a cura di Carlo Caporossi-SELLERIO Editore Palermo-
Descrizione
I divoratori sono i giovani geni destinati a consumare, generazione dopo generazione, chi è loro più vicino e più li ama. Con questo libro, il suo riconosciuto capolavoro, pubblicato prima in inglese e poi riscritto in italiano nel 1911, Annie Vivanti, singolare figura di scrittrice e protagonista della vita pubblica letteraria, fortemente di genere, circondata dalla fama e seguita dai pettegolezzi, riconquistò, dopo un ventennio, il mercato librario italiano, per non lasciarlo più fino alla morte. È una saga al femminile di impronta nettamente autobiografica: si succedono figure di figlie, geniali, a loro volta madri, che divorano spiritualmente, sacrificando a sé chi diede loro la vita: Nancy, la poetessa, poi la figlia Anne-Marie, enfant prodige del violino, e infine il figlio di questa nel quale anche la musicista si annulla per produrre nuovo genio. Ciò che colpisce di questa scrittrice, è la suggestiva capacità di trascinare il lettore in ambienti che nascondono il loro sapiente esotismo, la loro dosata miscela di dramma e commedia avventurosa lievemente inebriante, nel vissuto dell’autobiografia. Finzioni e cose viste realmente, difficilmente distinguibili, confuse dal brillante profilo di una donna abilissima a fare di se stessa una narratrice e insieme anche un personaggio: “il” personaggio
Annie Vivanti
Breve Biografia di Annie Vivanti
Annie Vivanti(Londra 1868 – Torino 1942) scrittrice italiana. Figlia di un garibaldino esule a Londra, si stabilì giovanissima in Italia per studiarvi canto. Nel 1890 pubblicò una raccolta di versi (Lirica) con una prefazione di G. Carducci, che le dedicherà alcune poesie, fra cui la celebre Ad Annie. Ancora nel 1891 ottenne un notevole successo col romanzo autobiografico Marion, mentre nel 1898 si cimentò senza fortuna nel teatro, con la commedia La rosa azzurra. Quindi tacque per molti anni, durante i quali condivise le peripezie del patriota irlandese J. Chartres, divenuto suo marito nel 1902. Riapparve sulla scena letteraria italiana nel 1911, col romanzo I divoratori, cui seguirono Circe (1912), Vae victis! (1917), Naja tripudians (1920), Mea culpa! (1927) ecc.: storie romantiche e passionali, la cui enfasi è talora corretta da un pizzico di umorismo inglese. Lasciò anche una vivace rievocazione della sua giovinezza avventurosa (Zingaresca, 1918), due drammi (L’invasore, 1915; Le bocche inutili, 1918) e un racconto per bambini (Sua altezza, 1923).Celebre e ammirata sia come giornalista e scrittrice, Annie Vivanti vive oggi come in un cono d’ombra. Una fama appannata dal passare del tempo e delle mode eppure la grande Matilde Serao cento anni fa aveva addirittura coniato un termine per indicare le sue innumerevoli lettrici sparse per il mondo: le vivantine! Tra le sue opere più note ricordiamo Mea culpa e I divoratori.
Descrizione del libro di Albert Camus-Il primo uomo-Editore Bompiani-Tra i rottami dell’automobile sulla quale Albert Camus trovò la morte nel gennaio 1960 fu rinvenuto un manoscritto con correzioni e cancellature: la stesura originaria di Il primo uomo. La figlia Catherine ha meticolosamente ricostruito il testo qui pubblicato sulla base di quel manoscritto. Una narrazione forte, commovente e autobiografica: una sorta di romanzo di formazione a ritroso. Attraverso le emozioni e le impressioni del protagonista, che torna in Algeria nel desiderio di ritrovare il ricordo del padre scomparso durante la prima guerra mondiale, Camus ripercorre parte della propria vita: l’infanzia algerina, il periodo della povertà, le amicizie, le tradizioni, i sogni dai quali emerge la figura di un uomo ideale, il primo uomo, appunto. A sessant’anni dalla scomparsa di questo grande autore ecco il suo testamento letterario: vi ritroviamo le radici della sua personalità, la genesi del suo pensiero, le ragioni della scelta di dare voce, con la sua scrittura, a chi non l’ha mai avuta. Da questa storia l’omonimo film del 2011 scritto e diretto da Gianni Amelio.
Albert Camus
L’Autore
Albert Camus (1913-1960) nacque in Algeria, dove studiò e cominciò a lavorare come attore e giornalista. Affermatosi nel 1942 con il romanzo Lo straniero e con il saggio Il mito di Sisifo, raggiunse un vasto riconoscimento di pubblico con La peste (1947). Nel 1957 ricevette il premio Nobel per la letteratura per aver saputo esprimere come scrittore “i problemi che oggi si impongono alla coscienza umana”. Di questo autore, oltre ai titoli già citati, Bompiani ha pubblicato L’uomo in rivolta, L’esilio e il regno, La caduta, Il diritto e il rovescio, Taccuini 1935-1959, Caligola, Tutto il teatro, Il primo uomo, L’estate e altri saggi solari, Riflessioni sulla pena di morte, I demoni, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, Conferenze e discorsi (1937-1958), Saremo leggeri. Corrispondenza (1944-1959). Nei Classici Bompiani è disponibile il volume Opere. Romanzi, racconti, saggi.
Il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia organizza aperture straordinarie per ammirare: la Tomba dei Rilievi
Il Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia (PACT) organizza un ciclo di aperture straordinarie per ammirare uno dei capolavori dell’arte funeraria etrusca: la Tomba dei Rilievi, conosciuta anche come “Tomba bella”. Solitamente infatti i visitatori possono vederla solo attraverso vetri trasparenti anti-appannamento; le aperture straordinarie quindi rappresentano un’occasione per entrare in questo capolavoro e conoscerlo da vicino.
Tomba dei Rilievi, conosciuta anche come “Tomba bella”
Le visite si svolgeranno all’interno della Necropoli della Banditaccia di Cerveteri, patrimonio UNESCO, in nove date tra giugno e settembre 2025 (13 giugno, 27 giugno, 4 luglio, 11 luglio, 25 luglio, 1 agosto, 28 agosto, 5 settembre, 26 settembre), e saranno incluse nel biglietto di ingresso.
I visitatori saranno accompagnati dai funzionari del Parco Archeologico di Cerveteri e Tarquinia (Patrizio Fileri, Maria Cristina Tomassetti e Marina Zingarelli) che li condurranno nella “lettura” di una “stanza delle meraviglie” normalmente chiusa al pubblico per motivi di conservazione.
Tomba dei Rilievi, conosciuta anche come “Tomba bella”
Datata alla fine del IV secolo a.C., la Tomba dei Rilievi è una sepoltura gentilizia appartenuta alla famiglia Matuna, una delle più illustri e potenti della città di Caere. È un sepolcro unico nel suo genere per il realismo degli oggetti raffigurati in rilievo, realizzati con una tecnica raffinata: elementi che riproducono armi e utensili legati alla sfera militare, a quella sacrificale, nonché alle più alte cariche magistratuali, rivelando non solo l’alto status socio-politico raggiunto da questa gens etrusca, ma anche la volontà dei suoi personaggi più illustri di lasciare un messaggio di continuità e prestigio per la propria discendenza. Gli oggetti raffigurati sono modellati in malta e appesi in modo illusionistico con chiodi di estremo realismo. Si tratta di una tecnica molto particolare, che ad oggi non é stata riscontrata in nessun’altro contesto funerario di quel periodo.
L’ingresso è consentito a un massimo di 24 persone al giorno, in gruppi da 6.
Orari: 09.30 – 10.30 – 11.30 – 12.30
Ingresso su prenotazione scrivendo a pa-certa.info@cultura.gov.it
Rebecca Garbin – Poesie da “Male Minore”-Vallecchi Editore-
Rebecca Garbin
Rebecca Garbin è nata a Milano nel 2001. Ha pubblicato la raccolta di poesie Male minore (Vallecchi Firenze, 2024). Nel 2023 ha vinto la sezione Inediti Under 25 del Premio Alma Mater Violani Landi, assegnato dall’Università di Bologna. È stata tra i giovani autori selezionati per il progetto promosso dall’Università IULM, La poesia che si fa città. Suoi testi sono apparsi sul numero 24 di Poesia (Crocetti, 2024) e su diverse riviste online. Fa parte della redazione dei siti web “Vallecchi Poesia” e “Inverso – Giornale di poesia” e collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.
*
La casa di Serravalle IV
Ci sono dei rosari che spaccano le labbra
e fanno crepe dentro ai muri. Mia madre parla ancora con gli spiriti
ricuce le ciglia dei morti. Non serve consultarsi per capire
tutto quello che lasciamo alla paura.
Io ti brulico nel sangue, ti sbatto nelle ossa
qualcosa si spezza e trapassa le tempie
lo senti ogni tanto e non sai che cos’è.
Poi c’è il sale che non chiude le ferite,
il latte di mia madre diluito con l’ortica.
*
Esercizi di autocontrollo
L’urto dei denti, uno schiaffo non basta
davanti allo specchio. Poi il segno sul braccio,
staccare la crosta sperando che resti.
Cucirsi la bocca stringendo i capelli tra i denti
– anche il tempo è materia che stringe lo scheletro –
e non mangiare nient’altro. È così che passo
da un buco di serratura a un altro.
Per fortuna non restano lividi, ho strati diversi di pelle
e ogni corpo mi cambia la forma, la faccia.
Ogni cosa si trasforma – non posso
diventare qualcos’altro controvoglia.
*
Angela
Nessuno dei vivi l’ha mai conosciuta davvero
il segno che ha lasciato, la Madonna
appesa al palo in autostrada
guarda ancora di sottecchi chi ritorna.
L’urto il metallo che schiaccia
divide le costole, la lamina del cofano
all’altezza del torace. Le portiere come ali
spiegate in tangenziale. Forse come gli angeli
anche lei era senza volto, il sangue e l’olio
sull’asfalto e i capelli sparsi in aria
come pollini che bruciano –
tutti i nodi sono sciolti,
resta libera metà della mansarda.
Fino al giorno prima la vedevi farsi largo
sui balconi sempre pieni delle case di ringhiera,
adesso il parafango
ha diviso le caviglie dalle gambe.
Dicono i vicini che non fosse la più bella
tra le figlie del portiere, ma era quella
intelligente, che sapeva come mettere a tacere
anche la madre che gridava nella tromba delle scale
in dialetto milanese. Persino suo padre
la sopportava, o così si diceva, lui
che non parlava con nessuno e non usciva mai di casa.
Angela contava sulla punta della lingua
ogni singola parola micidiale.
«Forse è questo il silenzio» pensava suo padre,
che adesso la circonda come un vuoto dentro il tuono
del ferro che si schianta sull’asfalto.
Ma al silenzio non ti abitui se lo senti
nelle grida dei bambini appena nati,
resta addosso ai nostri figli per il resto della vita.
*
Nessuno ha più nemici sulla terra
neppure quelli nati prematuri
con le costole sottili come lische
che si impigliano alla pelle cartastraccia.
Sono stata una di loro,
sono stata una famiglia per intero
seppellita sotto piedi piccolissimi.
Lo sanno bene i fossili e gli scheletri
qualcosa anche se scappi sopravvive controvoglia –
chi mi schiaccia, chi devasta
e mi somiglia.
Nessuno ha più nemici sulla terra:
smeraldo tutto d’acqua
dona la vista attraverso la pioggia,
fatti lente in cui guardare la battaglia
da lontano.
Sciogli questo sangue che non scalda
chi lo tiene nelle arterie,
distillami la rabbia da ogni neo
che porto in viso.
Nella conca del diluvio
non resta nessun morto a fare luce nella terra
col bianco delle ossa – lo scheletro solare
ora è polvere salina
per guarire i viaggiatori.
Adesso che non sono più nessuno in questo posto
posso immergermi alla fonte senza essere guarita.
*
Vive ut vitas vivi – non morirò. Vivo ancora
io che sono come te nella leggenda
Vive ut vitas vivi
Viviana che vivi per sempre nei laghi
donami un anello per curare tutti i mali
trasforma tutti gli uomini in foreste
senza pioggia.
Tu sai che non è l’aria a tenere i mondi uniti
ma il fuoco bianco delle stelle
troppo grandi anche per essere pensate.
*Rebecca Garbin è nata a Milano nel 2001. Ha pubblicato la raccolta di poesie Male minore (Vallecchi Firenze, 2024). Nel 2023 ha vinto la sezione Inediti Under 25 del Premio Alma Mater Violani Landi, assegnato dall’Università di Bologna. È stata tra i giovani autori selezionati per il progetto promosso dall’Università IULM, La poesia che si fa città. Suoi testi sono apparsi sul numero 24 di Poesia (Crocetti, 2024) e su diverse riviste online. Fa parte della redazione dei siti web “Vallecchi Poesia” e “Inverso – Giornale di poesia” e collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna.
Casa Editrice Vallecchi
Attilio Vallecchi, fondatore della casa editrice che ancora oggi porta il suo nome, inizia la sua attività come tipografo agli albori del ’900. Grazie a riviste quali il «Leonardo», la «Voce», «Lacerba» , «Il Selvaggio», la Vallecchi degli anni Venti si fa portavoce internazionale delle correnti letterarie e filosofiche del primo Novecento. Gli autori che ruotano intorno alla casa editrice, Soffici e Papini, Palazzeschi, Campana, Tozzi, Slataper, Marinetti, Ungaretti, Prezzolini, Viviani, Bargellini e Malaparte, per citarne solo alcuni, formano un inesauribile giacimento culturale di rilevanza europea, insieme a collaboratori artistici come Picasso, De Chirico, Boccioni, Carrà, Rosai. Nel secondo dopoguerra ad Attilio subentra il figlio Enrico, affiancato da nomi illustri della cultura, quali Carlo Bo o Geno Pampaloni. Poi è il tramonto progressivo che tuttavia non impedirà a Enrico di rilevare nuovamente l’azienda nel 1983, dopo averla ceduta nel 1962.
L’ultima acquisizione del marchio risale al 1999, da parte dell’imprenditore teramano Fernando Corona. Senza dimenticare l’originaria vocazione divulgativa, la Vallecchi di oggi dedica molta parte delle proprie risorse al recupero e alla rivalutazione del grande patrimonio librario mondiale. Oltre alle edizioni pregiate a tiratura limitata e alla linea Vallecchi Stile, dedicata a preziose collezioni di penne squisitamente progettate e realizzate, legate a temi importanti della cultura letteraria e artistica europea, la Vallecchi è tornata in libreria recentemente guardando al futuro senza dimenticare i protagonisti che hanno reso leggendario il suo catalogo. Accanto alle ristampe anastatiche di testi introvabili del prezioso archivio storico e alle grandi opere, piccole e raffinate collane spaziano dagli autori che hanno fatto la migliore letteratura del secolo scorso, ai nuovi scenari aperti dal dibattito culturale mondiale contemporaneo, trattati dalle più autorevoli firme italiane e internazionali.
Rebecca Garbin, Male Minore, nota di Isabella Leardini, Vallecchi Firenze, 2024
Andrea Zucchinali-Jacques-André Boiffard. Storia di un occhio fotografico-Editore Quodlibet srl
Il libro-Fotografo eclettico e surrealista della prima ora, Jacques-André Boiffard (1902-1961) è una figura inafferrabile e affascinante, rimasta sinora nella penombra nonostante il ruolo significativo svolto nella storia delle avanguardie. Solo dal 2011, grazie alla collezione che Christian Bouqueret ha donato al Centre Pompidou, è possibile avere una visione d’insieme della sua opera di cui questo volume si propone di tracciare le tappe fondamentali. Dall’apprendistato presso l’atelier di Man Ray alle enigmatiche fotografie di Parigi scattate per Nadja di André Breton, dalle perturbanti immagini realizzate per «Documents» sotto la guida di Georges Bataille alle collaborazioni con Man Ray, Jacques Prévert e Lou Tchimoukow, questo libro, che esce in concomitanza con la prima mostra fotografica interamente dedicata a Boiffard dal Centre Pompidou di Parigi, è il primo a fornire, oltre alla biografia, l’analisi di un percorso artistico che si pone come la «storia di un occhio» in grado di interpretare visivamente la complessa esperienza surrealista.
In copertina Jacques-André Boiffard, Renée Jacobi, «Documents», n. 8, 1930, dettaglio.
Volume disponibile anche in versione elettronica. Acquista su: torrossa.it
L’autore-Andrea Zucchinali
Andrea Zucchinali, studioso del Surrealismo, con questo volume su Jacques-André Boiffard porta a termine un lavoro di ricerca svolto presso l’Università degli Studi di Bergamo.
Recensione Una delle migliori intuizioni di Susan Sontag sulla fotografia è certamente quella sul connaturato surrealismo dell’immagine ottica, dovuto alla sua capacità di creare una “realtà di secondo grado”. Si tratta però di una scoperta che avevano fatto gli stessi surrealisti, reclutando tra le loro file un fotografo insospettabile come Eugène Atget, che aveva rivelato nelle sue passeggiate parigine una realtà misteriosa nascosta sotto le apparenze. Ma per la curiosa impermeabilità delle discipline umanistiche la fotografia surrealista non ha riscosso, al di là delle rituali attenzioni all'”artista” Man Ray, l’attenzione che meriterebbe per il ruolo da essa svolto nel movimento. Da qualche anno autori come Rosalind Krauss e Georges Didi-Huberman, insieme, sul piano espositivo, al Centre Pompidou, hanno però approfondito la vicenda creativa di Jacques-André Boiffard, giovane ex-studente di medicina, che fece “atto di surrealismo assoluto” fin dalla pubblicazione, nel 1924, del Manifesto di Breton.
Un attento studio sulla vicenda di questo fotografo ricorda oggi anche al pubblico italiano quanto lo studio del surrealismo non possa prescindere dalla “sua” fotografia. Le radicali affermazioni dei surrealisti contro la razionalità in nome del sogno, della poesia, del meraviglioso sembrano in effetti evocare alcune proprietà che la fotografia, sia pur stretta finallora nei vincoli dei generi ottocenteschi, aveva già dimostrato di avere; e tuttavia il nuovo spirito fotografico non ha nulla in comune con l’idea di fotografia e anche con il tirocinio dei fotografi di genere: Man Ray, presso cui Boiffard si forma, non è certo un educatore tipico (“Non posso insegnarvi nulla. Guardate e aiutatemi”). Il giovane apprendista si specializza in ritratti mentre affianca il maestro anche nel suo percorso cinematografico che lo porterà alla definizione di un cinema surrealista (Emak Bakia, 1926, L’étoile de mer, 1928, Les Mystères du Chateau de Dé, 1929). Il passaggio decisivo sarà però la collaborazione con Breton per il suo Nadja (1928), in cui l’esigenza dello scrittore di una narrazione oggettiva (“clinica”) della vicenda e la sua ostilità alla descrizione del romanzo tradizionale trovano nella fotografia una perfetta alleata; ma non solo: le strade deserte di Parigi in cui si svolge la vicenda sono descritte da immagini “banali”, quasi amatoriali, e allo stesso tempo enigmatiche, incapaci di fornire alcuna rivelazione, ma dove è sempre sottesa una dialettica tra ordinario e meraviglioso.
Parte del gruppo, tra cui Boiffard, si allontana da Breton per subire l’influenza di Bataille; per il fotografo sarà l’inizio dell’esperienza nuova e decisiva, dal 1929, alla rivista “Documents”, il cui elemento centrale, il concetto di informe di Bataille (non assenza di forma, ma apertura alla possibilità di forme molteplici), sarà illustrato soprattutto dalle sue straordinarie fotografie: due enormi, sproporzionati, alluci maschili riprodotti a tutta pagina su fondo nero (un rovesciamento dell’estetica del dettaglio che il fotografo proseguirà anche negli anni successivi) accompagnano l’articolo di Bataille sulla polarità tra alto e basso, ma senza “rendere surrealista” l’immagine, semplicemente mostrando il soggetto nella sua realtà; e così i monumenti parigini fotografati per evidenziarne la materialità, la pesantezza; o le maschere grottesche indossate da un uomo in posizioni ordinarie, che vogliono mostrare l’ipocrisia di una società fondata sull’omologazione. Suggerisce l’autore che le immagini di Boiffard non vanno apprezzate per un loro “stile” (sostanzialmente assente), ma per la loro coerenza al progetto complessivo della rivista: sono “catalizzatori di senso”, acquistano forza in relazione all’articolo che accompagnano e a questo danno forza. Banale e insieme inquietante, oggettiva e insieme conturbante, la fotografia surrealista rivela la natura stessa di ogni fotografia; nel 1940 Boiffard conclude gli studi di medicina e abbandona l’arte, fino alla fine della sua vita sarà radiologo, una specializzazione “fotografica” per nulla estranea alla rivelazione surrealista.
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Moorehead Caroline La casa in montagna-Storia di quattro partigiane
Traduzione di Giuliana Olivero, Bianca Bertola-Bollati Boringhieri editore
DESCRIZIONE
Siamo ormai a tre generazioni di distanza dalla guerra partigiana del 1943-45, e certi eventi di quegli anni hanno perso in parte la loro carica emozionale. In questi decenni è stato compiuto (e ancora si compie) un imprescindibile lavoro di ricerca storica, che ha documentato con cura le battaglie e le vite dei protagonisti di allora, e ha analizzato nel dettaglio gli elenchi degli assassinati e dei torturati, e l’orribile computo dei drammi umani, spesso descritto con linguaggio asettico nei documenti della burocrazia. Oggi è importante che, per non dimenticare, si levi su quelle vicende anche una voce autoriale, in grado di legare i fatti storici in un filo narrativo coinvolgente e cristallino. È ciò che fa Caroline Moorehead in questo libro, un’opera completa, capace di ricreare l’atmosfera di paura e di dolore, ma anche in grado di rendere la spinta ideale provata da molte donne coraggiose, determinate ad agire e rischiare per il bene della loro comunità. Pagina dopo pagina, leggiamo senza fiato la storia delle quattro protagoniste – Ada Gobetti, Bianca Guidetti Serra, Frida Malan e Silvia Pons –, partigiane emblematiche di un intero movimento di donne altruiste, forti e motivate, che animarono azioni di ribellione collettiva, sfidando la guerra, la paura e i pregiudizi. In questo racconto, attento e delicato, troviamo testimonianze che riescono a commuovere e a ispirare, e restano impresse a lungo, grazie alla penna felice dell’autrice. Attraverso lo sguardo e l’esempio di queste protagoniste in lotta contro il nazifascismo, La casa in montagna ci restituisce una memoria unica, che oggi troppi vorrebbero dimenticare.
Recensioni
«Moorehead dipinge un quadro meravigliosamente vivido e commovente delle donne della Resistenza italiana. Un libro eccezionale».
sir Max Hastings, autore di Inferno. Il mondo in guerra 1939-1945, «The Sunday Times»
«Affascinante… La narrazione è resa con una tale verve che viene spesso la pelle d’oca».
Tobias Jones, «The Guardian»
«Una storia profondamente commovente e magnificamente raccontata».
Roma, all’Ara Pacis conferenze con James Franco e Lola Ponce per far incontrare cinema e arte-
Un evento, a Roma al Pantheon e Ara Pacis, per parlare del rapporto tra arte e cinema. S’intitola Filming Italy: Il cinema incontra l’arte l’evento che anima la capitale nelle serate del 16 e 17 giugno 2025, proponendo un incontro inedito tra il mondo del cinema e il patrimonio artistico e culturale della Capitale. L’iniziativa, promossa dall’Associazione Agnus Dei guidata da Tiziana Rocca e realizzata in collaborazione con la Direzione Musei Statali di Roma e la direttrice del Pantheon Gabriella Musto, mette in scena un dialogo tra grandi e piccoli schermi e i monumenti simbolo di Roma.
Roma-Museo dell’Ara Pacis
Da sempre la città eterna è musa e set di celebri pellicole che ne hanno esaltato le atmosfere, dai vicoli nascosti ai monumenti più celebri. Il cinema ha contribuito a costruire l’immagine di Roma nel mondo, con film cult come La Dolce Vita di Fellini, dove la Fontana di Trevi diventa icona eterna di bellezza e desiderio, o La Grande Bellezza, che ha incantato gli spettatori con le sue suggestive passeggiate notturne tra le meraviglie romane.
Tiziana Rocca, General Director di Filming Italy, sintetizza così la filosofia dell’evento: “Sono convinta che se l’arte ispira il cinema, anche il cinema si si avvicina all’arte. Così apriremo le porte di due dei siti storici e museali più rappresentativi di Roma, il Pantheon e l’Ara Pacis, per un evento assolutamente inedito e unico nel suo genere, in cui il pubblico avrà per la prima volta l’occasione di partecipare a dibattiti con esperti di cinema, star internazionali e italiane, all’interno di monumenti mozzafiato”.
La due giorni si configura come un’occasione per conoscere non solo i luoghi già noti per essere stati protagonisti sul grande schermo, ma anche per scoprire nuove connessioni e suggestioni culturali, in un intreccio di arte, storia e cinema che celebra la Capitale da punti di vista diversi e complementari.
Masterclass tra grandi nomi del cinema
Il programma di Filming Italy prevede due giornate ricche di incontri e approfondimenti. Il 16 giugno, al Museo dell’Ara Pacis, Tiziana Rocca modera una serie di masterclass con ospiti d’eccezione: alle 19 aprirà la serata James Franco, noto per la trilogia di Spider-Man e Hey Joe; alle 21:30 toccherà invece a Lola Ponce, protagonista del musical Notre Dame de Paris. Nel mezzo, alle 19:30 ci sarà l’incontro con Yvonne Sciò, interprete di H.P. Lovecraft: Two Left Arms, mentre alle 20:30 sarà la volta di Matteo Paolillo, attore della serie TV Mare Fuori.
Il 17 giugno, invece, il suggestivo Pronao del Pantheon ospiterà nuove masterclass sempre con la moderazione di Rocca. Qui si alterneranno, alle 19:20, Fran Drescher, celebre interprete della sitcom La Tata e presidente di SAG-AFTRA; poi, alle 20:05, ci sarà Darko Perić, volto noto della serie televisiva La Casa di Carta; e infine alle 20:50 chiuderà l’evento Ilenia Pastorelli, protagonista di Lo chiamavano Jeeg Robot.
Gli incontri permetteranno agli appassionati di cinema di entrare in contatto diretto con gli artisti e di scoprire retroscena, tecniche e suggestioni artistiche, il tutto incorniciato dall’atmosfera magica di due monumenti simbolo della storia e della cultura romana.
Pantheon e Ara Pacis: teatro di una cultura in dialogo
L’Ara Pacis e il Pantheon, simboli rispettivamente della Roma antica e della magnificenza architettonica, diventano sedi ideali per una forma originale di divulgazione culturale, che coniuga il patrimonio storico con le espressioni contemporanee del cinema internazionale. Questi spazi accolgono non solo i visitatori e i pellegrini, ma anche un pubblico di appassionati di cinema e cultura, offrendo un’esperienza multisensoriale e multidisciplinare.
L’evento si pone così come un modello innovativo di dialogo tra le arti, capace di valorizzare il ruolo della Capitale come centro di cultura, creatività e confronto internazionale, in una cornice di rara suggestione.
Filming Italy: Il cinema incontra l’arte è patrocinato dal Ministero della Cultura, dalla Regione Lazio, da Roma Capitale, ANEC, 100 Autori, Agiscuola, Anica e CSC. Un ampio sostegno che conferma l’importanza e la qualità dell’evento, pronto a consolidare il legame profondo tra Roma e il cinema, in un percorso di crescita culturale condivisa.
Poesie scelte di ALEJANDRA PIZARNIK-Poetessa argentina-
ALEJANDRA PIZARNIK-Poetessa argentina-
Alejandra Pizarnik -(Buenos Aires- il 29 aprile 1936 – 25 settembre 1972)-nasce ad Avellanedain una famiglia di emigrati ebrei di origine russa. Assieme alla sorella maggiore Myriam compie i primi studi in una scuola ebraica, dove impara a leggere e a scrivere in yiddish. Durante l’adolescenza comincia a fare uso di anfetamine per curare i disturbi fisici di origine nervosa che la affliggono. A 18 anni si iscrive alla facoltà di Filosofia, poi a quella di Lettere e infine alla Scuola di giornalismo, ma non porta a termine gli studi. Dal 1960 al 1964 vive a Parigi. Muore a Buenos Aires nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose di barbiturici.
Testi selezionati da La figlia dell’insonnia (trad. di C. Cinti, Crocetti, 2004)
ALEJANDRA PIZARNIK-Poetessa argentina-
Poesia
Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.
Anelli di cenere
a Cristina Campo
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
La notte
Della notte so poco
ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.
Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a esistere.
Le opere e le notti
per riconoscere nella sete il mio emblema
per significare l’unico sogno
per non aggrapparmi di nuovo all’amore
sono stata tutta un’offerta
un puro errare
di lupa nel bosco
nella notte dei corpi
per dire la parola innocente
Presenza
la tua voce
in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Questa notte, in questo mondo
a Martha Isabel Moya
questa notte in questo mondo
le parole del sogno dell’infanzia della morte
non è mai questo che si vuol dire
la lingua materna castra
la lingua è un organo di conoscenza
del fallimento di ogni poesia
castrata dalla sua stessa lingua
che è l’organo della ri-creazione
del ri-conoscimento
ma non della resurrezione
di qualcosa in forma di negazione
del mio orizzonte di maldoror col suo cane
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l’amore
fanno l’assenza
se dico acqua berrò?
se dico pane mangerò?
questa notte in questo mondo
straordinario il silenzio di questa notte
con l’anima succede che non si vede
con la mente succede che non si vede
con lo spirito succede che non si vede
da dove viene questa cospirazione d’invisibilità?
nessuna parola è visibile
ombre
spazi viscosi dove si occulta
la pietra della follia
neri corridoi
li ho percorsi tutti
oh fermati un altro po’ tra di noi!
la mia persona è ferita
la mia prima persona singolare
scrivo come chi alza un coltello nel buio
scrivo come dico
la sincerità assoluta sarebbe sempre
l’impossibile
oh fermati un altro po’ tra di noi!
lo sfacelo delle parole
che sloggiano il palazzo del linguaggio
la conoscenza tra le gambe
che cosa hai fatto del dono del sesso?
oh miei morti
li ho mangiati mi sono strozzata
non ne posso più di non poterne più
parole camuffate
tutto scivola
verso la nera liquefazione
e il cane di maldoror
questa notte in questo mondo
dove tutto è possibile
tranne
la poesia
parlo
sapendo che non si tratta di ciò
sempre non si tratta di ciò
oh aiutami a scrivere la poesia più prescindibile
quella che non serva nemmeno
a essere inservibile
aiutami a scrivere parole
in questa notte in questo mondo
***
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.
***
no, la verità non è la musica
io, triste attesa di una parola
qual è il nome che cerco
e che cosa cerco?
non il nome della deità
non il nome dei nomi
ma i nomi precisi e preziosi
dei miei desideri nascosti
qualcosa in me mi punisce
da tutte le mie vite:
– Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi
e hai preferito l’attesa,
come se tutto ti annunciasse la poesia
(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile
– sono solo venuta a vedere il giardino –)
Poesie pubblicate da «Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Poesie di Edith Södergran, Poetessa finlandese di lingua svedese-
Poetessa finlandese di lingua svedese Edith Södergran è una figura centrale della letteratura scandinàva ed una delle voci più autorevoli dell’Espressionismo e del Modernismo nord europeo. I suoi biografi, inoltre, la considerano unanimemente un’antesignana del femminismo.
Edith Södergran, Poetessa finlandese di lingua svedese
Spiega in proposito la critica Rossella Perugi: “Edith Södergran appartiene a quella comunità ideale di artiste e studiose ben più famose di lei, come Lou Andreas Salomé e Anna Achmatova, che con l’esempio concreto delle loro vite indipendenti e con le loro opere originali hanno contribuito all’emancipazione femminile.”
Si spense a soli 31 anni a causa della tubercolosi e la sua opera fu fatalmente condizionata dalla coraggiosa consapevolezza della malattia e della fine imminente.
Edith Södergran, Poetessa finlandese di lingua svedese
“La mia esistenza -affermava nella lirica ‘Il paese inesistente’, composta poco prima di morire- è stata un delirio bruciante.”
CERCAVI UN FIORE
(Edith Irene Södergran)
Cercavi un fiore
e hai trovato un frutto.
Cercavi una sorgente
e hai trovato un mare.
Cercavi una donna
e hai trovato un’anima −
tu sei deluso.
LE STELLE
Quando viene la notte,
io sto sulla scala e ascolto,
le stelle sciamano in giardino
ed io sto nel buio.
Senti, una stella è caduta risuonando!
Non andare a piedi nudi sull’erba;
il mio giardino è pieno di schegge.
LA TUA NOSTALGIA
La tua nostalgia è un mare che puoi navigare,
la tua nostalgia è un terreno su cui puoi camminare,
perchè te ne stai allora inerte e scorata
fissando il vuoto?
Verrà un mattino con un orizzonte più rosso
di tutti gli altri,
verrà un vento a porgerti la mano:
mettiti in cammino!
Edith Södergran, Poetessa finlandese di lingua svedese
Edith Södergran -Poetessa finlandese di lingua svedese (Pietroburgo 1892 – Raivola, Carelia, 1923). Dopo aver frequentato a Pietroburgo la scuola tedesca, trascorse lunghi anni in sanatorio, soprattutto in Svizzera, dove venne in contatto con le avanguardie letterarie europee. Tornata in patria, diede inizio a un’attività poetica, eroicamente proseguita in anni bui di guerra, di difficoltà materiali e di isolamento. Alla prima raccolta Dikter (“Poesie”, 1916), seguirono Septemberlyren (“Lira settembrina”, 1918), Rosenaltaret (“L’altare di rose”, 1919) e Framtidens skugga (“L’ombra del futuro”, 1920), in cui è evidente l’influsso nietzschiano. Il linguaggio, sostenuto sempre da una forte tensione spirituale (dopo l’iniziale atteggiamento estatico di fronte alla natura e alla vita la S. si accostò all’antroposofia per approdare infine alla semplicità evangelica), raggiunge una consapevole, rigorosa misura, che l’estrema musicalità del verso esalta soprattutto in Landet som ikke är (“Il paese che non c’è”, post., 1925).
Edith Södergran, Poetessa finlandese di lingua svedese
Sommerse in qualche luogo indefinito stanno alcune autrici del passato: tra loro c’è Edith Irene Södergran, nata a San Pietroburgo il 4 aprile 1892, un poeta finlandese di lingua svedese, poco apprezzata durante la sua breve vita, ma che ancora oggi continua a influenzare poesie e testi musicali. Nella sua prima raccolta del 1916, Dikter (Poesie), è lei stessa a presentarsi con un componimento intitolato semplicemente Jag (Io): «Sono straniera in questa terra, che giace nel profondo del mare opprimente, il sole vi insinua raggi serpeggianti e l’aria sfugge fra le mie mani. Mi è stato detto che sono nata prigioniera- Qui, non c’è un viso che mi sia conosciuto».
Una giovane donna, dunque, che non sente di appartenere alla terra in cui si trova, si percepisce intrappolata sotto un “mare opprimente”. È “straniera”, “nata prigioniera”, vede i raggi del sole arrivare da lontano, come attraverso le sbarre di una prigione e l’aria le fluisce tra le mani, senza consentirle alcun radicamento. L’autrice continua e si interroga sulla propria natura, che l’ha spinta fin sul fondo:
«Ero una pietra, gettata sul fondo?
Ero un frutto, troppo pesante per il ramo?».
Solo l’immaginazione, attraverso i versi della sua poesia, può ricondurla in superficie, alla ricerca di quel mondo che non ha mai conosciuto: «Qui mi trovo in attesa, ai piedi dell’albero frusciante che stormisce, come farò a risalire i rami scivolosi? Lassù le fronde ondeggianti si incontrano, lì voglio sedermi e guardare in alto oltre il fumo dei camini della mia patria».
Edith Södergran, la creatura sommersa, era nata in quel crogiolo multiculturale che era San Pietroburgo alla fine del XIX secolo; figlia di una coppia particolare di finlandesi di lingua svedese, sua madre Helena aveva avuto una relazione con un soldato russo, suo padre Mats era vedovo; entrambi avevano sperimentato il lutto della morte dei figli nati dalle precedenti unioni. Edith rimane l’unica figlia e trascorre la prima infanzia a Raivola (Roščino), in quell’istmo careliano che congiunge il mar Baltico al lago Ladoga e ancora oggi rappresenta una regione sacra per l’identità finlandese.
Qui il nonno materno ha acquistato per la coppia una segheria, ma sarà la madre a salvare più volte il bilancio familiare dopo le sfortunate imprese economiche del marito. Questa figura femminile, intraprendente e autonoma, ispirerà la fiducia della figlia nelle capacità pratiche delle donne e nei rapporti di sorellanza che speGli anni della formazione sono particolarmente importanti: a San Pietroburgo Edith vive quasi sempre da sola con la madre, che la incoraggerà per tutta la vita nelle sue aspirazioni; inoltre è direttamente esposta ai drammatici eventi del tempo, che influenzeranno la sua sensibilità. Dal 1902 al 1909 studia nella prestigiosa Petrischule, un’antica scuola germanica situata proprio di fronte al Palazzo d’Inverno, dove nel 1905 le truppe russe aprono il fuoco sulla popolazione affamata. La Petrischule è un ambiente multiculturale: con compagne e compagni russi, finlandesi, scandinavi, tedeschi impara quattro lingue (russo, tedesco, finlandese, francese), mentre lo svedese rimane la sua lingua madre, appresa e parlata solo in casa. Nell’ambiente colto della scuola, sotto la guida di un insegnante sensibile, Henri Couttier (cui dedicherà i suoi primi componimenti), incontra le opere dei tedeschi Goethe e Heine, ma anche dei romanzieri russi e dei simbolisti francesi. Già nel 1908 entra in contatto con la cultura finlandese di lingua svedese attraverso un lontano parente residente a Helsinki (al tempo Helsingfors) e decide di dedicarsi prevalentemente alla poesia, abbandonando il tedesco e utilizzando lo svedese. La figura del padre, sempre in secondo piano nella sua vita, scompare del tutto quando l’uomo muore di tubercolosi; a 16 anni Edith risulta affetta dalla stessa malattia e comincia il suo iter nei sanatori: prima a Nummela, dove era morto il padre; quindi in Svizzera, nel 1912-13 e nel 1913-14. zzeranno la sua solitudine. A Davos la ragazza, che proviene da un remoto angolo d’Europa, si trova immersa nella cultura occidentale: nella ricca biblioteca si accosta agli autori inglesi e americani, dal classico Shakespeare ai moderni Whitmane Swinburne; incontra la filosofia di Schopenhauer, avvicinandosi anche alla teosofia di Steiner, che al tempo godeva di grande popolarità, ma soprattutto approfondisce Nietzsche: Così parlò Zarathustra è una delle opere che maggiormente influenzeranno la sua produzione.
Il rientro al nord nel 1914 rappresenta un brusco contraccolpo: Raivola è rimasto il villaggio della sua infanzia, dove la scrittrice si ritrova, non senza disagio, immersa in una cultura statica: la poesia finlandese di lingua svedese esalta il romanticismo di J.L. Runeberg, che rappresenta con successo l’identità nazionale.
Edith invece ha assimilato le tendenze delle avanguardie europee, che esprime in maniera autonoma e singolare, differenziandosi dalle caratteristiche dominanti di queste correnti. Infatti, rispetto a voci poetiche prevalentemente maschili e aggressive, denigratorie del passato e ridondanti di neologismi (basti pensare all’italiano Marinetti), la sua poesia sviluppa caratteri originali: è una voce femminile, in qualche caso asessuata, basata a volte su un’intensa sensualità, altre su una dolorosa pena. Nei suoi versi distruzione e creazione si fondono in un unico procedimento ciclico, dove la produzione artistica si incarna attraverso la riproduzione sessuale: una poesia corporea, concreta, come l’autrice stessa dichiara nel suo manifesto poetico, Individuell Konst (Arte individuale): «Considero la vecchia società come una cellula madre, che deve essere sostenuta finché l’individuo non è in grado di costruire un nuovo mondo». Il Manifesto rappresenta un drastico punto di rottura con la tradizione e risente anche delle esasperanti condizioni di vita dell’autrice: con la Rivoluzione del 1917 lei e la madre erano state private di tutti i loro beni e vivevano in povertà in una zona di conflitto. Il Manifesto era apparso nel 1918, sulle pagine di Dagens press, il quotidiano di lingua svedese di Helsinki, per introdurre la sua seconda raccolta di poesie, Septemberlyran (La lira di settembre). Secondo l’autrice la cultura scandinava rifiutava le tendenze innovatrici che circolavano nell’Europa del tempo e stimolavano l’esistenza di una persona nuova; per questo si sentiva obbligata a rivolgersi ai «rari individui che si trovano vicini ai confini del futuro». La scelta dello svedese, che risale agli anni della Petrischule, assume quindi profonde implicazioni e sancisce sia il desiderio di rompere con la “decadente” tradizione lirica svedese sia l’esigenza di intraprendere una ricerca innovatrice e creativa. Non si tratta dunque solo di seguire le tendenze alla moda delle avanguardie, quanto di dar voce a una creatività originale. La poeta raggiunge il suo scopo utilizzando un lessico semplice, legato agli elementi primordiali della natura: acqua, vento, fuoco, stelle, sole, collegati al corpo femminile inteso come luogo di creazione poetica. È evidente quanto questa tecnica sia rivoluzionaria e sovverta l’ordine patriarcale, che vede la donna come essere passivo, dominato, come spettatrice delle imprese maschili, mero oggetto del componimento poetico. Edith Södergran trasferisce nella figura femminile il concetto di Superuomo nietzschiano dal cui corpo, in diretta relazione con la terra, scaturisce il potere creativo. Lo dichiara uno dei suoi poemi più famosi, Vierge Moderne (Vergine moderna), che distrugge la figura oggettificata della donna per costruirne una moderna, senza genere e al tempo stesso fortemente sessuata: «Non sono una donna. Sono un essere neutro. Sono un bambino, un paggio e una decisione audace, sono una striscia ridente di un sole scarlatto. Sono una rete per tutti i pesci voraci, sono un brindisi all’onore di ogni donna, sono un passo verso la fortuna e verso la rovina, sono un salto nella libertà e in me stessa. Sono il sussurro del desiderio nell’orecchio di un uomo, sono il brivido dell’anima, il desiderio e il rifiuto della carne, sono un segno d’ingresso a nuovi paradisi. Sono una fiamma, investigatrice coraggiosa, sono uno specchio d’acqua, profondo ma audace solo fino alle ginocchia, Io sono fuoco e acqua, onestamente combinati, a condizioni libere […]».
L’immagine femminile tradizionale è decostruita attraverso una serie di negazioni; nell’ultimo verso la sua donna nuova rimane fluida e indefinita, mostrando il limite della sua poetica, peraltro insuperabile nella propria condizione di isolamento: la mancanza di un modello nuovo di donna. Edith Södergran, la poeta-narratrice, dimostra dunque di essere una figura troppo avanzata per la Finlandia provinciale del suo tempo; appartiene a quella comunità ideale di artiste e studiose ben più famose di lei, come Lou Andreas Salomé e Anna Achmatova, che con l’esempio concreto delle loro vite indipendenti e con le loro opere originali hanno contribuito all’emancipazione femminile. Ancora molto giovane è venuta a mancare a Raivola il 24 giugno 1923, giusto un secolo fa.
Rossella Perugi
Articolo di Rossella Perugi-Laureata in lingue a Genova e in studi umanistici a Turku (FI), è stata docente di inglese in Italia e di italiano in Iran, Finlandia, Egitto, dove ha curato mostre e attività culturali. Collabora con diverse riviste e ha contribuito al volume Gender, Companionship, and Travel-Discourses in Pre-Modern and Modern Travel Literature. Fa parte di DARIAH-Women Writers in History. Ama leggere, scrivere, camminare, ballare, coltivare amicizie e piante.
La principessa Maria Cristina Barbiano di Belgiojoso Trivulzio.Articolo di Anselmo Pagani-
In piazza Belgioioso, in pieno centro di Milano, davanti al palazzo di famiglia una statua in bronzo in grandezza naturale riproduce le fattezze della padrona di casa: la principessa Maria Cristina Barbiano di Belgiojoso Trivulzio.
principessa Maria Cristina Barbiano di Belgiojoso Trivulzio
L’opera la mostra nell’attimo in cui si alza dalla scrivania per accogliere un visitatore, rendendo col bronzo il dinamismo di questa donna che, un tempo la più ricca ereditiera della nostra Penisola, rinunciò al patrimonio familiare per diventare patriota ed entrare nella Carboneria.
Nata il 26 giugno del 1808 a Milano, Maria Cristina Trivulzio discendeva da un’antica Casata nobiliare alla quale erano appartenuti podestà, capitani di ventura, alti prelati e un’infinità di personaggi illustri.
principessa Maria Cristina Barbiano di Belgiojoso Trivulzio
Rimasta orfana di padre, a 16 anni scelse come sposo il principe Emilio Barbiano di Belgiojoso, un “bello e dannato” che tornò subito alla vita di impenitente libertino e spendaccione.
Ma Maria Cristina per carattere, dignità e lignaggio, non era certo la donna che, di fronte alle ripetute infedeltà del consorte, potesse far finta di nulla, chinando il capo.
Accortasi dell’errore, dopo quattro anni di tribolata vita coniugale si separò da lui, riprendendo a vivere da libera, incurante dello scandalo causato agli occhi di tanti “benpensanti”.
principessa Maria Cristina Barbiano di Belgiojoso Trivulzio
Dopo relazioni fugaci e la nascita nel 1838 dell’unica figlia, si legò all’uomo che avrebbe rappresentato per lei l’amore della vita: il francese François Mignet.
Sul finire degli anni Venti del XIX secolo entrò nel mirino della polizia austriaca per le sue frequentazioni carbonare.
Onde evitare l’arresto, nel 1831 dovette riparare a Parigi, dove diede vita a un salotto di letterati, patrioti e musicisti sempre sostenendo la causa dell’indipendenza italiana, che non smise mai di aiutare anche raggranellando denaro con lezioni di musica e lingua italiana.
Tornata in Italia nel 1840, si stabilì nel Milanese facendo la spola fra il suo palazzo in pieno centro di Milano, il castello di Locate Triulzi e la villa di Merate, in Brianza.
Incapace di stare con le mani in mano, si dedicò al sociale favorendo l’apertura di asili, scuole, opifici e fornendo di dote le giovani in condizioni di povertà.
Sempre in prima linea, lo fu anche a Roma durante la sfortunata esperienza della Repubblica Romana del 1849, dove per supplire al caos degli ospedali organizzò un primo servizio di “crocerossine”, in anticipo sull’inglese Florence Nightingale.
Con la restaurazione papalina dovette rifugiarsi all’estero, prima in Grecia, poi Turchia e infine ancora a Parigi, da dove sarebbe rientrata a Milano nel 1861, giusto in tempo per festeggiare la nascita del Regno d’Italia, per cui si era tanto battuta.
principessa Maria Cristina Barbiano di Belgiojoso Trivulzio
Nel capoluogo ambrosiano avrebbe trascorso gli ultimi dieci anni di vita impegnandosi per il riscatto “della condizione delle donne e del loro avvenire”.
Quando spirò il 7 luglio del 1871, con lei si spense una pioniera dell’emancipazione femminile.
Accompagna un’immagine del “Monumento a Cristina di Belgiojoso Truvulzio”, di Giuseppe Bergomi, 2021, Milano – Piazza Belgiojoso.
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