Fara in Sabina -La seconda settimana del Festival FLIPT del Teatro Potlach
Fara in Sabina -Il grande festival FLIPT – Festival Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali del Teatro Potlach di Fara Sabina ha avuto inizio il 26 giugno e prosegue fino al 7 luglio nella sua sessione internazionale.
Il Festival è sostenuto dalla Regione Lazio e dalla Fondazione Varrone, e che ha il patrocinio della Provincia di Rieti e del Comune di Fara Sabina.
La prima settimana di Festival ha visto succedersi numerosi spettacoli internazionali di altissima qualità, e la seconda settimana di festival non è da meno.
Pino Di Buduo, direttore artistico del Teatro Potlach
Ecco tutti i prossimi appuntamenti:
Lunedì 1 luglio alle 18:00 presso il Teatro Potlach
La compagnia polaccaTeatr Brama porta in scena lo spettacolo “Voices”, dove la principale forma di espressione è il canto, trasportando lo spettatore in diversi mondi emotivi. Uno spettacolo in cui gli spettatori potranno perdersi tra le polifonie meravigliose di paesi lontani, grazie ai 6 attori/musicisti in scena.
E poi alle ore 21:00 presso il Teatro Potlach
La compagnia brasiliana Estelar de Teatro si esibirà con lo spettacolo “Tarsila o il vaccino antropofagico”. Poesia, musica e videoproiezioni delle immagini del pittore brasiliano Tarsila do Amaral, in uno spettacolo-utopia e manifesto artistico alla ricerca di nuove immagini. Con l’attrice Viviane Dias.
Martedì 2 luglio altri due appuntamenti per il FLIPT:
Alle ore 18:00 lo spettacolo “La lingua dei fiori”, della compagnia italiana Teatro Nucleo, animerà la passeggiata del Belvedere di Fara in Sabina. In scena sette attori, per uno spettacolo che vuole indagare con gli strumenti della poesia, del canto, dell’immagine, la vita ribelle e silenziosa del mondo vegetale: nell’indifferenza generale, i fiori organizzano la loro lenta ma inesorabile rivoluzione fatta di bellezza, profumo, incanto. Lo spettacolo è gratuito e non è necessaria la prenotazione.
Alle ore 21:00 al Teatro Potlach una coproduzione tra “Kamigata-mai Monokai”, la compagnia di Keiin Yoshimura dal Giappone, e Residui Teatro dalla Spagna, con lo spettacolo “White Bird”. L’opera si basa su un antico racconto tradizionale giapponese, interpretato con diverse tecniche del teatro e della danza tradizionali giapponesi (teatro Noh, Kyogen e Kamigata-mai) in aggiunta a tecniche del teatro fisico e della Commedia Dell’Arte.
Mercoledì 3 luglio continuano gli spettacoli:
Alle ore 18.00 sarà presentato “La mia vita nell’arte” della compagnia brasiliana Estelar de Teatro presso il Teatro Potlach. Lo spettacolo condivide i paradossi di un regista pedagogo nel XXI secolo – un mondo digitale – che cerca ispirazione dalle lezioni di K. Stanislávski nei suoi luoghi di utopia per nutrire un teatro del futuro.
Alle ore 21:00, presso il giardino del Teatro Potlach, ci sarà lo spettacolo “caMARá” della compagnia tedesca antagon theaterAKTion. Due uomini vagano tra le onde, danzando con le stelle. Benedikt Müller e Lucas Tanajura del gruppo antagon Theater AKTion utilizzano teatro, danza, acrobazie, musica strumentale e canto per creare un viaggio intimo iniziato con la domanda: “Cosa succede quando perdiamo tutte le certezze e ci tuffiamo nell’ignoto? Dove ci porterà il nostro viaggio quando lasciamo la terraferma e ci arrendiamo alle forze della natura?” Uno spettacolo da non perdere
Giovedì 4luglio un’altra ricca giornata:
Alle ore 18:00 ci sarà, presso il Teatro Potlach, lo spettacolo “Home” della giovane compagnia ucraina“Maysternya 55”. Lo spettacolo esplora artisticamente il concetto di casa e come cambia nel tempo e durante la guerra. Il collettivo, composto da ucraini sparsi per il mondo a causa della guerra in Ucraina, riflette su due concetti di casa: quello originale e quello attuale.
Alle ore 21:00 uno spettacolo in coproduzione tra il Centro Anziani “Insieme” di Fara Sabina APS, il Teatro Potlach, e l’assessorato ai Servizi Sociali del comune di Fara in Sabina. “Le radici del futuro” è il titolo dell’evento che avrà come protagonista il Monumento ai Caduti di Fara in Sabina che prenderà vita nuova con luci, proiezioni e installazioni visive. Alla fine del percorso artistico allestito sul monte, sarà possibile assistere a un filmato che racconta, attraverso la voce di chi ha il ricordo del passato e delle tradizioni, la storia dei mutamenti della vita nei borghi, per trasmetterla alle nuove generazioni. E a seguire… una sorpresa dal vivo, per permettere un contatto tra le generazioni, tra il passato e il presente!
Il 6 e 7 luglio l’appuntamento imperdibile con lo storico spettacolo del Teatro Potlach “Città invisibili”. Gli oltre 100 artisti Italiani ed internazionali che hanno partecipato a queste dodici giornate di Festival invaderanno il centro storico di Fara in Sabina con performance, teatro, danza, musica e molto altro!
Per info e prenotazioni scrivere al numero del Teatro Potlach: 3517954176
Teatro Potlach -Via Santa Maria in Castello n.28 | Fara in Sabina (RI)
Roma -Università la Sapienza-È stata fondata da papa Bonifacio VIII, il 20 aprile 1303, l’università più laica d’Italia: “La Sapienza”; la più grande d’Europa e la ventunesima ed essere nata al mondo.
Un papa che con il concetto di laicità aveva un rapporto molto personale. E cioè grande interesse, attenzione e rispetto, purché anch’essa fosse sottomessa completamente all’autorità religiosa.
A modo suo laicissimo, visto che era più interessato a cultura, politica e turismo ante-litteram che alla spiritualità, non riusciva però proprio a tollerare che tutto questo potesse muoversi autonomamente, senza riconoscere al vicario di Cristo il potere supremo. Mai contrappasso fu più sublime, di un’Università pontificia che oggi ostenta nel nome e nel suo monumento-simbolo una divinità pagana: Minerva, dea della Sapienza, la cui statua troneggia di fronte alla grande vasca nel mezzo della città universitaria e che non bisogna mai guardare – secondo una leggenda studentesca – prima di sostenere gli esami.
Forse fu il più teocratico dei pontefici dell’intera storia della Chiesa, Benedetto Caetani. Era nato ad Anagni, nel Lazio, intorno al 1230 e apparteneva ad una delle famiglie più importanti della Roma medievale che, originaria di Pisa, si spartiva con gli Orsini e i Colonna papi e potere.
Di temperamento energico e dotato di grandi capacità diplomatiche, rese ancora più decisive da una notevole cultura e da profonde conoscenze giuridiche, Benedetto aveva studiato prima a Todi e poi a Bologna, dove si era laureato in Diritto Canonico; poi aveva iniziato la carriera diplomatica in Laterano, prendendo parte anche ad una importante e delicata missione a Londra.
Diventato cardinale a 51 anni e sacerdote dieci anni dopo, nel 1291 era stato in missione in Francia per dirimere una controversia tra clero secolare e ordini religiosi e aveva partecipato a quattro conclavi: quello che aveva eletto Onorio IV nel 1285, quello da cui era uscito papa per la prima volta un frate francescano (Niccolo IV, nel 1288) e poi quello – lunghissimo – seguito alla morte di Nicolò nel 1292 e che era rimasto bloccato due anni a causa della lotta tra le famiglie rivali. Dall’impasse si era usciti quando era venuta fuori l’idea di eleggere una figura completamente al di fuori dei giochi di potere e sicuramente apprezzata dal popolo cristiano: Pietro dal Morrone, monaco eremita con fama di santità, che aveva preso il nome di Celestino V.
Dopo appena 6 mesi di pontificato Celestino, con un gesto del tutto inedito, aveva rinunciato spontaneamente al pontificato. Spontaneamente fino a un certo punto, secondo i suoi sostenitori che poi erano anche i nemici di Bonifacio, accusato di manipolare il papa santo per convincerlo a dimettersi. Quel che è certo è che il cardinale Caetani era diventato quantomeno un autorevole consigliere giuridico per il vecchio eremita finito sul trono più ambito e più scomodo del mondo. E quel che è certo è che appena dieci giorni dopo la rinuncia, i 22 cardinali riuniti in conclave a Napoli (di cui ben 13 erano stati scelti da Celestino) avevano eletto Benedetto, che aveva assunto il nome di Bonifacio VIII.
A scanso di equivoci, la prima cosa che aveva fatto Bonifacio era stata quella di arrestare e chiudere in carcere Celestino, per evitare che i suoi nemici ne facessero un antipapa. Intanto, gran parte del mondo spirituale e intellettuale, accusava il nuovo papa di simonia, ovvero di aver pagato i cardinali che lo avevano eletto.
Convinto assertore della superiorità del potere spirituale su ogni altro potere, dopo aver riportato ordine a Roma, Bonifacio VIII aveva ingaggiato una lotta con il re di Francia Filippo IV il Bello (che gli sarebbe costato il celebre “schiaffo di Anagni”), guadagnandosi – nel frattempo – un posto all’inferno all’interno della Divina Commedia.
Bonifacio VIII indice il giubileo del 1300, Giotto, affresco staccato in San Giovanni in Laterano (Roma)
Era stato proprio lui, nel 1300, a “inventare” il Giubileo moderno, grande evento turistico-spirituale, ma soprattutto segno tangibile della superiorità della Chiesa su qualsiasi altro potere. Solo lei può infatti perdonare ogni colpa e aprire la porte del cielo.
A rimarcare questa assoluta autorità, Bonifacio aveva aggiunto allo stemma papale la tiara pontificia con due corone, a rappresentare il potere temporale e quello spirituale.
Ultimo importante atto di Bonifacio, pochi mesi prima dell’umiliazione di Anagni e della morte, è la fondazione dell’Università di Roma, formalizzata con la bolla In Supremae praeminentia Dignitatis promulgata il 20 aprile 1303.
L’Università era allora un’istituzione ancora giovanissima, ma in piena espansione.
Con il decadere dell’impero romano, a lungo gli unici luoghi di insegnamento erano stati gli studia organizzati presso le sedi vescovili urbane per l’apprendimento dei fondamenti della grammatica e della retorica e la formazione teologica.
Presso alcuni di essi, a partire dalla fine del decimo secolo, un numero crescente di docenti e studenti provenienti da ogni parte d’Europa, aveva dato vita a gruppi di studio (studia generalia), inizialmente organizzati in modo spontaneo, sulla base della nazionalità, ma presto strutturatisi in corporazioni di docenti e studenti delle Universitates magistrotrum et scholarium. La prima a sorgere era stata Bologna nel 1088, alla quale era seguita Oxford nel 1167 e poi Parigi nel 1170. Nel corso del XIII secolo le università si erano andate moltiplicando in Italia, Francia, Inghilterra e nella penisola iberica, dove erano diventate un ponte tra mondo europeo e arabo e, tramite questo, veicolo della riscoperta della cultura greca.
Come tutte le corporazioni di mestieri, le università erano dotate di propri statuti e autonome autorità di governo: assumevano i docenti e organizzavano l’attività didattica in un ciclo introduttivo alle arti liberali (6 anni di frequenza), seguito dagli insegnamenti superiori di Diritto, Medicina (6 anni) e Teologia (8 anni), si preoccupavano di garantire gli alloggi e i locali per la comunità di studenti e maestri e ne curavano gli interessi di fronte all’autorità
Studenti a lezione in un frammento dell’arca di Giovanni da Legnano, Pierpaolo dalle Masegne, 1383, Museo medievale di Bologna
Dopo Parigi erano nate le università di Vicenza (1204), Valencia (1208), Cambridge (1209), Arezzo (1215), Padova (1222), Napoli (1224), Vercelli (1228), Tolosa (1229), Angers (1229), Salerno (1231), Salamanca (1242), Piacenza (1248), Siviglia (1254), Reggio Emilia (1276), Montpellier (1289), Lisbona (1290), Lerida (1300) e Avignone (1303).
A Roma, prima della istituzione dello “studio bonifaciano”, gli istituti di istruzione superiore erano esclusivamente rivolti al clero di Roma. Tra questi c’era la Scuola capitolare Lateranense, a indirizzo teologico e giuridico, destinata alla formazione dei quadri direttivi del governo ecclesiastico, la Universitas Romanae Curiae, istituita a Lione da Innocenzo IV intorno al 1245, aperta agli impiegati della curia, e che, senza sede stabile a Roma seguiva la corte papale “ubicumque Romanam Curiam residere contigerit” a causa di eventi religiosi o politici; gli Studi generali in teologia, tenuti dalla seconda metà del secolo XIII dagli Ordini mendicanti erano invece riservati ai frati. Mancava quindi un centro di studi superiori aperto alla cittadinanza romana e destinato a formare la futura classe dirigente.
Statua di Bonifacio VIII, Arnolfo di Cambio (1298 ca.), Museo dell’Opera del Duomo, Firenze
Bonifacio, che è tra i primi papi ad essersi laureato in un’Università (la prima al mondo, quella di Bologna, appunto) vuole dotare anche la sua città di una struttura simile, capace di offrire una formazione in tutte le discipline e aperta anche ai laici. Laici come lui stesso era stato, dopotutto, fino a 60 anni.
Quella di Roma diventa così la prima università ad essere fondata dall’autorità politica e religiosa e non costituita spontaneamente da un’associazione di studenti e insegnanti.
Bonifacio la chiama “Studium Urbis” (nome ancora oggi utilizzato nello stemma) e la colloca fuori dalle mura vaticane, ubicazione che segna l’inizio di un nuovo rapporto tra la città di Roma e gli studiosi che in essa giungono da tutte le parti del mondo.
L’università municipale di Roma comprende tutte le facoltà con una forte presenza degli studi giuridici. Nasce come istituzione laica ma subisce inevitabilmente le ingerenze del papato risentendo, nei suoi primi decenni di vita, del clima turbolento che i moti politici e gli scontri tra le fazioni guelfa e ghibellina provocano a Roma.
Nella seconda metà del Trecento, lo Studium è costretto a ricorrere a docenti non romani di Legge, Medicina, Grammatica e Logica, non compromessi nelle lotte politiche. I finanziamenti iniziali giungono dalla tassazione del vino forestiero, oltre che dalla munificenza di alcuni nobili romani. Quando la sede pontificia sarà spostata ad Avignone, la gestione dell’università sarà affidata al Comune di Roma.
Lo Studium Urbis acquista man mano importanza e prestigio e dal 1363 riceve dalla città di Roma un contributo stabile. La sede di Trastevere non è più sufficiente; così nel 1431 papa Eugenio IV, per dare all’Università una struttura più articolata, affianca al rettore quattro amministratori e provvede all’acquisto di alcuni edifici nel rione Sant’Eustachio, tra piazza Navona e il Pantheon. In quell’area sorgerà duecento anni dopo l’edificio della Sapienza.
Già nella seconda metà del ‘400, invece, il termine “Sapientia” viene usato nei documenti per indicare l’insieme di scuole e collegi riuniti nello Studium Urbis.
Con Niccolò V (1447-1455), papa mecenate e protettore di studiosi e letterati, il ginnasio attraverserà un periodo di rinascimento delle lettere latine e greche, con maestri illustri quali Lorenzo Valla, fondatore della critica filologica, Poggio Bracciolini, il grande letterato greco Crysoloras, il cardinal Bessarione e il poeta Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa con il nome di Pio II.
In un periodo di espansione dell’università, Alessandro VI (1492-1503) ne amplierà la sede e i lavori saranno portati avanti da Pio VIII (1503) e Giulio II (1503-1513).
Nel Cinquecento sarà il figlio di Lorenzo De’ Medici, papa Leone X, a dare un forte impulso all’Università romana, chiamando da tutta Europa studiosi famosi. È a Roma che per la prima volta in Europa vengono introdotte materie come i simplicia medicamenta, base della spagirica, un sistema di cure che a partire dall’energia presente nell’uomo cerca di ristabilirne l’equilibrio turbato dalla malattia. È in quegli anni che lavora nello Studium Urbis Bartolomeo Eustachio, uno dei fondatori della scienza anatomica moderna. Sarà sempre papa Leone X a dare impulso agli insegnamenti storici, umanistici, archeologici e scientifici mentre nel 1592 papa Clemente VIII chiamerà a Roma Andrea Cesalpino che l’anno dopo fornirà la prova della circolazione sanguigna.
Papa Celestino V, oggetto di importanti studi proprio nell’università fondata da Bonifacio VIII, il pontefice che lo fece incarcerare
Sotto l’impulso di Paolo III Farnese (1534-1549), cultore di astronomia e di matematiche, l’università si aprirà inoltre alle scienze e all’archeologia. La crescita continuerà nel Seicento con l’inaugurazione nel 1660 – sotto Alessandro VII – del Palazzo della Sapienza e della chiesa annessa dedicata a Sant’Ivo, protettore degli avvocati. Sarà lo stesso Alessandro VII a fondare la biblioteca universitaria ancora oggi chiamata “Alessandrina”.
Nel 1870, dopo l’unità d’Italia, l’Università passerà al Regno d’Italia e nel 1935 la sede sarà trasferita nella Città piacentiniana, teatro di alcuni dei momenti più importanti della storia politica, sociale e culturale dell’Italia degli ultimi 60 anni. Qui insegnerà infatti Storia del cristianesimo uno dei più importanti teologi del Novecento: Ernesto Bonaiuti, antifascista e modernista, cacciato dall’università per una singolare convergenza di interessi di fascismo e Vaticano, formalizzata in un apposito articolo nei Patti Lateranensi; ma qui fiorirà negli anni ‘60 anche una delle più importanti cattedre di Storia Medievale, destinata a diventare con Raoul Manselli il più importante centro al mondo di studi francescani; e da qui partirà anche la riscoperta della figura di Celestino V, riabilitato in tutta la sua grandezza dopo secoli di luoghi comuni sulla sua presunta vigliaccheria dovuti a quel “fece per viltade il Gran rifiuto” di Dante Alighieri.
Chissà, se lo avesse saputo, cosa avrebbe detto Bonifacio.
Tersilio Leggio-Abbazia di Farfa- L’anello sigillare dell’abate Benedetto (802-815)
Prof. 𝗧𝗲𝗿𝘀𝗶𝗹𝗶𝗼 𝗟𝗲𝗴𝗴𝗶𝗼
Marca/Marche-rivista di storia regionale n°8/2017-
AndreaLivi Editore
Non avviene tutti i giorni che si possa scrivere una nuova pagina della storia dell’abbazia di Farfa nel periodo carolingio grazie al riapparire improvviso e del tutto inatteso di un nuovo documento, che, come si vedrà, cambierà dalle fondamenta le vicende delle strutture materiali del monastero sabino all’epoca di Carlomagno, colmando molti vuoti ed aprendo nuovi e stimolanti itinerari di ricerca.
L’8 dicembre scorso l’abbazia di Farfa ed il suo priore Dom Eugenio Gargiulo ricevevano una mail che li informava che il giorno successivo presso la casa d’a- ste parigina Piasa era in vendita tra i vari lotti uno che riguardava l’anello-sigillo dell’abate Benedetto (802-815). Molto cortesemente Dom Eugenio mi ha girato la mail chiedendo una mia opinione in merito. Debbo dire di essere andato immediatamente a controllare sul sito della Piasa con molta circospezione e con numerosissimi dubbi, convinto che non si trattasse di nulla di importante. Quando però ho visto l’oggetto in questione confesso di essere rimasto stupefatto ed attonito per la sua bellezza e per la sua importanza.
Battuto all’asta con un prezzo di stima che era molto elevato e compreso tra 35.000 e 45.000 euro data la rarità dell’oggetto, non è stato aggiudicato o almeno così sembra. Le sue dimensioni sono h 2,6 x l 2,5 cm; il peso 31,4 g, con leggere mancanze nella niellatura. L’anello è in oro con incastonato al centro un cristallo di rocca di forma quadrata intorno al quale si sviluppa la legenda:
+ S[IGILLUM] ·BENEDICTI ·AB[BATIS]· FARFENSI[S]
Abbazia di Farfa-Anello sigillo dell’abate Benedetto (Foto dal catalogo casa d’aste parigina Piasa)
Le spalle dell’anello sono ornate da motivi niellati costituiti da una croce greca con estremità svasate racchiusa in un doppio cerchio e da fogliame stilizzato. Quel che è maggiormente interessante è costituito dall’intaglio nel cristallo di rocca che rappresenta una facciata di una chiesa abbaziale fiancheggiata da due torri tonde, scandite da due cordonature, che culminano con un tetto conico con spiovente sormontato da due globi, mentre sul culmine del prospetto, che ha un frontone decorato , è rappresentata l’immagine della Madonna. Secondo gli esperti della casa d’aste, che escludono categoricamente la possibilità di un falso, il probabile luogo dove l’anello fu realizzato è da individuare in un atelier di Costantinopoli.
Il sigillo era appartenuto in passato al principe Ludovico Spada Veralli Potenziani di Rieti, con palazzo di abitazione anche a Roma, in via in Lucina. Il principe Potenziani era un personaggio di spicco dei suoi tempi. Governatore di Roma dal 1926 al 1928, senatore del Regno dal 1929, tanto per citare. Intimamente legato al periodo fascista, nel 1946 fu dichiarato decaduto dalla carica di senatore. Dopo la sua morte avvenuta nel 1971, l’archivio familiare è stato donato, quasi completa- mente a causa di alcune dispersioni, all’Archivio di Stato di Rieti1, nel quale sarà necessario indagare per chiarire come e quando l’anello-sigillo dell’abate Benedet- to sia finito nel possesso suo o della sua famiglia. Dalla collezione di Ludovico il sigillo passò nel 1919 al parigino Louis-Henri-Emile Moutier e da lui a Gustave Léon Schlumberger (1844-1929) ben noto storico e numismatico dell’impero bi- zantino, per finire poi in una collezione privata.
L’abate Benedetto
L’abate Benedetto, secondo il racconto della cosiddetta Constructio monasterii Farfensis2, era l’undicesimo abate eletto dopo la seconda fondazione avvenuta in età longobarda. Le brevi note con il quale l’anonimo monaco cronista della metà del IX secolo lo descrisse ne fanno un abate molto attento alla devozione verso Dio ed alla salvezza sua e dei confratelli. Molto premuroso nel curare l’aspetto esteriore degli ornamenti ritenuti più utili per i culti da celebrare nella chiesa monastica. Fu inoltre sagacissimo nel provvedere Farfa di libri, di paramenti sacri per l’altare e di altri strumenti, dei quali parte era sopravvissuta fino al momento nel quale il monaco cronista registrò la scheda a lui dedicata. Benedetto fu a capo della comunità monastica per dieci anni, cinque mesi e tre giorni e morì il 26 marzo. Da osservare comunque che è molto difficile far conciliare le note biografiche degli abbaziati con l’effettivo esercizio della funzione che si ricava invece dalla documentazione scritta conservata. Più concisa la nota biografica che lo riguarda premessa da Gregorio da Catino3 alle carte riguardanti il suo abbaziato, con la discrepanza di una diversa data di morte che sarebbe avvenuta l’11 agosto, anche se la durata la funzione riportata è identica. L’attività dell’abate Benedetto, del quale è omessa l’origine, fu molto intensa. Il suo pieno inserimento nel mondo carolingio è dimostrato dai diplomi che gli furono concessi a partire da quello emanato da Carlomagno il 13 giugno dell’803, che riconfermava tutti i possessi dell’abbazia su esplicita richiesta dello stesso Benedetto, ai due da Ludovico II il 3 agosto dell’815. Lo Schuster4, partendo da questa data, ha avanzato l’ipotesi che Benedetto in persona si sarebbe recato presso la corte imperiale a
2 Balzani, a cura di, Il Chronicon farfense di Gregorio da Catino, I, Forzani e C., Roma 1903,
21.
3 Balzani, a cura di, Il Chronicon farfense cit., pp. 170-178; I. Giorgi, U. Balzani, a cura di, Il Regesto di Farfa, II, Presso la Società, Roma 1878, pp. 143-177.
4 I. Schuster, L’imperiale abbazia di Farfa. Contributo alla storia del Ducato romano nel Medio Evo, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1921, pp. 62-63.
Francoforte per impetrare la concessione dei due diplomi, dove sarebbe morto l’11 agosto subito dopo averli ottenuti. L’anello-sigillo rappresentava un’immagine adeguata al rango sociale al quale apparteneva il suo possessore, sia per lo stato, sia per la funzione ricoperta. Diversamente dagli anelli-sigillo civili coevi non riproduceva la figura del possesso- re, basti ricordare la lunga e consolidata tradizione di età longobarda5, né è stato riutilizzato qualche oggetto che si richiamava al passato – cammei, monete od altro –, ma intenzionalmente si è voluto realizzare una tipologia nuova, volendo per certi aspetti guardare al futuro piuttosto che rifarsi all’antico, mostrando uno spiccato senso di affermazione di una precisa identità monastica e di una salda appartenenza ad una comunità di cui l’abate era il rappresentante pro tempore, mentre la chiesa abbaziale ne costituiva il carattere peculiare, fondante e nel contempo duraturo.
L’anello-sigillo di Benedetto costituisce, inoltre, un caso del tutto particolare, perché modifica nella sostanza la cronologia della loro presenza nello scenario europeo dove sarebbero apparsi soltanto in XI secolo, mentre in precedenza rappresentavano una prerogativa pressoche esclusiva delle cancellerie sovrane, regie o imperiali che fossero, nel campo dell’ordine temporale e di quella pontificia nello spirituale6. Credo che su questo punto si debba avviare una riflessione critica sull’uso degli anello-sigillo, seguendo le linee tracciate dalla Bedos-Rezak, la quale ha dimostrato, comparando i cartari medievali con i sigilli regi e vescovili, quanto fosse importante nelle società medievali comunicare, utilizzando gli strumenti simbolici a disposizione, un’immagine coordinata e forte della persona rivestita di un’autorità pubblica7 ed in questo caso specifico della auctoritas che derivava all’abate dall’essere a capo di una potente abbazia intimamente legata all’impero carolingio e che esercitava un potere quasi egemonico in una vasta zona dell’Italia centrale appenninica.
Un altro aspetto che merita di essere sottolineato è comprendere se, quando e su quali atti il sigillo venisse apposto dall’abate come strumento di validazione e con quale formula di corroborazione. Il fatto stesso che l’anello-sigillo si sia conserva- to quasi intatto induce ad inferire che ci si trovi di fronte ad un riferimento agli usi ed alle tradizioni di area germanica e in conseguenza abbia seguito il proprio possessore nella tomba, piuttosto che a quelle di area romana dove invece veniva spezzato o comunque reso inutilizzabile.
5 S. Lusuardi Siena, a cura di, Anulus sui effigii. Identità e rappresentazione negli anelli-sigillo longobardi, Atti della giornata di studi, Milano, Università Cattolica, 29 aprile 2004, V&P, Milano 2006.
6 Fabre, Sceau médiéval. Analyse d’une pratique culturelle, L’Harmattan, Paris 2013, pp. 31-32.
7 M. Bedos-Rezak, When Ego Was Imago. Signs of Identity in the Middle Ages, Brill, Leiden
2010, in particolare pp. 55-74.
Farfa in età carolingia: la chiesa abbaziale
Nel caso di Farfa, non ostante la ricchezza dei cartulari e delle fonti narrative per quanto riguarda in particolar modo il periodo altomedievale, non sono molte le in- formazione ed i dati che permettano di leggere meglio l’evoluzione delle strutture monastiche e le loro specifiche funzioni, importanti per identificare i vari aspetti della celebrazione delle funzioni liturgiche benedettine8, anzi le poche notizie con- tenute hanno alimentato interpretazioni fortemente divergenti. In parallelo si sono sviluppati molti studi e molte ricerche sull’argomento ad incominciare da Ildefon- so Schuster9. Intorno agli ’80 del secolo scorso le ricerche ebbero un notevole im- pulso grazie a Charles McClendon10 ed a David Whitehouse, sotto la cui direzione si sono avute alcune campagne di scavo, con pubblicazione di dati preliminari i cui risultati finali non sono mai stati editi compiutamente, con grave danno per la storia degli studi sul monastero e con la perdita di un’importante opportunità di conoscenza. Una ulteriore breve stagione fu effettuata nel 1993 ad opera sempre della British School at Rome11.
Uno dei temi maggiormente dibattuti sulle strutture monastiche altomedievali farfensi è senza dubbio quello dell’orientamento della chiesa altomedievale e della sua cronologia. Due in particolare gli elementi di forte dubbio: la datazione della cripta semianulare12, che era compiutamente emersa soltanto a cavaliere degli anni ’60 del secolo scorso, e la collocazione spaziale dell’oratorio del Salvatore che l’abate Sicardo (830-842) aveva aggiunto alla chiesa di S. Maria.
Le ipotesi più accreditate sembravano orientate verso una datazione al secolo IX della cripta ed al secolo XI della così detta abside quadrata, che si trova nel cortile seicentesco di ingresso al complesso monastico, fiancheggiata da due torri campa- narie, delle quali soltanto una è superstite.
8 W. Jacobsen, Il problema dell’utilizzazione: l’architettura altomedievale e la liturgia nei conventi monastici, in F. De Rubeis, F. Marazzi, a cura di, Monasteri in Europa occidentale (secoli VIII-XI): topografia e strutture, Atti del Convegno Internazionale, Museo Archeologico di Castel San Vincenzo, 23-26 settembre 2004, Viella, Roma 2008, pp. 309-319.
9 Se ne veda una rassegna in T. Leggio, L’abbazia di Farfa: fonti scritte, cultura materiale e strutture edilizie. Un profilo storico, in Farfa, storia di una fabbrica abbaziale, Vivi l’Arte, Farfa 20062, pp. 135-141. 10 Le sue ipotesi sono state edite separatamente: Ch.B. McClendon, The Imperial Abbey of Farfa. Architectural Currents of the Early Middle Ages, Yale University Press, New Haven and London 1987. 11 O. Gilkes, J. Mitchell, The early medieval church at Farfa: its orientation and date, in «Archeologia
medievale», XXII (1995), pp. 343-364.
12 Sulla diffusione delle cripte semianulari e sulla loro cronologia in Italia cfr. C.M.C. Mancuso,
Genesi e sviluppo della cripta semianulare in Italia, in «Quaderni del Centro di Studi Lunensi», ns 2 (1996), pp. 143-166, che data, p. 159, la cripta di Farfa alla metà del secolo IX. Cfr. anche F. Betti, Fondi e il Lazio meridionale. La formazione del Patrimonium Sancti Petri e la diffusione dell’arte carolingia nella regione, in M. Gianandrea, M. D’Onofrio, a cura di, Fondi nel Medioevo, Gangemi ed., Roma 2016, pp. 63-78.
Più recentemente, però, John Mitchell ha avanzato l’ipotesi che la cripta semia- nulare possa risalire alla seconda metà dell’VIII secolo, attribuendone la costruzio- ne all’abate Probato (770-779)13, e che la così detta abside quadrata possa essere attribuita invece all’abate Sicardo, riprendendo un’ipotesi che avevo formulato più di un trentennio fa14.
Del resto, anche da un punto di vista delle strutture edilizie del complesso monastico, le fonti scritte sembrano suggerire che Farfa già alla metà dell’VIII secolo avesse raggiunto aspetti monumentali caratterizzati da grandi effetti sia formali sia simbolici, adeguati al ruolo centrale che aveva assunto nel regnum Italiae. Come si può constatare, pur sommariamente riassunte, le posizioni sul- la dinamica temporale e sull’articolazione spaziale dei primi secoli di vita far- fense sono molte e variegate a testimoniare la complessità degli interventi che si sono succeduti, stimolati anche dalla ricchezza sempre crescente dell’abbazia sabina e, quindi, dalla possibilità per i suoi abati di poter investire molto sulla continua trasformazione delle sue strutture materiali e sul loro abbellimento, con chiari ed evidenti fini simbolici15. Un altro momento nel quale si sviluppa- rono interventi di grande importanza fu la prima metà del secolo IX, quando Farfa ormai costituiva un polo centrale del governo dell’impero carolingio nel regnum Italiae. È soprattutto nel periodo dell’abate Sicardo (830-842) che si concentrarono i lavori per la costruzione dell’oratorio dedicato al Salvatore, come sopra ricordato.
L’ultima rilettura delle architetture del monastero farfense e della loro storia, in particolare per il periodo altomedievale, è stata compiuta da Fabio Betti16, che ha sintetizzato le ipotesi precedentemente avanzate, mettendo nuovamente in evidenza la notevole produzione di capitelli a stampella, ben trentanove, inquadrabile cronologicamente tra il VI e l’VIII decennio dell’VIII secolo, realizzata da numerosi artisti con influssi e apporti, anche diretti, derivati dalle principali correnti artistiche altomedievali europee, dalla longobarda, all’aqui- tanica, alla visigotica, che avevano forse costituito ex-novo un’unica bottega
13 J. Mitchell, The display of cript and the use of painting in Longobard Italy, in Testo e immagine nell’alto Medioevo, Atti della XLI settimana di studio, Presso la sede del Centro, Spoleto 1994, p. 949 nota 149; Gilkes, Mitchell, The early medieval church cit., pp. 360-362.
14 Leggio, Farfa: problemi e prospettive di ricerca, in «Il territorio», 1 (1984), pp. 78-81.
15 Per una interessante e approfondita analisi della dinamica di accrescimento dei patrimoni
fondiari dei grandi monasteri benedettini italiani, F. Marazzi, San Vincenzo al Volturno tra VIII e IX secolo: il percorso della grande crescita. Una indagine comparativa con le altre grandi fondazioni benedettine italiane, in Id., a cura di, San Vincenzo al Volturno. Cultura, istituzioni, economia, Abbazia di Montecassino, Cassino 1996, pp. 58-66, in particolare per Farfa, pp. 46-51.
16 F. Betti, Farfa nell’Alto Medioevo fra storia, arte e archeologia, in I. Del Frate, a cura di, Spazi della Preghiera, Spazi della Bellezza. Il Complesso Abbaziale di Santa Maria di Farfa, Palombi ed., Roma 2015, pp. 29-45.
Fonte-Marca/Marche-rivista di storia regionale n°8/2017-AndreaLivi Editore
DOMANDA :”MA L’ACQUEDOTTO DI CERDOMARE E’ ANCORA UNA PROPRIETA’ DEI CITTADINI CASTELNUOVESI?”
Ripubblichiamo la Domanda rivolta dal nostro compaesano AUGUSTO MEI al sindaco Zonetti – L’articolo fu “postato” il 12 settembre 2016.
10) Che fine ha fatto l’acquedotto “storico” di “CERDOMARE” di proprietà dei Cittadini di Castelnuovo sin dal 1915 e realizzato da Amministratori veri castelnuovesi, Sindaco Scoccia, nel 1923? Quest’acquedotto è ancora “proprietà esclusiva” dei Cittadini di Castelnuovo oppure è stato “dismesso”?
Alleghiamo al post –Foto delle sorgenti e Gazzetta del Regno d’Italia dell’Agosto del 1915 dove è riportato il bando di Appalto dei lavori per la realizzazione dell’Acquedotto – l’Appalto è firmato dal Sindaco facente funzione. G.FABRI e dal Segretario comunale G.SALZERI.
Il progetto dell’Acquedotto fu eseguito dall’Ing.Vincenzo Jacobini nel 1908 e ,con le varianti ,terminato il 30 giugno 1910.
L’acquedotto fu iniziato, terminato e inaugurato dal Sindaco Giuseppe Scoccia nel il 21 ottobre 1923 coadiuvato dagli Assessori: GIACOMO SIMONETTI-UGO MALFRANCI-GIOVANNI CARGONI-RAIMONDO UMANI. I lavori furono eseguiti dalla Ditta FANTE&MANNI.
L’Acquedotto ha il suo terminale e monumento nella mitica FONTANA, dove si possono leggere i nomi , riportati in epigrafe, dei Castelnuovesi che iniziarono e portarono a termine l’Opera.
Nota e foto di Franco Leggeri, castelnuovese.
Castelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARECastelnuovo di Farfa ACQUEDOTTO DI CERDOMARE
La poesia di Madre Teresa per riflettere sullo spirito del Natale.
È Natale, la poesia
È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano. È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro.
È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società.
È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale.
È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.
Madre Teresa di Calcutta ci ha lasciato una profonda meditazione sul significato del Natale, consegnandoci un testo sorprendente per la sua semplicità ma ricco di quell’umanità che il Figlio di Dio viene a portare ad ogni essere umano. Leggiamo con umiltà queste parole ricolme della gratuità dell’amore di Dio per ogni sua creatura:
È Natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano.È Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro.È Natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società.È Natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale.È Natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza.È Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri.
Queste parole sono un vero decalogo dell’accoglienza, dell’accettazione e del servizio gratuito verso il prossimo.
Il sorriso del cuore è un segno di apertura verso l’altro, perché riflette quella disposizione dell’animo riconciliato e riappacificato, il quale è molto più eloquente di tante inutili e vuote parole.
Il sorriso esprime quell’apertura che ha perdonato profondamente il torto subito. Potremmo dire che il sorriso è l’apertura della porta giubilare della misericordia della propria casa perché manifesta una retta intenzione di convivialità e di condivisione.
La realtà, molte volte, è diversa, perché la durezza del nostro cuore ritiene difficile sorridere a quel parente che, dopo tanto mesi, si è riaffacciato alla soglia della nostra casa; ci viene più facile giudicarlo per il suo allontanamento piuttosto che riaccoglierlo, con la gioia di avere ritrovato una persona che ritenevamo perduta.
Quanto è facile cadere nel rischio di offrire “falsi sorrisi” che sono il preludio di dialoghi aridi, di discorsi inutili, di relazioni finte e di falsa vanagloria.
Il vero sorriso è il preludio dell’ascolto, il quale è la chiave universale per entrare nel cuore del nostro interlocutore. L’ascolto silenzioso è quella forza interiore capace di trasferire l’altro dalla periferia dell’emarginazione al centro dell’attenzione. L’ascolto restituisce dignità e valore a quegli avvenimenti della vita che hanno bisogno di essere detti a qualcuno per essere compresi da colui che li racconta. L’ascolto è un servizio insostituibile ed efficace perché contiene la forza silenziosa di fare uscire dal cuore di chi abbiamo difronte quelle verità scomode, che sono il preludio della possibilità di offrirgli parole di incoraggiamento e di speranza.
Queste parole di Madre Teresa contengono un prezioso segreto evangelico: se vogliamo capire e riconciliarci con quel parente che siede con noi alla mensa di Natale, evitiamo di usare troppe parole per giustificarci o per cercare di ridurre la situazione imbarazzante. Il giusto atteggiamento che ristabilisce una sana e duratura riappacificazione è l’umiltà dell’ascolto, capace di comprendere le difficoltà dell’altro e di ricucire quello strappo che il nostro spietato giustizialismo ha creato per la superbia e la durezza del nostro cuore.
L’ascolto, preceduto dal sorriso, è davvero misericordioso quando offre parole e gesti di speranza verso coloro che sono stati travolti dalle vicende della vita e non riescono a trovare un via d’uscita da quel deprimente stato di angoscia e di disperazione.
Come sarebbe bello sentire a Natale le suocere che consolano le nuore per le fatiche nell’educazione dei figli e nel conciliare il lavoro con la famiglia, quanto farebbe bene ai figli vedere il padre dialogare con gioia con il loro nonno, quale gioia sarebbe ricordare durante questa notte santa tutti quelli che ci hanno preceduto facendo memoria di alcuni episodi della loro vita, quanto sarebbe bello parlare con quel parente con il quale riteniamo di avere subito un torto e riconoscere il nostro limite invece che condannare la sua debolezza.
Il Natale è la festa del memoriale della venuta del Figlio di Dio sulla terra, affinché il Bambino Gesù possa rinascere in ogni essere umano e rinnovare dall’interno le nostre vite, la frase di Madre Teresa, “è Natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri”; sono parole piene di speranza, perché contengono una sapienza che non è di questo mondo, affermando quella verità cristiana tanto dimenticata ai nostri giorni: il cambiamento del mondo è possibile quando si inizia a cambiare prima il nostro cuore.
La conversione è davvero contagiosa, quando siamo noi per primi a riconoscere di essere bisognosi della Misericordia di Dio. Se Cristo nascerà in noi, la nostra casa diventerà come la umile stalla di Betlemme, povera di sicurezze terrene ma ricca di umanità e del calore umano, la quale sarà visitata dai tanti pastori emarginati del nostro quartiere, i quali ascoltando le voci dei vicini di casa, potranno accorrere con fiducia al nostro focolare. Sarebbe bello pensare ad un Natale che trasformi le nostre famiglie nelle quali nessuno che bussa alle nostre porte tornerebbe a casa sua a mani vuote, ma troverebbe tanti segni visibili della misericordia di Dio, fatta a volte di parole ma altre volte di gesti concreti, usando quella carità cristiana che è davvero autentica quando ha la forza di spogliarsi di qualcosa di proprio per rivestire il bisogno materiale e spirituale dell’altro.
L’antologia sulla violenza contro le donne non trova poesie: «Solo 16 in 2 mesi»
Pochi componimenti per il progetto «Dalla stessa parte». Gli abusi sembrano cancellare l’ispirazione
Le violenze degli uomini hanno fatto un’altra vittima. Una inaspettata, ancora di più se si pensa quanto è partecipata la ricerca di una vetrina da parte dei numerosi autori di liriche e versi. L’odio contro le donne ha cancellato l’ispirazione dei poeti (o aspiranti tali) che popolano gli appuntamenti letterari, le pagine web, le caselle di posta delle editrici.
Scrittori in serie di sonetti, poemi o haiku. Appassionati che, pur di farsi notare dal pubblico, sono pronti a esplorare qualsiasi argomento. Tranne uno. Quello scelto per costruire l’antologia intitolata: «Dalla stessa parte. Uomini contro la violenza sulle donne».
«Era da tempo che coltivavo l’idea di un progetto per raccogliere i versi di uomini che hanno a cuore la stigmatizzazione della violenza di genere». Salvatore Sblando, 50 anni, è un poeta e un organizzatore di eventi dedicati a questa arte. Con la sua associazione, che si chiama «Periferia Letteraria», ne ha organizzati in sei anni oltre 150. Rassegne, festival, reading e performance a Torino e fuori città. Due mesi fa, ha lanciato un bando per raccogliere poesie scritte per denunciare i soprusi, spesso taciuti, contro moglie, compagne, madri. L’idea è diffonderle con un libro. «Un modo per andare oltre una doverosa testimonianza di solidarietà — spiega Sblando, che nella vita lavora a Gtt —. Con questa idea in testa, abbiamo ipotizzato un’antologia che potesse diventare una chiamata “alle arti” per tutti quegli uomini contrari a questa forma di odio».
Sblando parla al plurale perché «Dalla stessa parte» è un progetto con più protagonisti. Se l’idea è sua, l’impegno di metterla in piedi è condiviso con Salvatore Contessini, poeta di Roma, e «La vita felice». È una casa editrice specializzata. Negli ultimi mesi, è stata sommersa dai manoscritti di scrittori col sogno di sbarcare in libreria. Una valanga di proposte, tanto che la direzione è stata costretta a sospendere la raccolta lanciata poco tempo prima con un avviso. «Nei giorni scorsi, mi hanno avvisato che, paradossalmente, sul tema che abbiamo deciso di esplorare noi, il risultato è stato l’inverso», aggiunge il curatore dell’antologia. In due mesi, sono stati spediti appena 16 componimenti. «È un po’ il numero che ci si aspettava per un singolo giorno», puntualizza Sblando che, visto l’insuccesso, ha provato a farsi più di una domanda. La prima: il concorso è stato poco pubblicizzato? «No, non penso sia questo il caso. La partecipazione è gratuita e, nei canali dedicati, ha avuto anche un buon riscontro», racconta.
Lunedì, alle 17, il progetto «Dalla stessa parte», a riprova di quanto affermato, sarà presentato con una diretta web organizzato dalla storica libreria milanese Bocca.
E, allora, non resta che provare a guardare altrove per trovare un motivo della mancata attenzione al progetto editoriale. Le antologie come «Dalla stessa parte» sono molto diffuse tra gli appassionati. Libri, anche di 200 pagine e con una buona tiratura, dedicati alla raccolta di versi. Tutti legati a un tema: come l’amore, la primavera, un territorio. Argomenti variegati che non hanno mai scoraggiato una partecipazione «di massa».
Tanto che, tra gli addetti ai lavori, si mormora che in Italia ci siano più poeti che lettori. Ma non questa volta. Sblando sostiene: «La violenza, che non è solo fisica, contro le donne è un problema culturale che, forse nell’inconscio, è giustificata da molti uomini». Compresi i poeti che, per questa spiegazione, non hanno partecipato al progetto. Ma c’è ancora tempo per rimediare. La raccolta di poesia contro i femminicidi prosegue fino a luglio.
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CASTELNUOVO di FARFA DEGRADO E ABBANDONO AFFRESCHI EX-CHIESA DI SANTA MARIA Foto di Franco Leggeri
Franco Leggeri Fotoreportage
CASTELNUOVO di FARFA (Rieti)
Il DEGRADO E ABBANDONO DEGLI AFFRESCHI DELL’EX-CHIESA DI SANTA MARIA –
In Italia esistono luoghi, se pur carichi di storia per i Borghi dove sorgono, lasciati nel degrado e nella più completa rovina .L’Abside dell’ex-chiesa di Santa Maria di Castelnuovo non sono “pietre disperse” e senza storia , ma è sicuramente un edificio, porzione di edificio, dal passato antico che per qualche ragione sconosciuta non gode dei “diritti” di recupero e restauro come di altri luoghi simili esistenti nella provincia di Rieti. L’Abside è forse condannata a una fine ignobile, soffocata dai suoi stessi calcinacci?
Foto reportage di Franco Leggeri, castelnuovese
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Alessandra Gissi, Paola Stelliferi- L’aborto-Una storia
Carocci Editore-ROMA
In breve
La legge 194 del 1978 depenalizza, entro regole precise, l’interruzione volontaria di gravidanza, abrogando il Titolo X del codice penale di matrice fascista. Approvata a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, segna anch’essa una profonda cesura con il passato. È con questo passato che il volume si confronta, andando oltre la mera storia della legge. La complessità di una questione che innerva costantemente la società e la sfera del politico viene delineata a partire da una periodizzazione innovativa che, pur incentrata sull’intero arco dell’Italia repubblicana, evidenzia continuità e rotture con l’età liberale e fascista. Attraverso fonti eterogenee, fino a oggi poco valorizzate, e l’analisi di dibattiti, politiche e pratiche, il libro offre un punto di vista inedito sulla storia contemporanea, consentendo una più accorta lettura del presente.
Alessandra Gissi -Insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale.
Paola Stelliferi -È ricercatrice post-doc in Storia contemporanea.
-Carocci Editore-
Viale di Villa Massimo, 47 00161 Roma -redazioneinternet@carocci.it
In occasione del ventesimo anniversario della Biblioteca Ennio Flaiano, vi invitiamo a partecipare alla festa che con gioia stiamo organizzando nelle giornate dell’11 e 12 novembre.
Pensiamo che la biblioteca sia un presidio essenziale per questo territorio, anche grazie agli stretti rapporti che nel corso del tempo ha instaurato con le scuole, le associazioni e le tante realtà che la circondano. La festa, fortemente voluta e realizzata in stretta collaborazione con il Municipio III e Demea Eventi Culturali, rappresenta un traguardo importante per la nostra biblioteca e sarà un’occasione in più per trascorrere insieme due giornate all’insegna della cultura e del divertimento per tutte le età.
Il Consiglio Municipale del Municipio III ha votato, all’unanimità, un atto che afferma la forte volontà di celebrare i venti anni di attività con un programma denso che fosse rivolto a tutte le fasce di età e a tutta la nostra comunità territoriale.
Un momento per riflettere sul ruolo della lettura e degli spazi a lei dedicata, tra innovazione e partecipazione, per riconoscere il percorso svolto fin qui e rilanciare la centralità delle biblioteche pubbliche.
A breve troverete il programma completo sulle pagine social del Municipio e di Biblioteche di Roma.
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