Armando Lostaglio- Giuseppe Tornatore “Il Collezionista di Baci” cinematografici
Il collezionista di baci. Ediz. illustrata di Giuseppe Tornatore Mondadori Electa 2014
Un libro sul bacio cinematografico. Un regalo per la San Valentino. Ciascuno di noi ha nel fondo del proprio intimo cassetto il bacio più bello, quello che al cinema ha visto da ragazzo, che lo ha ammaliato e forse turbato. Nel 2014, il regista premio Oscar Giuseppe Tornatore ne ha fatto un libro prezioso, un volume fotografico per raccontare il bacio cinematografico attraverso le suggestioni che proiettavano i manifesti dei film. Vere e proprie opere d’arte pittorica.
Questo libro – pubblicato da Mondadori Electa, 215 pagine – ha un pregio particolare, oltre a quello di farci rivivere scene famose di film che fanno parte della storia del secolo scorso: restituisce dignità a quegli artisti che dipingevano i manifesti, pittori come Anselmo Ballester, Alfredo Capitani, Luigi Martinati. “E come Casaro – sottolinea Tornatore – che è stato quello che ha portato più a lungo questa tradizione della cartellonistica pittorica, ma ci sono stati degli artisti, dei pittori che per arrotondare facevano i manifesti per il cinema. Era un’arte particolare, i manifesti erano bellissimi.”
Il regista siciliano, ideatore dell’indimenticabile sequenza finale di “Nuovo Cinema Paradiso” dedicata proprio al bacio, che il parroco don Adelfio tagliava perché li giudicava scabrosi, ha selezionato e commentato più di duecento manifesti originali che coprono un arco temporale di circa un secolo. Si tratta di immagini provenienti dalla collezione di Filippo Lo Medico, il quale – aggiunge ancora Tornatore – “ha dedicato tutta la sua vita alla gestione di sale cinematografiche ed ha collezionato 60 anni di cartellonistica cinematografica. Quando vide “Nuovo cinema Paradiso” manifestò l’idea di fare una raccolta di baci nei manifesti e oggi, a distanza di 25 anni, il sogno si realizza”. Il libro ripercorre dunque su un’unica traiettoria un arco temporale che va dal 1926, col bacio tra Rodolfo Valentino e Vilma Banky nel film “Il figlio dello sceicco”, fino al 2005 con “Cinderella man” e il bacio tra Russell Crowe e Renee Zellweger.
E come non ricordare la locandina dell’indimenticabile bacio tra Clark Gable e Vivien Leigh di “Via col vento” (del 1939) e de “La dolce vita” (del 1960) fra Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella mitica Fontana di Trevi? Ed ancora quello tra Audrey Hepburn e George Peppard in “Colazione da Tiffany”; sublime quello tra Marcello Mastroianni e Sophia Loren in “Una giornata particolare” di Ettore Scola; vigoroso e reale quello tra Jack Nicholson e Jessica Lange in “Il postino suona sempre due volte”; e, più vicino a noi nel tempo, il bacio quasi innocente tra Leonardo Di Caprio e Kate Winslet del “Titanic”; e quello della coppia (allora anche nella vita) Nicole Kidman e Tom Cruise per l’ultimo film di Kubrick “Eyes wide shut”.
Ma il bacio preferito di Tornatore qual è? “Ne ricordo tanti, ma se dovessi scegliere non ho dubbi: è quello fra Tyron Power e Kim Novak in “Incantesimo”, perché con questo film fu inaugurato il Supercinema di Bagheria che era a poche centinaia di metri da casa mia. Lì sono entrato per la prima volta a vedere un film, lì sono ritornato da solo e da ragazzo, sempre in quella sala ho lavorato come proiezionista ».
Una testimonianza toccante che profuma di amore verso il cinema; il bacio che ha segnato la nostra passione rimarrà quello fra il pugile Rocky Graziano/Paul Newman e Norma/Pier Angeli (l’italiana Annamaria Pierangeli), diretti nel 1956 da Robert Wise in “Lassù qualcuno mi ama”, il primo film della personale folgorazione verso quest’arte.
Armando Lostaglio
Nota biografica di ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all’Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica – Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l’imbrunire (2012); Il genio contro – Guy Debord e il cinema nell’avangardia (2013); La strada meno battura – a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.
Il collezionista di baci. Ediz. illustrata di Giuseppe Tornatore Mondadori Electa 2014
Piero Rattalino-LA TESTA DEL SERPENTE-Manualetto del pianista per passione
Prefazione di Luca Chiantore-Zecchini Editore
La musica dal vivo – quella che chiamiamo classica usando un po’ a sproposito un termine che è diventato fin troppo polivalente – si trova oggi nella condizione di un piccolo esercito che, rifugiatosi in una città-fortezza, resiste all’assedio di due potenti nemici, l’Esercito della Rete e l’Esercito dell’Intelligenza Artificiale. La città resiste eroicamente, ma sa che nessuno arriverà a soccorrerla e constata invece che i viveri cominciano a scarseggiare, che l’acqua è stata razionata, che le munizioni si vanno esaurendo. Gli assediati capiscono allora di dover preparare il piano di una sortita da “o la va o la spacca”, una sortita che miri a rompere l’assedio, a riprendere l’iniziativa e a concludere la guerra con un compromesso soddisfacente e onorevole per tutti. Usciranno perciò dalla città non come combattenti ma come messaggeri di pace, armati di rose e garofani, non di spade e lance.
Usciamo di metafora. Questo libro parte dalla premessa che la musica dal vivo non è stata in grado di contrastare la concorrenza della rete e che oggi è insidiata da tre gravi problemi, interdipendenti: il reperimento di fondi, l’assottigliarsi delle presenze del pubblico, la limitata creatività della interpretazione, e quindi il limitato appeal del prodotto che viene messo sul mercato. L’interpretazione ha percorso durante il Novecento il cammino di una grandiosa utopia: applicarsi a scoprire e trasmettere al pubblico il pensiero del compositore, e quindi l’autenticità dell’opera. E ha conseguito risultati di assoluto valore. Ma quei risultati sono stati conservati nelle registrazioni e sono oggi disponibili in rete, e una parte del pubblico esistente si sta orientando in tal senso e, soprattutto, il numerosissimo pubblico potenziale che alla rete si è già rivolto non passa alla musica dal vivo.
Il piano di pace consiste nello spostamento dalla realizzazione del pensiero alla realizzazione dell’emozione che squassò il compositore mentre creava la musica, mentre cioè cascava in quello stato di divina follia che, come ci insegnò Platone, è l’arte. La sortita viene proposta ai pianisti per passione, professionisti e dilettanti, che si sentono impegnati a operare non in una terra di fede condivisa ma in una terra di missione.
Piero Rattalino ci ha lasciati pochi giorni fa, appena dopo aver posto la parola “fine” a questa sua ultima fatica letteraria, che è insieme un testamento spirituale e un coraggioso atto di proposta verso il futuro. Partendo dalla figura del “musicista per passione”, del dilettante di talento, Rattalino propone una nuova didattica pianistica che è insieme estetica e sociologica, che vada di pari passo a una nuova forma di concerto (il RecitarSuonando) e a una vera rivoluzione del rapporto tra pubblico e artisti. Un testo su cui meditare, l’estremo regalo del più grande esperto e divulgatore pianistico degli ultimi 50 anni.
Il fascismo dalle mani sporche- Dittatura, corruzione, affarismo
a cura di Paolo Giovannini – Marco Palla
Editori Laterza- Bari
DESCRIZIONE
Truffe, tangenti, arricchimenti inspiegabili, legami con la mafia: il fascismo tutto fu tranne che una ‘dittatura degli onesti’. Un regime, che pretendeva di forgiare un ‘uomo nuovo’ e di correggere i mali dello Stato liberale, vedeva in realtà estendersi il malaffare fino ai gangli centrali dello Stato. Un vero e proprio salto di qualità nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo che spiega il successo e le rapide fortune personali di alcuni protagonisti di questi anni: dal caso del magnate dell’industria elettrica privata, Giuseppe Volpi, a quello del capo di Stato maggiore Ugo Cavallero. Ma ‘mani sporche’ sono anche quelle di alcuni degli esponenti più importanti del regime come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza o il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi. Pratiche tanto comuni da diventare tragicomiche se guardiamo alle vicende dei ‘pesci piccoli’ a caccia di buone occasioni nelle colonie dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia. Un iceberg,quello della corruzione, di cuiMussolini era pienamente consapevole tanto da dedicare costanti attenzioni al suo occultamento attraverso censura e propaganda.
Introduzione di Marco Palla e Paolo Giovannini
La parabola storica del fascismo dalle origini alla seconda guerra mondiale, dal movimento al partito e al regime, mostrò svariati segnali coevi dell’emergere, discontinuo e dissimile nei tempi e nella morfologia, e quasi sempre occultato dalla propaganda, di una sorta di ‘questione morale’ relativa ai molteplici episodi e casi di corruzione e di affarismo, di interessi privati in atti d’ufficio, o – come diremmo oggi – di conflitto di interessi: in una parola, di un peculiare rapporto tra fascismo/fascisti in quanto istituzione al potere e uso privato (talora manomissione e appropriazione indebita) della cosa pubblica.
Le lotte intestine fra ras locali e nascenti gerarchi ‘in doppiopetto’ nella fase di iniziale stabilizzazione al potere, dopo la marcia su Roma fino al 1925-26, videro l’avvicendamento al comando dei potentati in periferia o anche in grandi città segnato non di rado da denunce del malaffare e dei pragmatici risvolti per così dire pecuniari e privatistici di defenestrazioni e cadute in disgrazia. La liquidazione del ‘populista’ Padovani a Napoli, lo scandalo soffocato sul nascere sulle trame affaristiche di Giampaoli a Milano, le oscure vicende legate agli intrighi attorno al primo podestà di Milano, Belloni, in cui rischiò di essere invischiato il fratello di Mussolini, Arnaldo, la rivincita degli ex liberali che a Firenze ripresero le redini del potere sul parvenu Tamburini, che aveva lucrato sul gioco d’azzardo e tenuto sotto controllo buona parte del racket della prostituzione e delle case di tolleranza, potrebbero essere menzionati come le punte di un ben più consistente iceberg.
All’intensa e maniacale sommersione di quell’iceberg il capo del governo, che stava nel frattempo edificando una dittatura con manifeste tendenze verso uno Stato totalitario, dedicò un’attenzione costante, introducendo la censura sulla stampa che veniva integralmente fascistizzata e irreggimentata dall’alto e dal centro, potenziando il cardine dell’incipiente apparato propagandistico dello Stato-partito con l’onnipresente e tentacolare Ufficio stampa alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio dei ministri, costruendo insomma gradualmente un complesso e pervasivo ‘discorso pubblico’ in cui il fascismo era presentato come l’unico decisivo elemento propulsore della moralizzazione italiana. Nella politica di ‘andare al popolo’ sancita dalla nomina di Starace a segretario nazionale del Pnf alla fine del 1931, con la creazione nel 1934-35 prima di un sottosegretariato e poi di un ministero della Stampa e propaganda dotato di un ingente budget di spesa pubblica, Mussolini in prima persona e un po’ tutti gli organismi di massa del regime e non poche delle sue istituzioni piccole e grandi seguirono la disposizione superiore e inderogabile di descrivere l’Italia come un paese dove la cronaca nera, i crimini e i suicidi, per non parlare poi degli illeciti amministrativi, contabili, finanziari, erano del tutto scomparsi e la corruzione in generale, e quella legata alla politica in particolare, era stata sradicata. La macchina per la ricerca del consenso popolare funzionò a lungo, con notevole efficacia di risultati, negli anni Trenta, e, quando non riuscì a suscitare entusiasmo o adesioni fanatiche, per lo meno centrò il target di una specie di manzoniano e antichissimo ‘troncare e sopire’, diffondendo nuove versioni di arcaiche e meno arcaiche forme di conformismo.
I segnali di guerra, accolti dallo spirito pubblico con una certa apprensione, una volta tradottisi in guerra vera e propria, per quanto lungamente annunciata e proclamata, rappresentarono una svolta epocale, mettendo per primi i combattenti italiani alla prova dei fatti e di realtà belliche disastrose per le forze armate nazionali, con il manifestarsi tra soldati e ufficiali delle campagne balcaniche, africane, russe, di una distonia e poi un distacco dai falsi miti e dalle false illusioni di una guerra facile e vittoriosa: per primo fu Roberto Battaglia, nella sua pionieristica Storia della Resistenza italiana, a concettualizzare il fenomeno dell’‘antifascismo di guerra’, che tendeva in modo abbastanza naturale a trasmettersi dai soldati combattenti alle loro famiglie in Italia. Il fronte interno cominciò a sviluppare, come testimoniato da innumerevoli segnalazioni delle varie polizie fasciste, una specifica casistica di prese di distanza dal regime che a lungo risparmiarono Mussolini nel periodo 1940-43, investendo tuttavia tutto il resto della classe dirigente dello Stato-partito, in particolare sommergendo di odio e ripulsa la casta privilegiata dei gerarchi che conducevano una vita dispendiosa e lussuosa al di sopra e in aperto contrasto e quasi beffa e spregio dei sacrifici e delle ristrettezze della vita quotidiana della maggior parte della popolazione, alle prese con il tesseramento e il razionamento dei generi alimentari primari. Gli affari di una gerarchia corrotta, tuttavia, erano sulla bocca di tutti ma ancora non sfociavano in insofferenza manifesta o, sul piano politico, in una sorta di indignazione collettiva capace di insorgere contro il regime fascista e di ribellarsi apertamente al suo duce.
Negli anni della guerra combattuta sul territorio italiano, una svolta si verificò con la liberazione di Roma nel giugno 1944, con la fine del governo Badoglio e la formazione del primo governo a composizione ciellenistica e l’avvio del processo di epurazione. Emerse allora, all’interno del più ampio ambito delle sanzioni contro il fascismo, una vera e propria specifica definizione di ‘profittatori del regime’, che derivava dalla unanime convinzione politica delle varie forze antifasciste che cooperavano nel Comitato di liberazione nazionale – bipartito in quello romano/centro-meridionale e in quello del Nord o Comitato di liberazione nazionale Alta Italia – e che intendevano aprire una pagina nuova nell’ambito istituzionale, legislativo, amministrativo, iniziando rapidamente a defascistizzare lo Stato e a costruire su basi nuove un’autentica democrazia. Tuttavia, i profittatori fascisti potevano costituire un più o meno vasto insieme di persone, individui e gruppi che era molto più facile identificare tramite un solidale sforzo politico che non attraverso una codificazione del reato, di imputazione giuridica assai generica se non discrezionale.
La volontà di fare i conti con il fascismo e con i fascisti che dal regime avevano lucrato carriere e successi anche patrimoniali corrispondeva bene all’indignazione di buona parte dell’opinione pubblica, mentre secondo la celebre battuta di Nenni soffiava forte il «vento del nord» a cambiare l’aria stantia della vecchia Italia monarchica e fascista. Quel vento però non tardò ad affievolirsi e l’intero meccanismo istituzionale, politico e giuridico, dell’epurazione si avviò a una graduale ma sempre più veloce archiviazione. Le corti di assise straordinarie svolsero parimenti un intenso lavoro di istruzione e messa a processo degli autori dei vari reati di collaborazionismo, inclusi quelli sommariamente rubricabili come ‘economici’, ma cessarono il loro operato nell’inerzia della nuova fase 1946-47. I beni razziati agli ebrei italiani nel 1943-45 dalla Rsi, e anche quelli in vario modo ceduti da cittadini e famiglie ebraiche sotto la costrizione o il ricatto della congiuntura delle leggi antisemite del 1938, non furono restituiti che in minima parte.
Nella complessa transizione italiana del 1945-48, con la liberazione seguita però abbastanza presto dai riflessi nazionali della Guerra Fredda, iniziò in parte a disperdersi la memoria dell’indignazione e della ripulsa del fascismo, con la sua classe politica corrotta e il suo duce sempre disponibile a coprire scandali e ruberie. Si dimostrò sotterraneamente persistente uno dei miti e canoni propagandisti del regime totalitario, la presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e in parte della sua dittatura. Anzi, in seguito, con il trascorrere del tempo, a ogni emergere di scandali e denunce del malaffare nelle cosiddette Prima e Seconda Repubblica, il ‘discorso’ neofascista, tacitamente accolto dalla ‘maggioranza silenziosa’ dell’opinione media e ‘moderata’, finì per contrapporre una democrazia screditata a un regime immaginario ma, per così dire, intonso dalla corruttela affaristica. Da Tangentopoli nel 1992 a oggi, per quello che ormai è un lungo quarto di secolo, è parso più credibile, agli occhi di parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal ‘cono d’ombra’ delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi.
La storiografia sul fascismo, in linea generale, ha considerato affarismo e corruzione come elementi pressoché ‘fisiologici’, ma anche come aspetti tutto sommato marginali, comunque di non primaria importanza per la comprensione del fenomeno fascista, meritevoli al massimo di qualche rapido accenno. Il tema dell’affarismo e della corruzione, pur spesso presente o evocato, non è stato sottolineato con vigore e continuità. Uno dei primi libri, pamphlet e testimonianza più che ricerca o analisi sistematica, a sollevare apertamente la questione fu quello dell’antifascista fiorentino Ernesto Rossi, che prendeva di mira l’avidità della classe dirigente economica, connivente e complice del regime, ma tralasciava di approfondire il nesso sistematico dello ‘scambio’ reciproco di favori, convenienze e sostegni tra politici fascisti e ambienti finanziari, bancari e del grande capitalismo industriale, che del profitto si occupavano per così dire in modo professionale e strutturale. Le prime storie generali del periodo fascista, da Salvatorelli (1953, poi in edizione ampliata con la collaborazione di G. Mira, 1964) a Carocci (1959) non posero il problema. Gli storici professionali ‘pionieri’ (Aquarone, De Felice, Santarelli) e una prima serie di indagini archivistiche successive tra metà anni Sessanta e metà anni Settanta si concentrarono sulla ricostruzione pur necessaria dei lineamenti istituzionali della fisiologia, e a volte della patologia, del regime facendo emergere come momento centrale della discussione storiografica soprattutto la questione del consenso.
Restarono ancora a lungo sullo sfondo o ai margini i nessi tra regime e corruzione, con qualche meritoria eccezione. Per esempio lo storico inglese Adrian Lyttelton mise in luce, grazie al ricorso frequente alla prospettiva di indagine che partiva dalle periferie e non dal centro, un vasto retroterra di corruzione, carrierismo e affarismo già nel processo di conquista e stabilizzazione al potere del fascismo fino al 1929. In varie sintesi generali di storia del regime fascista il tema del carrierismo e del rampantismo degli uomini nuovi fascisti, della rapacità del nuovo establishment dei gerarchi, della corruzione e dell’affarismo endemici, stentava a figurare tra i principali e più rilevanti, sia in sede puramente informativa e descrittiva sia in ambito interpretativo. Seppure affarismo e corruzione avessero certamente avuto un peso e un costo notevoli nel funzionamento dello Stato fascista e continuino a suscitare l’interesse di studiosi dell’età liberale e della prima guerra mondiale, in anni abbastanza recenti neppure due ampi e assai articolati dizionari hanno ritenuto l’argomento meritevole di specifiche voci.
Significativamente diverso è il caso di quelle opere nelle quali la dimensione periferica e anche i sia pur sommari ritratti biografici di gerarchi maggiori e minori sono tenuti nel massimo conto, come nel libro di Salvatore Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, e con particolare evidenza negli studi di Paul Corner, dove emerge la valenza euristica di un approccio attento a tali questioni. L’esame complessivo dei cosiddetti duri e puri dello squadrismo ha messo in luce numerosissimi risvolti prosaici e affaristici delle loro carriere. Mentre corruzione e malversazioni hanno trovato un’adeguata considerazione in biografie di importanti gerarchi, studi di alcuni anni addietro hanno dimostrato che affarismo e corruzione a livello centrale non rappresentavano una degenerazione del tardo fascismo, di un regime ormai ripiegato su sé stesso, ma costituivano già una realtà dei primi anni, come attestato dallo scandalo dei residuati bellici, che aveva contribuito non poco a intorbidare il clima politico nei primi tempi del governo Mussolini, e dall’affare Sinclair Oil, che era arrivato a toccare lo stesso presidente del Consiglio.
Interventi storiografici (soprattutto di storici stranieri) hanno poi messo in evidenza il forte contrasto che si venne a stabilire fra un regime che pretendeva di correggere i mali dello Stato liberale, di forgiare un «uomo nuovo», e il proliferare durante il Ventennio dell’affarismo, della corruzione, del clientelismo e del nepotismo, in una forma addirittura assai più estesa rispetto al passato.
Su tali questioni si sono soffermate anche opere recenti di taglio giornalistico, che non di rado sacrificano il rigore storiografico a favore di un sensazionalismo o di uno ‘scoopismo’ teso soprattutto ad accattivarsi l’attenzione di un vasto pubblico. Così il libro di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, dal titolo anacronistico ma di forte richiamo Tangentopoli nera, dedicato a «malaffare, corruzione e ricatti all’ombra del fascismo», promette di restituire «per la prima volta in modo organico» – come recita la quarta di copertina – «la verità sulla corruzione dei gerarchi, la faida interna al Partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell’Italia del Ventennio», attraverso l’uso delle «carte segrete di Mussolini». Si tratta di un libro piuttosto discontinuo, che, se non è del tutto inservibile, lascia comunque parecchio a desiderare dal punto di vista scientifico, mentre la documentazione utilizzata, proveniente dagli archivi nazionali britannici, risulta spesso essere nient’altro che la riproduzione di quella conservata a Roma presso l’Archivio centrale dello Stato. Le sue acquisizioni, in definitiva, non aggiungono granché rispetto a quanto già noto, ma hanno almeno il merito di sollevare il problema sia pure con metodologia criticabile sul piano storiografico professionale.
Eppure le fonti per studiare seriamente questi argomenti non mancano di certo, come dimostrano anche i contributi qui proposti. Presso l’Archivio centrale dello Stato sono disponibili vari fondi che permettono approfondimenti in questo senso: dal Carteggio riservato della Segreteria particolare del duce, dove si trovano – pur con qualche significativa assenza rispetto all’inventario – vari fascicoli su gerarchi e altre personalità di spicco del regime o su spinose questioni, alle carte della Polizia politica (con i fascicoli per materia e personali), agli archivi fascisti, alle buste dell’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo, ecc. Recente è l’acquisizione di un importante fondo sugli ‘arricchimenti illeciti’ (in corso di riordino e inventariazione) che risale alla seconda metà del 1943 ed è il risultato di una duplice committenza: dapprima esso fu commissionato dal governo Badoglio subito dopo il 25 luglio, con l’evidente intento di delegittimare il regime appena crollato, poi passò in gestione a Mussolini, tornato al suo posto con la Repubblica sociale italiana, secondo un orientamento che mirava a distruggere la reputazione dei gerarchi che si erano rapidamente messi a disposizione di Badoglio e del re, e soprattutto quella di coloro che gli avevano votato contro il 25 luglio.
A livello provinciale in particolare la documentazione prefettizia, come anche quella prodotta dalle questure e dagli enti locali, contribuisce a far luce su episodi e situazioni di corruzione e affarismo che in vari casi vanno al di là del cosiddetto ‘beghismo’, degli scontri fra fazioni contrapposte, dei contrasti fra una piccola e media borghesia emergente in camicia nera e il vecchio notabilato, permettendo di focalizzare da un interessante punto di vista specifiche dinamiche del potere locale, il costituirsi di rinnovate reti di interessi e di rappresentanza, il rapporto del centro con le molteplici e diverse periferie e viceversa. Dagli studi finora condotti emerge un’endemica conflittualità interna ai fascismi provinciali, conseguente alla perniciosa mescolanza fra le deteriori pressioni personalistiche dei capi e le istanze politico-affaristiche connesse con il controllo del territorio, tant’è che essi – nonostante i ripetuti tentativi in tal senso messi in atto dai vertici governativi e del partito – non appaiono praticamente mai pacificati.
Gli studi sul fascismo locale, facilitando lo scavo archivistico, possono contribuire efficacemente alla ricostruzione dei contorni del fenomeno. Ad esempio ci si chiede quale quadro generale emergerebbe dall’insieme dei diversi casi trattati da Leandro Arpinati nel periodo in cui, come sottosegretario del ministero dell’Interno, intraprende un’opera di moralizzazione dei fascismi provinciali e dispone accertamenti sulle fortune economiche di vari gerarchi. Certamente si trattò di casi non legati in un’unica trama, ma che comunque compongono i tasselli di una realtà che appare assai diffusa. O, negli anni 1930-31 della segreteria del Pnf retta da Giovanni Giuriati, quali possibili risultati potrebbero fornire le fonti archivistiche in merito alla verifica analitica delle espulsioni in massa di circa 200.000 iscritti al partito per indegnità o per veri e propri reati connessi al carrierismo e in generale alla manomissione della cosa pubblica.
Con i saggi presentati in questo libro i curatori vogliono ribadire, nello specifico di questi contributi storiografici professionali, l’acquisizione ormai consolidata di più stagioni di studi scientifici, che forse ha il limite di non essere riuscita a trovare gli opportuni canali di diffusione nella più generale cultura di massa e negli stessi vari livelli della divulgazione di memoria e dell’insegnamento scolastico di ogni ordine e grado. Non si affronta, con questi contributi, una più generale questione di come si siano svolti nel periodo fascista gli affari e le transazioni economiche, finanziarie, bancarie; di come si siano approcciati al regime fascista i potentati economici, gli imprenditori e i manager, insomma i professionisti degli investimenti, dell’allocazione di risorse e della gestione produttiva, privata e dei grandi apparati pubblici di interventismo economico. Restano deliberatamente al di fuori della nostra cernita gli imprenditori tout court come Agnelli, Benni, Donegani e tanti altri che Ernesto Rossi definì i ‘padroni del vapore’, coinvolti strutturalmente nel regime fascista.
Tuttavia abbiamo scelto di includere nel libro un ritratto che evidenzia la natura politica e la statura politica di un grosso calibro come il magnate dell’industria elettrica privata Giuseppe Volpi, ministro del governo Mussolini, il più eminente tra le figure di uomini d’affari designati a far parte degli esecutivi fascisti in tempi diversi, quali Guido Jung o Vittorio Cini: Volpi fu uno dei pochissimi, come anche Alberto Pirelli, a essere regolarmente ricevuto in udienze periodiche dal duce, mantenendo per tutto il Ventennio fino alla caduta del luglio 1943 una stretta prossimità anche personale con il dittatore. Abbiamo anche deciso di includere nella casistica qui presentata figure di collegamento e sutura tra industria privata e dicasteri militari come il capo di Stato maggiore che sostituì, nel 1940, il maresciallo Badoglio, cioè Ugo Cavallero, il quale aveva in precedenza affiancato alla carriera militare la presidenza del gruppo industriale Ansaldo.
In buona sostanza, con la scelta di gerarchi come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza, il giovane marchigiano rampante Raffaello Riccardi, alcuni casi di gerarchie provinciali come quelle di Verona o Palermo, ovvero esaminando anche fortune e insuccessi dei ‘pesci piccoli’ alla caccia di buone occasioni d’affari in colonia soprattutto nel neonato impero italiano dell’Africa orientale dopo la conquista dell’Etiopia, ci siamo concentrati sul più specifico nesso politica-affari e sulla facilitazione che la prima componente di questa endiadi ha dato al successo della seconda componente. Se accanto alla monarchia e all’élite militare il mondo dell’establishment economico e finanziario italiano accompagnò benevolmente e sorresse costantemente le origini del fascismo, legittimandone la presa del potere, fu poi la politica come professione a garantire una scorciatoia al successo in affari dell’ambiziosissimo, astuto e spregiudicato Farinacci, o a consentire a un modesto armatore livornese come Costanzo Ciano, e ai suoi famigliari, di diventare non solo tra i più ricchi, ma tra i pochissimi super-nababbi del regime, con il capolavoro del più importante legame matrimoniale della storia del regime: quello tra i rispettivi primogeniti – Edda e Galeazzo – di quella nuova famiglia ‘allargata’ che furono dall’inizio degli anni Trenta i Mussolini-Ciano.
Nelle ricerche dello storico e politologo francese Musiedlak è stata debitamente documentata con fonti archivistiche primarie la vera e propria bulimia patrimonialistica di vari gerarchi: Farinacci, che comprò immobili e proprietà al ritmo di circa uno all’anno tra il 1936 e il 1941; il delfino di Galeazzo Ciano, Alessandro Pavolini, acquirente di due fattorie in provincia di Firenze per 4 milioni di lire (e proprietario di un’abitazione romana talmente sontuosa da avere una sala cinematografica inclusa nell’immobile); il gerarca protettore dell’intellettualità, Giuseppe Bottai, che acquistò a Casal Palocco «un villino di 42 stanze» per un valore di 4 milioni. Gli studiosi non hanno tuttavia ripreso uno dei dati più clamorosi documentati da Musiedlak, e cioè le due occasioni in cui furono stanziate ingenti somme di denaro pubblico da parte di uno dei due rami del Parlamento in favore del duce, riscontrabili dall’archivio del Senato del Regno d’Italia e precisamente sui libri mastri contabili; si tratta di somme registrate come spese inserite a bilancio: una prima, del 31 agosto 1936, come «offerta per la celebrazione della fondazione dell’impero», su cui non ci sono dubbi essere costituita da denaro, ma di cui il documento non menziona l’ammontare né se sia stata effettivamente erogata e incassata dal beneficiario, cioè dal capo del governo; una seconda l’11 giugno 1938, per l’esercizio 1937-38, indirizzata al cav. Benito Mussolini, con mandato esecutivo per 1 milione di lire pur senza indicazione di causale – una somma ingente per l’epoca, che corrispondeva all’insieme annuo (932.000 lire) delle indennità versate a tutti i senatori –; fondi pubblici sottratti alle casse del Parlamento, ovvero allo Stato, erogati per la prima volta senza la benché minima giustificazione tanto più obbligatoria quanto più enorme e non certo simbolica era l’entità della elargizione. Non conosciamo altri particolari, ma gli episodi appena menzionati sono più che sufficienti a proiettare uno spesso ‘cono d’ombra’ sul duce in affari in prima persona.
Non è inutile rammentare che ben prima del successo fascista e dell’esercizio del suo potere di dittatore, Mussolini si era dimostrato un abile, spregiudicato e incredibilmente ‘veloce’ sollecitatore e collettore di finanziamenti: dagli esordi poche settimane dopo l’espulsione dal Psi nel 1914, quando mise in piedi ‘dal nulla’ il quotidiano milanese «Il Popolo d’Italia», con una redazione, tipografia, società editrice che avrebbero conosciuto grande espansione, per ovvie ragioni, durante il Ventennio; e proseguendo, sempre affiancato dal più fedele braccio destro nella persona del fratello Arnaldo, con la fondazione dei fasci di combattimento nel 1919, in particolare con la gestione personale anche finanziaria dei proventi in favore del fascio milanese, e con ulteriori incrementi nel periodo 1921-25 e un flusso regolare di enormi introiti del Pnf per tutto il corso successivo del regime.
Insomma, i fattori che consentono di qualificare sul piano storico di lungo periodo il regime fascista come un momento che fa compiere, per così dire, un salto di qualità e rilevanza al nesso politica-corruzione-affarismo sono molteplici, ed emergono a nostro parere con chiarezza da tutti i contributi qui raccolti, ed esemplarmente dal saggio di apertura di Paul Corner, che li inquadra in un contesto sia analitico sia interpretativo assai innovativo. La soggezione degli altri poteri all’esecutivo e in particolare la subalternità della magistratura al governo e la vera e propria obliterazione del potere di contrappeso e di controllo parlamentare degli eventuali o reali abusi del potere ministeriale procedettero di conserva e sempre in parallelo con la propaganda che occultava scandali o semplici infortuni di percorso, nella dilatazione di inediti livelli di centralizzazione politico-istituzionale e amministrativa che rispetto al fascismo facevano impallidire il trasformismo pur corrotto dell’Italietta liberale. Tra i tanti elementi, con la dittatura e l’onnipresenza del partito unico del regime si apriva la strada del successo, non incidentalmente ma strutturalmente, ai più audaci e spregiudicati gerarchi, che godevano quasi sempre di una sorta di impunità preventiva, e rappresentarono rispetto al personale politico prefascista, non raramente improvvisato e talora sprovveduto, una nuova inedita fase di professionalizzazione della politica, ma non certo nel pluralismo e nella democrazia dei valori e dei comportamenti: professionisti della politica, come segretari federali e gerarchi di ogni ordine e grado, che vivevano degli stipendi, prebende e gratifiche varie che solo la politica garantiva loro e che molto spesso, anzi nella maggior parte dei casi, riuscirono a conservare il maltolto dal punto di vista patrimoniale anche dopo la fine del regime e della dittatura.
Anche la letteratura coeva o immediatamente successiva alla fine dei regimi fascisti aveva registrato con sarcasmo l’ampiezza dei fenomeni di corruttela delle dittature totalitarie, tutte tese a celarli e a presentarsi come immacolate e incorruttibili. Così recita il magnifico ‘elogio’ della corruzione che l’esule tedesco Bertolt Brecht mise in bocca a due esuli incontratisi per caso nel ristorante della stazione di Helsinki durante il periodo dei grandi successi militari del Nuovo ordine europeo nazista (il testo, redatto nel 1940-41 e rimasto incompiuto e inedito, fu pubblicato postumo nel 1961):
lo spirito umanitario, di questi tempi, non si potrebbe mantenere senza la corruzione, che è pure una forma di disordine. Lei trova umanità se trova un impiegato che intasca qualcosa. Con un po’ di corruzione talvolta può persino ottenere giustizia. Io, per raggiungere il mio turno nella fila all’Ufficio passaporti in Austria, ho dato una mancia. A un impiegato gli ho visto in faccia ch’era di animo buono e avrebbe intascato. I regimi fascisti ce l’hanno con la corruzione proprio perché sono disumani.
E di non minore ferocia fu Carlo Emilio Gadda, che nel 1944-46 iniziò a redigere la tormentata stesura del suo Eros e Priapo:
Ontogeneticamente, cioè quanto all’«evoluzione» individuale (nel lor caso involuzione), erano giovanissimi, giovani e giovinastri, talvolta addirittura puberi […]. Socialmente provenivano, dico gli arrivati primi, i conti palatini, la guardia scelta, la coorte pretoria e quelli che si autodefinivano «élite», e con loro i paradigmi, i campioni, i manganellatori tipo, senza professione specifica e dunque senza disciplina o morale o civile o tecnica, provenivano dalle squallide lande dell’insipienza e del tedio, dalla sciagura del non aver che fare, dalle brame onnicupienti d’una «infantile» povertà. […] Alati d’una subita impellenza ascensionale corto-circuitante i normali gradini dell’ascendere, e d’una lubido rapace cortocircuitante le normali fatiche del lavoro e del profitto e del guadagno legittimo, ecco ecco la lor duplicata levità li ha tolti fuora dalle parificate lane e parificate groppe del gregge: li ha sublimati allo stipendiucolo del bidello, al premio del sicario «una tantum», alla media agiatezza della spia, all’agiatezza del provocatore o del ruffiano, al sedente fasto della sanguisuga, ai sommi onori del pacco di merda: corporativo e non.
Il tema dell’affarismo e della corruzione durante il fascismo ha avuto anche varie – sia pure incidentali – rappresentazioni cinematografiche, rivestendo un ruolo centrale in particolare nel film del 1962 Anni ruggenti, diretto da Luigi Zampa. Il protagonista, l’assicuratore Omero Battifiori (magistralmente interpretato da Nino Manfredi), arrivato da Roma, viene scambiato dai maggiorenti di una cittadina meridionale per un funzionario del Pnf inviato in incognito dalla direzione centrale per un’ispezione politico-amministrativa nel comune, dando luogo a una commedia degli equivoci che coinvolge soprattutto il podestà don Salvatore (Gino Cervi) e il segretario politico del fascio don Carmine (Gastone Moschin), «i forchettoni», impegnati, con altri, a evitare che l’ispettore scopra le loro molteplici malefatte e ruberie ai danni della povera gente, peraltro di pubblico dominio. Come dice a Battifiori in modo allusivo il personaggio interpretato da Salvo Randone, il dottor De Vincenzi, l’agente delle assicurazioni avrebbe fatto molti più affari se invece che contro la grandine avesse assicurato «i cittadini contro i furti», aggiungendo subito dopo che «i ladri di qui sono molto più furbi», tant’è «che nessuno di loro è mai stato arrestato».
Il presente volume – frutto di un progetto di ricerca intrapreso da alcuni anni, i cui primi parziali risultati sono stati pubblicati in un recente fascicolo monografico di «Storia e problemi contemporanei» – non riunisce atti di un convegno né di uno o più seminari propedeutici. Gli studiosi di generazioni diverse che hanno collaborato si sono trovati a convergere sulle linee guida loro proposte dai curatori e hanno raggiunto, ciascuno nel proprio ambito e sviluppando le proprie specifiche ricerche in autonomia, una complessiva sintonia interpretativa che di per sé è forse esemplificativa del rilievo del tema. A tutti gli autori e all’editore va il nostro non solo formale ringraziamento.
L’auspicio è che questo libro possa stimolare ulteriori ricerche sul piano scientifico, soprattutto sul piano locale e con la moltiplicazione di biografie anche ‘minori’, e che possa suscitare interesse e curiosità anche oltre la cerchia degli specialisti e della storiografia professionale. La circolazione delle tematiche storiche del ‘fascismo dalle mani sporche’ presso un pubblico di lettori più ampio, meno incline a seguire le sirene del sensazionalismo e più attento ai molteplici risvolti culturali e alle implicazioni per così dire ‘civiche’ della lettura e rilettura del nostro passato nazionale, sarebbe la gratificazione migliore per l’impegno di curatori e autori.
Corruzione di sistema? I ‘fascisti reali’ tra pubblico e privato di Paul Corner
1. Dittatura e corruzione
È un fatto generalmente riconosciuto che le dittature sono spesso – anzi, quasi sempre – corrotte. Il che è un paradosso, dato che quasi sempre le dittature nascono con il fermo proposito di eliminare la corruzione. L’autorappresentazione degli uomini ‘nuovi’ che cercano di sostituirsi ai ‘vecchi’ è quella di un vento purificatore che spazza via un mondo politico degenerato e corrotto. Se, molto spesso, il dittatore afferma la sua legittimità al potere attraverso discorsi sprezzanti sulle istituzioni parlamentari e rappresentative, ciò avviene perché quelle istituzioni sono percepite come inefficienti, fonte di divisione, e, soprattutto, corrotte. Gli esempi di questo tipo di giustificazione dell’assalto al potere non mancano, e non è necessario allontanarsi dall’Italia per trovarne uno fra i più calzanti. Nei primi anni di vita il fascismo denunciò la decadenza del vecchio regime liberale e in particolare l’inefficienza del Parlamento, considerato semplicemente il luogo di accordi e compromessi all’insegna della corruzione, e promise la ‘moralizzazione’ della vita pubblica attraverso l’eliminazione della vecchia classe politica. Che questa moralizzazione fosse realizzata con l’olio di ricino e il manganello poco importava agli squadristi; anzi, sia la purga che la bastonatura erano viste come azioni ‘purificatrici’ di un mondo che aveva venduto i suoi valori. Nel nuovo mondo fascista non ci sarebbe stato più spazio per la corruzione e per i corrotti; gli interessi nazionali avrebbero messo al bando tutti gli intrallazzi privati e personali.
La realtà, come sappiamo, era molto diversa. Nonostante la costante reiterazione del tema della moralizzazione della vita pubblica, il fascismo fu caratterizzato da un alto livello di corruzione, da un affarismo sfacciato, e da un clientelismo e nepotismo senza precedenti. Il potere pubblico – ad esempio, il potere del segretario di una federazione provinciale – veniva spesso usato per scopi privati; la cura e la coltivazione di interessi privati attraverso un ruolo pubblico – l’affarismo – erano pratiche comuni. In questo il fascismo era simile ad altri regimi dittatoriali. L’esempio più evidente è rappresentato dal regime di Hitler, che denunciava la corruzione e la decadenza della Repubblica di Weimar ma non esitava a ‘comprare’ l’appoggio di generali e industriali attraverso l’elargizione di sontuose ville, terreni, grandi tenute (tutti sequestrati ai nemici del nazismo), né muoveva un dito contro il vertiginoso arricchimento di alcuni dei suoi gerarchi. Sotto Stalin l’immensa burocrazia sovietica era notoriamente sensibile alla corruzione, molto spesso l’unico modo per farla funzionare. E nella Romania comunista l’accumulo di ricchezze da parte di Ceauescu e sua moglie era evidente a tutti quelli che li circondavano – la bilancia da cucina in oro massiccio era forse una spia di un certo tipo di comportamento –, ma a nessuno dei funzionari passava per la mente di denunciare questa rapina di Stato in quanto erano essi stessi il prodotto e i beneficiari del medesimo sistema corrotto. E si potrebbe andare avanti, parlando della Cina del dopo-Mao, dell’Africa e dell’America Latina… Dittature e corruzione sembrano andare sempre assieme.
Che la corruzione non sia limitata ai regimi dittatoriali è evidente; sappiamo bene che anche in democrazia la tangente, la bustarella e il finto appalto sono prassi comune. Ma non c’è in democrazia quel rapporto stretto fra il regime dittatoriale e la corruzione che sembra esistere in quasi tutte le dittature. È un rapporto che fa pensare a qualcosa di funzionale, quasi di strutturale, come se facesse parte del regime stesso e non rappresentasse un cancro esogeno o marginale che il regime non è in grado di controllare. Viene da chiedersi pertanto quale fosse il ruolo della corruzione e dell’affarismo in regimi che, formalmente, si proposero al mondo come regimi della retta via e della morale. Posto il quesito in termini più concreti e meno astratti, ci si potrebbe chiedere perché Mussolini, che era indubbiamente a conoscenza dell’alto livello di corruzione che esisteva all’interno del Pnf e del modo in cui i gerarchi sfruttavano le loro posizioni per arricchirsi personalmente – basti pensare a Farinacci –, non agisse contro le cattive abitudini ma guardasse sempre dall’altra parte, quando necessario.
Prima di cercare una risposta, può essere utile procedere con alcune osservazioni di carattere generale. Nei regimi ci sono certamente delle persone corrotte, ma va sottolineato che il regime dittatoriale è, in un certo senso, corruttore della società che domina. La coercizione – aperta o implicita – sulla quale esso si basa richiede un atto di sottomissione da parte della popolazione che la rende, volente o nolente, in qualche modo complice del regime stesso. L’atteggiamento che sembra caratterizzare gran parte della popolazione che vive sotto una dittatura – il conformismo pubblico, vissuto in forme e gradazioni diverse – rappresenta l’accettazione dei limiti imposti dal regime, spesso a costo di non poter esprimere e, a volte, quasi neanche formulare i pensieri privati. Va ricordato che molto spesso i regimi governano dall’alto popolazioni povere e che il potere di distribuire scarse risorse – case, lavoro, licenze, talvolta persino il cibo – permette alla dittatura di esercitare una forma di ricatto nei confronti della popolazione; in un regime ‘del bastone e della carota’ è meglio mirare alla carota che subire il bastone, la dacia è evidentemente meglio del campo di lavoro forzato. All’interno di questo quadro, gli spazi per l’indignazione individuale o collettiva di fronte agli abusi di potere sono molto limitati, e la volontà di reagire è ancora più circoscritta.
Václav Havel aveva perfettamente compreso la corruzione morale della popolazione della sua Cecoslovacchia quando scriveva del verduraio che, la mattina, accanto alle carote e alle cipolle, affiggeva nella vetrina del negozio un cartello con lo slogan ‘Operai del mondo, unitevi!’, pur essendo totalmente indifferente al senso della frase. Lo faceva, spiegò Havel, perché nel mondo comunista «si faceva così», ma lo faceva anche per nascondere a sé stesso la sua condizione subordinata rispetto al potere – in fondo, lo slogan avrebbe potuto essere anche accettabile, quindi perché non mostrarlo? In tal modo, il verduraio «viveva dentro una bugia», sapendo bene che gli operai del mondo non si sarebbero mai uniti, ma comportandosi come se quello slogan rappresentasse realmente un qualche tipo di verità. Attraverso il suo conformismo, il verduraio si rendeva complice del sistema e, in quanto complice, aiutava il sistema a sopravvivere.
Complicità con il potere non significa di per sé corruzione, almeno non nell’accezione usuale della parola. Ma può essere molto importante nel creare un terreno in cui può svilupparsi la corruzione vera e propria. Il regime dittatoriale, infatti, distrugge sempre la sfera pubblica, impedendo la formazione di una vera opinione pubblica in grado di commentare, criticare, biasimare, e forse modificare, i comportamenti di coloro che detengono il potere. In tali circostanze, le complicità – anche coatte – con il regime possono generare un clima morale che accetta come inevitabile ciò che non è in grado di cambiare. Pertanto, chi è corrotto e chi corrompe, chi fa affari sporchi e illeciti, non subisce la pressione di un’opinione pubblica nella misura in cui ciò avviene solitamente in una società aperta.
Tale considerazione è pertinente rispetto a quel fattore, centrale per qualsiasi discorso sulla corruzione nei regimi dittatoriali, rappresentato dall’assenza di controlli su chi esercita il potere, sia a livello di vertice nazionale sia a livello locale. Se non esiste un giornalismo libero, con libera stampa e mass media autonomi, un potere giudiziario indipendente, un Parlamento con una vera opposizione in grado di istituire commissioni di inchiesta, se la polizia è in mano al partito o al governo, non ci sono ostacoli all’abuso del potere; è la discrezionalità della dittatura che determina tutto. Anche le elezioni o le pratiche plebiscitarie, se ci sono, non rappresentano un elemento di freno ai comportamenti illeciti; la popolazione è controllata ed è comunque in qualche modo complice del regime. Nonostante che tutti gli elementi del potere dominante possano essere percepiti o perfino emotivamente avversati dalla popolazione, quel clima morale di non-protesta, generato dal ricatto implicito esercitato dal potere, interviene a facilitare la prevaricazione. Fra chi detiene il potere cresce quasi inevitabilmente una forte sensazione di impunità di fronte agli scarsi o inesistenti controlli – sensazione di impunità che molto spesso corrisponde concretamente a ciò che avviene nella realtà.
Ovviamente non tutti i regimi dittatoriali sono uguali. I rapporti di forza fra chi domina e chi è dominato possono variare, anche se le caratteristiche di fondo cambiano poco. Si può osservare una differenza maggiore fra i vari regimi nei livelli di controllo dell’economia. Nell’Urss il controllo da parte dello Stato era pressoché totale, mentre nell’Italia fascista e nella Germania nazista la sfera economica manteneva una certa autonomia. Anche in questi due casi, però, la mano della dittatura si faceva sentire in quanto, là dove vigevano comunque il primato della politica e un certo livello di dirigismo di Stato, i rapporti fra economia e politica erano sempre rapporti di scambio, con concessioni ma anche favori ripagati – il terreno ideale per la corruzione, il clientelismo e l’affarismo. Come vedremo, una delle caratteristiche più evidenti dell’Italia fascista era la rete di interessi privati che si sviluppò intorno alla gestione ‘politica’ dell’economia.
2. Fascismo e corruzione
Fra le armi più efficaci utilizzate dalle dittature c’era il ricatto, un ricatto di sistema, con un messaggio molto semplice: o collabori con il regime o subisci le conseguenze del tuo rifiuto. Più o meno esplicito, il ricatto era sempre presente. Si traduceva non solo nella necessità di osservare determinati comportamenti, ma anche – se si voleva far carriera, intraprendere un’attività commerciale, far funzionare un’industria, esercitare una professione senza intralci – di cercare, mantenere e coltivare appoggi politici, e, avendo il regime il monopolio del potere politico, il prezzo di questi appoggi veniva deciso in gran parte dai rappresentanti del regime stesso.
Il fascismo italiano non faceva eccezione. Non che l’Italia non avesse avuto problemi di corruzione anche prima dell’avvento del fascismo. Giolitti si era guadagnato il titolo di ‘ministro della malavita’ da parte di Gaetano Salvemini per il modo in cui utilizzava il trasformismo e il clientelismo allo scopo di garantirsi una maggioranza in Parlamento, basata più su scambi che su principi; e come dimostrò la Commissione d’inchiesta sulle spese di guerra, ovvero sui sovrapprofitti realizzati dagli industriali durante la prima guerra mondiale (commissione soppressa da Mussolini appena arrivato al potere), la manomissione dei fondi statali non era una novità. C’è comunque materia per ritenere che la corruzione e l’affarismo raggiungessero nuovi livelli sotto il regime fascista.
Come prevedibile, l’elemento del ricatto risulta evidente nel finanziamento delle organizzazioni locali del Pnf e – spesso associato con le stesse fonti di finanziamento – nella realizzazione di cospicue fortune da parte di alcuni fra i gerarchi più in vista. Il fundraising del partito aveva diverse facce. Molto comune era la richiesta fatta dal fascio a noti personaggi locali, i quali in qualche misura dipendevano dal beneplacito del fascio per il loro lavoro, di un ‘contributo volontario’ alla causa del fascismo. Si trattava, di fatto, di un atto di estorsione, dato che l’entità del contributo veniva decisa dal fascio e non di rado riguardava grosse somme.
Una variante molto comune della prassi di estorsione consisteva nel vendere pubblicità sul giornale del fascio locale a persone che non avevano bisogno di quella pubblicità; anche qui furono richieste somme molto elevate per un servizio non voluto ma pressoché obbligatorio. Una strategia più diretta (e più chiaramente delinquenziale) fu il controllo, nelle grandi città come Milano e Genova, del commercio e dei mercati centrali attraverso l’imposizione di una tassa che in realtà non era altro che un ‘pizzo’ di tipo mafioso. In tutti questi casi il rifiuto di pagare poteva avere conseguenze disastrose – chiusura del negozio, ritiro del permesso, boicottaggio dello studio legale, appalti negati, e così via. In più e peggio – almeno negli anni Venti – lo spettro della violenza squadrista non era mai molto remoto. Chi rifiutava di versare il suo ‘contributo volontario’ rischiava la bastonatura, la devastazione dello studio, l’incendio del negozio, da parte di persone che risultavano sempre ignote alla polizia e alla magistratura.
Un’altra variante di prassi estorsiva riguardava il posto di lavoro. Se nei primi anni Venti i braccianti agricoli avevano dovuto scegliere fra l’adesione al sindacato fascista e la fame, anche i lavoratori di altri settori si trovarono a fare più o meno la stessa scelta: lavoro o fame. In altre parole, il posto di lavoro aveva un valore e in certe zone i fascisti non esitavano a monetizzare quel valore approfittando in modo sfacciato di situazioni di disperazione. A Napoli, ad esempio, alcuni operai lamentavano il fatto che il fascio locale imponeva una tariffa a chi voleva lavorare e che chi non la pagava non lavorava: «500 lire per un manovale, 1500 per un muratore, prezzo da concordare per gli apprendisti meccanici e così via». Altri operai, questa volta a Pescara, raccontavano del federale che aveva venduto i posti a chi voleva andare in Africa orientale come emigrante (500 lire per garantire la partenza). Non sorprende che in alcune città i fascisti venissero chiamati «sanguisughe» e definiti «buoni solo a spillare soldi alla povera gente».
In questo quadro di estorsione e di sfruttamento del monopolio di potere, non poteva mancare il mercato della tessera del partito. Com’è noto, con effetto progressivo durante il corso del Ventennio (e, a volte, con un sorprendente ritardo), la tessera del Pnf divenne il passaporto per alcuni tipi di lavoro. L’importanza della tessera era evidenziata soprattutto dalle dichiarazioni di chi non la possedeva, di chi rischiava di perderla o di chi era stato espulso dal partito. Secondo un informatore che scriveva nel 1938, «oggi, definitivamente, non essere iscritti al partito vuol dire non poter trovare nessun lavoro», opinione confermata da un fascista che osservava che «il ritiro della tessera, vale a dire del pane», poteva avere delle conseguenze molto gravi, e di un altro, espulso, che pregava di essere riammesso al partito e «alla vita». Lo stesso Mussolini, nell’avvertire Farinacci che rischiava l’espulsione dal partito per il suo persistente ‘frondismo’, ricordava al ras cremonese che «chi è fuori del partito, muore». Tale era l’importanza della tessera che si sviluppò un mercato di tessere falsificate, rilasciate da burocrati corrotti, che dovevano non solo attestare l’appartenenza al partito ma anche indicare una data di adesione della ‘prima ora’, per consentire al portatore di beneficiare dei privilegi riservati ai membri della ‘vecchia guardia’. Come venne più volte osservato all’epoca, il numero dei ‘Sansepolcristi’cresceva via via ogni anno che passava.
Lucrare dove possibile sembra essere stato l’obiettivo di non pochi dirigenti fascisti, ma la destinazione precisa dei soldi, passati sopra o sotto la scrivania, è difficile da stabilire. Come in altri regimi di questo tipo, la mancanza di una qualsiasi forma di trasparenza permetteva la deviazione dei fondi in diverse direzioni. È evidente, comunque, che se una parte dei contributi estorti doveva servire a far funzionare l’organizzazione fascista, una parte anche notevole finiva nelle tasche dei fascisti stessi. Solo così si può spiegare il fenomeno del repentino arricchimento di molti dei nuovi dirigenti fascisti, persone spesso di modeste origini sociali che già alla fine degli anni Venti si erano abituate a vivere nel lusso. Anche se il confine fra la donazione spontanea e la tangente è spesso molto labile, esistono pochi dubbi sul fatto che i nuovi ricchi dovevano molto non solo al fatto di essersi appropriati di fondi versati al fascio, ma anche a donazioni più o meno ottenute con la concussione e a offerte ‘interessate’, intese a mantenere buoni rapporti con chi deteneva il potere. L’evidente rapporto di scambio che operava dietro queste elargizioni verso i fascisti aveva un costo, ma presupponeva anche un eventuale premio. A Milano, ad esempio, nel 1928, in occasione del matrimonio di Mario Giampaoli, capo del fascismo in città, imprenditori e commercianti si misero in fila per offrirgli regali. Si diceva che il gerarca avesse ricevuto regali per più di un milione di lire – soldi peraltro spesi male, perché Giampaoli fu rimosso da Milano ed espulso dal partito (per malaffare) meno di un anno dopo.
I gerarchi fascisti avevano molte possibilità di sfruttare il rango per vantaggi personali. L’avvocato Roberto Farinacci, ad esempio, era in grado, con dubbie credenziali professionali, di chiedere e ottenere parcelle a sei cifre per interventi in casi giudiziari in cui il suo peso politico veniva usato per ‘aggiustare’ la sentenza. Che Farinacci fosse, alla fine degli anni Trenta, un uomo molto ricco non era un segreto per nessuno, ma anche molti altri gerarchi disponevano di somme che non erano giustificate dal loro stipendio. Nel 1942, in piena guerra, Giuseppe Bottai acquistò una villa di 42 stanze per 4 milioni di lire; nello stesso anno, per una cifra analoga, Alessandro Pavolini comprò due fattorie fuori Firenze. L’origine di questi soldi resta sconosciuta – certamente somme che andavano ben oltre le possibilità offerte da uno stipendio ministeriale – anche se un indizio si può forse trovare nel comportamento di Luigi Federzoni che, come presidente del Senato, nel 1929 si aumentò lo stipendio da 25.000 lire annue a 125.000 senza dire niente a nessuno (e senza che nessuno avesse qualcosa da ridire). Non contento, incrementò anche le sue indennità parlamentari, raggiungendo nel 1939 uno stipendio annuale di 263.000 lire: al confronto, la paga annuale di un bracciante agricolo nel 1938 era di circa 2.000 lire. Al processo del 1947 i beni di Federzoni vennero valutati quasi 8 milioni di lire.
Ma i rapporti di scambio più premianti per molti gerarchi fascisti nascevano dagli stretti legami esistenti fra la politica e il mondo dell’industria, delle banche e di quegli istituti parastatali che avevano visto uno straordinario sviluppo durante gli anni Trenta. Qui il regime aveva enormi possibilità di patronage; erano in palio nomine alle cariche più alte, posti nei consigli di amministrazione, prestiti, contratti, concessioni, appalti per lavori pubblici – un mondo che ragionava sempre in termini di centinaia di milioni di lire e dove, molto spesso, la mano del governo di Roma poteva essere decisiva nell’andamento delle cose. Come è evidente, lo scambio fra economia e politica aveva dei vantaggi per entrambe le sfere. I posti di dirigente o membro dei consigli di amministrazione offrivano lauti compensi ai fascisti (o ai loro amici e sostenitori) che li occupavano, mentre per le società coinvolte avere una linea diretta con il ministero a Roma tramite i consiglieri fascisti poteva costituire un asset prezioso. Naturalmente le società dovevano pagare un prezzo, richieste pressanti di contributi e ‘sussidi’ per i progetti dei fasci locali e per l’organizzazione nazionale erano sempre all’ordine del giorno, ma al tempo stesso chi pagava sperava di poter contare su un occhio favorevole del regime. Si formava dunque un intreccio per così dire ‘virtuoso’ fra il mondo politico e quello economico, che offriva benefici a entrambi, ma a trarne particolari vantaggi erano quei fascisti che, riusciti ad entrare nei gangli del mondo dell’industria e della finanza grazie all’operato del partito, si trovavano nella posizione di poter incidere sulle decisioni di società di importanza nazionale e, di conseguenza, con un’influenza enorme da sfruttare come sembrava loro più opportuno.
3. Percezioni e impunità
Che la corruzione e l’affarismo restino nascosti, una faccenda gestita all’interno delle strutture del regime stesso, è un tratto tipico di molti regimi dittatoriali; ad eccezione dei casi clamorosi e difficili da nascondere, la zona ‘sporca’ dei ricatti e degli intrallazzi non arriva all’attenzione del pubblico, se non attraverso voci e sospetti non suffragati da prove. Per questo motivo spesso non è semplice valutare con precisione la natura e l’estensione del fenomeno. Diverso, invece, è il discorso sulla percezione dei livelli di corruzione e di affarismo da parte dell’opinione pubblica, che arriva spesso ad esagerare l’entità di quel mondo che non riesce a vedere bene ma della cui esistenza non dubita.
Tali considerazioni valgono appieno per l’Italia fascista. A giudicare dalle relazioni degli informatori fascisti, dalle spie della polizia, dai rapporti delle autorità locali di prefetture e questure, per non parlare delle lettere anonime, esiste lungo il Ventennio – ma in modo crescente quanto più ci si avvicina alla seconda guerra mondiale – la convinzione in almeno una parte dell’opinione pubblica che il regime fascista fosse un regime intimamente corrotto. Benché spesso derivino da fonti che vanno utilizzate con cautela, le accuse rivolte al regime e ai fascisti puntavano sempre il dito sui funzionari locali del partito – in particolare, sui segretari federali – incolpati di utilizzare la propria posizione pubblica per realizzare obiettivi privati, ed erano troppo concordi e convergenti per essere attribuite soltanto ai nemici del regime o alle malelingue. Al riguardo bisogna ricordare che il fascismo, sin dai primi anni, aveva attratto una certa componente criminale e che, nonostante le purghe del partito degli anni Venti, essa non era stata del tutto sradicata. Indicativo è il fatto che nel 1935 l’intero gruppo dirigente di Perugia venisse denunciato per criminalità e che le fedine penali di molti, attestanti condanne per attività criminali, venissero allegate alla denuncia.
La più comune fra le denunce di abuso di posizione riguardava ciò che potremmo definire lo stile di vita del federale: grandi automobili, i posti migliori nei ristoranti migliori, uniformi ‘napoleoniche’ indice di un narcisismo dilagante, il palco al teatro con il contorno di belle donne. Questo stile di vita, più che evidenziare direttamente la corruzione, esibiva gli attributi vistosi del potere locale, spesso portati all’eccesso da persone nuove alla politica, ma a chi denunciava simili comportamenti veniva spontaneo chiedersi da dove provenivano i soldi per le macchine, i pranzi e le donne. L’uomo che nel 1937 racconta (con un misto di rabbia e di invidia, come si avverte fra le righe) che il federale di Piacenza «dedica ogni sua attività allo sport del tamburello e alle gite sulle spiagge adriatiche ove […] col pretesto di visitare una colonia estiva, passa lunghi giorni in graziose compagnie femminili» non poteva non notare che le spese di queste giornate provenivano da fondi pubblici. La stessa constatazione si legge in una lettera anonima inviata al duce nel 1939: «Qui a Perugia essi [i funzionari fascisti] spendono il denaro pubblico in modo sfacciato e scandaloso», e anche in questo caso le accuse sono le stesse: grandi macchine («una potente Alfa-Romeo, del costo di oltre 70.000 lire») e frequentazioni pubbliche di «volgari prostitute».
Vere o no, le denunce di questo tipo riflettevano ciò che appare come un disagio generalizzato, quando si trattava di verificare l’onestà dei funzionari fascisti. In parte era un disagio che nasceva da un fattore che abbiamo già osservato, e cioè la totale mancanza di trasparenza che circondava le finanze dei fasci locali; la gente poteva fare il conto del denaro che entrava – bastava moltiplicare il costo della tessera per il numero degli iscritti per farsene un’idea – ma non riusciva a capire come venivano spesi quei soldi: «È da tutti risaputo che la maggioranza degli iscritti al partito versano annualmente delle somme non indifferenti che assommano a parecchie centinaia di lire, mentre vengono versate al centro solo tre lire per ogni iscritto al partito. Tutti si domandano dove vanno a finire le somme versate dai fascisti e tutti non si sanno spiegare la ragione per la quale non debba venir mai fatto un resoconto». In effetti, quando le situazioni locali degeneravano al punto che da Roma veniva inviato un ispettore, le relazioni che questi ispettori compilavano raccontavano spesso di ammanchi, di elargizioni senza causale, di ‘sussidi’ pagati ad amici senza alcuna giustificazione, di ‘missioni’ in altre città con tanto di alberghi e ristoranti di lusso. Tali situazioni davano man forte a chi si lamentava del fatto che «i caporioni del fascismo sono tutti dei mangioni e dei profittatori» o che «il requisito necessario per rivestire le alte cariche politiche e amministrative è quello della delinquenza raffinata».
Se la finanza allegra e lo stile di vita eccessivo attiravano le critiche un po’ dappertutto, a volte le denunce avevano a che fare con faccende più squallide. In alcune relazioni, si legge che l’abuso della posizione di potere si estendeva anche alla richiesta di prestazioni sessuali rivolta a donne che in qualche modo dipendevano dal funzionario fascista. Del gerarca di Savona, che aveva costituito un istituto commerciale serale femminile, si diceva che «le favorite passano nel suo ufficio durante le ore di lezione, e quelle che soddisfano i suoi piaceri trovano lavoro». Ancora più esplicita la denuncia di un cittadino padovano, che in una lettera a Starace spiega il modo migliore per ottenere un lavoro a Padova: «ha un figliolo da occupare? occorre che abbia una bella mamma o una sorellina». Casi di questo genere riflettevano i rapporti di forza in una situazione in cui il cittadino non aveva alternative o possibilità di ricorso. Nel Ventennio il regime aveva il coltello dalla parte del manico ed era difficile e a volte rischioso mettersi a discutere.
Guardando sempre alle realtà locali, la percezione generalizzata del marcio trova conferma anche in altre circostanze, in cui i federali mostrano di preferire la strada più diretta della criminalità spiccia. Uno dei casi più clamorosi è quello di Clodo Feltri, federale di Modena alla fine degli anni Trenta, che secondo l’ispettore del partito aveva mescolato polvere di marmo alla farina per aumentarne il peso (suo cugino era proprietario della principale azienda molitoria della provincia), aveva venduto illegalmente a terzi la benzina ‘rossa’ destinata esclusivamente a usi agricoli (egli stesso era il direttore della locale filiale Agip) e aveva concesso al cognato alcuni contratti per lavori edili finanziati dallo Stato. Qui potere incontrollato e familismo sono molto evidenti. Ma Feltri non era l’unico. Nel 1934, a Savona, il federale venne accusato di «aver ricavato quest’anno una somma considerevole dalla gestione dei campi estivi» e il sospetto spingeva ignoti a scrivere sui muri «Duce, lega le mani ai profittatori». Verso la fine degli anni Trenta diversi federali furono accusati di aver guadagnato grosse somme con la raccolta di oro e di altri metalli preziosi – raccolta mai trasferita, o trasferita solo in parte allo Stato. Non sorprende pertanto trovare un vecchio fascista che nel 1939 scriveva a proposito delle «infiltrazioni di numerosissimi elementi profittatori e di nessuna fede» che avevano preso in mano il partito, né che altri protestassero per il fatto che «si lascia che la nuova casta creata dal regime faccia soldi a palate, a destra e a manca».
Il quadro dipinto dalle denunce di prefetti, fascisti, informatori e cittadini comuni è chiaro. Arrivati al 1940, pochi erano disposti a negare l’esistenza di una corruzione su larga scala all’interno del partito; la percezione popolare era quella di un Pnf organizzato per assecondare gli appetiti dei suoi capi. Ma più che la corruzione in sé, ciò che colpisce è il manifesto senso di impunità che accompagnava l’attività dei corrotti. Regnava fra i ras e i funzionari fascisti la sensazione di poter fare quello che volevano; alcuni lo affermavano esplicitamente – ‘Chi mi può toccare?’ – e, molto spesso, avevano ragione.
Il senso di impunità dimostrato dai capi fascisti, che tanto nuoceva all’immagine del fascismo fra una popolazione pesantemente colpita dalla crisi economica, si può spiegare in diversi modi. In parte nasceva dal fatto che il partito, più che un’organizzazione impersonale e rigidamente disciplinata, era in realtà un reticolo di rapporti clientelari e personali in cui ciò che contava non era la correttezza dei comportamenti ma la fedeltà a – e l’appoggio di – un particolare capo. Essere ‘uomo di Balbo’ o ‘uomo di Ciano’ spesso rendeva quella persona intoccabile, anche da parte della magistratura. Per i capi locali i guai seri cominciarono con la perdita dell’appoggio del padrino e non con la denuncia per abuso di potere. Certo, il segretario del Pnf poteva agire contro i corrotti – di fronte a gravi abusi gli ispettori arrivavano da Roma e compilavano i loro rapporti, a volte molto critici sui poteri locali –, ma tutti sapevano che, nella peggiore delle ipotesi, la conseguenza più probabile di una punizione sarebbe stata la rotazione, ovvero un incarico diverso in un posto diverso. La parola d’ordine era sempre quella di evitare scandali in grado di screditare il partito agli occhi della gente. Non sorprende dunque che il cittadino si sentisse impotente di fronte al regime; era difficile contestare la corruzione dei funzionari perché ci si trovava davanti a un muro di omertà fascista che mirava solo ad insabbiare qualunque protesta.
Ma il senso di impunità aveva anche origini più lontane. Sin dall’inizio del movimento fascista gli squadristi avevano agito contro la legge e nella presunzione – che si dimostrò spesso giustificata – di non essere perseguibili per le loro azioni di fronte alla magistratura. Convinti di aver trovato l’Anello di Gige che rende invisibili, essi sostenevano di rispettare una legge superiore dettata dalla nazione e non esitavano a ridicolizzare le autorità dello Stato liberale e a umiliare prefetti e polizia. Le azioni e le dichiarazioni di Italo Balbo durante l’occupazione di Bologna nel 1922 sono una sintesi di questo atteggiamento di sfida. E anche se con la svolta del 3 gennaio 1925 (quando anche Mussolini invocò una legge superiore) e con i provvedimenti successivi la posizione degli squadristi venne ridimensionata, i primi anni di lotta avevano lasciato un tipo di imprintingche affermava la soggettività del diritto, assai difficile da sradicare. Come non pochi prefetti furono costretti a constatare, per tanti fascisti l’atteggiamento del ‘Qui comando io’ oppure ‘Obbedisco solo a Mussolini’ restava il principio fondamentale della rivoluzione fascista determinandone l’azione per tutto il Ventennio. I frequenti litigi tra federali e prefetti rappresentavano, in realtà, non solo il contrasto fra le diverse interpretazioni delle competenze del partito e dello Stato, ma anche un conflitto fra la legge dello Stato, che il prefetto doveva far rispettare, e una fantomatica ‘legge fascista’, derivante dalle vittorie degli anni Venti, alla quale faceva appello il federale.
Conseguenza non ultima dell’interpretazione fascista della legge era anche l’incapacità – o, meglio, la non volontà – da parte dei fascisti di distinguere fra ciò che era pubblico e ciò che era privato. Per molti, l’idea che ‘la legge è del più forte’ aveva in parte annullato la distinzione, in quanto gli squadristi erano avvezzi a mostrare scarso rispetto per la proprietà privata, soprattutto di quella dei nemici del fascismo, e ad appropriarsi di quello che volevano. Quest’atteggiamento era ulteriormente incoraggiato dall’interscambiabilità di ‘fascismo uguale nazione’, che induceva i fascisti più rozzi a pensare che tutto ciò che era parte della nazione apparteneva ai fascisti. Si creava così una sorta di sentimento di ‘credito’ e di ‘diritto’ a varie ricompense e prebende di potere; per quelli che avevano conquistato la nazione i lauti premi offerti anche dall’affarismo e dalla corruzione apparivano in qualche modo dovuti.
In molti casi, dietro a questi comportamenti arroganti e spavaldi, che persistettero ben oltre la prima fase della ‘battaglia fascista’, c’era il desiderio del dirigente fascista, una volta assurto al potere, di essere riconosciuto dall’élite tradizionale. Causa non ultima della corruzione del tipo descritto qui sopra – cioè la corruzione legata agli abusi di potere a livello provinciale e locale – è la necessità degli ‘uomini nuovi’ alla politica di legittimare le proprie posizioni all’interno della società locale. Sconfitta la spinta intransigente di Farinacci che avrebbe voluto un radicale cambiamento nella classe dirigente, e ignorata l’invocazione di Augusto Turati di «mettere una camicia nera ad ogni posto di comando», in molte città i fascisti si trovarono costretti a venire a patti con l’élite della società provinciale. Per alcuni fascisti ‘rivoluzionari’ la questione non mancava di sollevare problemi, com’è testimoniato da scontri anche molto duri in alcuni luoghi; ma per altri la prospettiva di poter far parte dell’establishment era troppo seducente. Non solo ciò sembrava legittimare agli occhi dei concittadini il controllo esercitato dal fascismo, ma si apriva la strada a tutta una serie di privilegi e di possibilità di affari che permettevano al capo fascista di sedersi effettivamente allo stesso tavolo dei maggiorenti locali. Dall’altra parte, per l’élite locale corrompere il federale con offerte e promesse allettanti era la strada maestra per limitare il più possibile l’ingerenza del partito nelle proprie faccende ed anche – come abbiamo già visto – per sfruttare le possibilità offerte da qualche contatto utile a Roma.
Si spiegano così le lotte interne che caratterizzarono i fasci locali, soprattutto sul finire degli anni Venti e per tutto il decennio successivo. Come abbiamo avuto occasione di osservare altrove, il ‘beghismo’ diffuso esprimeva solo di rado differenze di opinione sul significato del fascismo o sul percorso da seguire per realizzare fino in fondo la ‘rivoluzione fascista’; molto più spesso rappresentava semplicemente un conflitto per il potere fra gruppi rivali, in quanto il potere apriva la porta a possibilità che andavano ben oltre il diritto all’uniforme ‘napoleonica’.
Una delle lamentele più persistenti contro i capi fascisti nelle lettere anonime e nei rapporti degli informatori riguardava l’‘accumulo di cariche’ da parte dei boss del fascismo locale. Come abbiamo già accennato, molto spesso al segretario federale veniva offerto un posto nel consiglio di amministrazione della Cassa di risparmio, nel comitato direttivo dell’ospedale locale, nella redazione del giornale cittadino, per non parlare dei posti nei consigli di amministrazione delle industrie del luogo – tutti incarichi remunerati, che gli permettevano di moltiplicare diverse volte il suo stipendio di federale, di per sé non indifferente, senza dover fare altro che presenziare a qualche riunione. Alcuni fascisti di spicco arrivavano a sedere in più di venti consigli di amministrazione. Qui si vede come, per il giovane e rampante fascista, l’ambizione e il desiderio di riconoscimento si intrecciassero con la ben più banale ma concreta ricerca di arricchimento. E se agli inizi degli anni Trenta, di fronte al malcontento popolare suscitato dal fenomeno dell’accumulo delle cariche, il partito cercò di reagire con un decreto contro tale prassi, non c’è però alcuna evidenza che quel provvedimento abbia avuto effetto. Il decreto, come le ammonizioni di Mussolini contro lo stile di vita esagerato dei fascisti provinciali (la ‘Consegna’ del 1933), restò lettera morta. Il potere delle realtà locali di condizionare i comportamenti dei funzionari fascisti era evidentemente molto più forte.
Naturalmente non tutto il fascismo provinciale era una palude di corruzione e di affarismo; c’erano federali onesti come federali corrotti. Colpisce comunque il tono di esasperazione e di indignazione che emerge da molte denunce – firmate anche da fascisti di lungo corso – per le condizioni del partito alla fine degli anni Trenta e durante i primi anni di guerra. Il ‘succo’ dei commenti era che molti fascisti avevano utilizzato il potere dello Stato per favorire i propri interessi privati, ignorando totalmente le condizioni di estrema difficoltà in cui si trovava buona parte della popolazione. Come scriveva un fascista, l’Italia era divenuta «un campo da razziare non una nazione», dove il denaro pubblico veniva sistematicamente rubato e sperperato da un ceto dirigente «parolaio, confusionario, e spesso corrotto». Un altro fascista convinto annotava nel suo diario che «raramente le menzogne e la frode si sono sistemate nelle abitudini consuete di un grande popolo come si stanno attualmente instaurando nella classe dirigente del popolo italiano». Più articolato, ma fededegno, il commento di un informatore, che protestava per «una politica interna in mano ad elementi che servono solo in apparenza il capo e il fascismo, ma che in realtà servono unicamente la propria vanità e il proprio esclusivo interesse» e concludeva scrivendo che «mai come oggi fu corrotta l’Italia borghese». Come risulta evidente, la percezione di un sistema corrotto era molto diffusa.
4. Una corruzione funzionale
Viene da chiedersi perché il fenomeno della corruzione, così largamente riconosciuto fra tutti quelli che avevano a che fare con le reti di influenza dei fascisti, non venisse affrontato in modo più determinato. Per quali motivi, alla fine del Ventennio, la corruzione era molto più diffusa di prima dell’avvento del fascismo? Perché quel movimento che aveva promesso la ‘moralizzazione’ della vita pubblica non seguiva le sue stesse prediche? In parte – lo abbiamo visto – la corruzione non veniva colpita perché si cercava di evitare scandali che avrebbero messo il fascismo in cattiva luce. Se alla fine degli anni Trenta il fascismo era diventato soprattutto ‘esteriorità’, come sostenevano gli osservatori più acuti, almeno le apparenze di rigore morale dovevano essere mantenute; la facciata pubblica del regime non doveva tradire i segni della malattia interna. Al riguardo, una magistratura accondiscendente facilitava le operazioni di copertura.
Il medesimo intreccio fra corruzione, affarismo e rapporti di scambio coinvolgeva anche alcuni dei gerarchi più alti – ossia quelli che in teoria avrebbero dovuto agire contro il malcostume. Non conveniva a nessuno lanciare una campagna moralizzatrice, perché chi si permetteva di denunciare altri rischiava di trovarsi contro l’intero Stato maggiore del fascismo. In un ambiente caratterizzato da ciò che Salvatore Lupo ha definito «la politica dei dossier» – cioè l’affannosa ricerca, da parte di tutti, di materiali da utilizzare, se necessario, contro gli altri – i rischi, per chi era tentato di gettare la prima pietra, erano molto forti; pertanto la convivenza negli affari assicurava un’omertà di collusione. In effetti, nei rari momenti in cui la corruzione venne additata come causa dell’espulsione di qualche gerarca dal partito, si trattò di solito di persone già cadute in disgrazia per altri motivi, per cui l’accusa di corruzione era più che altro la giustificazione di facciata.
Ma torniamo alla domanda che abbiamo posto all’inizio: perché Mussolini non intervenne per fermare ciò che veniva percepito come una corruzione endemica e un affarismo generalizzato? Il duce era certamente a conoscenza del fenomeno; e chi pensava che non lo fosse – ed erano in tanti – si illudeva, anche se il mito dell’ignoranza del capo tornava indubbiamente comodo e serviva, semmai, a rafforzarne il culto di uomo sobrio e integerrimo in mezzo ai corrotti e agli opportunisti. L’indifferenza di Mussolini di fronte alla corruzione è da attribuire a fattori legati alla struttura del fascismo stesso e ai suoi modi di governo e controllo. Innanzitutto si può sostenere che Mussolini apprezzasse il fatto che quell’intreccio tra il fascismo e il mondo degli affari, anche se gestito e alimentato da persone corrotte, rappresentasse comunque la penetrazione del regime negli ambiti che più contavano nel paese e andasse pertanto considerato un punto di forza per il fascismo. In questo quadro il comportamento dei singoli attori appariva di importanza secondaria; ciò che contava erano i rapporti di potere, e avere fascisti alla direzione di banche e nei consigli di amministrazione di grandi e medie industrie significava gestire il potere. Lo stesso discorso valeva per i problemi spiccioli delle periferie: il federale corrotto e immorale rischiava la sua posizione solo se i suoi comportamenti minacciavano di mettere a repentaglio il controllo fascista della provincia. Per il resto, come sta a indicare l’indifferenza del duce, le grandi macchine, i ristoranti di lusso, e le donne ‘di facili costumi’ non erano poi così importanti e andavano semmai ascritte alla terribile e potente turbina della ‘rivoluzione fascista’.
C’è tuttavia da aggiungere un’ulteriore considerazione. Chi mai avrebbe potuto realizzare la bonifica del partito? E con quali conseguenze? A differenza di Hitler, Mussolini non disponeva delle SS, una guardia pretoriana pronta ad agire contro i corrotti del partito. La Milizia non era minimamente paragonabile alle SS (semmai somigliava più alle SA) e, come risulta dalle relazioni dei prefetti, molti militi erano corrotti quanto i loro compagni di partito. Invocare l’intervento della polizia sarebbe stato possibile – Bocchini sapeva fare bene il suo lavoro –, ma il risultato di una purga effettuata dallo Stato sarebbe stato un partito molto indebolito nei quadri e, soprattutto, danneggiato nel suo status di portabandiera della rivoluzione fascista. In effetti, il problema riguardava proprio la struttura del potere mussoliniano. Riformare il partito dall’interno, eliminando i corrotti e inserendo persone capaci e oneste (ammesso che se ne trovassero, dato che arruolare quadri efficienti rappresentò sempre un problema per il regime), rischiava di rendere il partito troppo forte; aggredire il Pnf dall’esterno, utilizzando soprattutto la polizia e la magistratura, avrebbe reso il partito subordinato e troppo debole. A Mussolini serviva il partito – su questo non c’è dubbio –, ma il Pnf non doveva essere né troppo forte, in grado di contestare il suo potere (come Farinacci e Adelchi Serena ebbero modo di imparare a proprie spese), né troppo debole.
In un colloquio del 1943, prima della caduta del fascismo, Mussolini parla «delle indigestioni del totalitarismo», riferendosi alle difficoltà sperimentate nel mantenere un ‘equilibrio’ fra i diversi centri di potere nel paese – e fra questi centri c’era anche il Pnf. Nell’economia del potere mussoliniano il partito aveva un suo ruolo – veicolare il consenso, certamente, ma anche controbilanciare altri centri di potere – e cambiare la natura del partito avrebbe potuto distruggere quel faticoso ma funzionale equilibrio. In una dittatura per molti versi policratica, un partito dominante, realmente totalitario e moralmente inflessibile, avrebbe creato non pochi problemi per tutti, in primo luogo per Mussolini, che sin dal 1925 aveva capito che l’Italia non avrebbe accettato un fascismo intransigente. Dal suo punto di vista era preferibile un partito immobile e stagnante, occupato con le ‘esteriorità’ e tenuto assieme da grandi e piccoli abusi di potere, rispetto a un partito dinamico, fatto di veri ‘uomini nuovi’, che avrebbe contrastato tutti quei compromessi, anche a livello locale, su cui poggiava il regime. Assai lontano dalle promesse di un fascismo ‘moralizzatore della vita pubblica’, pertanto, il partito corrotto e inefficiente faceva parte di un complesso sistema di equilibri, con la corruzione e i vari affarismi che fungevano da collante per tenere insieme un segmento non piccolo della classe dirigente fascista.
Lo squadrismo al potere. La parabola di Roberto Farinacci di Matteo Di Figlia
Il giovanissimo Ettore non si assunse – né poteva, appunto perché giovanissimo e considerando la struttura di una famiglia siciliana – il ruolo di investigatore, di coordinatore, di guida del collegio di difesa. Avrà senza dubbio «meditato» (espressione che ricorre nelle sue lettere quando parla di una qualche difficoltà da superare), sul problema: ma proprio nel porselo come problema è da credere riuscisse a vivere il caso con più distacco e meno ansietà degli altri familiari. Che poi delle sue deduzioni, della sua soluzione del problema gli avvocati si avvalessero è del tutto improbabile. Quasi tutti «principi del foro» – e l’unico che non lo fosse era Roberto Farinacci: ma la sua nullità professionale era ad usura compensata dalla temibilità politica – c’è da immaginarsi con quale freddezza o addirittura spregio avrebbero accolto ogni profano suggerimento.
Così, nel suo La scomparsa di Majorana, Leonardo Sciascia parlava en passant di Roberto Farinacci, individuando nella sua «temibilità politica» il motivo per cui era entrato nel collegio di avvocati che rappresentò la famiglia Majorana in beghe giudiziarie precedenti la scomparsa di Ettore. Quando Sciascia scrisse il libro, pubblicato per la prima volta nel 1975, erano già disponibili un paio di biografie del gerarca, del quale ovviamente si parlava molto anche negli studi generali sul fascismo e l’Italia mussoliniana. Non so, però, se lo scrittore di Racalmuto abbia attinto a questa letteratura storiografica o se invece abbia dato conto di un rumore di fondo, di una memoria del periodo fascista che, sospesa nel pulviscolo dei racconti familiari o dei ricordi personali, era giunta fino all’Italia degli anni Settanta.
Di certo, l’idea che Farinacci si giovasse del suo peso politico anche nella professione di avvocato era diffusa sin dagli anni Trenta. Nella trascrizione di una intercettazione telefonica del 1939 leggiamo, ad esempio, che un avvocato rifiutava il nome di un collega per un patrocinio in Cassazione indicando senza indugio quello di Farinacci: «no; oggi Farinacci supera tutti. Fa annullare in Cassazione certe sentenze che nessuno immaginerebbe mai […], Farinacci supera tutti, ha più influenza». Quest’ascendente era stato costruito nel tempo, attraverso una pervicace prassi volta all’acquisizione di una visibilità strettamente connessa al suo essere considerato leader del fascismo intransigente. Organizzatore delle violentissime squadre cremonesi nei primi anni Venti, assertore di una fascistizzazione completa del paese nel periodo successivo, era stato messo a capo del Partito nazionale fascista dopo la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti, ma aveva perso la carica di segretario nazionale un anno dopo (1926). Le ragioni di questo allontanamento erano profonde e avevano a che fare con il conflitto con Benito Mussolini, intento ad attenuare il clima di terrore in cui le squadre avevano gettato il paese. Sui suoi giornali «Cremona nuova» e, poi, «Il Regime fascista», Farinacci non smise mai di auspicare fascistizzazioni feroci dell’establishment italiano, di scagliarsi contro coloro che, giunti al fascismo dopo la marcia su Roma, non potevano a suo dire essere considerati affidabili interpreti delle politiche del regime. Né mancò di lanciare strali contro i suoi avversari fascisti cui attribuiva arricchimenti illeciti, accusandoli di aver tradito la rivoluzione. Ne derivarono continui contrasti col duce, stremato dai suoi richiami moralizzatori e consapevole di quanto lo stesso Farinacci avesse avuto modo di migliorare le sue condizioni di vita:
Quanto alla pezzenteria ed alle fortune – gli scriveva nel 1928 – io non contesto che tu fossi un pezzente nel 1922, ma nego nella maniera più recisa che tu sia rimasto un pezzente anche nell’anno di grazia 1928 – sesto del regime Stop. I veri pezzenti non vanno in automobile e non frequentano alberghi di lusso Stop. La demagogia del falso pezzentismo mi est odiosa come l’esibizionismo pescecanesco Stop.
Lo stesso concetto gli veniva ribadito da altri gerarchi: «io ora vado in automobile – gli disse Leandro Arpinati in una agitata riunione svoltasi poco tempo dopo –, ho la serva, tutte cose che prima non avevo. […] Ho una posizione sociale che prima non avevo e che mi permette un determinato tenore di vita. Tu stesso che fai l’avvocato io credo che tu non pensi che saresti diventato il grande avvocato Farinacci se non fossi l’ex segretario del partito».
Oltre che ergendosi a paladino dell’intransigentismo, però, Farinacci si difendeva mettendo insieme dossier sui suoi avversari, dai quali potevano evincersi malefatte e illeciti su cui costruire questioni morali
Gli autori
Paolo Giovannini
Paolo Giovannini insegna Storia contemporanea all’Università di Camerino. Ha studiato la storia sociale della psichiatria, del movimento cattolico e del fascismo. Tra le sue pubblicazioni, La prima democrazia cristiana. Progetto politico e impegno culturale (Edizioni Unicopli 2014), La psichiatria di guerra. Dal fascismo alla seconda guerra mondiale (Edizioni Unicopli 2015) e Un manicomio di provincia. Il San Benedetto di Pesaro (1829-1918) (Affinità Elettive 2017).
Marco Palla
Marco Palla ha insegnato Storia contemporanea all’Università di Firenze. Ha studiato a lungo il periodo 1914-1945 e ha pubblicato, tra l’altro, Firenze nel regime fascista 1929-1934 (Olschki 1978), Fascismo e Stato corporativo (Franco Angeli 1991) e Mussolini e il fascismo (Giunti 1993). Ha curato volumi sullo Stato fascista, la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema, l’antifascismo a Prato e la storia della Resistenza in Toscana.
RECENSIONE– Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA
IL FASCISMO DALLE MANI SPORCHE-
Dittatura, corruzione, affarismo
Enrico Paventi – LA CIVILTÀ CATTOLICA
-Quaderno 4103 -pag. 517 – 518-Anno 2021-Volume II
La storiografia relativa al Ventennio mussoliniano ha considerato a lungo i temi dell’affarismo e della corruzione tutto sommato marginali. Le prime ricostruzioni generali del periodo non si occuparono affatto di questi argomenti, ma un gran numero di contributi più recenti ha messo in rilievo come simili fenomeni non abbiano caratterizzato solo il tardo fascismo, ma siano stati presenti anche in quello degli inizi e, rispetto allo Stato liberale, in una forma addirittura più estesa. Il quadro di insieme è apparso dunque caratterizzato da truffe, tangenti, legami con la mafia, arricchimenti rapidi e inspiegabili; quella di Mussolini fu, quindi, tutt’altro che una «dittatura degli onesti».
È quanto viene documentato in questa raccolta di saggi curata da Giovannini e Palla, ai quali va riconosciuto il merito di aver illustrato in maniera esauriente il nesso tra politica e affari, nonché quanto la prima componente di questo legame sia stata decisiva nell’agevolare il successo della seconda. Detto altrimenti: il regime che intendeva forgiare un «uomo nuovo» e correggere nel contempo le storture dell’Italia post-unitaria vide al contrario estendersi a macchia d’olio il malaffare, che raggiunse il cuore delle istituzioni statali.
Nel rapporto tra politica, corruzione e affarismo durante l’epoca fascista vi fu insomma un vero e proprio «salto di qualità»: una dinamica in grado di spiegare i successi e la notevole accumulazione di ricchezze che riuscirono a realizzare alcuni tra i protagonisti della scena economica e finanziaria di quegli anni: da Giuseppe Volpi, magnate dell’industria elettrica privata, al generale Ugo Cavallero, presidente dell’Ansaldo, fino all’imprenditore Alberto Pirelli.
Le cosiddette «mani sporche» furono però anche quelle di alcuni esponenti di primo piano del regime, come Costanzo Ciano, Roberto Farinacci, Carlo Scorza e il giovane pesarese Raffaello Riccardi, ai quali occorre aggiungere una miriade di «pesci piccoli» che, dopo la conquista dell’Africa orientale, ricercarono occasioni propizie nelle colonie, provando a «oliare» le ruote giuste.
Una pratica, quella della corruzione, della quale lo stesso Mussolini era pienamente consapevole, tanto da dedicare costanti attenzioni – mediante l’attività della censura e della propaganda – al suo occultamento. Così, da un lato, venne elaborato un «discorso pubblico» finalizzato a indicare nell’ormai consolidato regime fascista l’unico elemento moralizzatore presente nel sistema istituzionale italiano e, dall’altro, rimase costante la disponibilità del Duce a coprire scandali e ladrocini.
Frutto di un’attenta consultazione dei fondi conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, questo volume sfata dunque il mito della presunta buona fede, moralità e incorruttibilità di Mussolini e, in parte, del suo sistema dittatoriale: un’immagine rimasta però curiosamente nella memoria di molti e che si sarebbe riaffacciata verso la fine del secolo, quando avrebbe preso piede la tendenza a contrapporre un sistema democratico ormai screditato a un regime che sarebbe rimasto invece sostanzialmente immune dalla corruttela affaristica. Osservano al riguardo i due Curatori: «Da Tangentopoli nel 1992 a oggi […], è parso più credibile, agli occhi di una parte notevole dell’opinione pubblica, che il fascismo fosse rimasto fuori dal “cono d’ombra” delle ruberie, del rampantismo amorale, della cura di interessi privati in luogo di quelli pubblici e collettivi» (p. VII).
È pertanto probabile che molti contributi forniti dalla storiografia non siano purtroppo riusciti a trovare gli opportuni canali di diffusione nell’ambito della cultura di massa né dei vari ordini e gradi nei quali si articola l’insegnamento scolastico.
RECENSIONE–il manifesto
Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo a cura di PAOLO GIOVANNINI – MARCO PALLA Roma – Bari, Laterza, 2019, 272, € 22,00.
Guido Harari -Remain in light- 50 anni di fotografie e incontri
Editore Rizzoli Lizard
DESCRIZIONE
Rita Levi-Montalcini, Patti Smith, David Bowie, Umberto Eco, Vasco Rossi… L’elenco potrebbe andare avanti a lungo, perché queste sono solo alcune delle persone che Guido Harari ha ritratto in ben cinquant’anni di carriera, mezzo secolo che viene ora celebrato con questo prezioso volume di oltre quattrocento pagine. Una incredibile galleria di storie e immagini raccolte in un libro che è un vero e proprio condensato del talento, della visionarietà e dell’inguaribile curiosità che permeano tutti i lavori di Harari. Dopo “Una goccia di splendore”, dedicato alla memoria fotografica di De André, un altro appuntamento con uno dei più grandi maestri internazionali del ritratto.
Bella lo è sempre stata, fin dall’inizio. Piccola, piatta, maneggevole, priva di fronzoli, ridotta all’essenziale: less is more. Nel 1914, quando costruì la prima macchina compatta con pellicola cinematografica 35 mm, Oskar Barnack aveva già individuato alcune soluzioni che si ritrovano come tratti distintivi anche nei modelli di Leica digitali più recenti. La Leica (ovvero la LEItz CAmera), che a causa della guerra non fu immessa sul mercato prima del 1925, segnò un radicale cambiamento nel mondo della fotografia: permise agli appassionati di accedere a uno strumento professionale, ma soprattutto questa nuova macchina, sempre a portata di mano e pronta all’uso, fece della fotografia una parte integrante della vita quotidiana. “I grandi maestri. 100 anni di fotografia Leica” illustra il mutamento radicale introdotto dalla diffusione della Leica, perfettamente inscritta nello spirito di una nuova epoca, sempre più rapida e convulsa. Non ci sono dubbi: la Leica era ed è un prodigio della tecnica ma anche un oggetto del desiderio, se non addirittura un feticcio. Soprattutto è uno “strumento” per realizzare immagini: grandi, sorprendenti, scioccanti, sbalorditive, o anche solo splendide o visivamente complesse. Immagini che documentano, informano, irritano, emozionano, e senza le quali la nostra cultura visiva sarebbe meno ricca.
This book presents the epic story of New York on nearly 600 pages of emotional, atmospheric photographs, from the mid-19th century to the present day. Supplementing this treasure trove of images are over a hundred quotations and references from relevant books, movies, shows, and songs. The city’s fluctuating fortunes are all represented, from the wild nights of the Jazz Age and the hedonistic disco era, to the grim days of the Depression and the devastation of 9/11 and its aftermath, as its brokenhearted but unbowed citizens picked up the pieces.
New York’s remarkable rise, reinvention, and growth are not just the tale of a city, but the story of a nation, From the building of the Brooklyn Bridge to the immigrants arriving at Ellis Island; from the slums of the Lower East Side to the magnificent art deco skyscrapers. The urban beach of Coney Island and the sleaze of Times Square; the vistas of Central Park and the crowds on Fifth Avenue. The streets, the sidewalks, the chaos, the energy, the ethnic diversity, the culture, the fashion, the architecture, the anger, and the complexity of the city are all laid out in this beautiful book. This is the greatest city in the world after all and great are its extremes, contradictions, and attitude.
More than just a remarkable tribute to the metropolis and its civic, social, and photographic heritage, New York: Portrait of a City pays homage to the indomitable spirit of those who call themselves New Yorkers: full of hope and strength, resolute in their determination to succeed among its glass and granite towers.
Features hundreds of iconic images, sourced from dozens of archives and private collections―many never before published―and the work of over 150 celebrated photographers, including Victor Prevost, Jacob Riis, Lewis Hine, Alfred Stieglitz, Paul Strand, Berenice Abbott, Walker Evans, Weegee, Margaret Bourke-White, Saul Leiter, Esther Bubley, Arnold Newman, William Claxton, Ralph Gibson, Ryan McGinley, Mitch Epstein, Steve Schapiro, Marvin Newman, Allen Ginsberg, Joel Meyerowitz, Andreas Feininger, Charles Cushman, Joseph Rodriguez, Garry Winogrand, Larry Fink, Jamel Shabazz, Allan Tannenbaum, Bruce Davidson, Helen Levitt, Eugene de Salignac, Ruth Orkin, Joel Sternfeld, Keizo Kitajima, and many more.
Reuel Golden -New YorkReuel Golden -New YorkReuel Golden -New YorkReuel Golden -New YorkReuel Golden -New YorkReuel Golden -New YorkReuel Golden -New YorkReuel Golden -New York
L’odore caldo del pane che si cuoce dentro il forno.
Il canto del gallo nel pollaio.
Il gorgheggio dei canarini alle finestre.
L’urto dei secchi contro il pozzo e il cigolìo della puleggia.
La biancheria distesa nel prato.
Il sole sulle soglie.
La tovaglia nuova nella tavola.
Gli specchi nelle camere.
I fiori nei bicchieri.
Il girovago che fa piangere la sua armonica.
Il grido dello spazzacamino.
L’elemosina.
La neve.
Il canale gelato.
Il suono delle campane.
Le donne vestite di nero.
Le comunicanti.
Il suono bianco e nero del pianoforte.
Le suore bianche bendate come ferite.
I preti neri.
I ricoverati grigi.
L’azzurro del cielo sereno.
Le passeggiate degli amanti.
Le passeggiate dei malati.
Lo stormire degli alberi.
I gatti bianchi contro i vetri.
Il prillare delle rosse ventarole.
Lo sbattere delle finestre e delle porte.
Le bucce d’oro degli aranci sul selciato.
I bambini che giuocano nei viali al cerchio.
Le fontane aperte nei giardini.
Gli aquiloni librati sulle case.
I soldati che fanno la manovra azzurra.
I cavalli che scalpitano sulle pietre.
Le fanciulle che vendono le viole.
Il pavone che apre la ruota sopra la scalèa rossa.
Le colombe che tubano sul tetto.
I mandorli fioriti nel convento.
Gli oleandri rosei nei vestibuli.
Le tendine bianche che si muovono al vento.
poesie di Corrado Govoni
Punta secca
Sei magra e lunga
eppure hai tanta forza plastica
nel corpo gentile
che se abbandoni i gomiti sul pozzo
o contro il muro
del cortile
il bel corpo rovescio
serrati gli occhi
strette le labbra sciolti i ginocchi
con quell’uncino di riccio
nel mezzo della fronte e ad un capriccio
improvviso ti distacchi
t’impenni e via saetti come da fionda
su quegli alti tuoi tacchi
di stella che nel sole
quasi non ti si vede
più tanto sei bionda;
si può giurar per certo
che tu con quel tuo premer duro
un incavo hai aperto
nel docile marmo e nel muro.
Attacchi d’ali strappate
ti palpitan le reni;
così sottile e senza seni
li hai tutti nei ginocchi.
Ma l’orchidea tu l’hai negli occhi.
Paesi
Esplodon le simpatiche campane
d’un bianco campanile, sopra tetti
grigi: donne, con rossi fazzoletti,
cavano da un rotondo forno il pane.
Ammazzano un maiale nella neve,
tra un gruppo di bambini affascinati
dal sangue, che, con gli occhi spalancati,
aspetta la crudele agonia breve .
Gettano i galli vittoriosi squilli.
I buoi escono dai fienili neri;
si spargono su l’argine tranquilli,
scendono a bere, gravi, acqua d’argento.
Nei campi, rosei, bianchi, i cimiteri
sperano in mezzo al verde del frumento.
Naufragio
Sul mio capo di naufrago
galleggiante sul mare nero della vita
afferrato a una tavola sfasciata
materna culla
vedo ancora ondeggiare le stelle
come un tenero ramo di mandorlo.
Luce di fuori mondo
o vertigine
degli abissi incantevoli del nulla?
Ne la corte.Tre stracci ad asciugare
– Ne la corte – Tre stracci ad asciugare
sul muricciuolo accanto il rosmarino.
Una scala seduta. Un alveare
vedovo, su cui giuoca il mio micino.
Un orciuolo che ha sede sul pozzale
di marmo scanalato da le funi.
Dei cocci gialli. un vaso vuoto. Un fiale
che ha vomitato. Dei fogliami bruni.
– Su le finestre – Un pettine sdentato
con due capelli come dei pistilli.
Un astuccio per cipria. Uno sventrato
guancialino di seta per gli spilli.
Una scatola di belletto. Un guanto
mencio. Un grande garofano appassito.
Una cicca. Una pagina in un canto
piegata, da chissà mai quale dito!
– Per l’aria – La docile campana
d’un convento di suore di clausura.
Una lunga monotonia di zana.
Un gallo. Una leggera incrinatura
di vento. Due rosse ventarole
cifrate. Delle nubi bianche. Un treno.
Un odore acutissimo di viole.
Un odore acutissimo di fieno.
Contro corrente come bionde trote
Contro corrente come bionde trote
fendevano la calca cittadina
due fanciulle insolenti di bellezza.
Curiosando strusciarono i musini
di maliziosa cipria qua a un acquario
di lusso di dormenti onde ravvolte
di stoffe per murene ed aragoste,
più in là a un brillante altar di calzature,
spume di cardi rossi per pianelle
di Cenerentola, lustrini e argenti
per taccuini da ballo. Scantonarono
a un tratto e una si chinò nascosta
dall’inquieta compagna ad allacciarsi
la giarrettiera a mezza coscia ignuda.
Le succhiò la corrente cittadina.
Vedo sempre la strada illuminata
da quel fulgore di carne di donna
nel marmo della pioggia settembrina.
Siepe
All’odore crudele
che viene dalle spine della siepe
il tuo sangue amareggia l’amore,
e ti diventan gli occhi
una luce cattiva pigiata.
Sulla tua statua che cammina
aprendo una nuova strada nel vento
invano battono le mie parole
come gocce di rugiada da me scossa.
Prego l’erba dell’argine ti venga incontro
con la lampada avvelenata del gigaro
per far soffrire la tua bocca rossa.
Il lampione
Il crepuscolo si sfogliò
su i tegoli muscosi;
l’ultimo suono di campana si smorzò
ne l’abbandono dei sagrati erbosi.
In una svolta, un fanale
notifica! la sua vittoria
sopra l’ombra cocciuta.
La sua fiamma claustrale
sembra una fiamma provvisoria
ed instabile. Si direbbe che sternuta.
Il fanale s’illude d’essere un sacro lampadario
che nel suo cuore chiude
come in un vaso un elettuario
infiammabile.
Ma il vento precario
lo prende per un disadorno e vitreo erbario
con un gìgaro
friabile che si diverte a gualcire.
Ed il fanale si rassegna
a la notturna passione
senza imbroncire.
Il silenzio, come un cane,
segue le pestè dei rumori.
Il sonno sente a gli occhi dei pizzicori.
E l’alba soffia il dente di leone
del lampione.
Il palazzo dell’anima
Triste dimora! Aborti nelle fiale,
rachitici e verdastri. Sorridenti
bambole sparse ovunque. Sofferenti
in vasi d’ambra fior di digitale.
Campane di cristallo su agonie
di cera, rosee maschere di seta
annegate nell’acqua ovale inquieta
degli specchi, malinconie impagliate.
Laggiù la città bianca col suo rombo
d’api e il suo fiume di ardente piombo,
come un pallido sogno di morfina.
Oh i crepuscoli tristi d’anilina
sulle mura echeggianti di fanfare!
Da una finestra si scorge il mare.
Crepuscolo ferrarese
Il mao si stira sopra il davanzale
sbadigliando nel vetro lagrimale.
Nella muscosa pentola d’argilla
il geranio rinfresca i fiori lilla.
La tenda della camera sciorina
le sue rose di fine mussolina.
I ritratti che sanno tante storie
son disposti a ventaglio di memorie.
Nella bonaccia della psiche ornata
il lume sembra una nave affondata.
Sul tetto d’una prossima chiesuola
sopra una pertica una ventarola
agita l’ali come un uccelletto
che in un laccio per i piedi sia stretto.
Altissimi, per l’aria, dai bastioni,
capriolano fantastici aquiloni.
Le rondini bisbigliano nel nido.
Un grillo dentro l’orto fa il suo strido.
Il cielo chiude nella rete d’oro
la terra come un insetto canoro.
Dentro lo specchio, tra giallastre spume
ritorna a galla il polipo del lume.
La tristezza s’appoggia a una spalliera
mentre le chiese cullano la sera.
Chimerica corriera
Mi sfiorò la corriera all’improvviso,
e prima che pensassi di gridare:
«Ferma! vengo pure io oltre frontiera!».
era passata a volo, sollevando
un turbine di opaco polverone,
scomparendo alla vista: belle ignote,
contro i vetri di bambole le gote,
e il postiglione con la lunga frusta
che fulminava a fuoco la quadriglia…
Passò ancora in un vortice di neve,
e passò nell’estivo polverone.
Poi si fece vederesernpre più rararnente,
con i cavalli alati e il postiglione
un’ornbra con la frusta alta nel cielo;
e quando la rnia voce
fu così forte da coprir le ruote
la frusta e le cantanti sonagliere,
non passò più né lenta né veloce…
Eppure certe sere,
quando sono più stanco e ancor più bianco
e l’antica ferita
rni si torna ad aprire ed a dolere;
se aguzzo un po’ le orecchie
odo ancora venire da lontano,
rna è un sussulto del sangue o forse il tuono,
corne un fievole suono,
dal fondo della via o della rnia vita
che senza averla rnai raggiunta
ho per sernpre srnarrita:
non può esser che il vostro, sonagliere,
in viaggio per chirneriche frontiere.
Corrado Govoni
Breve biografia Corrado Govoni nasce a Tamara, in provincia di Ferrara, nel 1884. Vive per un breve periodo a Milano e poi stabilmente a Roma e muore ad Anzio nel 1965. Appena diciannovenne, esordisce con la raccolta Le fiale (1903). Seguono: Armonia in grigio et in silenzio (1903), Fuochi d’artifizio (1905), Gli aborti (1907), Poesie elettriche (1911), Inaugurazione della primavera (1915), Rarefazioni (1915), Poesie scelte (a cura di A. Neppi, 1918), Tre grani da seminare (1920), Il quaderno dei sogni e delle stelle (1924), La Trombettina (1924), Brindisi alla notte (1924), Il flauto magico (1932), Canzoni a bocca chiusa (1938), Pellegrino d’amore (1941), Govonigiotto (1943), Aladino. Lamento su mio figlio morto (1946), L’Italia odia i poeti (1950), Patria d’alto volo (1953), Preghiera al trifoglio (1953), Antologia poetica (a cura e con prefazione di G. Spagnoletti, 1953), Manoscritto nella bottiglia (con un saggio di G. Ravegnani, 1954), Stradario della primavera e altre poesie (1958), Poesie 1903-1959 (a cura di G. Ravegnani, 1961). È autore di numerosi libri in prosa, racconti, testimonianze, romanzi. Entrato in contatto con Marinetti, si avvicina al futurismo, collaborando ad alcune riviste come “Lacerba”, “La Voce” e “Poesia”, ma ritorna gradualmente alle forme più tradizionali, soprattutto nelle poesie dedicate al figlio, vittima dell’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine.
Amatrice – L’Emilia-Romagna vince la finale dell’Agrichef Festival
Amatrice – 25 maggio 2023-Grande ritorno ad Amatrice dell’Agrichef Festival, l’evento itinerante promosso da Turismo Verde, l’Associazione agrituristica di Cia-Agricoltori Italiani,ideato per promuovere e valorizzare i piatti tipici della tradizione contadina, attraverso la collaborazione con gli istituti alberghieri italiani. Come da tradizione, e dopo il lungo stop per la pandemia, si è tenuta oggi nell’Area Food progettata da Stefano Boeri, la finale nazionale del Festival con protagoniste assolute le ricette contadine regionali, rivisitate insieme agli studenti di tutte le scuole coinvolte.
A trionfare, in questa V edizione, la “Spoja lorda in brodo di ortiche e guanciale rivisitata” realizzata con gli allievi dell’Istituto “Magnaghi-Solari” di Salsomaggiore Terme, dall’Agrichef Massimo Bottura (Agriturismo “Palazzo Manzoni”, San Zaccaria). L’Emilia-Romagna ad aggiudicarsi, quindi, il podio 2023 in un’accesa e condivisa sfida ai fornelli tra i cuochi agricoli vincitori delle 9 tappe del tour che, attraversando l’Italia, ha toccato in particolare: Liguria, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Molise, Abruzzo, Campania, Puglia e Calabria.Un trionfo di sapori e saperi sui quali è stata chiamata a esprimersi un’esclusiva giuria di esperti, composta da chef e critici gastronomici, giornalisti e food blogger, rappresentanti di associazioni di settore e istituzioni locali.
Vincitori indiscussi gli allievi di ciascun istituto che ha aderito alle iniziative sul territorio, insieme a una brigata del Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice. Da futuri ambasciatori della cucina italiana, loro al centro di un’esperienza formativa unica, affiancati dagli Agrichef di Turismo Verde-Cia. Alle nuove generazioni di cuochi, il testimone del rilancio, in chiave innovativa, della cucina contadina regionale di cui gli agriturismi italiani sono primi ambasciatori.
“Abbiamo accolto con molto entusiasmo la proposta di Cia-Agricoltori Italiani e della sua associazione Turismo Verde, di fare per la seconda volta la finale nazionale dell’Agrichef Festival ad Amatrice -ha detto la direttrice del Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice, Anna Fratini-. I ragazzi che rivisitano le ricette originali, è un format che ci piace molto, ci appartiene: sicuramente la tradizione, l’enogastronomia, hanno fatto sì che questo territorio mantenesse un’identità”.
A fargli eco i presidenti nazionali di Turismo Verde, Mario Grillo e di Cia, Cristiano Fini: “Le criticità che stiamo affrontando a livello globale, come nazionale, ultima l’emergenza maltempo in Emilia-Romagna, terra cui va, ancora di più da Amatrice, tutto il nostro sostegno -sottolineano Grillo e Fini- dimostrano quanto sia importante e strategico costruire, giorno dopo giorno, eventi come l’Agrichef Festival, occasioni di scambio e condivisione tra territori e con le nuove generazioni, per tutelare e far valere il patrimonio agricolo e agroalimentare italiano. Rappresentano, infatti, soprattutto in momenti di difficoltà, un collante fondamentale per territori e comunità, per diffondere una cultura della salvaguardia, che punta sulla sinergia tra innovazione e tradizione, quale chiave di uno sviluppo davvero sostenibile”.
Con l’Agrichef Festival che torna dopo diversi anni di stop, Cia e Turismo Verde rinnovano l’impegno concreto per un progetto che è semplice, ma anche ambizioso: “C’è una rete di valori che appartiene al mondo rurale e al ruolo chiave dell’Agrichef in agriturismo -concludono Grillo e Fini-. Dobbiamo continuare a valorizzarla coinvolgendo tutti gli istituti alberghieri d’Italia”.
L’Agrichef è un cuoco che lavora all’interno di un agriturismo, impegnandosi a trasformare le produzioni della sua azienda nel rispetto della stagionalità, con l’utilizzo di materie prime e ingredienti legati al territorio. Il Festival è nato, per questo, come occasione unica per ribadire l’importanza degli agriturismi italiani, la centralità del rapporto costante con i territori per lo sviluppo delle aree rurali. La diffusione dell’agriturismo produce benefici nelle campagne grazie all’intervento di contadini e imprenditori che riportano in vita produzioni in pericolo di abbandono. La scelta di Amatrice come tappa finale dell’Agrichef Festival vuole richiamare l’attenzione su un’area a rischio spopolamento dopo la tragedia del sisma del 2016 ed è, oggi, simbolo dell’Italia rurale da salvaguardare e promuovere. Cia-Agricoltori Italiani è stata da subito attiva nei territori appenninici per supportare la ripresa delle aree interne e delle aziende agricole.
Agrichef Festival – la giuria
Anna Fratini (direttrice Centro di Formazione Professionale Alberghiero di Amatrice), Giorgio Cortellesi (Sindaco di Amatrice), Cristiano Fini (presidente Cia-Agricoltori Italiani), Roberta Cuneo (Presidente Provincia di Rieti), Anna Palma (chef e direttrice Scuola di cucina TuChef), Elia Grillotti (presidente Associazione Provinciale Cuochi Rieti), Gemma Giovannelli, giornalista RAI TGR Lazio, Serena Brigheli, (food blogger Cucina Serena) e Cerboni Manuel (allievo CFP Alberghiero di Amatrice).
Agriturismo – i numeri
Secondo l’ultimo rapporto Istat, in Italia ci sono 25.390 (+1,3% rispetto al 2020) e con crescita maggiore nelle Isole (+8,2%) e al Sud (+1,5%). Negli ultimi dieci anni, le strutture agrituristiche sono aumentate del 24,4% e, a oggi, il valore corrente della produzione agrituristica è di poco superiore a 1.162 milioni di euro contribuendo per il 3,3% alla formazione del valore economico dell’intero settore agricolo nel quale le aziende agrituristiche incidono per il 2,2%. Il valore economico delle aziende agrituristiche cresce del 44,8%, ma rimane ancora sotto il livello pre-pandemia del 2019 (-26%). L’incremento varia dal 51,7% del Nord-est al 44,8% del Nord-ovest, del Sud e delle Isole, fino al 38,3% del Centro.
Il 63,3% dei comuni italiani ospita almeno un agriturismo, ma si arriva a oltre il 98% in Toscana e Umbria. Le strutture condotte da donne sono 8.762, pari al 34,5% del totale. Il tasso medio annuo di crescita è stato del 2% tra il 2011 e il 2021, che arriva al +5,3% per le strutture con fattorie didattiche. Le aziende agrituristiche multifunzionali (che offrono almeno tre servizi) sono il 38% (+21,3% rispetto al 2011) e ancora una volta sono le Isole a registrare l’incremento più elevato (+51,5%, rispetto al 2011).
Raffaele Ingegno-IMAGO: MANUALE DI RITRATTO FOTOGRAFICO
– Tecniche e Metodi per raccontare Storie –
IMAGO è un testo unico nel suo genere che spiega il ritratto fotografico sotto un aspetto non solamente tecnico. Dopo il successo dell’unico manuale generale sulla luce, “LUX – L’arte di gestire la luce in fotografia”, l’autore torna con un secondo trattato completo ed esaustivo in tutto ciò che riguarda il tema ritratto, affrontando sia la tecnica che il linguaggio.
Il testo è composto da ampie sezioni. Le prime due affrontano la tecnica e la metodologia per la realizzazione del ritratto, con le dovute considerazioni sulle regole maggiormente diffuse, analizzando inoltre una serie di ritratti prodotti dall’autore e abbinando una ricca carrellata di consigli, trucchi e metodi da seguire. La terza parte accompagna il lettore alla scoperta dei personaggi fotografati appositamente per i contributi del libro, realtà differenti e molto particolari, con la spiegazione del perché si sono fatte determinate scelte e come le si sono affrontate in funzione della descrizione del soggetto. Concludono gli approfondimenti e i download di materiali utili.
Raffaele Ingegno
Con questo libro apprenderai concetti su:
Definizione del concetto di ritratto
Il linguaggio fotografico per il ritratto
Inquadrature e posizionamento nello spazio
Focali da utilizzare
Indicazioni tecniche sulle fonti di luce
Gestione della luce nel set fotografico
Attrezzature ausiliarie
Colore e Bianco e Nero
Gestione del soggetto
Descrizione del soggetto
Il perché delle scelte per realizzare un ritratto
Software per progettare
Software per editing e post produzione
Considerazioni generali per individuare il proprio modo di ritrarre
Raffaele IngegnoRaffaele IngegnoRaffaele Ingegno
Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?
Prologo L’elefante nella stanza
In un mondo ideale nessuno avrebbe sentito l’esigenza di scrivere un libro sui crimini di guerra commessi durante il Ventennio fascista. Perlomeno non a tanti anni di distanza dai fatti. Perché in quel mondo ideale l’Italia avrebbe già ampiamente fatto i conti con il suo passato più oscuro, con le responsabilità del fascismo e le brutali violenze commesse in nome di quella ideologia. Purtroppo, invece, in questo mondo imperfetto, le cose sono andate in maniera diversa. Innanzitutto dal punto di vista della giustizia.
Dopo la fine della guerra in Italia non si è tenuto un procedimento giudiziario volto a condannare globalmente i fascisti e i loro crimini, qualcosa di anche lontanamente paragonabile ai processi di Norimberga o di Tokyo. In Germania e in Giappone, i principali alleati dell’Italia nella seconda guerra mondiale, si sono svolti nel dopoguerra decine di migliaia di processi, che hanno contribuito a giudicare e condannare non solo i principali dirigenti politici e militari, ma un buon numero di solerti esecutori, a ogni livello della macchina del potere. Nella zona d’occupazione sovietica in Germania si contano circa 150.000 procedimenti penali, con centinaia di condanne a morte; ma anche nella zona occidentale i tribunali alleati hanno condannato migliaia di persone e giustiziato 486 colpevoli, tra cui 12 donne. Dopo la creazione delle due Germanie, i soli tribunali federali hanno giudicato 16.740 cittadini tedeschi imputati per crimini di guerra e contro l’umanita, condannando 6.656 persone, di cui 16 a morte e 166 all’ergastolo. Per quanto riguarda il Giappone, i processi durarono fino al 1953, con circa diecimila procedimenti e centinaia di condanne alla pena capitale.
I grandi procedimenti penali internazionali del dopoguerra sono stati condotti in base alle decisioni prese durante la prima conferenza interalleata, che si era svolta a Mosca nel 1943. A ottobre dello stesso anno venne istituita la Commissione delle Nazioni Unite per l’accertamento dei crimini di guerra nazisti e fascisti (Unwcc). Di conseguenza l’articolo 45 del trattato di pace sottoscritto il 10 febbraio 1947 prevedeva anche per l’Italia l’arresto dei presunti criminali di guerra e l’estradizione verso i paesi che ne avessero fatto richiesta. Con un’abile strategia diplomatica il governo italiano riuscì tuttavia a dilazionare e poi evitare la consegna dei circa 1.100 inquisiti nei paesi che avevano subìto le occupazioni fasciste. Le autorità postbelliche ritenevano soprattutto essenziale evitare di giudicare i militari accusati di crimini di guerra commessi in paesi divenuti poi socialisti, come nel caso della Jugoslavia. E così, con l’inizio della Guerra fredda, il rapido mutamento dei rapporti internazionali e il supporto essenziale dalle potenze occidentali, il giudizio e l’eventuale punizione di questi criminali sfumò per sempre. Contemporaneamente le autorità italiane rinunciavano a pretendere la consegna dei tedeschi responsabili di stragi sul nostro territorio. Quelle indagini, frettolosamente archiviate negli anni Cinquanta, sono poi tornate alla ribalta solo nel 1994 con la riapertura del cosiddetto “armadio della vergogna”.
In assenza di estradizioni, i pochi procedimenti per crimini di guerra portati a compimento nei primi anni dopo il conflitto riguardano individui arrestati dalle truppe di liberazione nei territori precedentemente invasi oppure inquisiti dalle autorità d’occupazione alleate in Italia. Fra questi ultimi spicca il caso di Nicola Bellomo, uno dei pochi generali che aveva preso una ferma posizione antinazista dopo l’Armistizio, difendendo con successo il porto di Bari e consegnandolo intatto alle forze alleate. Processato per la morte di un prigioniero di guerra inglese avvenuta sotto il suo comando qualche anno prima, Bellomo venne condannato a morte e fucilato nel settembre del 1945.
Non solo i crimini di guerra compiuti durante tutto il Ventennio non sono stati perseguiti, ma anche il processo di epurazione dell’apparato di potere fascista è stato in Italia rapido e lacunoso. Le Corti d’assise straordinarie istituite nel dopoguerra hanno condannato in totale 5.928 persone, di cui 91 giustiziate. Si trattava però di crimini di “collaborazionismo” con i tedeschi, compiuti dunque negli ultimi due anni di guerra, e non riguardavano reati commessi in precedenza. Molti dei condannati hanno poi approfittato della cosiddetta “amnistia Togliatti”, emanata dall’allora ministro della Giustizia il 22 giugno 1946, e sono stati scarcerati dopo pochi mesi. In compenso, nel decennio successivo centinaia di partigiani sono stati perseguiti per azioni compiute durante la lotta di Liberazione, derubricate a reati comuni. In sostanza nel 1954 gli ex partigiani in prigione per crimini di guerra erano circa il doppio degli ex fascisti. Nel frattempo, in nome della “continuità dello Stato”, molti funzionari del regime erano tornati a ricoprire incarichi di potere nell’esercito, nella magistratura, nella polizia e in generale in tutti gli organi amministrativi.
La diversa posizione assunta dall’Italia nei due anni finali del conflitto, il contributo della Resistenza e la cobelligeranza dell’esercito del Sud possono spiegare in parte queste dinamiche. A tutto ciò si deve aggiungere il nuovo contesto geostrategico del dopoguerra, la collocazione dell’Italia lungo la Cortina di Ferro e il timore rappresentato dallo straordinario consenso raggiunto dal Partito comunista italiano grazie al suo ruolo egemone durante la guerra di Liberazione. Nell’ambito della violenta contrapposizione ideologica della Guerra fredda, la classe dirigente dell’epoca e gli stessi alleati occidentali ritenevano molto più urgente contrastare il comunismo piuttosto che condannare i fascisti sconfitti. Appariva anzi necessario creare un ampio fronte politico e sociale che includesse alcuni dei protagonisti della stagione precedente, il cui schieramento ideologico era inequivocabilmente anticomunista.
Il sostanziale fallimento del processo di epurazione, la mancata condanna delle gerarchie fasciste, il predominio politico e culturale dell’opzione anticomunista nel dopoguerra hanno contribuito alla rimozione delle responsabilità della classe dirigente italiana del Ventennio. Fin dai primi anni del dopoguerra il regime fascista è stato rappresentato nei mass media mainstream come una dittatura soft, poco repressiva, per di più sostenuta da un consenso di massa. Al tempo stesso la mancata estradizione degli indagati per crimini commessi all’estero ha contribuito a scagionare l’esercito da ogni responsabilità e a rafforzare il mito degli “italiani brava gente”. Si tratta di una narrazione autoconsolatoria, secondo la quale i militari italiani si sarebbero comportati ovunque civilmente, in maniera umana, mai brutale, mentre avrebbero subìto a loro volta violenze e soprusi da parte di altri contendenti: i partigiani dei territori occupati e i nazisti dopo l’Armistizio. Questa costruzione simbolica, supportata da intellettuali e politici di tutti gli schieramenti, aveva l’intento di ricompattare un paese devastato dalla guerra (anche civile), ma si è rapidamente imposta come uno dei pilastri della nostra identità nazionale, ed è tuttora predominante nell’immaginario collettivo.
A questo stereotipo così radicato contribuisce la quasi totale rimozione dei crimini di guerra commessi dagli italiani durante l’epoca fascista. Blocchi psicologici, meccanismi di autoassoluzione, necessità di scagionare alcuni individui di potere direttamente coinvolti, esigenze economiche e sociali legate alla ricostruzione e alla pacificazione nazionale, logiche politiche della Guerra fredda e dell’anticomunismo possono spiegare questo oblio nei primi decenni del dopoguerra. Ma la rimozione è durata per un’intera epoca storica, voluta e incentivata da tutti i governi che si sono succeduti alla guida del paese. È soprattutto emblematica la difficoltà di accettare il passato coloniale, con i suoi crimini atroci, in parte precedenti al fascismo. Significative in questo senso sono le vicende di due film: Il leone del deserto, un kolossal libico del 1980 sull’eroe della Resistenza, Omar al-Mukhtar, che venne proibito dalla censura italiana perché lesivo dell’onore dell’esercito; e Fascist Legacy, un documentario della BBC prodotto nel 1989, acquistato ma mai trasmesso dalla Rai. Quest’ultimo lavoro, molto documentato e prodotto con la collaborazione dei migliori storici dell’epoca, è andato in onda su una tv privata a molti anni di distanza ed è oggi disponibile online, ma resta sostanzialmente sconosciuto all’opinione pubblica.
Con la fine della Guerra fredda e il crollo del sistema politico di stampo sovietico in Europa, la condanna delle responsabilità storiche del “comunismo reale” ha ulteriormente oscurato i crimini fascisti. Anzi questo nuovo clima politico ha portato con sé una crescente critica a tutto il fronte antifascista di cui i comunisti facevano parte. Nel discorso pubblico le violenze fasciste e antifasciste sono state progressivamente equiparate (con l’insistenza retorica sulla “resa dei conti” e il “sangue dei vinti”), ma in definitiva solamente le seconde hanno subìto un processo di condanna politica e morale, mentre le prime restano poco conosciute e continuano ad essere giustificate o relativizzate.
Non solo l’Italia non ha dunque rispettato le clausole previste dal trattato di pace del 10 febbraio 1947, ma quella data non è diventata una occasione di festa, come sarebbe stato logico, per la fine del peggiore conflitto della storia. Anzi, per quanto possa sembrare assurdo, è oggi in Italia una giornata di lutto: il Giorno del Ricordo delle “vittime delle foibe e dell’esodo”, istituito nel 2004 con una legge fortemente voluta dagli eredi politici del partito neofascista fondato da molti ex criminali di guerra nel 1946. L’uso ideologico e strumentale della vicenda delle foibe è infatti particolarmente emblematico di questo capovolgimento di prospettiva nell’approccio pubblico alla memoria della seconda guerra mondiale. In questo caso la condanna istituzionale è totalmente rivolta alla Resistenza, mentre nessun riferimento viene fatto, nel testo della legge istitutiva, alle precedenti politiche oppressive fasciste né alle stragi dell’esercito italiano in quegli stessi territori. Si giunge così al paradosso di capovolgere le responsabilità della guerra e il senso degli avvenimenti, rappresentando gli aggressori fascisti come vittime innocenti e i partigiani jugoslavi come colpevoli di un’invasione ai danni dell’Italia e di un piano di sterminio etno-nazionale.
Con estrema difficoltà e spesso dopo tanti anni dagli eventi, altri paesi hanno dimostrato di sapersi assumere la responsabilità dei propri errori storici, prendendo così le distanze da pratiche politiche e militari inaccettabili. Molto accidentato è stato il percorso della Germania, che pure viene spesso considerata un esempio virtuoso da imitare. Nonostante il processo di Norimberga, le molte condanne inflitte a gerarchi e comandanti militari e un processo di epurazione più efficace di quello italiano, anche la memoria pubblica tedesca ha fatto fatica a relazionarsi con i colossali crimini commessi durante l’epoca nazista. Per molti decenni prevaleva la percezione autoassolutoria di un popolo vittima del suo stesso regime, un immaginario che condannava un’ideologia criminale, ma assolveva l’esercito che avrebbe combattuto onorevolmente e con motivazioni patriottiche. La svolta in questo senso arriva negli anni Novanta, dopo la riunificazione delle due Germanie e la convergente necessità politica di rassicurare l’opinione pubblica mondiale, da una parte, e costruire una memoria condivisa da tutti i cittadini, dall’altra. I passaggi più rilevanti in questa direzione possono essere considerati lo scandalo prodotto dalla mostra itinerante sui crimini della Wehrmacht (Wehrmachtsausstellung) e il successo editoriale di libri come I volonterosi carnefici di Hitler e Uomini comuni, entrambi incentrati sull’attiva partecipazione di molti “normali” soldati e funzionari tedeschi alla Shoah. Oggi la Germania pare davvero aver preso coscienza dell’enormità dei crimini commessi da “volonterosi uomini comuni” in nome di una patria soggetta a un’ideologia criminale. Le visite scolastiche ad Auschwitz, le cerimonie istituzionali a Cefalonia e in altri luoghi della memoria delle stragi commesse dall’esercito tedesco, una narrazione della fine della guerra e dell’esodo di milioni di profughi dall’Europa dell’Est onesta e priva di revanscismi, sono solo alcuni degli elementi di un approccio al passato decisamente più corretto di quello italiano.
Altrettanto complesso e non privo di chiaroscuri è stato il percorso di acquisizione di responsabilità del Giappone, sulla cui memoria collettiva grava però in maniera devastante lo shock dei bombardamenti atomici di fine guerra. Buona parte dell’opinione pubblica giapponese ignora ancora oggi molti dei terribili crimini commessi negli anni Trenta e Quaranta, dagli esperimenti pseudoscientifici condotti sui prigionieri al massacro di Nanchino, fino al fenomeno delle comfort women rapite in Cina e Corea.
Anche in Europa ci sono approcci differenti al passato più oscuro dei diversi paesi, in particolare per quanto riguarda il ruolo delle forze collaborazioniste. Si va dal contesto francese, dove quel fenomeno è ancora condannato senza infingimenti, a paesi dove chi ha combattuto al fianco dei nazisti in funzione anticomunista viene oggi riabilitato e talvolta considerato alla stregua di un eroe nazionale (per esempio in Ucraina), fino a realtà come la Polonia dove esistono leggi censorie volte a stabilire una versione ufficiale degli aspetti più controversi del conflitto: le diverse Resistenze, la collaborazione con i nazisti, la persecuzione antiebraica.
Anche rispetto a episodi storici più recenti esistono approcci differenti nelle politiche della memoria dei fenomeni di violenza e di guerra civile. Particolarmente virtuoso è considerato l’esempio della Commissione per la verità e la riconciliazione voluta da Nelson Mandela per riappacificare il Sudafrica finalmente libero dall’Apartheid. Ma esistono politiche memoriali più ambigue, come quelle condotte dalla Spagna nei confronti dei crimini franchisti o da alcuni paesi sudamericani dopo la fine delle dittature sanguinarie degli anni Sessanta e Settanta.
Di fronte a questo ampio spettro di atteggiamenti, la politica memoriale italiana pare più allineata sulle posizioni delle democrazie considerate fragili e immature che su quelle dei paesi occidentali ritenuti più avanzati. Tentativi di censura, come per i film citati poco prima, la volontà di costruire “verità di stato” nazionaliste, come nel caso delle foibe, e il perdurante immaginario vittimista del “bravo italiano” sembrano caratterizzare il nostro paese. E certamente pesa come un macigno la mancanza di un riconoscimento ufficiale e istituzionale dei crimini commessi nel passato. Con l’eccezione significativa quanto paradossale dell’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi nella Libia di Gheddafi nel 2008, nessuna alta autorità dello Stato ha mai riconosciuto ufficialmente le responsabilità dell’Italia per le violenze commesse in ambito coloniale. Ma nessuno ha mai chiesto scusa né mostrato interesse o rispetto nemmeno verso le vittime dei territori occupati sul nostro continente, molti dei quali, come Francia, Grecia, Slovenia e Croazia, fanno oggi parte dell’Unione europea. Eppure si tratta di fenomeni storici abnormi e pare impossibile che una moderna democrazia possa continuare a ignorarli.
In termini psicoanalitici questo atteggiamento può essere definito “l’elefante nella stanza” (dall’inglese, elephant in the room): un trauma irrisolto, ignorato, col quale ci si rifiuta di confrontarsi, che condiziona la crescita di un individuo, lo rende per sempre bambino, incapace di crescere, di imparare dai propri sbagli, di diventare maturo e responsabile. In questo caso è un paese intero, l’Italia, che si confronta con il suo passato come un bambino viziato e capriccioso, che rifiuta di ammettere i propri errori e pretende di essere considerato sempre innocente. Col passare dei decenni il paese è cresciuto, ma non sembra maturato. Perché nessuno ha mai avuto il coraggio di spiegare all’Italia che quand’era fascista ha commesso gravi crimini, e che sarebbe ora di riconoscerli e di chiedere scusa.
Questo libro vorrebbe dunque contribuire al riconoscimento istituzionale di quei crimini. Ma prima di tutto vorrebbe contribuire alla conoscenza e alla diffusione della consapevolezza di quelle tragedie nell’opinione pubblica italiana. Molto è stato scritto su questo tema, grazie a studiosi che hanno affrontato con onestà e coraggio il tema delle occupazioni militari italiane in epoca fascista. Essi si sono confrontati con difficoltà concrete di vario tipo: la competenza linguistica necessaria all’utilizzo di fonti provenienti dai paesi invasi, la reticenza e l’approccio autoassolutorio di molta memorialistica, gli ostacoli frapposti dalle istituzioni archivistiche militari e non solo. Per molti decenni, ad esempio, le fonti riguardanti il colonialismo italiano sono state monopolizzate dal Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, istituito nel 1952 con intenti evidentemente auto-apologetici. Infine, non si possono dimenticare le difficoltà accademiche, politiche e mediatiche che tali studiosi hanno dovuto affrontare nel corso del loro lavoro. La scarsa considerazione prestata alle preziose ricerche di Giorgio Rochat, Nicola Labanca o Teodoro Sala, le aspre polemiche che hanno accolto i volumi più divulgativi di Angelo Del Boca, fino alle difficoltà di carriera incontrate dai ricercatori della generazione successiva come Matteo Dominioni, Paolo Fonzi, Davide Conti e il sottoscritto sono spie di una resistenza verso la conoscenza della realtà fattuale da parte del mondo accademico, dei mass media e della società in generale. Oggi possiamo dire che, grazie al lavoro costante e coraggioso di questi e altri studiosi, i crimini di guerra fascisti sono usciti dall’oblio: libri, mostre, spettacoli teatrali, documentari, programmi televisivi, siti web contribuiscono a diffondere la conoscenza di questo tema. Tuttavia tale conoscenza rimane confinata in ambienti elitari e fatica a farsi spazio in uno terreno politico-mediatico ancora dominato da un immaginario vittimista.
Il libro che state leggendo vuole essere dunque un omaggio alla fatica di tanti studiosi che mi hanno preceduto e al tempo stesso un invito rivolto alla comunità dei lettori per provare a confrontarsi con questa storia adottando uno sguardo nuovo, attuale, scevro da pregiudizi ideologici e morali. Io non sono né un giudice né un prete, il mio compito non è quello di giudicare, condannare o assolvere nessuno. Il mio dovere, da storico, è quello di capire, spiegare, offrire strumenti per comprendere il passato ed eventualmente contribuire a migliorare la società futura. Non è dunque mia intenzione contrapporre allo stereotipo del “bravo italiano” una “galleria degli orrori” per mostrare la brutalità dei nostri connazionali. Né si tratta di rifare oggi, a distanza di ottant’anni, i processi mai celebrati all’epoca, o di spiegare ancora una volta perché la giustizia non ha fatto il suo corso a tempo debito. Lo scopo di questo libro è piuttosto quello di interrogarsi sulle ragioni, sulla mentalità, sui condizionamenti sociali che hanno spinto tanti (troppi) italiani a prendere parte a quei crimini. Militari e dirigenti politici, generali e soldati, funzionari, poliziotti, intellettuali hanno condiviso il modello politico fascista e hanno commesso crimini in nome di quei valori e per conto di quel regime. La domanda che intendo pormi non è se tali individui fossero realmente dei criminali, ma perché hanno commesso crimini, dato che non erano criminali. Queste persone infatti non facevano i ladri, i rapinatori o i killer di mestiere; alcuni erano ufficiali di carriera, professionisti della guerra, ma la maggioranza era composta da gente comune mandata al massacro e a massacrare. E hanno fatto proprio questo: massacrare (anche) civili inermi. Perché? Cosa li ha spinti a diventare criminali? Cosa li ha spinti a infrangere non solo le leggi di guerra, ma anche la legge morale, quel senso di solidarietà umana che probabilmente condividevano con le loro vittime? È tutta colpa del contesto di violenza in cui si trovavano a operare, come molti di loro hanno sostenuto in seguito, o c’è qualcosa di più dietro i loro comportamenti? E come mettere in relazione tali attività con analoghe operazioni repressive condotte dalle forze d’occupazione in ogni contesto di guerra? C’è qualcosa di speciale, di unico, nelle violenze commesse dagli italiani negli anni del fascismo?
Eric Gobetti
Questo libro è dedicato alle vicende di quegli uomini e vuole provare a dare una spiegazione storica al loro operato. Non per attribuire responsabilità collettive né tantomeno per giustificare singoli criminali e le violenze da essi commesse. Ma per cercare di comprenderle nel contesto storico, geografico, politico e bellico che li circondava, per trovare una spiegazione a tanta banale, quotidiana crudeltà. Molti di questi uomini sono stati infatti banali carnefici, ma al tempo stesso anche vittime. Vittime della guerra, vittime di un’ideologia, di un pensiero politico e culturale; vittime, in definitiva, anche di se stessi. Una condanna in tribunale, una condanna politica di quel sistema di valori, una presa di distanza istituzionale da quei crimini avrebbe perlomeno reso queste persone consapevoli della gravità dei propri comportamenti. Ma non è stato così. Tranne rari e virtuosi esempi, gli italiani che hanno preso parte alle guerre fasciste hanno conservato anche in seguito la sensazione d’innocenza, l’idea di non aver commesso nulla di male, di non essersi macchiati di alcun crimine, di essere stati anzi vittime. Tutto ciò di fronte all’evidenza dei fatti.
Ovviamente le responsabilità sono diverse – ne parleremo –, i generali che davano ordini criminali sono certo più colpevoli di chi era spinto dal sistema gerarchico ad eseguirli. E poi ci sono gli innocenti o coloro che consapevolmente cercarono di opporsi a quelle pratiche violente. È vero, la società italiana in quegli anni era in gran parte fascista, imbevuta di idee razziste e nazionaliste, favorevole ai progetti imperiali e coloniali. Ma c’erano anche i dubbiosi, gli indecisi, addirittura i contrari. In una società strutturalmente violenta e rigidamente conformista, in cui prevaleva il senso della disciplina e il rispetto delle regole imposte dall’alto, c’era chi remava contro. Non solo gli antifascisti, spesso in carcere, in esilio o al confino. Anche nei territori in guerra c’era chi, a rischio della vita, denunciava, criticava, cercava di limitare i danni, offriva aiuto e conforto alle vittime o addirittura sceglieva di schierarsi dalla parte di chi combatteva l’esercito invasore. Ecco, insieme ai carnefici e alle vittime, in questo libro parleremo anche di quegli individui, coloro che potremmo definire i “giusti”, che hanno contrastato il sistema criminale fascista.
Nel raccontare questa storia di violenza attraverso i percorsi biografici di alcuni dei protagonisti, si è scelto di partire dall’ultima delle imprese fasciste, laddove il fallimento del regime e del suo esercito si è mostrato in maniera più evidente: l’invasione della Jugoslavia. È un punto d’osservazione significativo, direi emblematico. La Jugoslavia è un terreno di espansione fondamentale per il regime fascista, da un punto di vista simbolico, politico e militare. Qui viene applicata compiutamente una strategia repressiva già sperimentata in ambito coloniale; qui metodi quali la deportazione e l’internamento, il saccheggio e la devastazione, la cattura di ostaggi e la rappresaglia raggiungono la loro applicazione più ampia, in termini numerici, ma soprattutto come codificazione, come regola.
Nei teatri coloniali i crimini commessi dall’esercito italiano sono certamente più gravi, l’intensità della violenza è maggiore, il cinismo degli esecutori più evidente. Il fatto che tali crimini siano avvenuti lontano dall’Italia e fuori dall’Europa, ai danni di popolazioni culturalmente differenti non li rende meno gravi. Eppure consente psicologicamente di attribuirli non solo a un’altra epoca, ma a un altro mondo, uno spazio estraneo alla nostra autopercezione nazionale. Lo stesso non si può dire dei territori occupati oltre Adriatico. I crimini fascisti in Jugoslavia vengono compiuti nel cuore dell’Europa, a un passo dall’Italia. Anzi, in alcuni casi, addirittura all’interno dei confini italiani dell’epoca, in terre che oggi, nella retorica politica neonazionalista, si vorrebbero rivendicare come appartenenti alla madrepatria. Tanti luoghi della memoria delle violenze italiane si trovano a pochi minuti di macchina da Trieste. Quei crimini non sono solo un “elefante nella stanza”: sono l’elefante dentrola nostra stanza. Non possiamo ignorarli.
Eppure ci riusciamo benissimo. Nella memoria pubblica quei crimini sono caduti rapidamente nell’oblio, assenti nella cinematografia, nella divulgazione televisiva, nella manualistica scolastica e soprattutto nelle politiche memoriali. Non c’è mai stato un riconoscimento ufficiale delle violenze commesse dagli italiani in Jugoslavia e nessun importante rappresentante delle istituzioni repubblicane ha mai fatto visita al campo di concentramento di Arbe, per fare un esempio fra i tanti, forse il più ovvio. La sovraesposizione mediatica della vicenda delle foibe ha poi favorito, negli ultimi vent’anni, un vero corto circuito memoriale, per il quale i fascisti invasori finiscono per essere identificati con le vittime inermi delle foibe, giustificando così gli aggressori e condannando gli aggrediti. I crimini commessi in Jugoslavia rappresentano dunque un buon punto di partenza, anche perché contribuiscono a scardinare un immaginario vittimista costruito proprio sull’oblio di quegli stessi crimini.
La psicoanalisi insegna che non è mai tardi per affrontare un trauma, e con questo libro possiamo provare a farlo insieme. Viaggiando nell’inferno del passato del nostro paese, confrontandoci con le responsabilità italiane, per identificare le colpe individuali e comprendere i meccanismi collettivi di esclusione, guerra e violenza. Non spetta a me fare processi, lo ripeto. Mi limito a mostrare i crimini compiuti in nome dell’Italia in quei drammatici decenni e a cercare di capire perché sono stati commessi. Senza assolvere né condannare gli uomini. Ma cercando di capire quali idee li animavano, li spingevano al crimine. Le idee sì, le possiamo, le dobbiamo condannare. Perché quelle idee, se considerate innocenti, rischiano di tornare alla ribalta, e spingere noi oggi, i nostri figli o i nostri nipoti domani, a commettere nuove prevaricazioni, nuove violenze, nuovi crimini.
1. Dall’Africa ai Balcani
Mi sembra di vederlo, pare un eroe. Ha sessantaquattro anni ma, «nonostante l’età, è nel pieno vigore delle sue forze, massiccio, alto, senza un capello grigio. Ha un occhio sicuro: a trenta metri, colpisce con la pistola una scatola di cerini». E se la cava pure con la spada, visto che in gioventù ha vinto diverse competizioni olimpiche in quella specialità. La descrizione agiografica del generale Alessandro Pirzio Biroli ricalca davvero l’immagine stereotipata del grande comandante militare.
Mi sembra di vederlo, dunque, dritto, robusto, sicuro di sé, mentre entra trionfante in Montenegro, alla fine di luglio del 1941, per assumere il comando delle sue truppe e condurre l’offensiva. È stato chiamato a risolvere un problema, il generale Pirzio Biroli, e ha tutta l’aria di volerlo affrontare con la massima decisione, costi quel che costi.
Il Montenegro è una regione della Jugoslavia meridionale, sulle coste orientali dell’Adriatico. Viene occupato dalle truppe italiane alla fine della campagna balcanica, nell’aprile del 1941, quando l’intervento tedesco salva l’Italia da una clamorosa sconfitta militare e conduce in pochi giorni alla resa della Jugoslavia e della Grecia. Gli italiani entrano in Montenegro a cose fatte, il 17 aprile, il giorno in cui l’esercito jugoslavo firma la resa. Le autorità fasciste assumono allora il controllo di circa un terzo della ex Jugoslavia: alcuni territori vengono annessi, altri attribuiti all’Albania già inclusa dal 1939 nel sistema di potere italiano, altri alla Croazia collaborazionista.
Per il Montenegro i dirigenti italiani hanno piani ambiziosi. Vorrebbero farne uno Stato indipendente unito all’Italia da un’unione dinastica grazie a Elena (ovvero Jelena), la moglie di Vittorio Emanuele III, una delle figlie dell’ex re montenegrino Nikola. È un piano che impiega per qualche settimana le migliori menti della diplomazia fascista, alla ricerca affannosa di un possibile erede della dinastia montenegrina che si dimostri però anche fedele all’Italia. «Non avrei mai pensato di bruciare tanto fosforo per un paese come il Montenegro», commenta sarcastico nel suo diario il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano. Per di più è uno sforzo che si rivela inutile. Alla fine tutti i possibili candidati rifiutano di prendere parte alla farsa e il Montenegro viene dichiarato un regno indipendente, ma senza un re e senza un reggente. Il fallimento appare evidente.
Per di più l’occupazione straniera, la mutilazione di alcune regioni a vantaggio dell’Albania e la presenza di migliaia di profughi provenienti dal Kosovo creano presto un clima di ribellione che non sfugge a Serafino Mazzolini, la massima autorità italiana presente nella nuova capitale, Cetinje. In occasione della cerimonia per l’indipendenza, nel luglio del 1941, il diplomatico scrive: «Quel che capita oggi al Montenegro è talmente grave che non so dissimularmi né posso dissimulare le incognite pericolose del domani. […] Ho tutto predisposto perché le apparenze diano la sensazione di totalitaria adesione. Spero e mi auguro che non ci siano sorprese. Ma la realtà è ben diversa», avverte, prima di concludere teatralmente: «Io sono un soldato e rimango sulla trincea». Il giorno dopo scoppia la prevista rivolta, che in breve si diffonde in tutto il paese.
Quello del Montenegro è dunque un caso da manuale, che si ripete molte volte nella storia: invasione, occupazione militare, tentativo di coinvolgere élite locali marginali, di fatto screditate dalla stessa collaborazione con l’invasore straniero, esplosione di una rivolta guidata da leader altrettanto minoritari ma carismatici e popolari. Seguirà una repressione spietata da parte dell’esercito occupante, che a sua volta porterà al rafforzamento e alla radicalizzazione della ribellione. La conseguenza finale è una carneficina: decine di migliaia di vittime, in gran parte civili. Alla conclusione del conflitto il Montenegro sarà il territorio più devastato della Jugoslavia, a sua volta uno dei paesi col maggior numero di morti durante la seconda guerra mondiale: circa un milione di caduti (su 15 milioni) è il risultato finale dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’Italia e dei suoi alleati.
Disperse in una miriade di piccoli presidi, colte di sorpresa dall’improvvisa rivolta, nel luglio del 1941 le truppe italiane si arrendono quasi ovunque. Sono 30.000 i ribelli, dicono gli storici, e nel giro di pochi giorni riescono a prendere il controllo di gran parte del territorio. «Se non avesse un profondo amaro significato, sarebbe grottesco: è in atto una guerra fra l’Italia e il Montenegro!», commenta ancora il ministro Ciano, quello che aveva sprecato tante energie, tanto “fosforo”, senza trovare una soluzione che soddisfacesse il desiderio dei Savoia di un regno legato all’Italia.
In una situazione che appare disperata, il Comando supremo decide di affidare la repressione a un generale di sicuro successo.
Erede di una famiglia con importanti tradizioni militari, figlio di un volontario garibaldino e padre a sua volta di un ufficiale di carriera che morirà nei giorni concitati del dopo-Armistizio in Albania, Alessandro Pirzio Biroli ha dedicato la vita all’esercito. Nato nel 1877, a undici anni è già in collegio militare a Roma. Prosegue poi gli studi all’Accademia di Modena: appena maggiorenne è sottotenente di un corpo d’élite come quello dei bersaglieri. È una storia comune, la sua. La storia di tanti ufficiali di carriera che hanno attraversato quegli anni a cavallo tra la fine del secolo e l’avvento del regime fascista. Uomini entrati fin da bambini nell’ingranaggio di un’istituzione “totale” come l’esercito, menti plagiate dal senso del dovere, dell’onore, del rispetto per la gerarchia prima e sopra ogni cosa. E dall’amore per una patria matrigna e violenta che tutto chiede e poco dà.
In quei primi decenni postunitari l’Italia opera ancora per il completamento dell’unità nazionale, puntando soprattutto verso est. Un obiettivo che pare ampiamente raggiunto e superato alla fine della Grande Guerra con l’annessione delle cosiddette terre irredente, ovvero località a maggioranza italiana come Trento e Trieste, ma anche province che hanno ben poco a che fare con l’identità nazionale, quali il Sudtirolo, l’Istria interna e una parte della Venezia Giulia. Ma come in altri casi, anche il nazionalismo italiano si nutre di un immaginario imperiale che va ben oltre la realtà e il rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli. Fare grande l’Italia, edificare una patria forte ed egemone vuol dire prima di tutto far coincidere i suoi confini con quelli raggiunti in un mitico passato glorioso. Agli italiani vengono indicati due modelli a cui ispirarsi: l’Impero romano e la Serenissima repubblica di Venezia, sebbene ovviamente si tratti di esperienze storiche assolutamente non identificabili con la moderna idea di nazione. L’impegno di tanti intellettuali nazionalisti (tra cui archeologi, storici ed etnografi sono in prima linea) e la presenza di vestigia antiche e di piccole comunità italofone in molte località del bacino mediterraneo, dall’Istria a Tunisi, da Malta a Rodi, sembrano giustificare questi ambiziosi obiettivi. L’imposizione di un’egemonia sul Mare Nostrum diventerà da lì a poco anche uno dei pilastri dell’espansionismo fascista.
Nazionalismo, imperialismo, colonialismo e razzismo si intrecciano in quei decenni nel formare un’idea di patria violenta e aggressiva, capace di farsi rispettare dai forti e di dominare i deboli. In questa logica, l’Italia liberale opera anche per procurarsi “un posto al sole”, ovvero una terra africana da conquistare. Solo i grandi Stati hanno colonie, e il nuovo regno unitario vuole far parte di questa schiera. Anche per liberarsi dello stigma di paese mediterraneo e dunque inferiore (e in qualche modo “meticcio”), l’Italia ha bisogno dei “suoi neri”, sui quali imporre il proprio dominio, per essere riconosciuta a tutti gli effetti come nazione “bianca” ed essere ammessa a pieno titolo nel novero delle grandi potenze europee.
Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento il progetto coloniale coinvolge dunque l’intera società italiana. L’Africa è percepita come un territorio “vuoto” da occupare e verso cui indirizzare la propria popolazione in eccesso, i tanti emigranti che a milioni affollano i bastimenti in direzione delle Americhe. Nella logica razzista dell’epoca non è ammissibile che i popoli africani si governino autonomamente. Essi non sono umani come gli europei: fanno quasi parte del paesaggio e, al pari dei cammelli o degli elefanti, possono essere sfruttati come forza lavoro. La superiorità razziale dà diritto alla conquista, ma è anche percepita come un dovere: il dovere della civilizzazione, il cosiddetto “fardello dell’uomo bianco”. La percezione condivisa è quella di essere nel giusto, di operare per un bene superiore, un dovere morale e nazionale al tempo stesso. È in questo scenario, psicologico prima ancora che politico, che vanno inquadrate le guerre di conquista italiane di fine Ottocento e inizio Novecento (nel Corno d’Africa e poi in Tripolitania) e le occupazioni fasciste che, da lì a poco, devasteranno la Libia e l’Etiopia.
È sfortunato, però, Pirzio Biroli: cresciuto nel cuore della belle époque, durante un lungo periodo di pace mondiale, deve aspettare fino a trentacinque anni per combattere finalmente una guerra vera. Dopo un brevissimo impiego in Libia durante la guerra anti-ottomana del 1911-1912, finalmente arriva la Grande Guerra. Nel 1917 Pirzio Biroli è ufficiale di collegamento con le truppe serbe sul fronte di Salonicco, di nuovo, come pochi anni prima, contro l’esercito turco.
Finita la guerra, l’allora colonnello Pirzio Biroli viene inviato per cinque anni in Ecuador, a capo della missione militare italiana in quel paese. Data la lunga esperienza acquisita all’estero è considerato un esperto di tematiche extraeuropee, tanto che nel 1935 è destinato in Eritrea, per partecipare all’imminente offensiva contro l’Etiopia. Promosso generale, comanda il Corpo d’armata indigeno che raggruppa decine di migliaia di àscari, le truppe coloniali che affiancano l’esercito italiano durante l’invasione.
Per Pirzio Biroli è la grande occasione, nella quale può dimostrare finalmente le sue doti di condottiero. Come è noto, però, l’avanzata è più lenta del previsto e lo stesso neogenerale non riesce a distinguersi in maniera particolare. In definitiva gli italiani hanno la meglio sugli avversari solo grazie alla schiacciante superiorità tecnologica e all’uso massiccio e premeditato di armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali. Il successo personale di Pirzio Biroli è comunque straordinario, anche se dovuto soprattutto alla parentela con Alessandro Lessona, l’allora potente ministro delle Colonie. Dopo la vittoria contro l’esercito etiope, Pirzio Biroli viene soprannominato “il leone di Gondar”, dal nome della capitale della regione dell’Amara di cui diventa governatore. Ex atleta, ex campione di scherma, esaltato dalla propaganda e omaggiato dai colleghi, Pirzio Biroli è l’unico generale a lasciare temporaneamente l’Africa per una trionfale tournée in Italia a base di ricevimenti e onorificenze. «Pirzio il leone, altissimo, quadrato, col profilo calmo incorniciato dalla folta criniera nera», lo descrive ispirato un suo giovane ufficiale, il futuro giornalista Indro Montanelli. A lui viene dedicato addirittura un libretto agiografico dal titolo: L’Etiopia liberata dal novello Alessandro: Pirzio Biroli. Poema eroico.
Ma il successo dura poco. Come poi accadrà in Montenegro e in molte altre località, anche in Etiopia la guerra non termina con la conquista di Addis Abeba e la proclamazione dell’Impero dal balcone di Palazzo Venezia. Nelle settimane e nei mesi successivi, la Resistenza non accenna a spegnersi e anzi si allarga e si diffonde in tutto il paese. La ribellione provoca una reazione sempre più violenta e spietata, in particolare dopo l’attentato al governatore Rodolfo Graziani, il 19 febbraio 1937. È in queste operazioni che il generale Pirzio Biroli acquisisce la sua fama di comandante inflessibile: ordina di fucilare i partigiani etiopi catturati, impiccare pubblicamente i comandanti, radere al suolo «i paesi che hanno fatto causa comune con i ribelli». Il “leone” Pirzio Biroli si distingue anche nell’utilizzo delle armi chimiche, ad esempio l’iprite nel dicembre 1937. Si tratta di una delle sue ultime operazioni in Etiopia: pochi giorni dopo il generale viene rimosso dall’incarico e rimpatriato.
L’invasione dell’Etiopia e la violenta campagna di conquista provocano reazioni negative in tutto il mondo e l’isolamento internazionale dell’Italia finisce per favorire l’avvicinamento alla Germania nazista; un’alleanza che è comunque la naturale conseguenza dei modelli politici adottati dai rispettivi paesi. Anche il fronte antifascista e anticolonialista non resta a guardare, e il Komintern, l’Internazionale comunista guidata dall’Unione Sovietica, decide di inviare in Etiopia alcuni suoi rappresentanti. Il leader del gruppo si chiama Ilio Barontini. Livornese, tra i fondatori del partito comunista italiano, esule in Francia dopo la condanna da parte del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, negli anni Trenta Barontini diventa un militante internazionalista. Si forma in Urss, poi combatte in Cina nella resistenza antigiapponese con Mao Zedong e in Spagna nelle brigate internazionali. Alla fine del 1938 viene inviato in Etiopia con altri due attivisti. Per più di un anno opera al fianco dei partigiani etiopi, gli arbegnuoc, offrendo la sua esperienza come propagandista, organizzatore politico e comandante militare.
Rientrato in Italia nel 1943, Barontini è tra gli organizzatori della resistenza armata in diverse città del Nord Italia, tra cui Milano, Torino e Bologna. Il suo principale avversario militare è nuovamente Rodolfo Graziani, l’ex governatore dell’Etiopia, ora comandante dell’esercito della Repubblica sociale italiana di Mussolini. Processato per i soli crimini commessi in Italia, nel dopoguerra Graziani sconta appena quattro mesi di carcere. Dopodiché aderisce al primo partito neofascista, il Movimento sociale italiano (Msi), e nel 1953 ne diventa presidente onorario. Anche Barontini prosegue l’attività politica come parlamentare, ovviamente nel Partito comunista italiano (Pci), ma muore in un incidente stradale nel 1951, a soli sessant’anni. Per tutta la vita ha agito in una prospettiva internazionalista, opposta a quella dei generali fascisti: la sua esperienza e quella di altri personaggi altrettanto straordinari dimostrano come anche allora fosse possibile pensare e agire in termini non razzisti e solidali verso i popoli aggrediti e oppressi.
Nonostante le illustri parentele e le buone amicizie, dopo il trasferimento dall’Etiopia Pirzio Biroli viene tenuto ai margini per qualche anno. Nell’estate del 1941 si trova in Albania, un fronte minore, con compiti di presidio. È da Tirana infatti che lancia il suo proclama alle truppe che dovranno partecipare alla riconquista del Montenegro. «La repressione deve essere di estremo rigore e di esemplarità solenne, ma senza carattere di rappresaglia e senza inutile crudeltà», annuncia il 15 luglio. Ma cosa prevede di preciso quell’operazione? E che bisogno c’è di escludere testualmente la “crudeltà” dall’attività prevista per le truppe italiane nei giorni successivi?
Come generale, Pirzio Biroli ha pochissima esperienza di guerre tradizionali, non ha praticamente mai guidato un’unità militare contro un esercito moderno di pari forza. In compenso può essere considerato un esperto di guerra asimmetrica, come si direbbe oggi: ha comandato una grande unità coloniale contro l’esercito etiope armato in maniera antiquata, ma soprattutto ha sperimentato sul campo ogni metodo repressivo per sconfiggere la resistenza all’occupazione. È questo il biglietto da visita di Alessandro Pirzio Biroli, è così che si è costruito la sua fama di vincente: non con brillanti operazioni militari, ma grazie allo spietato uso di metodi repressivi contrari alla morale e alle leggi internazionali. A quanto pare il Comando supremo ritiene che sia questa la strategia più adatta anche al Montenegro: è l’uomo giusto al posto giusto, insomma.
Nel 1941 l’esercito italiano non ha ancora adottato organiche strategie di controguerriglia. Non c’è stata un’elaborazione formale per questo tipo di guerra, né corsi specifici nelle accademie militari e nemmeno sono stati pubblicati manuali o normative generali. Pirzio Biroli si affida allora all’esperienza maturata dall’esercito italiano in ambito coloniale, di cui lui stesso è stato uno dei protagonisti. Ma è davvero possibile applicare le stesse strategie repressive in Europa?
È ancora aperta la discussione storiografica su quanto le occupazioni militari italiane nei Balcani possano essere considerate in continuità con le precedenti esperienze coloniali. Le similitudini, specialmente nelle pratiche repressive, sono evidenti e più volte sottolineate dagli stessi protagonisti, molti dei quali, peraltro, operano in entrambi gli scenari: oltre a Pirzio Biroli e a Carlo Geloso, governatore italiano della Grecia, ben quattro comandanti di corpo d’armata e molti generali di divisione in Jugoslavia avevano fatto carriera in Africa. Un elemento che sembra accomunare i diversi territori occupati è certamente la prospettiva di dominio assoluto: in tutti questi contesti infatti non si tratta di sconfiggere un esercito nemico, bensì di sottomettere l’intera popolazione, renderla schiava e dipendente dagli invasori. In tale logica tutti gli abitanti sono percepiti come possibili nemici e potenzialmente solidali con la Resistenza, a meno che non dimostrino il contrario, collaborando apertamente con gli occupanti.
Ma ci sono anche evidenti differenze. Il presupposto essenziale delle operazioni coloniali è la presunzione di una netta superiorità razziale rispetto ai popoli oppressi. È quella concezione, profondamente interiorizzata e condivisa dalla maggioranza degli europei, che consente di adottare metodi spietati e “inumani” nei confronti delle popolazioni africane che si ribellano all’invasione. L’internamento di massa, i ripetuti massacri, l’eliminazione di specifiche categorie di individui, le persecuzioni contro interi gruppi etnici hanno fatto parlare, in relazione alle guerre coloniali, di vere e proprie pratiche genocidarie. Documenti e testimonianze sembrano confermare tale ipotesi. Scrive, ad esempio, il maresciallo Pietro Badoglio ordinando le deportazioni della popolazione libica il 20 giugno 1930: «Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via è tracciata e noi dobbiamo proseguirla sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica».
In una prospettiva simile operano gli italiani in Etiopia. È appena terminata la campagna di conquista quando Mussolini comanda di «condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio». Un anno dopo, il viceré Rodolfo Graziani ribadisce «la necessità di perdere ogni carità e sentimentalismo nei riguardi degli Amara», il gruppo etnico maggioritario: «Eliminarli, eliminarli, eliminarli, come dal primo giorno che ho assunto il mio ufficio vado predicando contro tutte le illusioni altrui». Dopo l’attentato subìto il 19 febbraio 1937, lo stesso governatore ordina l’annientamento dell’intera élite culturale del paese, colpendo in particolare alcune categorie di individui: gli intellettuali, gli indovini (colpevoli, secondo gli italiani, di aizzare la popolazione contro gli invasori) e i leader religiosi copti. Questi ultimi, nelle parole di Graziani, avrebbero dovuto desistere «dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti». È in questo contesto che avviene forse il più grave eccidio di religiosi cristiani della storia moderna. Il 21 maggio 1937 uno dei simboli della Chiesa nazionale etiope, il monastero di Debre Libanos, viene preso d’assalto dalle truppe italiane: nei giorni successivi circa 2.000 religiosi vengono uccisi a sangue freddo. Non è l’unico caso; le uccisioni proseguono anche dopo, ed è lo stesso Graziani a elogiare Pirzio Biroli per aver ordinato l’impiccagione di venti etiopi e la fucilazione di quattro preti copti: «Bene ha fatto Sua Eccellenza Pirzio Biroli ad imitare l’esempio di Debre Libanos», scrive il governatore dell’Etiopia in quell’occasione.
L’autore Eric Gobetti
Eric Gobetti
Eric Gobetti è uno storico freelance, studioso di fascismo, seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia nel Novecento. Autore dei documentari Partizani e Sarajevo Rewind e di diverse monografie, è esperto in divulgazione storica e politiche della memoria. Per Laterza ha pubblicato Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943) (2013), nella serie “Fact Checking”, E allora le foibe? (2021) e I carnefici del Duce (2023).
Edizione: 2023 Pagine: 192 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788858151396 ISBN digitale: 9788858152775 Argomenti: Storia contemporanea, S
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