, dopo la sconfitta militare e l’armistizio: in questo modo, in quanto decisa dagli Alleati, non sarebbe apparsa luogo di arbitrio, e avrebbe aiutato la ricomposizione dell’unità nazionale, offrendo al Paese una via condivisa per affrontare il passato fascista. Ma questo avrebbe comportato, appunto, il riconoscimento della natura del fascismo da parte di tutte le forze politiche che lo avevano combattuto. Senza contare che gli Stati Uniti non erano interessati ad imporre una severa politica di epurazione, che avrebbe minato seriamente la loro strategia di opposizione al comunismo nell’area mediterranea.
La rinuncia ad attuare l’epurazione politica attraverso modalità processuali vere e proprie, come avvenne in Francia e in Germania, fu l’occasione persa definitivamente di ricostruire l’Italia democratica e liberale, la prima grande sconfitta politica e morale del mondo uscito dalla Resistenza, dalla deportazione e dallo sterminio. Ricorda puntualmente Pier Paolo Portinaro: “L’aver liquidato (…) il dittatore responsabile dell’instaurazione del regime finì non per favorire ma per ostacolare l’epurazione. In analogia a misure che sarebbero state adottate dagli Alleati in materia di denazificazione, anche la legge del 28 dicembre 1943, riguardante l’epurazione del personale della pubblica amministrazione, stabilì una tipologia degli epurati, che distingueva tra i fascisti di rango, su cui era chiamato a decidere il Consiglio dei ministri; squadristi e fascisti della prima ora, le cui situazioni sarebbero state decise nei ministeri; e iscritti al partito responsabili di atti liberticidi a livello locale, la cui sorte sarebbe stata decisa da Commissioni provinciali presiedute dai prefetti. Ma a differenza delle procedure di denazificazione, che avrebbero previsto un’ampia partecipazione dei partiti politici negli organi di epurazione, in questo caso l’epurazione era posta nelle mani degli organi che si sarebbero dovuti epurare, cioè dell’amministrazione pubblica. (…) Anche la più severa legge del 27 luglio 1944, che pure consentì la costituzione di circa 160 Commissioni d’epurazione che esaminarono migliaia di casi, non avrebbe conseguito esiti durevoli per effetto delle scelte politiche di reintegrazione degli indagati a opera dei maggiori partiti (Dc e Pci)”.
L’epurazione fu segnata da scelte istituzionali che furono il riflesso, la conseguenza, con la soppressione il 1° giugno 1946 dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, della rinuncia allo scontro politico con il governo guidato dal dicembre del 1945 dal leader democristiano Alcide De Gasperi, governo al quale parteciparono tutti i partiti del Cln a esclusione del Partito d’Azione (PdA), che si opponeva alla linea assunta da quel governo proprio sulla questione dell’epurazione politica. Questa scelta riguardava il senso stesso del legame tra Resistenza e continuità dello Stato. Togliatti e i comunisti preferirono guardare alla guerra di liberazione come ad una guerra patriottica combattuta contro l’invasore tedesco e, in tale lettura, i fascisti non esistevano come parte politica responsabile degli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, diventando semplicemente dei traditori della patria, dei semplici collaborazionisti.
Viceversa per il PdA – come sosterrà molto più tardi Claudio Pavone e prima di lui Roberto Battaglia – la Resistenza era stata soprattutto una guerra civile; per cui sarebbe apparsa più coerente con un’idea di rottura con il passato che non si limitasse a considerare il fascismo ma che investisse anche la democrazia prefascista e potesse farsi portatrice di una rivoluzione democratica nel presente. Ma questa non era una lettura tale da poter creare un consenso politico su cui fondare la nuova democrazia. Nelle sue memorie, così Foa ricordava questa tensione: “L’obiettivo della ricostruzione di un’identità nazionale perduta conferma la tesi della Resistenza come guerra civile. (…) Noi dovevamo combattere il fascismo fra di noi, fra italiani, e poi anche dentro di noi. (…) La costruzione di una ‘vera’ democrazia chiedeva la messa in discussione del ‘nostro’ passato e non solo la sconfitta del nemico esterno”.
Con il governo De Gasperi il fronte politico si cristallizzò e vide schierate da un lato l’Italia conservatrice e dall’altro l’Italia della Resistenza e della lotta antifascista. La concessione di una grande amnistia fu decisa dal governo che aveva portato il paese alla Costituente e al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, l’ultimo governo basato sui criteri paritetici del periodo del Cln.
Dopo la sua ascesa al trono il 9 maggio del 1946, Umberto II aveva chiesto un provvedimento di perdono, in linea con la tradizione monarchica che prevedeva un atto di clemenza in occasione dell’insediamento del nuovo re. Il governo dapprima rifiutò. Ma lo stesso Togliatti, allora ministro della Giustizia, temette che respingere del tutto l’amnistia avrebbe significato consegnare nelle mani della monarchia un’efficace arma di propaganda alla vigilia del referendum istituzionale del 2 giugno. Su sua proposta si decise allora di dare al decreto un contenuto limitato, riproducendo esattamente ciò che Vittorio Emanuele III aveva emanato 46 anni prima, al momento della sua ascesa al trono (amnistia per le pene fino a sei mesi), promettendo però al tempo stesso che un’altra legge, molto più ampia, sarebbe stata approvata subito dopo il 2 giugno. E in effetti fu questo il primo impegno che il nuovo governo dovette assolvere. Non rappresentò un problema rispettarlo perché i ministri e l’intera classe politica sentivano il bisogno di un gesto che sarebbe servito a chiudere, seppure simbolicamente, una pagina difficile della vita nazionale. E poiché l’amnistia riguardava non soltanto i reati degli ex fascisti e dei collaborazionisti, ma anche quelli commessi nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, il provvedimento fu accolto anche come il tentativo di impedire che i partigiani diventassero le vittime delle tendenze sempre più apertamente restauratrici di larga parte della magistratura.
Una preoccupazione, questa, presente nel pamphlet Triangoli della morte di Paolo Alatri, storico e giornalista comunista, pubblicato nel 1946. Nel testo, corredato da una breve storia sull’attività della Resistenza in Emilia Romagna, Alatri svolgeva un’inchiesta che partiva dai processi ai partigiani e ai comunisti accusati nel dopoguerra di aver commesso decine di delitti ai danni dei fascisti, per diventare un elogio della Resistenza e insieme un attacco politico alle scelte del governo in materia di epurazione e amnistia. Scriveva Alatri: “Un ‘triangolo della morte’ fra Bologna e Ravenna, un secondo ‘triangolo della morte’, fra Bologna e Modena; decine di delitti, uno più efferato dell’altro, e, in tutti, implicati comunisti, implicati partigiani, i mandanti, sempre figure di rilievo del movimento partigiano, i carabinieri, la polizia, la magistratura all’opera, finalmente, per svelare tutti i misteri, per scoprire e acciuffare i responsabili, questi biechi assassini; arresti a decine, a centinaia; istruttorie, processi: il trionfo, finalmente, della giustizia. (…) Dopo la liberazione, mentre la vita civile va man mano riprendendo in queste terre insanguinate dalla lotta armata e dalle rappresaglie, né la polizia giudiziaria, né la magistratura mostrano di voler aprire dei procedimenti per questi fatti. Poi, d’improvviso, l’atmosfera cambia: polizia e carabinieri si son dati una voce. Cominciano a frugare, a ripescare nel passato; e quando il 18 aprile i democristiani ritengono di aver ottenuto una vittoria tale che consente loro di avere un ‘nuovo corso’ alle direttive del governo, la scena cambia di colpo. Tutti quei fatti su cui pareva che fino ad ora non si sapesse nulla di preciso, diventano chiarissimi: sono tutti volgari delitti comuni, commessi dai partigiani per istigazione e sotto la direzione dei loro capi: ma la politica non c’entra. Grandi e leggendarie figure di combattenti della Resistenza, che hanno avuto il solo torto di non lasciarci la pelle come migliaia di loro compagni di lotta, diventano d’improvviso delinquenti comuni della peggiore specie, assassini, rapinatori. Decine d’arresti vengono a suggellare questa scoperta. Da un giorno all’altro polizia e carabinieri diventano attivissimi, ora non fanno che battere le campagne, arrestare partigiani, denunciarli alla magistratura per omicidio e rapina, dissotterrare cadaveri di giustiziati”.
A pochi mesi dalla sua approvazione l’amnistia, che in pratica portò alla scarcerazione di tutti i fascisti, anche di quelli responsabili dei crimini più abietti, divenne oggetto di polemiche. Soprattutto Togliatti, che in quanto ministro della Giustizia ne aveva studiato il progetto, fu accusato di aver assunto una volontaria linea morbida verso i fascisti per accrescere l’influenza del suo partito e così sottolineare ancora una volta l’aspirazione nazionale della politica del Pci, dando prova di moderazione. Certo Togliatti, nell’elaborare il testo dell’amnistia, tenne conto del fallimento dell’epurazione. I risultati catastrofici dell’amnistia furono la conseguenza, da un lato, di alcune formulazioni infelici – la più famosa fu quella delle “sevizie particolarmente efferate”, che portò alla scarcerazione di quasi tutti i torturatori della Repubblica di Salò – ma ancor più della mentalità con cui la magistratura interpretò l’amnistia. È evidente che i cambiamenti profondi non sono mai conseguenza della legge; piuttosto è la legge che a posteriori sancisce il mutamento dei rapporti di forza che si producono nella realtà. Ma i giudici dimostrarono la loro volontà di non cambiare nulla.
Quella dell’amnistia fu, da parte di Togliatti, una decisione certamente politica che rifletteva la scelta istituzionale fondata sull’incertezza del ruolo politico del Partito comunista, ma rappresentò una decisione che avrebbe segnato il destino dell’Italia postfascista negli anni a venire. Lo strumento dell’amnistia è sempre l’espressione di una forma di memoria rifiutata, poiché attribuisce all’oblio la funzione, istituzionalmente e giuridicamente formalizzata, di seppellire il passato ponendo fine alle reciproche accuse e ritorsioni. La sua scelta fu, nell’Italia del dopoguerra, il riflesso dell’“altra faccia della giustizia politica”, per usare le parole di Pier Paolo Portinaro, l’epitome del timore che una soluzione giudiziaria del passato potesse produrre solo processi politici. Perché l’amnistia rappresenta sempre il fallimento del diritto, la sua dichiarata impotenza a risolvere i grandi conflitti sociali e politici, l’atto con cui viene imposto “un reciproco oblio dei torti patiti” dalle parti in gioco, eludendo il problema della responsabilità. Una scelta che presuppone un vincitore incerto, consapevole della debolezza della sua posizione politica e istituzionale e conscio del fatto che uno scontro, attraverso i processi, può indebolire nella percezione della comunità il suo ruolo di vincitore. Così, alla fine della guerra, e alla fine della guerra civile, nella scelta dell’amnistia prevalsero tre motivi: la ragion di Stato, la neutralizzazione del conflitto interno, e la compromissione morale di una parte della comunità che nutriva “un evidente interesse a cancellare la memoria anche dei suoi crimini”.
Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 diede la maggioranza dei voti alla soluzione repubblicana. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica avvenne in un crescente clima di tensione politica e sociale. Era stato De Gasperi, già nel gennaio del 1946, a suggerire all’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, capo della Commissione alleata di controllo in Italia, che fossero i governi alleati, americano e inglese, a imporre al governo italiano un referendum istituzionale. De Gasperi cercava in questo modo di limitare e contenere i poteri dell’Assemblea Costituente, che era molto sensibile nei confronti di un clima politico in cui erano ancora forti gli ideali del 1943-1945.
Il rafforzamento della presenza alleata in Italia spostava ancora di più l’asse istituzionale verso il centro-destra; mentre sulla scena internazionale le due sfere di influenza antagoniste, il blocco occidentale e quello orientale, già delineatesi durante la guerra, si avviavano verso una fase di scontro radicale. Sicché l’anticomunismo si trasformò in una guerra silenziosa e fredda in cui l’Occidente combatteva contro l’Oriente per conquistare l’egemonia sull’intero continente europeo e far pendere a proprio vantaggio la bilancia del potere.
Ragioni ideologiche e geopolitiche, dunque, caratterizzarono l’intervento degli americani in Italia (come in Europa), inizialmente ispirato alla dottrina Truman (12 marzo 1947), la cui strategia era volta a controllare la crescente diffusione del comunismo nell’Europa occidentale. Nel discorso alla nazione, nella primavera dello stesso anno, il segretario di Stato George Marshall aveva espresso la sua preoccupazione nei confronti del continuo deterioramento della situazione politica ed economica dell’Italia: il potere della sinistra era cresciuto in modo esponenziale, mentre quello delle forze più moderate era diminuito. Nel suo messaggio a James Dunn, ambasciatore statunitense a Roma, Marshall scriveva: “Il Dipartimento di Stato le chiede di inviare una stima immediata del futuro dell’Italia alla luce di alcuni preoccupanti eventi accaduti recentemente, fra i quali vi è l’invasione socialcomunista in alcune città del paese (…), il rafforzarsi del comunismo negli enti professionali (…), il successo del comunismo in Sicilia”.
Benché Togliatti avesse accettato la collocazione internazionale, De Gasperi aprì la crisi di governo ricorrendo a un pretesto: un articolo del leader comunista apparso su l’Unità il 20 maggio 1947, intitolato “Ma come sono cretini”. Nell’articolo, violentemente critico contro gli americani per le dichiarazioni anticomuniste rese dall’ex sottosegretario di Stato Sumner Welles, Togliatti sottolineava l’incapacità degli americani di capire la situazione italiana e la politica del Pci: “Prima di tutto perché sono ancora, nell’animo, negrieri: un tempo commerciavano con gli schiavi, ora vorrebbero mettersi a commerciare con i Paesi e i popoli interi, come se fossero partite di cotone in ribasso. Ma in secondo luogo è anche perché sono poco intelligenti, perché mancano di preparazione culturale e storica, di finezza mentale e di capacità di comprensione umana (…). Quanto al signor Welles, egli non ha capito, e forse non capirà mai, che alle ingiurie da lui lanciate contro di me farà seguito senza dubbio un nuovo afflusso al nostro partito di buoni patrioti italiani. Noi non potremmo che rallegrarcene: ma non vi pare che questo tipo di americani anticomunisti siano proprio cretini assai?”.
L’inizio della Guerra Fredda provocò la ripresa febbrile dell’attività di riarmo e l’inasprimento della lotta politica interna nei Paesi che facevano parte della nuova alleanza militare, la Nato, che nacque nel 1949. In Italia le prime ripercussioni della Guerra Fredda si ebbero, all’inizio del 1947, con la scissione all’interno del Partito socialista, in cui un gruppo andò a formare il Partito socialdemocratico italiano, di orientamento anticomunista, e con l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal governo.
L’elaborazione della Costituzione fu comunque portata avanti con spirito unitario e si concluse con il raggiungimento di un accordo su alcuni principi fondamentali molto avanzati di democrazia: il 12 dicembre 1947 essa venne approvata dalla classe politica antifascista di ogni tendenza, reduce dall’esilio, dalla clandestinità e dalla lotta partigiana, ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
Le elezioni politiche, indette per il 18 aprile 1948, videro la vittoria della Democrazia cristiana, che ottenne il 48,5% dei voti contro il 35% del Fronte popolare formato da comunisti e socialisti. Con questa clamorosa vittoria elettorale la Dc si assunse la responsabilità del governo, presieduto da Alcide De Gasperi fino al 1953. Nella spartizione del potere del 1948, il blocco cattolico-conservatore ebbe in eredità lo Stato, nella continuità praticamente non scalfita dei suoi apparati e del blocco sociale (economico, istituzionale e politico) che attorno a De Gasperi si ricompattò: grande industria, finanza, burocrazia e ceti medi. Al mondo della Resistenza, che non volle o non poté spezzare la continuità dello Stato, toccò l’ethos della patria antifascista che si espresse nel controllo di vasti settori di consenso culturale e nella conseguente egemonia culturale all’interno della società civile. Una divisione tra Stato ed ethos patriottico che segnò non solo la storia istituzionale e politica italiana del postfascismo, ma influì soprattutto sulla memoria del passato fascista, della guerra, della deportazione e dello sterminio.
In altre parole, accanto all’antifascismo politico – schiacciato dalle scelte istituzionali e di potere – si sviluppò parallelamente una controcultura, una vera e propria forma di resistenza culturale, impegnata a mantenere vivo il ricordo e la memoria della lotta antifascista in generale, e della deportazione e dello sterminio in particolare. Essa rappresentò il fatto nuovo di cui avevano parlato gli azionisti Foa e Diena: una sorta di rivoluzione culturale, dopo gli anni del fascismo, che si espresse in una scrittura che cominciò sulle pagine dei giornali per estendersi all’elaborazione della memoria e che ebbe al suo centro l’esperienza concentrazionaria dei deportati politici e degli ebrei. Questa scrittura memoriale, nata durante la guerra di liberazione, si consolidò nel dopoguerra all’interno del paradigma antifascista, celebrando i sopravvissuti e i morti dei campi di concentramento e di sterminio accanto ai partigiani della lotta di liberazione.
II. Le parole per dirlo
1. Le notizie
Tra le prime notizie di stampa sui campi di deportazione e di sterminio nazisti ci furono quelle apparse sugli organi ebraici di informazione. L’Israel, che aveva appena ripreso le pubblicazioni dopo una interruzione di anni, presentava il 4 febbraio 1945, a p. 4, un articolo dal significativo titolo “I combattenti per la libertà: Gilberto Cohen, Angelo Finzi, Luciano Servi”, e il 25 aprile, sulle stesse colonne, Fabio Della Seta celebrava l’insurrezione del ghetto di Varsavia di due anni prima: “Sei milioni di ebrei sono stati scannati, come un gregge che s’affolla docile sotto il coltello del suo carnefice. Non esiste nella storia del mondo un tale esempio di resistenza passiva (…) Ma pur se umiliati, martoriati, stanchi e disillusi v’è ancora un nome che ci fa fremere e ci fa sperare: Varsavia. Le bandiere issate di Varsavia testimoniarono la fiducia degli ebrei nella causa del buon diritto. Morirono per dare un esempio a se stessi, al mondo democratico in armi e allo stesso furente nemico. Morirono per consacrare una volta di più la volontà di vivere del popolo ebraico (…): per il ricordo santo del ghetto di Varsavia, gli uomini dovranno vincere il male e incamminarsi verso la luce”.
In quel momento, mentre tutti venivano reclutati per la creazione di una nuova identità nazionale democratica e antifascista, il paradigma concentrazionario dei deportati ebrei fu assorbito integralmente nella narrazione resistenziale del mondo antifascista italiano. Gli ebrei, come del resto gli altri deportati, scelsero consapevolmente di aderire al modello eroico proposto dalla Resistenza e favorirono una memoria ebraica di combattenti per la libertà, di caduti in battaglia con le armi in pugno: questo fece di loro, da subito, un importante fattore di mediazione per la normalizzazione del passato e la ricostruzione del presente. Era certamente vero che la loro partecipazione attiva nelle file della Resistenza non solo aveva contato su un numero elevato, circa 2.000 tra uomini e donne, e tuttavia essa era stata condotta all’interno della Resistenza senza dare origine a organizzazioni separate. Questa condizione ebraica di resistenza antifascista è testimoniata da Leo Valiani: “Gli ebrei in quanto tali avevano particolari ragioni per militare nelle file partigiane, ma ciononostante avevano sempre – nella stragrande maggioranza – la sensazione di battersi per la libertà della patria italiana. (…) E perciò non vi fu un antifascismo specificamente ebraico, non vi fu una lotta partigiana specificamente ebraica. Tutti si battevano per l’avvenire della comune patria italiana, sapendo che il destino degli ebrei era inseparabile da quello dell’Italia libera e democratica”. In altri termini, soltanto una vittoria della Resistenza avrebbe creato le condizioni perché gli ebrei potessero non solo sopravvivere ma anche vivere come liberi cittadini: perciò ad essa gli ebrei rivendicarono la propria appartenenza come singoli e come gruppo. Espressione di questa sintesi fra appartenenza nazionale, antifascismo ed ebraismo è la figura di Franco Cesana, staffetta portaordini presso la formazione Scarabello della Divisione Garibaldi, il più giovane partigiano italiano caduto in combattimento all’età di 14 anni.
La stampa ebraica continuò a sottolineare la resistenza antifascista degli ebrei. Dante Lattes, direttore di Israel, concluse la sua nota al XXII Congresso sionista del 1946 con un riferimento di chiaro sapore antifascista: “Sei milioni di morti. È questo il nostro contributo alla lotta contro il fascismo”. Nel clima generale sorto attorno alla nuova repubblica emergeva l’ingiunzione alla memoria, insieme alla considerazione che l’oblio fosse una colpa perché avrebbe reso vano il sacrificio delle vittime.
Questi primi riferimenti ebraici si accompagnavano a un’informazione più diffusa anche sulle pagine dei giornali non ebraici. Uno dei primi articoli fu pubblicato l’8 dicembre 1944 su l’Unità. Era la traduzione di un breve testo del corrispondente di guerra e poeta sovietico Konstantin Simonov, “Un campo di sterminio degli ebrei”, che descrivendo il lager di Majdanek lo definiva come “il macello più grande al mondo”. Contemporaneamente, il 7 dicembre sulle pagine di Israel Carlo Alberto Viterbo lanciava lucide e accorate affermazioni intese a risvegliare la coscienza del mondo, e tali da risuonare con forza nuova sugli spiriti democratici e antifascisti: “La guerra dichiarata agli ebrei da Hitler e dai suoi seguaci fuori e dentro i confini della Germania non è infatti soltanto una lotta di uomini armati contro inermi, non è soltanto il procedere di una enorme macchina guidata da un folle, è intesa a stritolare spietatamente uomini e donne, vecchi e bambini, per raggiungere lo scopo di un totale annientamento e di una totale depravazione”.
Assorti a comprendere cosa fosse realmente accaduto e a valutare la portata dello sterminio del proprio popolo, gli ebrei cercavano di ritrovare con difficoltà il loro posto nel mondo, di riprendere il discorso interrotto così drammaticamente dalla persecuzione prima e dalla guerra dopo. Alla fine del 1944, quando ancora i nazisti occupavano una gran parte dell’Italia, nessuno poteva ancora valutare pienamente la portata dello sterminio; e anche se si pubblicavano notizie come quella del processo tenuto a Lublino, in Polonia, contro sei nazisti per i crimini commessi nel campo di Majdanek, le informazioni apparivano caratterizzate da un tono improvvisato ed occasionale.
L’attenzione si accentuò alla fine del gennaio 1945. Su l’Unità e su l’Avanti! vennero pubblicati articoli corredati da mappe sull’avanzata dell’Armata Rossa in Polonia che descrivevano la liberazione di alcune città, tra cui Auschwitz, indicata con il suo nome polacco, Oswiecim.
Perfino il battesimo di Israel Zolli, rabbino capo della comunità ebraica romana, fu letto da Dante Lattes nel contesto dello sterminio ebraico che aveva duramente messo alla prova la forza morale e lo spirito dei più deboli tra gli ebrei: “Nessuna fede, nessuna dottrina filosofica o politica è uscita con onore da questa catastrofe; nessuna si è infatti opposta al male, alla violenza, alla tirannide con quel coraggio da cui sorgono i martiri (…). Che cosa va a cercare fra i ruderi di questo mondo l’ebreo che è uscito sano e salvo, col suo corpo e colla sua idea, da tante spaventose tempeste? (…) Questo mondo al quale l’ebreo si vende, disertando il proprio, è in sostanza il mondo di cui egli ha paura”. Lattes utilizzava la conversione di Zolli per richiamare al suo dovere il mondo che era rimasto indifferente alla catastrofe, perché si salvaguardasse “quanto v’è di necessario, di legittimo e di giusto nell’aspirazione e nella volontà di dare pace e libertà agli ebrei, non solo come individui ma anche come collettività storica (…). È urgente che si dia massima importanza alla cura dei cuori e dei cervelli degli ebrei: altrimenti c’è il pericolo che la schiera degli apostati si accresca per generazione spontanea o per altrui propaganda”. Il discorso sulla propria identità riemergeva con forza all’interno del mondo ebraico, tanto che il settimanale Israel, il 24 maggio 1945, si fece promotore di un referendum, dal titolo: “Malgrado ciò che è accaduto nell’Europa e nel mondo intero, malgrado le stragi e le deportazioni, siete rimasto ebreo, perché?”.
L’8 marzo 1945, mentre in Palestina veniva proclamato il lutto nazionale per un’intera settimana, su Israel veniva pubblicato il primo articolo di timbro diverso, in cui non erano più l’antifascismo e la lotta armata ad essere al centro della recente storia ebraica bensì lo sterminio di inermi. Si trattò forse della prima riflessione su ciò che aveva e avrebbe significato l’Olocausto per la vita ebraica: “Nessun popolo nella storia ha fatto lutto per 5 milioni di caduti; nessun popolo mai nella storia si è trovato a constatare l’uccisione di un terzo dei propri componenti; nessun popolo ha mai perduto, non in combattimento con le armi in pugno ma per orrende carneficine contro inermi, insieme agli uomini validi, tante donne innocenti, tanti vecchi venerandi, tanti bambini sorridenti alla vita”. Nello stesso numero compariva il primo elenco degli ebrei deportati da Roma, accanto alla recensione, firmata da Carlo Albero Viterbo, all’anonimo fascicolo di 16 pagine intitolato Nove mesi di martirio. La tragedia degli ebrei sotto il terrore tedesco, in cui venivano presentati i fatti più salienti delle persecuzioni antisemite di Roma.
Da allora le pagine del giornale furono quasi interamente occupate dalle notizie sui campi di concentramento. Si parlava di Fossoli e di Auschwitz, ma con un linguaggio incredulo e dubbioso: non era nemmeno chiaro se chi scriveva sapesse dove era Auschwitz. Anche per l’uso del termine “campo di concentramento” bisognerà aspettare l’aprile del 1945. Cominciarono ad arrivare le prime informazioni sull’arrivo a Stoccolma di ebrei sopravvissuti ai lager di Bergen Belsen e di Birkenau, a quali si aggiunsero il 4 maggio 1945 quelli di altri sopravvissuti, forniti al ministero degli Affari esteri attraverso l’ambasciata italiana a Mosca. L’annuncio dell’arrivo a Bucarest di altri ebrei sopravvissuti di Oswiecim, scritto Oszviencim, riempiva la prima pagina del giornale. L’errore non casuale nella trascrizione dei nomi dei campi confermava il senso di estraneità, di distanza, di “ignota destinazione” che circondava la memoria dello sterminio nel suo iniziale tentativo di rielaborazione. L’articolo di Dante Lattes, “Dobbiamo ancora avere fiducia negli uomini?”, che riferiva quasi esattamente il numero e i dati dei 5.000.000 di morti ammazzati, sembra suggerire l’immagine di un mondo ebraico abbandonato a se stesso, separato dal resto, tutto compreso nella rielaborazione del proprio lutto. Si faceva martellante la pubblicazione dell’elenco in ordine alfabetico dei deportati da Roma che includeva, fatto rilevante, anche i nomi degli ebrei massacrati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. La confusione nella memoria segnava il ricordo: la lista, il cui scopo era di determinare il numero dei morti, si era trasformata in un lungo e grande necrologio. Una settimana dopo, fu pubblicato dallo stesso giornale il messaggio di saluto alle proprie famiglie inviato dal campo di Buchenwald da Michele Amati e Sabatino Finzi, deportati da Roma il 16 ottobre 1943.
L’organo del Partito socialista l’Avanti!, il 20 aprile 1945, diede la notizia della liberazione di Buchenwald e Bergen Belsen, avvenuta rispettivamente l’11 aprile e il 15 aprile del 1945; quella di Mauthausen il 5 maggio. Il 13 maggio 1945 Il Giornale del Mattino ruppe il silenzio sui campi di concentramento con un articolo di Paolo Alatri che parlava di Ohrdruf, Buchenwald, Bergen Belsen, Ravensbrück e Nordhausen: era il primo contributo, lungo e dettagliato, che non avesse semplice carattere informativo.
Si moltiplicarono gli articoli su Auschwitz quando cominciarono ad apparire – numerose – le interviste dei sopravvissuti. Mauro Scoccimarro, ministro per l’Italia occupata e responsabile della Commissione centrale per l’accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti ai danni degli ebrei, chiedeva a Israel, il 10 maggio 1945, di pubblicare un appello rivolto alla comunità ebraica di Roma e, attraverso questa, all’intera Unione delle Comunità, in cui si invitavano tutte le famiglie a raccogliere e documentare le notizie relative ai crimini subiti e a trasmettere il materiale raccolto alla Commissione centrale stessa. Si tratta della prima notizia pubblica che testimoni i rapporti tra il governo e la comunità ebraica. Nei mesi successivi gli articoli di Israel saranno sempre più attenti al ritorno dei deportati, alla “torturante attesa” dei familiari desiderosi di avere notizie dei loro parenti scomparsi: Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Oswiecim, Majdanek emergono tragicamente dalle nebbie, prendendo sempre più forma. Si vorrebbe sapere cosa è successo ai convogli che lasciarono l’Italia tra il 1943 e il 1944. Radio Mosca parlava di 11 milioni di assassinati, affermando che nel corso di tre anni nel solo campo di concentramento di Trablianca (Treblinka) erano stati trucidati 7 milioni di uomini, fra ebrei e non ebrei, più gli altri 4 milioni assassinati nei lager di Oswiecim e di Majdanek.
Vale la pena notare l’atteggiamento assunto dalla stampa cattolica, in linea col tono dell’appello rivolto da papa Pio XII ai fedeli nell’aprile del ’45 e che era stato un richiamo ad una pacificazione generale degli animi, definendo gli avvenimenti “crudeli: (…) atroce realtà” e “la guerra: (…) il frutto e il salario del peccato”. La tendenza fu quella di parlare di generici crimini contro l’umanità, senza mai pronunciare la parola “ebrei”. Come si leggeva sulle pagine dell’Osservatore Romano, il 29 giugno 1945: “Le informazioni ottenute da varie fonti danno un quadro impressionante sulle condizioni in cui generalmente si trova la massa degli internati composta da uomini e donne di ogni età, dall’infanzia fino alla decrepitezza. Una particolare compassione fanno coloro che si ritengono ormai senza patria, e sono molti assai (…). Molti altri, a causa della demoralizzazione subita in tanti anni di prigionia, stentano a riprendere la mentalità e le consuetudini del consorzio civile e cristiano…”. O su quelle della Civiltà Cattolica: “Di ritorno dalla Missione in favore dei prigionieri di guerra e degli internati in Germania, Mons. Carroll ha fornito alcuni ragguagli sull’opera di carità cristiana (…) per soccorrere tante vittime della guerra (…). La Missione pontificia si occupa di tutti, senza distinzione di nazionalità o di fede religiosa (…), 8.000 polacchi fra cui 450 sacerdoti”.
Il male della guerra e le sue terribili conseguenze venivano riduttivamente imputati alla semplice dimenticanza di Dio: “Invero la lotta contro la Chiesa si andava sempre più inasprendo: era la distruzione delle organizzazioni cattoliche; (…) era la separazione forzata della gioventù dalla famiglia e dalla Chiesa; (…) era la denigrazione sistematica della Chiesa, del clero, dei fedeli, delle sue istituzioni, della sua dottrina, della sua storia”. Al centro della persecuzione venivano indicati generici “detenuti politici”, insieme a “le falangi di coloro, sia del clero che del laicato, il cui unico delitto era stata la fedeltà a Cristo e alla fede dei Padri o la coraggiosa osservanza dei doveri sacerdotali”.
La definizione delle liste dei deportati tramite le commissioni nazionali e internazionali che le comunità ebraiche nominarono, e che furono attive subito dopo l’inizio della guerra, fu utile ai primi stadi del processo di costruzione della memoria. Chi faceva parte delle commissioni analizzò i documenti trovati negli uffici dei campi e controllò gli elenchi di deportati e sopravvissuti. Una delle liste fu portata in Italia tramite una spedizione di aiuti per i superstiti di Mauthausen e fu letta alla radio italiana il 26 maggio 1945: fu una delle prime testimonianze sulla deportazione di italiani che giunse al grande pubblico e che suscitò una certa impressione.
L’antifascismo ebraico veniva rappresentato come elemento di slancio verso il futuro, la volontà di riaffermare la propria esistenza, il desiderio di ricostruire una società migliore per gli ebrei e per l’Italia democratica. Così scriveva Carlo Alberto Viterbo su Israel il 31 maggio 1945: “Noi lavoreremo perché Israele torni completamente Israele. Riprendendo l’opera interrotta due anni fa con maggiore ardore (…) Ma noi vogliamo lavorare anche per questa Italia risorta, per questi italiani che ci accolsero nelle loro case quando eravamo braccati, che ci sfamarono”. Si riconsiderava il ruolo che gli ebrei dovevano avere nella nuova società civile e si faceva delle loro comunità il nucleo da cui doveva partire il processo di rinnovamento. Ancora una volta Carlo Alberto Viterbo, nel medesimo fascicolo di Israel: “La guerra in Europa è finita, l’Italia è liberata, gli ebrei sono stati restituiti ai loro sacrosanti diritti di uomini e di cittadini. Incomincia difficile e durissima la ricostruzione e incomincia difficile e durissima anche per noi, ebrei d’Italia (…). Noi ebrei abbiamo il compito particolare ed esclusivo di ricostruire le nostre comunità, di sanare le nostre ferite, di riprendere la nostra attività culturale e assistenziale, di svolgere una nostra politica, di riconsiderare le cause che ci hanno condotti sull’orlo del completo annientamento”.
Non senza contraddizione veniva però espressa un’altra posizione, non meno forte e non meno importante. Se ne faceva portavoce lo stesso Viterbo quando spiegava il volontario esilio degli ebrei, come gruppo sociale, dalla politica attiva e la conseguente estraneità alla vita nazionale, l’esclusivo interesse per la ripresa fisica e amministrativa delle comunità ebraiche, tutti aspetti che avevano attirato le critiche e la disapprovazione di una parte del mondo democratico antifascista italiano: “Più volte e in modo particolarmente insistente in questi ultimi tempi ci è stata espressa meraviglia e disappunto perché il nostro giornale non ha preso fino ad ora una posizione nell’accesa lotta dei partiti e delle correnti politiche che agitano l’Italia. E innanzi tutto è necessaria una fondamentale distinzione tra gli ebrei come singoli e come collettività. Gli ebrei come singoli e in quanto cittadini italiani hanno verso il Paese di cui sono parte costituente tutti i doveri e conseguentemente tutti i diritti (…) il diritto di voto, il diritto di iscriversi – come singoli – al partito che più sia conforme alle loro idee ed aspirazioni, di discutere pubblicamente gli affari della cosa pubblica (…) Come collettività gli ebrei non costituiscono un partito, mentre gli Enti e le Istituzioni ebraiche sono rivolti esclusivamente ai loro compiti particolari”.
Lentamente, durante la primavera e l’estate del 1945, lo sterminio ebraico catturò l’attenzione dei giornali. Il vettore essenziale dell’informazione sui campi divennero soprattutto le testimonianze: lettere di scampati, messaggi, racconti, elenchi di nomi che arrivavano alla comunità di Roma, con i nomi di ex internati che si trovavano a Bolzano e Merano già dal marzo 1945. La testimonianza di Leone Fiorentino, il primo ebreo romano tornato dall’inferno di Auschwitz, apparve sull’Italia Libera, Israel e l’Unità che la pubblicarono in prima pagina. Fiorentino, comunista, descriveva Auschwitz con i suoi cinque forni crematori, strumento di morte per i deportati.
Il 6 giugno 1945 l’Unità pubblicò il primo di una serie di articoli di Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo, dedicati al campo di concentramento di Mauthausen dove era stato deportato: rivisitati, essi diverranno il crudo racconto della sua prigionia nel 1946. Pajetta raccontava la sua storia di politico dentro al campo, il ruolo svolto dalla Resistenza clandestina, la grande solidarietà tra i compagni. Da parte sua, L’Italia Libera pubblicò la testimonianza di Gabriele Di Porto internato ad Auschwitz nel marzo del 1944; dalle sue parole scaturiva un’ingiunzione al ricordo e la speranza in un mondo migliore: “Ho solo desiderio di pace; la giustizia che mi hanno chiesto coloro che mi sono morti fra le braccia, la farà chi non ha visto tanto sangue”. Ancora su l’Unità, la storia di Gina Piazza, un’ebrea romana di 29 anni, che nell’articolo “Ritorno da Oswiecim” descriveva e raccontava la sua esperienza di donna nel campo, parlandone come di un luogo di “affamata” e “disumana brutalità”. Negli stessi giorni la Rai (Radio audizioni italiane) trasmetteva l’elenco di alcuni deportati italiani che erano stati liberati a Dachau e Mitterwald. Giungeva intanto agli uffici della Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei) una lista di 652 nomi di ebrei torinesi deportati in Polonia.
Attraverso le pagine del settimanale Israel le comunità ebraiche si mobilitarono per cercare i deportati, promuovendo un nuovo censimento che potesse stabilire con maggiore esattezza il numero degli ebrei italiani e non italiani che erano stati avviati ai campi di concentramento nazisti. Tutti gli ebrei vennero invitati a notificarsi a uno speciale ufficio. Bisognava però superare le difficoltà e i timori di quanti, dopo gli anni bui della persecuzione, non desideravano ufficialmente più fare parte della comunità; bisognava rifondere fiducia e sicurezza nelle loro menti. La richiesta veniva quindi spiegata con l’impellenza di ricostruire amministrativamente e spiritualmente il mondo ebraico; si sosteneva la necessità di rinnovare gli strumenti della vita ebraica: gli istituti religiosi, il collegio rabbinico, gli enti assistenziali ecc.
Nel contempo si chiedevano normative speciali che stabilissero un risarcimento economico per gli ebrei colpiti dalle leggi razziali e dalle persecuzioni. Trapelava dagli articoli del giornale una certa preoccupazione e delusione per l’atteggiamento assunto dal governo sul problema della riparazione economica. Una lettera in data 12 giugno 1945 fu fatta pervenire dal ministro delle Finanze a mezzo della segreteria particolare del presidente del Consiglio alla comunità ebraica di Roma: il governo sosteneva di non dovere in alcun modo ripagare i danni fisici, economici e morali subiti dagli ebrei, perché le sofferenze degli ebrei non erano state poi così dissimili da quelle del resto dei loro concittadini. Il settimanale Israel, che la pubblicò per intero il 5 luglio 1945, così commentava: “Questo ministero considera che vastissime categorie di contribuenti (perseguitati politici, patrioti, sfollati, ecc.) hanno sofferto a causa della guerra danni non meno gravi di quelli lamentati dagli ebrei. (…) Venute meno le discriminazioni razziali gli ebrei potranno beneficiare delle suddette disposizioni generali, senza che si renda necessaria l’adozione di particolari provvedimenti in loro favore”.
È vero che nel maggio del 1945 c’era stata l’iniziativa di Scoccimarro, ma né il governo né la società civile compresero il diritto dei superstiti a un risarcimento materiale e simbolico e non li appoggiarono, né riconobbero la deportazione e lo sterminio come eventi storici senza precedenti. Gli ebrei dovevano guardare al passato per capire l’urgenza di ridefinire il proprio ruolo all’interno della società italiana, che si percepiva, quasi nella sua generalità, non solo di non aver prestato mano alle persecuzioni, ma di essere stata d’aiuto e di aver protetto i perseguitati, “diversamente” – come scrisse Benedetto Croce – “da quel che accadde presso un altro popolo che di gran lunga assai più degli italiani si era giovato del contributo datogli dall’ingegno e dall’operosità ebraica, e della devozione degli ebrei al popolo germanico di cui erano cittadini”. L’insistenza sulla specificità della propria sofferenza e della propria diversità avrebbe solamente arrecato danno; bisognava, quindi, abbandonare l’idea di una elezione del popolo ebraico per giungere invece ad una fusione morale e spirituale con il resto del popolo italiano. Ancora Croce: “Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per gli altri italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi e preferenze”. Il filosofo auspicava che il loro “studio” fosse quello “di fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere che ne dia ancora in avvenire”.
Alla fine dell’estate del 1945, Raffaele Cantoni, eletto dal Clnai commissario straordinario della comunità ebraica di Milano con funzioni di coordinamento per gli ebrei dell’Alta Italia, arrivava a Roma per trattare insieme al nuovo governo tutti i problemi che erano rimasti sul tappeto dopo la liberazione completa dell’Italia e l’abrogazione delle leggi razziali. Ma non solo: Cantoni intendeva ridefinire con il governo il ruolo delle comunità ebraiche italiane e riaffermare l’importanza avuta nella lotta di liberazione da molti ebrei che avevano sofferto insieme ai loro concittadini non ebrei nelle carceri e sulle montagne. Cantoni, in sostanza, non voleva che gli ebrei fossero dimenticati dal governo di Roma.
I racconti delle stragi perpetrate dai tedeschi cominciarono a riempire le pagine dei giornali: l’Unità e l’Avanti! concessero grande spazio al racconto della strage di Marzabotto, il 5 e l’8 luglio 1945. Mentre Israel dava notizia di un altro campo di concentramento scoperto vicino ad Auschwitz, dove altri ebrei italiani avevano trovato la morte: Buna-Monowitz. Il Comitato Ricerche Deportati chiedeva al governo che fossero inviati in Polonia, attraverso il ministero degli Affari esteri, dei diplomatici italiani, insieme alla Croce Rossa e alle altre organizzazioni internazionali, per controllare se ci fossero sopravvissuti tra gli internati italiani. Nel settembre del 1945 solo Israel riportava la notizia del numero di ebrei romani deportati da Roma il 18 ottobre del 1943, due giorni dopo l’assalto al ghetto, con destinazione Auschwitz. Cerimonie di commemorazione e un digiuno vennero indetti dalla comunità di Roma per ricordare il rastrellamento del 16 ottobre e fu fatta coniare una medaglia in ricordo dei martiri.
La Rai continuava ad interessarsi al problema dei reduci e inseriva nella trasmissione “Sulla via del ritorno” uno stralcio delle notizie contenute nel bollettino del Comitato Ricerche Deportati. Il ritorno da Auschwitz di un altro sopravvissuto, Benedetto Di Segni, veniva dettagliatamente descritto sulle pagine di Israel, insieme ai processi contro i criminali nazisti. Il processo di Lüneburg, culminato con trenta condanne alle SS che avevano operato nel campo di concentramento di Bergen Belsen, sarà seguito con grande attenzione dal giornale, come anche quello a carico delle SS accusate di crimini contro ebrei e partigiani a Dachau, che si concluse con trentasei condanne a morte per impiccagione.
Con il processo di Norimberga le cose cambiarono: tutti i giornali se ne occuparono. Ma anche in questo caso la stampa italiana si limitò a utilizzare principalmente i servizi dei corrispondenti delle testate e agenzie estere per “coprire” la cronaca del processo. L’unico giornalista italiano accreditato a Norimberga fu Enrico Caprile, del Corriere d’Informazione: i suoi articoli furono pubblicati tra il 29 novembre e il 15 dicembre del 1945 sulle prime pagine del giornale. Un diverso tono fu assunto dalla stampa cattolica. L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica considerarono la questione dello sterminio, anche dopo le sconvolgenti rivelazioni che emersero al processo, da un punto di vista squisitamente giuridico. Nel primo articolo apparso sulla Civiltà Cattolica si parlava infatti di questioni legate al diritto, ci si interrogava sulla liceità della pena per i crimini commessi, in assenza di un precedente giuridico che avallasse la condanna: “Verissimo che la guerra è stata dura, e indubbiamente certe crudeltà dovrebbero essere proscritte, ogni necessità a giustificarle dovrebbe venire esclusa. (…) Ci si metta pure una buona volta d’accordo per l’avvenire; ma come si può punire per la trasgressione di una legge che ancora non esisteva quando l’azione fu compiuta? Valga l’esempio della bomba atomica: altro che proiettili antirazzo, rappresaglie, bombardamenti indiscriminati! Eppure nessuno pensa di punire gli aviatori, lo Stato Maggiore o gli industriali americani. Perché? Perché se anche oggi si vietasse l’uso di quegli esecrabili mezzi di strage e di distruzione, la legge varrebbe per domani, non per ieri. A pari, dunque”.
La guerra moderna e totalitaria era la chiave di spiegazione della morte e della distruzione causate dalla Germania nazista che, se responsabile sul terreno diplomatico perché la prima “a dar fuoco alle polveri”, vi era stata, sempre secondo La Civiltà Cattolica, storicamente costretta: “Quando si deve amaramente riconoscere che anche oggi, dopo i tremendi disastri della seconda guerra mondiale e nonostante l’organizzazione della società internazionale su nuove basi (O.N.U.), le grandi potenze che vi spadroneggiano non riescono ad assicurare ai popoli l’agognatissima pace, ma continuano a patteggiare provvisori compromessi a prezzo di flagrante ingiustizia contro i vinti e le potenze minori, viene fatto di domandarsi con quale coerenza, e soprattutto con quale diritto, siansi assise a Norimberga per condannare la Germania di un atto, che esse medesime non mancheranno di fare al momento opportuno, quando lo riterranno inevitabile pei loro interessi!”.
Disquisizioni giuridiche, considerazioni diplomatiche, spiegazioni scientifiche e relativizzazioni storiche: tutto serviva per non confrontarsi sul terreno della responsabilità con la propria storia. Così la rivista dei gesuiti parlava a proposito dei crimini contro l’umanità: “Ma anche in relazione ai delitti contro l’umanità e ai crimini di guerra troviamo avanzata ed ammissibile una eccezione della stessa natura ed efficacia. Il mondo è stato bensì inorridito dai molteplici crimini perpetrati dalle armate naziste; ma lo è stato anche da quelli commessi o comunque addebitati all’altra parte. Già, di delitti contro l’umanità in epoca moderna si è cominciato a parlare precisamente in seguito ai massacri, alle persecuzioni politiche e religiose, alle riduzioni in schiavitù di lavoro verificatesi in uno degli Stati, che ora fa da giudice in Norimberga. Ancora durante la guerra, maltrattamenti di prigionieri si sono avuti dappertutto. In Russia e in Algeria specialmente, la fame ha fatto stragi; e non solo la fame. In certi domini inglesi, l’onore dei prigionieri è stato vilipeso oltre ogni limite umano. E le fosse di Katin? Qui l’accusa era precisa e documentata. E gli stessi bombardamenti aerei angloamericani non hanno superato evidentemente ogni limite di rappresaglie? Si pensi alle innumeri città italiane semidistrutte in pretesa rappresaglia dei duecento in efficientissimi apparecchi, che avrebbero dovuto bombardare Londra. Si ricordino i mitragliamenti a bassa quota di civili e persino di fanciulli intenti a giochi innocenti (chi può dimenticare la ‘giostra’ di Grosseto?) e gli aviatori ubriachi e l’ignominia delittuosa di certe truppe di colore (marocchini), e le ruberie e le violenze dei singoli… Ma il colmo atroce dell’inumanità resta fissato nei secoli dalle bombe atomiche lanciate su città popolatissime e civili, quali Nagasaki e Hiroshima (secondo certa stampa, già dopo l’offerta di resa incondizionata e non solo per ragioni militari). Altro che ‘terra bruciata’, altro che ‘distruzioni indiscriminate’ (capi di accusa contro i tedeschi), altro che mezzi di offesa sproporzionati, non limitabili e perciò vietati dal diritto internazionale bellico e da quello naturale! Si parlerà di rappresaglie? Di necessità logistiche e militari? Noi non sappiamo se e come la Storia potrà accogliere questi argomenti, né come i posteri li giudicheranno. Sappiamo solo che a Norimberga gli imputati hanno assunto a difesa gli stessi principii e avanzato in tal senso analoghe eccezioni (diritto di rappresaglia, diritto di necessità oggettiva o determinata da analoga condotta dei nemici). Sappiamo che queste eccezioni pongono direttamente in stato di accusa le stesse potenze giudicanti tal che, secondo i principii generali del diritto, i giudici non sono più giudici ma parti in causa. In queste condizioni, essi non possono giudicare. Se taluno o tutti gli accusati rappresentano una minaccia per la pace futura, è lecito ai vincitori adottare contro di essi misure di sicurezza. Ma se si vogliono punire come delinquenti le parti lese (tutte e prima di tutte la Polonia) facciano magari da accusatori, non da giudici. Per il giudizio, ci si rivolga a un Tribunale di neutri, per esempio all’Alta Corte di Giustizia internazionale. Secondo giustizia, però, quelle quattro potenze non possono giudicare, non possono condannare”.
La realtà dei fatti è che nella sostanza neppure le vicende e la scoperta delle atrocità commesse durante la guerra riuscirono a modificare l’equilibrio di tali giudizi.
Norimberga aprì la strada a una nuova fase dell’informazione giornalistica. Da questo momento in poi si tentò faticosamente di colmare il ritardo nella diffusione delle notizie sulla deportazione. Come si è detto, però, le ragioni del divario non erano soltanto di natura tecnica, come la difficoltà di accesso alle informazioni o la carenza dei mezzi a disposizione, problema comune alla maggior parte delle testate; l’ostacolo principale era rappresentato dall’atteggiamento assunto verso il passato, verso la guerra, la deportazione e lo sterminio. Va ricordato che il Corriere della Sera, La Stampa e Il Messaggero – le tre grandi testate giornalistiche compromesse col regime fascista e con la Repubblica sociale – erano state chiuse. Il Corriere della Sera subì un’interruzione tra la fine di aprile e la fine di maggio del 1945: un mese dopo la sospensione, imposta dal Comitato di Liberazione Nazionale, il quotidiano tornò in edicola con la testata Il Corriere di Informazione (il 24 marzo del 1946 il giornale, al posto dei festeggiamenti per Mussolini, ricordò il massacro delle Fosse Ardeatine). L’anno successivo uscì come Nuovo Corriere della Sera. La Stampa, che era scomparsa dalle edicole il 25 aprile 1945 per riapparire il successivo 18 luglio grazie all’appoggio degli Alleati, col nome La Nuova Stampa, pubblicò il 26 settembre 1945 il primo articolo che affrontava il problema dello sterminio ebraico; e anche Il Messaggero fu costretto a sospendere le pubblicazioni nel 1944, alla liberazione di Roma, fino al 21 aprile 1946, quando riapparve col nome Il Messaggero di Roma.
Sulla stampa ebraica, intanto, venivano pubblicate le notizie sulla presenza di circa 15.000 profughi ebrei stranieri superstiti dai campi che avevano trovato rifugio in Italia. Il governo italiano si era in qualche modo piegato alle pressioni angloamericane affinché moltissimi sopravvissuti alla Shoah nell’Europa orientale potessero arrivare in Italia. In realtà la presenza dei profughi si trasformò rapidamente in un elemento identitario importante per le comunità ebraiche italiane: essi si organizzarono in un gruppo politico, il Comitato profughi, che faceva capo a Leo Garfunkel e che fondò il giornale Ba Derech (Lungo il cammino), che ne divenne l’organo ufficiale. Il settimanale era scritto in yiddish e voleva essere un foglio di informazione per gli ebrei stranieri in Italia scampati allo sterminio. Il Comitato ebbe intensi e importanti contatti con la leadership ebraica italiana, soprattutto con quella sionista, del quale fece poi parte. Nel convegno dell’Organizzazione sionista che si tenne a Roma tra il 26 e il 28 novembre 1945, il Comitato profughi chiese che fosse diramato un comunicato di ringraziamento a loro nome in cui venivano menzionate non solo le istituzioni ebraiche ma anche le autorità italiane e in cui si sottolineava il forte contrasto tra l’accoglienza fraterna nei riguardi dei profughi ebrei in Italia rispetto a quella ottenuta in Polonia, dove i pochi reduci dai campi versavano in condizioni di povertà e di paura.
Verso la fine del 1945 la Palestina e la questione ebraica divennero oggetto di interesse per parte della stampa. Su Israel le notizie di ciò che succedeva in Eretz Israel avevano trovato da sempre grande spazio; ma ora la novità era rappresentata dalla presenza di articoli e di lettere pubblicati nei quotidiani a tiratura nazionale, come anche in quelli a carattere regionale. Sul numero di Affari internazionali del 25 novembre 1945 un’intera pagina della rivista venne dedicata alla questione ebraica in generale e alla questione palestinese in particolare. L’articolo dal titolo “Gli Ebrei sono una nazione” riprendeva un testo di D.L. Lipson, politico inglese di origine ebraica, che era stato pubblicato dalla rivista The Spectator. Sul Giornale dell’Emilia, in un resoconto dal titolo “Aiutare gli ebrei”, Randolph Churchill, figlio dell’ex primo ministro britannico, si professava ardente sostenitore della nascita di uno Stato ebraico in Palestina. Ancora: un articolo su Risorgimento Liberale dal titolo “La Palestina due volte promessa”; Il Risveglio pubblicò anch’esso un articolo sui sionisti e sugli arabi in Palestina; La Città libera riportò un interessante contributo, “Le lotte per la sovranità in Palestina”, in cui si auspicava la costituzione di una federazione arabo-ebraica; mentre l’Unità e L’Italia Libera trattavano della crisi palestinese e della situazione diplomatica della Gran Bretagna tra ebrei e arabi.
Nel dicembre del 1945 venne pubblicato il libro Le Fosse Ardeatine di Attilio Ascarelli, il medico legale che si occupò dell’identificazione delle vittime della rappresaglia nazifascista, e che raccontava in modo dettagliato la strage avvenuta sull’Ardeatina a Roma. Carlo Alberto Viterbo ne fece la recensione. Nel primo anniversario dell’eccidio si tennero due cerimonie: la prima nel Tempio Maggiore di Roma e la seconda davanti al Campidoglio, in presenza dei rappresentanti delle forze alleate. Nel secondo anniversario della strage furono scoperte al Tempio Maggiore due lapidi al cospetto delle rappresentanze ebraiche, della comunità e delle autorità civili del comune di Roma: la prima in memoria degli ebrei uccisi alle Ardeatine, la seconda a ricordo degli ebrei uccisi in tutta Europa, con una menzione speciale per le vittime italiane. Il testo commemorativo così diceva: Del popolo d’Israele / Sei milioni le innocenti vittime in Europa / Del bieco odio razziale in tutta Italia dal fatale 16 ottobre 1943 / Oltre ottomila i deportati i martoriati e i trucidati / Da Roma / Duemilanovantuno i deportati. Dopo la funzione religiosa officiata dal rabbino capo David Prato, parlarono Ugo Della Seta, Leo Garfunkel, che espresse la solidarietà di tutti i profughi ebrei in Italia, e Raffaele Cantoni, che parlò a nome del Congresso mondiale ebraico.
Il 1946 fu l’anno che sancì la fine della speranza nel ritorno dei deportati. Gli ebrei italiani compresero che, nonostante si cercassero ancora sopravvissuti, e malgrado la febbrile attività del Comitato Ricerche Deportati e della Delasem, nessuno sarebbe mai più tornato. Ancora una volta fu Israel che si fece portavoce della rassegnazione: “Per gli ebrei di Roma il 16 ottobre di quest’anno è data di lutto profondo, perché ogni speranza sul ritorno dei deportati, poveri, innocenti, strappati bestialmente all’affetto dei loro cari, è ormai vana”. La frase è tratta dalla lettera inviata al giornale dall’avvocato Giulio Lombroso che rappresentava al processo contro Celeste Di Porto, detta Pantera nera, quindici famiglie di ebrei romani.
Quella di Celeste Di Porto è una storia drammatica, anomala, dolorosa, che insieme alla conversione di Israel Zolli lasciò un segno indelebile nell’animo degli ebrei, soprattutto romani. Giova ricordarla brevemente. Dopo l’armistizio e con l’occupazione di Roma da parte delle truppe tedesche, iniziarono i rastrellamenti di ebrei: per ogni ebreo consegnato dalla popolazione alla Gestapo era prevista una ricompensa di 5.000 lire (quasi lo stipendio annuo di un operaio). Dopo il 16 ottobre 1943, giorno della razzia nel ghetto di Roma, Celeste Di Porto, di umile famiglia, collaborò alla cattura di numerosi correligionari, al punto da guadagnarsi il soprannome di Pantera nera, essendo risaputo da ogni ebreo il “mestiere” di spia della ragazza, che all’epoca era poco più che diciottenne. L’arresto più noto fu quello del pugile romano Lazzaro Anticoli che, incarcerato in seguito alla delazione della Di Porto il 24 marzo 1944, incise con un chiodo sui muri della cella numero 306, del terzo raggio di Regina Coeli, la scritta: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mi è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”. Una tragica denuncia, espressa in poche righe. Nel pomeriggio di quel giorno il pugile venne ammazzato alle Fosse Ardeatine.
Le organizzazioni di soccorso ebraiche come la Delasem continuavano nel loro lavoro di ricerca per rintracciare i reduci e per aiutare i profughi che giungevano in Italia per imbarcarsi verso la Palestina. Nel mondo ebraico doveva serpeggiare una certa preoccupazione per questo loro continuo arrivo, aggiunto al timore di un rigurgito di antisemitismo anche in Italia, come traspare dalle colonne di Israel, che il 29 agosto 1946 riporta la seguente notizia: “Il Governo italiano sarebbe stato richiesto da quello americano di ammettere temporaneamente in Italia 25.000 profughi provenienti dalla Polonia, per i quali non c’è possibilità di accoglimento in Austria. Tali profughi sarebbero assistiti dalle organizzazioni alleate, principalmente dall’U.N.R.A., senza aggravio per l’Italia”.
Ancora più preoccupante si fece la situazione allorché l’Irgun Tzavai Leumi si assunse la responsabilità dell’attentato all’ambasciata inglese a Roma, questa volta ampiamente riportato anche dalla stampa non ebraica. I rappresentanti degli ebrei in Italia, la presidenza dell’Unione delle Comunità ebraiche con Raffaele Cantoni in testa, il Comitato profughi ebrei in Italia con Leo Garfunkel, la Federazione sionistica italiana con il suo presidente Carlo Alberto Viterbo reagirono immediatamente alla notizia smentendo qualsiasi legame con gli attentatori. Il presidente dell’Agenzia ebraica Umberto Nahon inviò una lettera al presidente del Consiglio De Gasperi esprimendo lo sdegno e i sentimenti di condanna per l’attentato. Il Congresso mondiale ebraico così si espresse sulle pagine di Israel del 28 novembre: “Le nostre autorità governative conoscono e apprezzano l’opera che anche in America i dirigenti del Congresso Mondiale Ebraico hanno svolto e vanno svolgendo per difendere il buon nome e gli interessi mondiali dell’Italia che risorge, nel mondo che la circonda. Infatti l’ospitalità che il governo italiano ha dato a decine di migliaia di profughi e continua a fornire loro, è stata molto apprezzata dal Consiglio Mondiale Ebraico e posta in rilievo presso tutti gli strati della popolazione americana e presso le autorità governative con le quali esso congresso in America è costantemente in contatto”.
Il governo italiano fu forse obbligato dalle autorità alleate ad accettare così tanti profughi? O forse voleva semplicemente essere identificato il meno possibile come Paese nemico che aveva perso la guerra? Se così fosse, anche i profughi ebrei vennero allora usati come fattore di mediazione, poiché anch’essi contribuirono a restituire all’Italia la dignità che aveva perduto con le leggi razziali, prima, e con la deportazione e lo sterminio dei suoi ebrei, dopo.
2. I codici testimoniali
La scrittura memoriale in Italia fu altrettanto frenetica; i libri sulla deportazione e sullo sterminio cominciarono a uscire quasi a ridosso degli avvenimenti, trentotto in tutto: due nel 1944, tredici nel 1945, diciassette nel 1946, tre nel 1947, due nel 1948 e uno nel 1950. Otto di essi furono scritti da ebrei.
In questo senso l’Italia rappresentò in Europa un caso unico. Come costituì un caso unico per i tre tipi di deportazione che incluse: quella politica, quella razziale e quella militare. Si calcola, per difetto, che furono almeno 32.820 i deportati politici, di cui soltanto il 10% sopravvisse, pari circa a 3.300; i morti furono quindi 29.500. Gli ebrei deportati raggiunsero il numero di 8.556 (dall’Italia e dal Dodecaneso), di essi 1.009 si salvarono, il numero dei morti fu quindi di 7.557, a cui vanno aggiunti i 303 ebrei uccisi nelle stragi razziali in Italia: il totale delle vittime sarebbe di 7.860, di cui 4.125 uomini e 3.735 donne. I militari italiani di ogni arma e grado deportati in Germania ammontano a circa 809.722 uomini, di cui 42.000 morirono nei lager; a queste vittime vanno aggiunti i 13.300 morti per l’affondamento nell’Egeo dei piroscafi che li avrebbero dovuti portare in Germania, i 6.300 militari uccisi su ordine di Hitler dall’Okw (Oberkommando der Wehrmacht) e i soldati – tra i 5.000 e gli 8.000 – morti o dispersi sul fronte orientale dove erano stati trasferiti: il totale in questo caso sarebbe di circa 69.700.
I libri di memorie che vennero pubblicati tra il 1944 e il 1950 ricostruiscono anche la mappa geografica della deportazione italiana nei campi di concentramento e di sterminio. I loro autori, ebrei e non ebrei, donne e uomini, giovani e meno giovani, ognuno con il proprio background sociale e culturale, catturati per delazione o più raramente durante rastrellamenti o come rappresaglia agli scioperi del gennaio e marzo 1944, furono incarcerati nella regione di cattura e dopo gli interrogatori e le torture furono trasferiti nei campi di concentramento e di transito italiani (Fossoli di Carpi, Bolzano-Gries, Risiera di San Sabba), e poi deportati nei campi di concentramento in Germania, Austria o Polonia, classificati come Politisch (prigioniero politico) o Schutzhäftling (prigioniero per motivi di sicurezza), talvolta nell’una o nell’altra categoria a seconda degli spostamenti da un lager all’altro. Per i deportati politici non era prevista l’eliminazione immediata, come per gli ebrei, ma lo sfruttamento fino alla morte. Venivano da molti campi di concentramento e di sterminio: Allach, Ascherleben, Auschwitz-Birkenau, Bad Gandersheim, Bergen Belsen, Buchenwald, Dachau, Dora, Ebensee, Floridsdorf, Flossenbürg, Gusen, Hersbruck, Innsbruck, Kamenz, Klessheim, Kotten, Linz, Malkow, Melk, Mauthausen, Monowitz, Natzweiler, Nordlingen, Punsen, Ravensbrück, Schönberg, Schwechat, Zwickau, Zwieberge.
Tra i libri sussistevano grandi somiglianze, ma anche rilevanti differenze, sotto ogni punto di vista. Se, infatti, le motivazioni che spingevano a scrivere erano solitamente comuni, l’esperienza era sempre individuale, rispecchiando i modi e le forme in cui la prospettiva personale guidava ogni racconto. Solo una piccola minoranza di superstiti riuscì a scrivere anche durante la prigionia: perché scr
Marco De Paolis e Paolo Pezzino- Monte Sole Marzabotto
Il processo, la storia, i documenti
Viella Libreria Editrice-Roma
SINOSSI
La strage di Monte Sole – più conosciuta con il nome del comune dove è stato costruito il sacrario, Marzabotto – è l’eccidio più sanguinoso compiuto dai tedeschi in Italia durante l’occupazione nazista del nostro Paese. Tra il 28 settembre e il 5 ottobre del 1944, in un’operazione formalmente presentata come rastrellamento antipartigiano, vennero sterminate intere comunità situate nell’altopiano fra le Valli del Reno e del Setta: furono quasi 800 i civili uccisi, per lo più bambini, donne e anziani.
Insieme alla strage di Sant’Anna di Stazzema, quella di Monte Sole è diventata, agli inizi degli anni Duemila, il simbolo di una nuova e singolare stagione giudiziaria relativa agli eccidi nazifascisti compiuti in Italia tra il 1943 e il 1945 che, oltre a rappresentare una importante svolta nella metodologia e nella giurisprudenza, ha fornito preziosi materiali agli storici, consentendo l’acquisizione di documenti e testimonianze inedite.
Per quanto tardivo il processo per la strage – celebrato nel 2006 presso il Tribunale militare di La Spezia – ha permesso di individuare, processare e condannare decine di criminali di guerra sottrattisi per oltre sessant’anni alla giustizia.
INDICE
Paolo Pezzino, Monte Sole Marzabotto: il racconto di un massacro
Marco De Paolis, Monte Sole Marzabotto: l’indagine, il processo
Documenti
1. Copertina esterna del fascicolo REDER
2. Copertina interna del fascicolo REDER
3. Copertina del fascicolo n. 1937 Reg. Gen. rinvenuto nel 1994 a Palazzo Cesi (nel c.d. armadio della vergogna) sul caso di Marzabotto
4. Copertina del fascicolo del Proc. n. 373/96/ign della Procura militare di La Spezia sul caso di Marzabotto
5. Lettera della Procura Generale Militare presso la Corte Militare di Appello di trasmissione alla Procura militare di La Spezia del fascicolo relativo a Marzabotto rinvenuto nel 1994 a Palazzo Cesi
6. Richiesta PM di rinvio a giudizio nel Proc. n. 279/04/RNR relativo al caso di Marzabotto
7. Elenco generale delle dichiarazioni di testimoni e imputati nei processi Reder e di La Spezia sul caso di Marzabotto
AUTORI
Marco De Paolis ha diretto la Procura militare della Repubblica di La Spezia dal 2002 al 2008 e quella di Roma dal 2010 al 2018, istruendo oltre 500 procedimenti per crimini di guerra durante il secondo conflitto bellico mondiale. È stato pubblico ministero, tra gli altri, nei processi per le stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema, Civitella Val di Chiana, Monte Sole Marzabotto, Cefalonia. Attualmente dirige la Procura Generale Militare presso la Corte Militare di Appello.
Paolo Pezzino è stato professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Pisa e dal giugno 2018 è Presidente dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri – Rete degli istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Ha collaborato come consulente tecnico d’ufficio con la Procura militare di La Spezia nelle indagini sulle stragi di civili in Italia nella seconda guerra mondiale. Ha diretto il progetto per un Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia, 1943-1945 (2013-2016), promosso dall’Anpi e dall’Istituto Nazionale Ferruccio Parri.
traduzione di Alessandro Ceni-Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Nota introduttiva di Alessandro Ceni
Dublino, 16 giugno 1904. È la data scelta da James Joyce per immortalare in poco meno di ventiquattr’ore la vita di Leopold Bloom, di sua moglie Molly e di Stephen Dedalus, realizzando un’opera destinata a rivoluzionare il romanzo. È l’odissea quotidiana dell’uomo moderno, protagonista non di peregrinazioni mitiche e straordinarie, ma di una vita normale che però riserva – se osservata da vicino – non minori emozioni, colpi di scena, imprevisti e avventure del decennale viaggio dell’eroe omerico. “Leggere l’Ulisse,” scrive Alessandro Ceni nella sua Nota introduttiva (qui pubblicata integralmente), “è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto” dove le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano. Trascinata da una scrittura mutevole e mimetica, da un uso delle parole che è esso stesso narrazione, la complessa partitura del romanzo procede con un impeto che scuote e disorienta. Perché “un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza”.
Una sfida insomma che, con il procedere della lettura, si trasforma in un vero e proprio godimento. Lo stesso di Joyce che, parlando del suo capolavoro, disse: “Vi ho messo così tanti enigmi e rompicapi che terranno i professori occupati per secoli a chiedersi cosa ho voluto significare; e questo è l’unico modo per assicurarsi l’immortalità”.
Ancora oggi il realista guarda solo verso
la realtà esteriore senza rendersi conto di
esserne lo specchio. Ancora oggi l’ideali-
sta guarda solo nello specchio voltando le
spalle alla realtà esteriore. L’atteggiamen-
to conoscitivo di ambedue impedisce loro
di vedere che lo specchio ha un rovescio,
una faccia non riflettente, che lo pone
sullo stesso piano degli elementi reali
che esso riflette.
Konrad Lorenz, L’altra faccia dello specchio –
La storia, disse Stephen, è un incubo dal
quale sto cercando di svegliarmi.
James Joyce, Ulisse
James Joyce
Abracadabra
Leggere l’Ulisse è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto. Spesso a rovescio. Per poi allontanarlo. E quindi riavvicinarlo. In un continuo movimento, anche muscolare, di avanti e indietro, o meglio, di indietro in avanti. Movimento durante il quale si ha coscienza e si dà contezza dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto. Questo processo diciamo ottico-cognitivo, incantatorio com’è proprio della sua qualità cinetica, incessantemente mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della fibra stessa del tessuto e campi lunghi dell’insieme dell’intreccio) ci conduce alla tutt’altro che stabilizzante condizione di trovarsi dentro e fuori dal testo contemporaneamente. L’Ulisse è la trama di una tela vista in simultanea nel recto, nel verso, alla luce ultra- violetta, a luce radente, e così via; tela che ha per telaio, che possiede per impianto portante, le due assi verticale-orizzontale delle due parole di apertura, “Stately” e “plump” (in questa traduzione “Sontuoso” e “polputo”), vale a dire l’alto/ basso, il drammatico/comico, l’eroico/farsesco del sopra/ sotto umano. Il dramma (nel senso stretto di rappresentazione seria di un avvenimento) e il comico (il suo contrario, la commedia dell’arte italiana) che vanno sobbollendo nel medesimo calderone danno origine per metamorfosi o trasformazione a una pozione che è la condizione del tragico quotidiano, quella condizione da tutti esperita dove l’antica matrice greca della ineluttabilità del destino e il moderno senso di illusorietà dell’esserci si fondono. I fili della trama del tessuto della tela sono i tanti e vari registri e colori (stilistici, linguistici) che animano questa stoffa fino a farcela balenare davanti per quello che potrebbe essere, per l’unicum che è: tutt’altro che “a misfire” (“un colpo mancato”, “una cilecca”), com’ebbe a definirlo Virginia Woolf, bensì uno straordinario e irripetibile colpito-e-affondato della scrittura. Un impensabile, fino ad allora (la data di pubblicazione è il 1922), tappeto magico.
Abracadabra
Nel leggere l’Ulisse ci si accorge che le parole, che sono i nodi della trama, rivoluzionano: com’è specifico della poesia, accade che le parole (anche una sola parola) illuminino violentemente rivoltandole le pagine, accendano orbitando di significato il tutto, incendino sul proprio asse l’immagine. Grande è la frequenza qui con cui la parola ci induce a percepire, grazie a una capacità sinestesica precipua della scrittura poetica, e in un modo a tal punto insistito che si potrebbe considerare l’intero testo alla stregua di un’unica poesia (niente a che vedere col poema), un’unica poesia dilatata, iperbolica, strutturata nelle 3 parti (I, II, III) ovvero macro-strofe del racconto divise in 18 episodi (3, 12, 3) ovvero scene ovvero macro-versi, dove ogni episodio è in realtà un lunghissimo, pantagruelico solo verso, ricchissimo di rime interne, assonanze, metafore ecc. che vanno materilizzandosi (cioè, vengono narrativamente rese) in persone, personaggi, casi, situazioni, frasi, espressioni ecc. L’impressione è che Joyce, superata nel 1916 la prova sperimentale del suo A Portrait of the Artist as Young Man, abbia voluto trasportare e ricomporre in prosa per il tramite tecnico della poesia una sua musica interiore, dove il geniale monstrum, il prodigioso ordito prodotto dall’unione di uno spartito sinfonico con un pezzo di chamber music ma dodecafonico – e Chamber Music è, come si sa, anche il titolo del primo libro di Joyce, una raccolta di poesie uscita nel 1907 –, miscela il recitar cantando (Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi) al melodramma pucciniano, le malìe di Ravel all’astrazione di Schönberg e alle fiamme di Stravinskij. È per questo che le sue parole nella pagina rivoluzionano: l’uso totale della lingua, declinata nei suoi multiformi linguaggi, fa della lin- gua in sé il racconto, il narrato (si presenta, diciamo, al pari di una Odissea della lingua, il cui canto è come se fosse per sortilegio in perenne esecuzione). E ancora: pittoricamente parlando, sembra quasi di assistere alla, per dir così, messa in scena di una pala d’altare giottesca, con la sua predella e le sue formelle (il cui ordine però è stravolto), dipinta da un cubista, di modo che lo stesso oggetto è osservato contemporaneamente da più punti di vista per ottenere una scomposizione che compone: un cubista con solidissime fondamenta figurative classiche (la mente va al Picasso di Les demoiselles d’Avignon).
James Joyce
Abracadabra
Dal leggere l’Ulisse – dai suoi nodi-parole della trama del tessuto del tappeto, dal suo inesorabile decontestualizzare e ricontestualizzare con la sua feroce conseguenza di spostamento di significati fino al rovesciamento e alla parodia (all’acuminato vertice della parodia della parodia), e oltre, fino alla purezza del travestimento e dell’imitazione (mai qui della dissimulazione o della falsificazione, perché qui tutto è onestamente e crudamente “reale” e “vero”), cioè a una sorta di sincronico incamminarsi sul filo senza bilanciere e farsi sparare dal cannone –, dal leggere l’Ulisse se ne può facilmente sortire con le ossa rotte e con la inquietante sensazione di non averci capito niente ovvero con la irritante sensazione di non possedere adeguate facoltà intellettuali, se non addirittura intellettive, oltre che con la ragionevole tentazione di liquidare il tutto come il coltissimo delirio di un letterato irlandese ebbro. In realtà, superato l’iniziale e, mi si passi, iniziatico sforzo di approccio, ponendosi in piena libertà e disponibilità nei confronti della sensibilità del testo, ci si può impadronire (e farsi irretire, esattamente farsi “prendere nella rete”) della profonda grandezza e bellezza di questo punto di non ritorno della letteratura mondiale di tutti i tempi. Da una parte il lettore tenga sempre ben presente che il modernismo joyciano, sodale della linea guida che andava allora tracciando il poeta Pound, ha salde basi evidenti e dichiarate oppure misteriosamente alluse proprio nella tradizione che va scardinando (avvelenando l’impianto stilistico dei grandi narratori dell’Ottocento europeo), secondo un procedimento comune a ogni opera d’arte autentica, e che qui, com’è ormai arcinoto, è costituita da uno zoccolo ovvero piattaforma (tettonica) o pangea formato dal Vecchio e Nuovo Testamento amalgamato alla totalità dell’opera shakespeariana (sulla quale Joyce abilmente riesce a innestare una speciale commistione ottenuta con le accese tinte di una novella chauceriana e le fosche di un truce dramma elisabettiano), passando per il mondo classico greco-latino, la mitologia gaelica e Dante e innervato da scrittori come Defoe, Sterne, Dickens, Rabelais, Cervantes, Balzac, tanto per rammentarne quasi a caso qualcuno; quindi il metodico lavoro di distruzione e di ricostruzione (di rinnovato utilizzo delle pietre del castello letterario) che caratterizza questo inedito omerico bardo del disastro dell’esistere poco o nulla ha a che spartire con l’inane macello di un avanguardista. Dall’altra parte un testo così concepito esige un lettore pronto a traslocarvisi armi e bagagli, ad abitarlo, a starci dentro abbandonando ogni incertezza, a imbarcarvisi provando dunque quel particolarissimo stato d’animo che si ha nel navigare, di identificazione di sé con la nave (io sono la nave/la nave sono io, la nave mi ha/io ho la nave): sono portato dal mezzo e ne divengo il mezzo. Al lettore è richiesto, insomma – an- che se è possibile che ne riemergerà come sfiorato dalla baudelaireiana “ala del vento dell’imbecillità” e stordito, claudicante, balbuziente – di calarsi nel buio della parola, nell’abisso della lingua, di scendere nell’agone di quelle pagine come un antico atleta di Olimpia: nudo. Si esige qui il cedere e l’affidarsi alla consapevole scelta del precipitare (in quel “Sì” con cui si chiude il viaggio?), evitando di controllare gli strumenti, le bussole e i portolani o i radar sollecitamente forniti dallo sterminato contributo critico e dall’apparato di commenti, glosse, note (utili, senza dubbio, ma giustificabili quasi del tutto da, legittimi, criteri editoriali), eludendo se possibile il sotteso, e presunto, schema compositivo che ricalcherebbe episodi dell’Odissea (e che a me pare invece presentarsi come un ulteriore depistaggio, a posteriori, joyciano, una ulissica trappola nella trappola, tanto ammiccante quanto grottesca, e proprio per le sue caratteristiche di erranza ed enigmaticità), e persino la figura medesima di Ulisse, che andrei casomai a rintracciare, anziché nell’eroe omerico, nell’arcaica figura mitica di un dio solare, cioè della nascita e della morte, antecedente alla colonizzazione greca dell’Egeo, pertanto da far risalire a prima dell’epica che lo riguarda. Il lettore infine cessi di continuare a guarda- re del prestigiatore il cilindro con la puerile speranza di capire come e perché ne esca il coniglio.
Dell’eretico (delle patrie lettere di lingua inglese) e del- lo scismatico (della cultura e patria irlandese) Joyce con gratitudine una irrefutabile certezza va conservata, una certezza che travalica la difficoltà e anche l’incomprensibilità della pagina, ed è quella che l’Ulisse è tanti Ulisse: lo è Stephen, lo è Bloom, lo è Molly, lo sono le persone e i personaggi che sostanziano quel breve arco temporale dublinese in cui agiscono e sono agiti, lo è il lettore, lo è il traduttore, siamo noi. L’Ulisse è tanti Ulisse ma l’Ulisse assoluto è il testo. A questo punto però Joyce (l’esule, il gran fuggiasco) è ormai decisamente in rotta verso quel “riverrun” posto in esergo a Finnegans Wake, verso il michelangiolesco osare, il “folle volo”, linguistico dell’“Apriti Sesamo” definitivo.
James Joyce
Nota a margine
Al termine di questi non pochi anni di lavoro desidero ringraziare la casa editrice per la fiducia accordatami nell’affidarmi la traduzione, in particolare i direttori di collana succedutisi nel tempo fino all’attuale perché hanno saputo sagacemente attendere e la redazione perché ha saputo assai professionalmente sopportare.
Questi anni e questo lavoro sono dedicati a mia madre Bernardina (1918-2014) e a mio fratello Massimo (1949-2019).
_______________
[Titolo dell’opera originale ULYSSES – Traduzione dall’inglese di ALESSANDRO CENI
Prima edizione nell’“Universale Economica” – I CLASSICI ottobre 2021]
James Joyce
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L’AUTORE
James Joyce (Dublino, 1882 – Zurigo, 1941) è stato uno dei più grandi scrittori del Novecento. Scrittore sin dalla giovane età, tentati gli studi in medicina e una carriera da tenore, nel 1905 si trasferì a Trieste divenendo insegnante, e conobbe tra gli altri Italo Svevo ed Ezra Pound. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si trasferì a Zurigo, e poi a Parigi, dove pubblicò Ulisse (1922), considerato il suo capolavoro. Nei diciassette anni successivi si dedicò alla stesura di Finnegans Wake, che uscì nel 1939. Nei “Classici” Feltrinelli sono disponibili anche Gente di Dublino (2013) e Un ritratto dell’artista da giovane (2016).
IL TRADUTTORE
Alessandro Ceni (Firenze, 1957), poeta e pittore, ha tradotto fra gli altri Milton, Poe, Durrell, Keats, Byron, Emerson, Ste- venson, Carroll, Wharton, Scott Fitzgerald. Per “I Classici” Feltrinelli ha tradotto e curato La ballata del vecchio marinaio – Kubla Khan (1994) di Samuel Taylor Coleridge, Il critico come artista. L’anima dell’uomo sotto il socialismo (1995) di Oscar Wilde, Lord Jim (2002) di Joseph Conrad, Moby Dick (2007) e Billy Budd (2008) di Herman Melville, Foglie d’erba (2012) di Walt Whitman e Il Circolo Pickwick (2016) di Charles Dickens.
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