Franco Leggeri Fotoreportage -Castelnuovo di Farfa (Rieti)-
Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Le Mura Medievali
Franco Leggeri Fotoreportage e Articolo -Castelnuovo di Farfa-La notte estiva castelnuovese con il suo splendido cielo e le sue stelle simili a margherite ed ecco il miracolo del giallo notturno. I bar sono illuminati da una luce gialla che attira le falene, così irrimediabilmente attratte da essa. Le falene sembrano ripetere il passeggio della gente , alcune si posano sulle sedie accatastate, come essere in attesa del caffè. In questa notte blu che si contrappone al colore giallo dei bar castelnuovesi, se passeggi per la strada, via Roma, sembra di entrare in un dipinto. Diventa lo sguardo un pennello che deposita colori che delimitano i contorni di questa notte castelnuovese . Gli occhi si soffermano, indugiano, su ogni elemento della composizione di questa splendida scenografia castelnuovese.
Castelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazza comunale
Sono un ammiratore inguaribile del grande scrittore Ernest Hemingway e vorrei immaginare se anche qui in qui in questa notte e nei bar castelnuovesi , avrebbe lasciata scritto : “My mojito in La Bodeguita, my daiquiri in El Floridita”, credo di si. Nella notte castelnuovese , se la sai vivere, ti riserva , se lo sai individuare, l’angolo “intellettuale”. Un angolo che sarebbe o farebbe la felicità per gli amanti della fotografia, della pittura e dell’architettura del paesaggio, così come l’interpreta e la descrive Goethe. Ai passeggiatori attenti e amanti della notte castlnuovese non può essere sfuggito che la Valle , dominata da Castelnuovo, è una visione, uno stato d’animo, sensibilità per l’astratto e immateriale che solo loro, gli Artisti e i bambini lo sanno individuare e vivere. Parlo di quel particolare momento, durante il crepuscolo, che preannuncia il passaggio dalla luce al buio: la cosiddetta “Ora Blu”. “L’heure bleue”, cara alla poetica , alla contemplazione e ai voli immensi che solo i notturni sottolineati dalle note di Chopin sanno trasformare la realtà in estasi che, poi, si sveglia alle note del Jazz. Ai Bar di castelnuovo potresti ordinare un mojito e se ti allontani per gustarlo , per esempio sulla piazza da qui puoi estasiarti nel vedere la “luce della notte” che illumina la Valle e, se osservi attentamente, scopri che la Valle non è solamente illuminata , ma è baciata, con dolcezza, dal cielo stellato di questo caldo agosto castelnuovese; visioni che solo qui puoi scoprire perché il cielo sopra Castelnuovo è affollato di stelle che disegnano e sottolineano un’architettura dell’immaginario, il suo silenzio, e accende la natura che diventa palcoscenico teatrale o set cinematografico, un ponte tra il reale e il fantastico che, tra un mojito e l’altro, ti consente di compiere incursioni nel fiabesco e nel magico. Sensazioni che solo in queste notti d’estate qui a Castelnuovo,ai tavoli dei Bar di Castelnuovo oppure passeggiando per le sue vie e immergendoti nel silenzio delle case addormentate riesci a scoprirle. Solo “l’ora bleu” di Castelnuovo genera sensazioni, visioni suggestive e sempre originali sino al limite della fantasia. Immaginate se Ernest Hemingway qui seduto nella piazza “all’Here Blue” a gustare il suo rum, chissà, forse, avrebbe scritto: “Il Vecchio e la Valle del Farfa”, o no?Metti una notte estiva a Castelnuovo, immaginate di passeggiare lungo via Roma , io l’ho fatto, sembra di essere in una notte stellata tra i boulevard e i caffè illuminati di Parigi.
Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri
Castelnuovo lo ami sempre di più fino a che non si arrende.
Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo Marconi-Via Arco Cherubini-Foto di Franco Leggeri
Castelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazza comunaleCastelnuovo di Farfa, via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) Bar Stella
Castelnuovo di Farfa (Rieti) Piccolo Bar della Signora AlmaCastelnuovo di Farfa (Rieti) La vecchia locanda “Da Riccardo”Castelnuovo di Farfa (Rieti)- La piazza comunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) Biblioteca Luigi CianniCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via RomaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -La Piazza Comunale-Foto di Franco LeggeriCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via RomaCastelnuovo di Farfa (Rieti) La Porticina-Piazza Umberto I°Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Le Mura MedievaliCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Castelnuovo di Farfa (Rieti) Via Roma Est-Castelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazza comunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) La Piazzetta-La fontanellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) Via Coronari
Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Garibaldi-incrocio con CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Garibaldi-Castelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Coronari-incrocio con via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma Ovest-Mura MedievaliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma Ovest-Ingresso pedonale al Parcheggio pubblicoCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Piazza della chiesa-via Guglielmo MarconiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via PerelliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via PerelliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazzetta-La FontanellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Il GhettoCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Cortile Palazzo Eredi Salustri-GalliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma EstCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma , la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Fonte CisternaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Castello-La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma-La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via GaribaldiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Porta Castello, Torre dell’OrologioCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Regina MargheritaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo MarconiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo MarconiCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Guglielmo Marconi-Via Arco CherubiniCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via CoronariCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Monte Cavallo -La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La PorticinaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – chiesa Madonna degli AngeliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – chiesa Madonna degli AngeliCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma Ovest-Bar StellaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) –Castelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) -la FontanaCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Municipio-Aula ConsiliareCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Il GonfaloneCastelnuovo di Farfa (Rieti) –Castelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza ComunaleCastelnuovo di Farfa (Rieti) – Via Roma OvestCastelnuovo di Farfa (Rieti) – La Piazza Comunale
Vivian Maier-i selfie della “Tata fotografa”-La “bambinaia fotografa” che è diventato un caso clamoroso emerso sulla scena dal nulla--Le strade di New York e Chicago come un palcoscenico, l’autoritratto come via per trovare il proprio posto nel mondo, i dettagli di vita ritracciabili in un volto: è questa la poetica dello scatto che è uscita allo scoperto solo nel 2007, grazie a John Maloof, un giovane statunitense che, cercando del materiale su cui effettuare una ricerca sulla città di Chicago, trovò dentro una scatola acquistata all’asta il grande repertorio di negativi e rullini ancora da sviluppare di Vivian Maier.
Chi era Vivian Maier? Anche il suo “casuale scopritore” non lo seppe, ma nel corso di una ricerca attenta, Maloof ricostruì tessera dopo tessera la vita della fotografa statunitense classe 1926. Di lei scoprì che lavorò tutta la vita come tata, solo nel tempo libero si dedicava alla sua passione: la fotografia, la street photography. C’è chi addirittura accosta la figura della fotografa a Emily Dickinson, la poetessa che relegò in un cassetto le sue riflessioni e le sue opere, senza ricorrere mai alla pubblicazione.
Vivian Maier
In una foto la sua immagine si riflette da uno specchio all’altro. Quasi all’infinito. Un super selfie ante litteram, verrebbe da dire: lei, la sua Rolleiflex, un orologio e dei pacchi. C’è la sintesi di una vita in questo scatto senza tempo. Una vita che avrebbe dovuto restare segreta. Vissuta e finita lì. Invece il caso si ci è messo di mezzo e ha voluto che venisse fuori. Perché Vivian Maier, nata a New York il primo febbraio del 1926 e morta a Chicago il 21 aprile del 2009, è per l’anagrafe una bambinaia. Una bambinaia mezza francese (la mamma era di un piccolo paese delle Alpi, il papà di origine austro-ungarica lasciò la casa di famiglia quando Vivian aveva 4 anni) per le famiglie benestanti di New York e Chicago. Strana, misteriosa, per certi versi eccentrica, ma fondamentalmente riservata, se non invisibile. E così lei voleva restare.
Invece Vivian Maier è oggi Una fotografa ritrovata, come sintetizza efficacemente il titolo del libro che la celebra da alcuni mesi in Italia (di John Maloof, Contrasto, pagine 285, euro 39,00) e che accompagna – dopo una esposizione al Man di Nuoro – la mostra che apre domani a Milano al Forma Meravigli (fino al 31 gennaio 2016, tutti i giorni dalle 11 alle 20, giovedì dalle 12 alle 23) a cura di Anne Morin e Alessandra Mauro, con 120 fotografie in bianco e nero. Vivian Maier conservava i suoi 150mila scatti, 3mila stampe e filmati super 8 e 16 millimetri all’interno di un box di Chicago, insieme a tantissime cianfrusaglie, oggetti da collezione, pezzi di vita. Un “tesoro nascosto” che dopo anni di affitto non pagati venne stato confiscato, messo all’asta in diversi lotti e quindi “rivelato”. Nel 2007, i ricordi custoditi dalla bambinaia s’incontrarono con l’ansia del racconto e della scoperta di John Ma-loof, un giovane agente immobiliare che stava raccogliendo materiale su Chicago per coltivare il suo vero talento, la scrittura.
Il 26enne acquistò per 38 dollari il contenuto di un baule con trentamila negativi e vari oggetti da collezione, diventando poi il principale curatore del “lascito” della Maier. La curiosità fu forte. Cosa contenevano quelle pellicole? Quali facce avrebbero svelato? Quali luoghi avrebbero mostrato? Maloof ordinò minuziosamente ogni cosa come mostra il film-documentario distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema – Alla ricerca di Vivian Maierdi Maloof con Charlie Siskel (sarà proiettato al Cinema Apollo a Milano, il 25 novembre alle 21.30) – e si metterà alla ricerca del misterioso autore. «Volevo sapere – racconta – chi si nascondeva dietro quel lavoro, ma avevo solo il nome di Vivian Maier: sarà una giornalista, una fotografa professionista? Così ho cercato su Google e ho trovato solo l’avviso della sua morte, pubblicato giusto qualche giorno prima. Ho recuperato un indirizzo tra le sue cose e dopo aver rintracciato il numero di telefono, ho chiamato e ho detto che ero in possesso dei negativi di Vivian Maier». La risposta fu sorprendente: «Era la mia bambinaia! ». «La sua bambinaia? E perché farebbe tutte queste fotografie? Ciò che quell’uomo mi ha detto di lei mi ha profondamente stupito: era una solitaria, non sapeva nulla della sua vita amorosa, della sua famiglia, dei suoi figli, ma era stata una madre per lui. Tutto questo ha stuzzicato la mia curiosità».
Il giallo si infittì, ma si aprì un mondo. Continuarono le ricerche, i pezzi del puzzle si composero lentamente uno dopo l’altro. E venne fuori la vita di Vivian Maier: una bambinaia, amorevole con i bimbi, con qualche mania, dei segreti, e una passione nascosta e solitaria per la fotografia. Talmente nascosta che mai ha pubblicato una foto e mai ha fatto vedere i suoi lavori a qualcuno. La tata nel suo giorno libero metteva la sua Rollei al collo e girava per le strade. Con uno sguardo curioso, a volte malinconico, altre ironico. Si soffermava sui piccoli dettagli, le scarpe buffe, la mise eccentrica, le imperfezioni; le persone, soprattutto bambini e anziani; i racconti di vita, quella che le scorreva davanti agli occhi per strada, la città e i suoi abitanti in un momento di cambiamento sociale e culturale. Ma c’era soprattutto lei, che spuntava da uno specchio, che si rifletteva su una vetrina, che s’intravedeva in un riflesso. Una donna in continua ricerca di identità, “giocando” con la sua Rolleiflex, una macchina che ha fatto la storia della fotografia mondia-le, con il caratteristico visore per l’inquadratura posto nella parte superiore. «Perfetta per chi vuole restare invisibile», fa notare il grande fotografato americano, Joel Meyerowitz, apprezzando i suoi lavori di street photography. È stata una vita non facile, quella della Maier.
Dopo che il padre lasciò casa, la madre, Maria Jaussaud, si rifugiò da un’amica francese, nel Bronx, una fotografa professionista che probabilmente accese la passione di Vivian sin da piccola. Maria fece poi ritorno in Francia, a Saint-Julien-en-Champsaur, portando con sé Vivian, fra il 1932 e 1938. Qui Vivian tornerà da sola, nel 1950, per reclamare l’eredità di una prozia: userà quel denaro per viaggiare e comprare la sua prima macchina fotografica. Eseguirà tante foto di paesaggi e ritratti degli abitanti della valle. E poi in giro per Cuba, Canada, California. Nel 1956 si trasferì definitivamente a Chicago dove lavorerà per la famiglia Gensburg per 17 anni. Nel bagno allestirà la camera oscura. Ma nei periodi di vacanza sarà sempre con la valigia verso l’Asia, nelle Filippine e India, in Medio Oriente e nell’Europa meridionale. Come se ci fossero due Vivian. La tata e la fotografa globetrotter. «Seppur scattate decenni or sono occhi – scrive lo scrittore e curatore Marvin Heifermann, nella prefazione al catalogo –, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi». La fotografia che ci ha regalato questa bellissima storia, destinata altrimenti a restare in un box di Chicago.Articolo di Giuseppe Matarazzo
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino-
Pro Loco di Soriano “Un tuffo nella fiaba”Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino”Splendida la faggeta di Soriano, alterna alberi secolari a pietre che determinano una ricca varietà di paesaggio. Servito da decine di sentieri ben segnati, ci immerge in una pace di altri tempi. Da visitare assolutamente”.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Monte Cimino si trova in un territorio profondamente plasmato dall’intensa attività vulcanica esplosiva, avvenuta migliaia di anni fa nella provincia di Viterbo. Più precisamente, l’affascinante geologia dei Monti Cimini ha un’età antica compresa tra 1,35 milioni e 800.000 anni fa. Durante questo intervallo di tempo, la risalita di magmi viscosi acidi lungo la frattura ha originato più di 50 rilievi collinari intorno al rilievo principale, ovvero il Monte Cimino (1.053 m).
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Nell’area sono presenti anche altri rilievi, tra cui il Monte Montalto (786 m), il Monte Roccaltia (712 m), il Monte Turello (626 m) e il Monte S. Antonio (617 m), tutti caratterizzati da una morfologia a domi, ovvero ammassi di magma molto viscoso che si presentano come piccole alture con grossi massi tondeggianti sulla cima.
L’altitudine dell’intero complesso varia da 373 a 1.053 m, con un’altezza media di 548 m. La testimonianza dell’intensa attività vulcanica di questa zona si scorge, inoltre, osservando la presenza in tutto il territorio di formazioni rocciose, blocchi sparsi che possono raggiungere volumi di decine di metri cubi che caratterizzano il paesaggio, ricordando la straordinaria geologia di questi monti, oltre che l’enorme portata e la forza del Cimino durante le sue eruzioni. In particolare, sulla vetta del Monte Cimino l’attenzione di molti visitatori è attirata da un grande masso di circa 250 tonnellate, anche conosciuto come sasso “menicante” o sasso “naticarello”, già noto al tempo dei Romani, il cui nome è legato alla sua particolare posizione, sospeso in equilibrio su una sporgenza del terreno.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Il comprensorio del Monte Cimino, identificato con il nome “Monte Cimino (versante nord)”, è stato riconosciuto come Zona Speciale di Conservazione (ZSC) e Zona di Protezione Speciale (ZPS), compresi nella rete ecologica europea di siti di interesse comunitario denominata “Rete Natura 2000”, con il fine di proteggere il biotopo di notevole interesse fitogeografico, naturalistico e storico-monumentale presente in quest’area.
Foreste, sorgenti e torrenti caratterizzano l’ambiente dei Monti Cimini estendendosi per circa 975 ettari nel territorio dei Comuni di Soriano nel Cimino, Vitorchiano e Viterbo. È interessante notare come queste aree siano quasi totalmente coperte da formazioni forestali di latifoglie che, nei settori meno disturbati dall’azione dell’uomo, si articolano seguendo una sequenza altitudinale: ai querceti e leccete succedono boschi misti mesofili con una presenza diffusa di castagneti e, infine, una fustaia vetusta di faggi sulla sommità del Monte Cimino.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La principale valenza naturalistica che ha motivato la costituzione della ZSC è legata alla presenza di due habitat forestali di interesse comunitario, che presentano elementi faunistici di particolare interesse, tra cui insetti, crostacei e anfibi, e di una significativa popolazione di gambero di fiume. La designazione come ZPS è motivata dalla segnalazione di alcune specie minacciate o vulnerabili di rapaci forestali e rupicoli, di diversi passeriformi e del succiacapre, uccello protetto dalle abitudini notturne che frequenta ambienti aperti.
Il tipo forestale più diffuso nell’area è senza dubbio rappresentato dai castagneti, sia cedui che da frutto, che si estendono in un intervallo altitudinale tra i 550 e i 950 m, presentando spesso delle compenetrazioni con i querceti alle quote inferiori. La grande diffusione del castagno è stata certamente favorita dall’opera selettiva che l’uomo ha compiuto nei secoli passati, a fini produttivi, e dal substrato vulcanico acido, che risultano fattori fondamentali per la diffusione di questa specie.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Per la bellezza del paesaggio, per la biodiversità degli ambienti rinvenibili e per la particolarità floristica, l’area è stata nel tempo oggetto di numerosi studi riguardanti flora e vegetazione, molti focalizzati proprio sulla faggeta del Monte Cimino.
Foresta
La natura dei suoli di origine vulcanica del Monte Cimino, tra i più fertili di tutta l’Italia centrale, permette ai faggi di crescere rigogliosi sino al raggiungimento di imponenti dimensioni, oltre 50 metri. La faggeta pura si sviluppa per circa 60 ettari, con un’altitudine che varia dai 1.054 m della cima a una quota di circa 800-850 m.
Il faggio, però, si spinge anche a quote inferiori, isolato o a piccoli gruppi, penetrando all’interno dei cedui misti e dei cedui di castagno – dove si presentano condizioni favorevoli di umidità –, nelle sacche di terreno più profondo e negli impluvi. Nel contesto di tale habitat si inserisce il castagno, specie che è stata favorita dall’uomo per la buona qualità del legname e del frutto, e che ha esteso il proprio l’orizzonte fino a dove avrebbe dovuto insediarsi il faggio. Ne consegue che il settore meglio conservato è il settore nord-orientale del Monte Cimino, proprio lungo i valloni dove scorrono i corsi d’acqua, dove i castagneti non sono riusciti a insediarsi. Il faggio è inoltre presente anche in prossimità delle piccole lacune createsi nella copertura dei cedui.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La faggeta vetusta è caratterizzata dalla presenza di numerosi alberi di grandi dimensioni, con fusto per una buona parte sgombero da rami e la chioma inserita in alto. La faggeta oggi è relegata alla sommità del Monte, al di sopra dei 900 m di quota, ed è uno degli ultimi frammenti relitti di un’antica ed estesa foresta, che Tito Livio descrisse come impenetrabile e spaventosa: la Selva Cimina. È caratterizzata da un popolamento puro con età dei grandi alberi che si aggira mediamente intorno ai 150 anni, con alcuni individui che superano i due secoli di età. A questo proposito è interessante osservare come gli individui più vecchi presentino una chioma espansa con grossi rami inseriti anche nella parte basale del fusto: questo particolare portamento testimonia che il loro sviluppo è avvenuto in un ambiente più aperto di quello attuale, per esempio in pascoli arborati dove venivano allevati i maiali allo stato brado.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La struttura del bosco del Monte Cimino nel complesso è ancora in prevalenza di tipo coetaneiforme, ovvero presenta numerosi grandi alberi di età simile. A seguito dell’abbandono colturale, degli schianti verificatisi nel corso degli anni e quindi del successivo processo di rinnovazione, il bosco inizia tuttavia a presentare caratteri di maggiore complessità. Infatti, secondo studi effettuati in quest’area, all’interno del popolamento è possibile riconoscere tre diversi gruppi di piante con una differente età media: piante giovani di età convenzionale attorno ai 30-50 anni con diametri compresi tra 5 e 30 cm, piante adulte di età convenzionale di 135 anni con diametri compresi tra 25 e 90 cm, e piante vetuste con età superiore ai 200 anni con diametro maggiore di 80 cm. La riscontrata coesistenza di gruppi di piante di diversa età dimostra quindi un principio di evoluzione naturale orientato verso un aumento della complessità della foresta. La faggeta, quindi, attraversa attualmente lo stadio denominato di transizione demografica, durante il quale il bosco coetaneo si trasforma gradualmente in una foresta vetusta a elevatabiocomplessità.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La faggeta rappresenta uno dei rari lembi di foresta vetusta di grandi dimensioni presenti in Europa: per questo, uno dei principali obiettivi è garantirne il mantenimento dell’estensione favorendone, se possibile, l’ampliamento e la conservazione.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Sentieri
Monte Cimino con i suoi 1050 m di altezza rappresenta la cima più alta della catena montuosa laziale dei Monti Cimini. La sua superficie è quasi interamente ricoperta da foreste, tra cui la faggeta vetusta oggi inserita della World Heritage List dall’UNESCO.
La faggeta è tutelata da una Zona Speciale di Conservazione la cui gestione è affidata all’Ente di gestione della vicina Riserva Naturale del Lago di Vico, ma il luogo ideale da cui partire per una sua visita è il borgo di Soriano nel Cimino. Qui di seguito viene descritto un semplice anello, scelto tra i numerosi sentieri mantenuti dalla Sezione del CAI di Viterbo, utile per visitare la faggeta e scoprire le sue caratteristiche e peculiarità.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La faggeta vetusta di Monte Cimino
Camminare tra i faggi più alti d’Europa
Lunghezza 2 km
Dislivello in salita 100 m
Tempo complessivo 1 ora circa
Difficoltà bassa per l’assenza di dislivello e la brevità del percorso
Per la visita al sito Unesco è possibile raggiungere il parcheggio della faggeta nei pressi della “Rupe Tremante”, distante circa 15 minuti in auto, seguendo le indicazioni per la frazione Canepina e quindi, appena usciti da Soriano, per la faggeta.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Il percorso si snoda lungo sentieri CAI e consente di attraversare con un breve anello i secolari boschi di faggio, accompagnati lungo il percorso dai famosi massi geologici che derivano dall’attività eruttiva del Monte Cimino. Una breve deviazione consente di raggiungere la cima di Monte Cimino, in cui troviamo una suggestiva torre e alcune testimonianze di antichi insediamenti dell’età del bronzo. Questo percorso, arricchito dalle numerose bacheche sulla fauna, la flora e le caratteristiche del luogo, rappresenta l’alternativa più semplice e suggestiva per visitare il cuore di questa antica faggeta.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Attività
La Tuscia Viterbese è un territorio incantevole e dai paesaggi vari e di notevole interesse, nonostante sia ancora poco conosciuta. Troviamo in quest’area due catene montuose, i Monti Cimini e i Monti Volsini, e due laghi vulcanici, il Lago di Vico e il Lago di Bolsena, sorgenti di acque termali, che convivono con foreste a perdita d’occhio e faggete collinari, oltre che con la Maremma Laziale e una costa che giunge quasi fino all’Argentario. Numerosi sono i borghi e luoghi storici che meritano una visita, tra cui la stessa Soriano nel Cimino, la storica Villa Lante di Bagnaia, primo esempio di giardino formale che si raccorda con una lecceta vetusta nel barco, e la famosa Civita di Bagnoregio, “la città che muore”. Questa porzione di Lazio è inoltre conosciuta per Bomarzo e per il Parco dei Mostri; per le città etrusche di Tarquinia e Tuscania; per le antiche ville e palazzi d’arte come il Palazzo Farnese di Caprarola, oltre che per la stessa Viterbo, per oltre vent’anni sede pontificia, che conserva ancora il soprannome di “antica città dei Papi”. Tra i numerosi eventi culturali merita una menzione la Sagra delle Castagne, una delle più belle e suggestive manifestazioni storico-rievocative d’Italia, che si svolge nel primo e secondo fine settimana di ottobre a Soriano nel Cimino.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Un viaggio nella Tuscia non può prescindere da un’immersione nella faggeta vetusta di Monte Cimino: percorrendo i numerosi sentieri che si sviluppano nel bosco, la sensazione è quella di entrare in un’altra dimensione, riscoprendo i suoni e il silenzio che solo questo ambiente unico nel suo genere sa regalare, come isolato in un contesto circostante alquanto diverso come naturalità dei paesaggi. La faggeta raggiunge il suo massimo splendore nei periodi primaverili e autunnali dove i vari colori, dovuti al naturale ciclo di vita delle piante, generano variazioni cromatiche irrinunciabili per tutti gli appassionati di fotografia.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
Nei numerosi sentieri che circondano e scendono a valle dalla faggeta vengono praticati molti sport tra cui escursionismo, trekking, corsa e mountain bike. I principali punti d’interesse della faggeta sono la torre e i siti proto-storici presenti sulla vetta del Monte Cimino, testimonianze di antichi insediamenti del bronzo nell’area; i massitrachitici sparsi per l’intera faggeta e creati dall’attività vulcanica di lave quarzo-latitiche oltre un milione di anni fa; la rupe tremante o “sasso menicante”.
Paolo Genovesi Fotoreportage Faggeta Monte Cimino
La vera attrattiva sono, tuttavia, i maestosi faggi secolari arrivati fino ai giorni nostri, grazie a una scelta autonoma pre-ambientalista della comunità locale legata alla bellezza straordinaria dell’ambiente: isolati, sulla cima di Monte Cimino, sono i veri protagonisti indiscussi di questa preziosa foresta.
Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna
Palazzo Vigiani, via Guido Brocchi, 7
52015 – Pratovecchio (Ar)
P. IVA 01488410513 info@parcoforestecasentinesi.it
La poesia del cinema contro le imposizioni del potere
– articolo di Alberto Corsani-
Il regista Andrej Tarkovskij a trentasei anni dalla scomparsa-La spiritualità di derivazione ortodossa è ben presente nel cinema di Andrej Tarkovskij, come egli stesso attesta nei propri diari (Diari. Martirologio, ed. della Medusa, 2002 e seg.), benché compaia inaspettatamente, nei dettagli, fuori da ogni sistematicità programmatica; ma sono talmente tanti nelle sue opere i retaggi definibili come «spirituali» che la componente «religiosa» è da considerarsi affiancata ad altre, alcune delle quali certamente di tradizione russa (il senso della natura, la poesia intrecciata alla storia) e altre legate alla passione viscerale del regista per la cultura occidentale: si pensi alla pittura italiana (particolarmente in Toscana), alla musica sacra (Bach, ma anche Pergolesi e Purcell), alla magia commista alla scienza (nel capolavoro Lo specchio, 1974, la levitazione della mamma del protagonista, l’ipnosi che serve a guarirlo, da ragazzo, dalla balbuzie).
Andrej Tarkovskij
Ora che lo ricordiamo a trent’anni dalla precoce scomparsa, avvenuta all’età di 54 anni a Parigi, dove aveva lottato per mesi con la malattia, cogliamo forse meglio il fatto che non uno solo di questi elementi, ma proprio la loro continua commistione sanciscono il fascino dei suoi film, mentre la maestria che aveva nel creare l’inquadratura, dilatare i tempi, lavorare sul sonoro lo rendono amatissimo dagli addetti ai lavori.
Il grande tema che percorre i film di Tarkovskij è l’identificazione di un popolo, quello russo, con la tradizione: tutta la tradizione, quella religiosa e quella civile, come somma magmatica di contraddizioni. Vivere di una identificazione significa tuttavia anche lottare con l’eredità di cui si gode. Tarkovskij non idealizza mai il passato di cui peraltro riconosce il carattere indispensabile: Andrej Rublëv (1966) racconta la vita del celebre pittore quattrocentesco di icone, e il momento più emozionante è la lunghissima sequenza della fusione della campana, estenuante scena di massa in cui tutto il popolo e i maggiorenti assistono al «miracolo» tecnico e umano. Solaris (1972) racconta, a partire dal romanzo fantascientifico del polacco Stanislaw Lem, di un pianeta sul quale gli scienziati che vi lavorano vedono materializzarsi i propri ricordi e i propri cari; Nostalghia (1983), ambientato in Toscana, e Sacrificio (1986, anno della morte), ripropongono esplicitamente il tema del sacrificio di sé, come ricerca di una possibile espiazione dei mali del mondo, non solo in chiave cristiana.
Il cinema di Tarkovskij, benché il primo film, L’infanzia di Ivan, risalga al 1962, ha fatto irruzione lasciando le proprie tracce nel nostro ambiente culturale soltanto a partire dalla fine degli anni ‘70: Lo specchio è giunto nelle sale italiane solo nel 1979, poco dopo arrivava Stalker. Ma anche gli scritti teorici del regista, figlio del poeta Arsenij, sono stati tradotti in quegli anni (Scolpire il tempo, Ubulibri, 1988 e sgg.), e sono di una ricchezza concettuale notevolissima, appena turbata dalla vis polemica che percorre anche i Diari, soprattutto rivolta ai burocrati di stato che hanno sempre minato le sue produzioni, considerandolo un dissidente pericoloso.
Lo era, in effetti, pericoloso: non per un’attività politica esplicita e diretta, ma perché quella che chiamiamo la sua spiritualità, o anche la sua poesia, incrinavano le rigidità e le sovrastrutture grottesche dei regimi: come in un episodio de Lo specchio, quando la protagonista (correttrice di bozze in una tipografia) rievoca l’angoscia provocatale dal dubbio di essersi lasciata sfuggire un errore orrendo sull’edizione del giornale andata in stampa, un errore che avrebbe accostato il nome di Stalin a un animale «screditato». Nel racconto del film l’errore poi non sussiste, ma l’averlo adombrato ci dice, sottilmente, quanto il potere fosse in realtà un gigante dai piedi d’argilla.
Ma quali forze potevano metterlo in crisi? Beh, proprio quelle che si dicevano prima, un po’ arbitrariamente comprese in una categoria abbastanza arbitraria e approssimativa come quella della spiritualità (ben studiata da S. Salvestroni, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Biella, Qiqajon, 2006): la creatività umana, l’appartenenza alla terra, la poesia (ricorrono spesso, ne Lo specchio, i versi del padre Arnesij Aleksandrovic), la mistica di un mestiere da imparare, la gestione gelosa dei propri sentimenti; a volte questi elementi possono entrare in conflitto («Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà» – Luca 9, 24): certo, tutti sono temuti dal potere, da qualunque forma di potere, dalle ideologie e dai loro bracci operativi. Tarkovskij reagiva a modo suo, con il linguaggio delle immagini, a ogni imposizione triviale finalizzata ad annichilire le coscienze. Ma non si pensi che solo ai regimi comunisti fosse da riferirsi la sua critica poetica: tutto ciò che rende l’uomo una macchina, inquadrabile e riconducibile a parametri esclusivamente numerici può essere messo in crisi dalle sequenze dei suoi film. La battaglia è tuttora in corso, purtroppo senza di lui.
“Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa”.
Breve biografia di Agostino Gallo-(1499-1570) Nasce ,con tutta probabilità, prima del 14 maggio del 1499, a Cadignano, odierna frazione di Verolanuova, nella piana bresciana, a poco più d’una ventina di chilometri da Brescia.E’ stato uno dei protagonisti dell’agronomia cinquecentesca.
Il Gallo pubblica, nel 1564, “Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.” L’opera conosce l’immediato successo, che nel Cinquecento si traduce nella ristampa abusiva, a Venezia, di una successione di edizioni che sottraggono all’autore ogni guadagno. Pubblichiamo 12 belle tavole xilografiche a piena pagina alcune delle quali acquarellate (vedi foto).Costretto dalle abitudini dei librai veneziani l’autore bresciano amplia, per ripubblicarla, l’opera, che si converte prima nelle Tredici giornate, la cui seconda edizione porta un’appendice di sette giornate, che in un’edizione successiva sono ricomposte, nel 1572, secondo un piano espositivo nuovo, nelle Venti giornate. La discutibile correttezza dei librai veneziani ha obbligato l’autore a ristrutturare l’opera, nella versione definitiva un capolavoro che riedita, in veste originalissima, tutto lo scibile agronomico di quei tempi. Lo scibile agronomico di Gallo, fu il primo ad introdurre in Italia la coltivazione del riso e del trifoglio,si fonda su quello dei grandi autori latini, in primo luogo di Lucio Columella, il massimo agronomo dell’antichità, ma l’agricoltura che prende corpo nelle pagine dell’opera rinascimentale è radicalmente diversa da quella del mondo latino, è la nuova agricoltura irrigua della Val Padana, l’agricoltura in cui l’acqua spezza la sovranità del frumento inserendo nella rotazione le foraggere che consentono il più ricco allevamento, l’allevamento da cui derivano i formaggi Piacentini e Lodigiani, gli antenati del Parmigiano Reggiano e grana padano. È l’agricoltura in cui hanno conquistato il proprio posto, nei campi lombardi, il mais, pianta americana, il riso, coltura araba proveniente dall’Andalusia, il gelso, destinato al baco da seta, una coltura fino a pochi decenni prima siciliana e calabrese, di cui Gallo comprende per primo le straordinarie potenzialità nel pedecollina prealpino.Autentico teorico delle nuove colture foraggere, Gallo propone la prima analisi razionale della tecnologia casearia lombarda, la tecnologia del formaggio grana, una tecnologia unica nel vastissimo panorama caseario europeo.Altrettanto interessanti di quelle casearie le pagine sulla trasformazione dell’uva in vino, nelle quali Gallo attesta la radicale differenza tra i vini italiani e quelli della Francia, dove si è già imposto il gusto moderno del vino, tanto che, come ricorda l’autore bresciano, i cavalieri francesi sono incapaci di bere il vino lombardo, che è ancora il vino medievale, acetoso, oscuro e torbido, privo di ogni aroma, perduto nella troppo lunga fermentazione. Non meno significative le pagine sull’agrumicoltura del Garda, al tempo di Gallo ricchissima attività economica fondata su una tecnologia sericola eccezionalmente avanzata.Iniziata con Gallo, l’agronomia europea del Rinascimento si compirà col capolavoro dell’epoca, l’opera del francese Olivier de Serres, che non cita mai l’autore italiano.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Il Libro-
Agostino Gallo “Le venti giornate dell’agricoltura e dei piaceri della Villa” stampato a Torino appresso gli eredi di Bevilacqua nel 1580.
Rara edizione cinquecentesca torinese di questa celebreopera, apparsa per la prima volta a Brescia nel 1564 col titolo di ”Le dieci giornate” e successivamente ampliata fino a diventare ”Le tredici giornate” (Venezia, 1566; col complemento delle ”Sette giornate” apparse nel 1569) ed infine ”Le vinti giornate” (Venezia, Percaccino, 1569). Sotto forma di dialogo tra Vinceno e Giovan Battista, l’opera affronta una moltissimi argomenti riguardanti l”agricoltura, la gastronomia: alimenti e loro conservazione, animali, , apicoltura, caccia e pesca, floricoltura e frutticoltura, olio, vino, risicoltura.
Agostino Gallo- (1564) stemma del dedicatario Emanuele Filiberto di Savoia sul frontespizio. acquerellato all’epoca-Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Bello stemma del dedicatario Emanuele Filiberto di Savoia sul frontespizio. acquerellato all’epoca.
Illustrato con 12 belle tavole xilografiche a piena pagina alcune delle quali acquarellate (vedi foto).
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Agostino Gallo- (1564) Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa.
Grazia Deledda- Nuova luce sul suo esordio letterario-
– Articolo di Fabrizio Federici-
Nel 2021 ricorreranno 150 anni dalla nascita (Nuoro,1871) di Grazia Deledda, l’autrice di “Canne al vento” ed “Elias Portolu”, Nobel per la Letteratura 1926, scrittrice poliedrica che tanti critici hanno cercato inutilmente d’ inquadrare nei piu’ vari filoni letterari, dal verismo ( ebbe, in effetti, le lodi di Luigi Capuana, per il suo romanzo del 1896 “La via del male”, e di Giovanni Verga) al regionalismo, al decadentismo, all’ esistenzialismo (dato anche il suo interesse per Dostoevskij e Tolstoi) . Neria De Giovanni, scrittrice e giornalista, presidente dell’ Associazione Internazionale Critici Letterari, organizzatrice del “Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo”, ha pubblicato, ultimamente, un altro saggio sulla Deledda ( cui ha dedicato, sinora, 15 libri): “Grazia Deledda- Corrispondenze giovanili” (Nemapress ed., Alghero,e. 15,00).
Saggio in cui l’ Autrice evidenzia la falsità del clichè che vorrebbe la Deledda “scrittrice per caso”, esordita nella letteratura per una serie di circostanze fortuite: in realtà, la scrittrice nuorese inizia a scrivere a soli 17 anni, pubblicando alcuni racconti, “Sangue sardo” e “Remigia Helder”, sulla rivista romana “L’ultima moda”, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa testata sarà poi pubblicato, a puntate, il romanzo “Memorie di Fernanda”, mentre nel 1890 uscirà sempre a puntate ,sul quotidiano di Cagliari “L’avvenire della Sardegna”, firmato con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo “Stella d’Oriente”; e a Milano, presso l’editore Trevisini, “Nell’azzurro”, libro di novelle per l’infanzia.La De Giovanni ricostruisce attentamente ,attraverso appunto le sue corrispondenze giovanili, gli esordi letterari e i primi amori della Deledda; a lungo combattuta – un po’come già Leopardi, diremmo -tra l’amore per la sua terra natale e l’uggia quotidiana provata nel vivere in “borgo selvaggio” che non puo’ che andarle sempre piu’ stretto.
Nel 1892 – vero anno chiave della storia d’Italia, che vede il primo governo Giolitti, la rivolta popolare dei fasci siciliani, lo scandalo della Banca Romana e la nascita, al congresso di Genova,in agosto,del Partito dei Lavoratori Italiani, il futuro PSI – la Deledda pubblica sul quindicinale “La vita sarda” la sua prima recensione, riguardante il romanzo “Vigliaccherie femminili”, del giornalista e scrittore Giulio Cesari. Nipote di quel Padre Antonio Cesari in passato protagonista di polemiche “cruscanti” sul purismo nella lingua italiana, e amico di Italo Svevo. E’ il primo passo di un viaggio che porterà gradualmente Grazia a contatto con l’ ambiente cosmopolita e poliedrico della mitteleuropea Trieste di fine ‘800- primi decenni del ‘900: la Trieste, in definitiva, di Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, del gallerista e critico d’arte Leo Castelli e di un certo James Joyce, agli inizi della sua parabola…
Nel libro, Neria de Giovanni ha potuto pubblicare – vera “chicca” filologica- la riproduzione dell’originale (4 fogli scritti fronte/retro) della recensione deleddiana del romanzo di Cesari, donatole, nel 2004, dall’avvocato Pasquale Giordano, professionjsta romano e collezionista d’arte; che l’aveva avuta, a sua volta, dal prozio Arturo Giordano, a suo tempo in corrispondenza con Grazia Deledda.
Sempre all’ aspra, quanto nobile, terra di Sardegna, appartiene un’altra autrice che ha pubblicato con Nemapress: Maria Teresa Petrini, medico, docente di geriatria all’ Università di Cagliari, membro dell’ AMSI, Associazione Medici Scrittori Italiani, nell’ XI legislatura eletta consigliere regionale e poi Presidente della commissione Cultura del Consiglio regionale sardo. “La magia dei ricordi nascosti” (2019, e. 18,99) . Un romanzo che trasporta invece il lettore nella Sardegna di oggi, sospesa tra sviluppo tecnologico e fascino del suo millenario passato, natura straordinaria e spinte indipendentiste: la Sardegna di Gavino Ledda, delle miniere del Sulcis e di…Graziano Mesina. Sì, perché al centro del romanzo c’è la vicenda di un sequestro di persona: che subisce Anna Marchi, medico originario di un paesino della Barbagia, improvvisamente rapita da professionisti del sequestro per torbidi interessi politici. In uno scenario da film, con tecnica appunto cinematografica, la Petrini narre le peripezie di Anna Marchi (suo possibile “alter ego”. diremmo), indulgendo a un joyciano ”giocare a rimpiattino” con sogni e ricordi.
Biografia di Grazia Deledda-Scrittrice italiana (Nuoro 1871 – Roma 1936). Scrittrice intensa e feconda, la sua fama si diffuse anche all’estero; nel 1926 le fu conferito il premio Nobel per la letteratura. La sua narrativa muove dal verismo a fondo regionale e folcloristico: cronache e leggende paesane, storie di passioni elementari e di esseri primitivi; ma a un mondo del peccato e del male, sentito come fatalità, e rappresentato con cupi accenti, si accompagnano o piuttosto si contrappongono un’ansia di liberazione e di riscatto, un estroso e romantico senso della vita, che trovano espressione soprattutto nella leggerezza idillica e trasognata del paesaggio.
Grazia DELEDDA
Vita e opere
Sposatasi nel 1900 con P. Madesani, si trasferì a Roma. Esordì giovanissima con novelle e romanzi, pubblicati in modesti giornali e riviste; la prima notorietà le venne dal romanzo Anime oneste (1895), presentato da R. Bonghi, a cui seguirono La giustizia, 1899; Dopo il divorzio, 1903, ristampato col titolo Naufraghi in porto, 1920; Elias Portolu, 1903; Cenere 1904; L’edera, 1908; ecc., che presentano inconciliati i termini del dualismo tra il mondo del male e l’ansia del riscatto. Ma via via, come quella visione religiosa che la D. ha della vita viene temperando il suo biblico rigore in un senso di cristiana pietà, così quel contrasto tra verismo e lirismo viene sempre meglio componendosi in un’aria incantata, favolosa, dove le vicende umane arcanamente s’intrecciano con quelle della natura e del paesaggio. Le novelle di Chiaroscuro (1912), i romanzi Colombi e sparvieri (1912) e Canne al vento (1913) segnano i varî gradi di questo processo di fusione tematica e stilistica, il quale culminerà nei romanzi e racconti del cosiddetto secondo periodo o maniera della D. (Il segreto dell’uomo solitario, 1921; Il Dio dei viventi, 1922; Annalena Bilsini, 1927; La vigna sul mare, 1932; Cosima, post., 1937; ecc.), che mostrano come la sua narrativa, affrancatasi ormai da ogni regionalismo, per certi aspetti partecipi (fra gli autori prediletti della D., insieme con Verga e i romanzieri russi, ci fu sempre D’Annunzio) di quell’atteggiamento della sensibilità e del gusto che va sotto il nome di “decadentismo”.
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana –
Grazia DELEDDA
Grazia DELEDDA
Grazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVES
RIGOLETTO di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave
RIGOLETTO di Giuseppe Verdi
Rigoletto è un melodramma in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma “Le Roi s’amuse” (“Il re si diverte”) dello scrittore francese Victor Hugo.Trama-In breve...Durante una festa a Palazzo, il Duca di Mantova confida a Borsa di voler corteggiare una giovane ragazza (Gilda), non sapendo però trattarsi della figlia del deforme Rigoletto (il buffone di Corte). Fa irruzione il Conte di Monterone maledicendo il Duca per aver disonorato sua figlie, e Rigoletto per essersi beffato del suo dolore di padre. Finita la festa, il Duca va a casa della giovane Gilda sotto mentite spoglie. I due si giurano amore eterno. Intanto Marullo, Borsa, il Conte di Ceprano e un gruppo di cortigiani partono per rapire Gilda (che credono essere l’amante di Rigoletto), per vendicarsi del buffone. Con l’inganno fanno partecipare al rapimento anche lo stesso ignaro Rigoletto. Il Duca vede quindi la giovane Gilda condotta a palazzo e ne approfitta per attentare alla sua virtù. Rigoletto giura vendetta verso il Duca per aver disonorato sua figlia.
Rigoletto assolda quindi Sparafucile – un sicario – per uccidere il Duca. Maddalena (sorella di Sparafucile) dovrà attirare il Duca in una locanda fuori Mantova, poi Sparafucile lo ucciderà. Maddalena però si innamora del giovane e propone al fratello di uccidere il primo straniero che bussi alla porta della locanda e ingannare così Rigoletto. Gilda – avendo ascoltato tutto e provando ancora un profondo sentimento per il Duca – si sacrifica, bussando alla porta della locanda. Rigoletto, preso il sacco in cui Sparafucile ha messo il corpo, si reca al fiume per gettarlo; solo allora si rende conto che il corpo non è del Duca bensì della sua amata figlia.
RIGOLETTO di Giuseppe Verdi
ATTO I
Nella sala del Palazzo Ducale di Mantova è in corso una festa. Cavalieri, Dame e Paggi si accompagnano a musica e scrosci di risa.
Il Duca di Mantova svela al fido Borsa il suo intento: insidiare una giovane ragazza che da tre giorni vede uscire dal Tempio e che ha già seguito fino a casa. Il Duca però ancora non sa che trattasi di Gilda, la figlia di Rigoletto (il deforme buffone di Corte).
Borsa cerca di dissuaderlo, facendogli notare tutte le belle dame presenti alla festa. Il Duca torna quindi a corteggiare la Contessa di Ceprano, donna su cui ha già puntato gli occhi.
Il Duca e la Contessa si allontanano insieme, provocando le ire del Conte che li segue. Rigoletto – assistendo alla scena – sbeffeggia il Conte.
Marullo intanto, racconta ad un gruppo di astanti, la nuova notizia: ha visto il gobbo e deforme Rigoletto insieme ad una donna, probabilmente sua amante.
Il Duca parla con Rigoletto dei problemi che sta avendo ad avvicinare la Contessa di Ceprano senza che il Conte li infastidisca. Rigoletto propone allora al Duca di esiliarlo o decapitarlo. Il Duca rimprovera il buffone di prendere troppo alla leggera le parole e di estremizzare lo scherzo. I due non sanno però che il Conte di Ceprano ha ascoltato questa loro conversazione.
Irrompe nella sala l’anziano Conte di Monterone; vuole vendicare l’onore di sua figlia, sedotta anch’ella dal Duca di Mantova.
Rigoletto segue la scena deridendo l’anziano uomo. Il Conte allora rivolge una maledizione verso il Duca di Mantova e verso Rigoletto, rimproverandolo di deridere il dolore di un padre. Due alabardieri portano via il Conte di Monterone, mentre Rigoletto rimane profondamente turbato da quelle parole.
Mentre ritorna a casa ripensando alla serata, Rigoletto viene avvicinato da Sparafucile. Il sicario gli offre i suoi servigi, offrendogli l’uccisione dei suoi nemici in cambio di denaro. Gli racconta di come utilizzi sua sorella Maddalena per attirare gli uomi in cerca di avventure, e poi li uccida. Rigoletto però lo allontana e torna a casa.
Entrato in casa viene accolto dalla figlia Gilda. Rigoletto ha paura che possa succederle qualcosa (il suo ruolo di buffone di Corte lo espone a farsi molti nemici). La giovane lo rassicura dicendogli che da quando si è trasferita lì (tre giorni prima) è uscita di casa solo per andare al Tempio. Gilda non conosce ancora il nome del padre, nè tantomeno è a conoscenza del suo ruolo a Corte.
Rigoletto raccomanda a Giovanna – la custode della giovane ragazza – di vegliare su di lei e proteggerla.
Rigoletto esce a controllare se qualcuno l’abbia seguito; furtivamente il Duca di Mantova entra in casa inosservato e scopre che Gilda è in realtà la figlia di Rigoletto.
Porge una borsa a Giovanna per farla tacere comprandone il silenzio. Raggiunge Gilda la quale, vedendolo, riconosce in lui il bel giovane che ha attirato la sua attenzione al Tempio. I due si giurano subito amore. Quando la ragazza chiede quale sia il suo nome, il Duca risponde di essere un povero studente di nome Gualtier Maldè.
Udendo dei rumori all’esterno, il Duca si allontana, credendo che Rigoletto stia rientrando in casa.
Intanto Marullo, Borsa, il Conte di Ceprano e altri cortigiani armati si stanno recando verso casa di Rigoletto per rapire quella che loro credono l’amante del buffone di Corte e così vendicarsi di lui. Lungo il tragitto incrociano proprio Rigoletto; al buio fitto egli non riconosce il gruppo di persone, solo Marullo si fa avanti. Gli dice che sono diretti a casa della Conte di Ceprano, per rapire la Contessa e portarla al Duca. Rigoletto – rassicurato – decide di unirsi a loro. Il gruppo di cospiratori lo obbliga a indossare una maschera e una benda che lo rendono incapace di vedere e udire.
Giunti sotto casa, piazzano una scala per salire sul terrazzo ed entrare nella casa; Rigoletto rimane fuori a tenere la scala per gli assalitori.
Il gruppo entra e rapisce la giovane Gilda, lasciando cadere in strada lo scialle della giovane. Dopo un po’ di tempo, non vedendo tornare gli assalitori, Rigoletto si toglie maschera e benda; riconosce allora la sua casa e vede in terra lo scialle della figlia.
Preso dalla disperazione, ripensa alla maledizione lanciata dal Conte di Monterone.
RIGOLETTO di Giuseppe Verdi
ATTO II
L’indomani mattina, il Duca di Mantova scopre che la sua amata Gilda è stata rapita: giura vendetta verso i rapitori. Poi però Marullo, il Conte di Ceprano, Borsa e gli altri entrano nel salotto del Palazzo Ducale, raccontando al Duca di aver rapito e condotto a Palazzo “l’amante” di Rigoletto.
Il Duca trasale, capendo subito trattarsi della sua amata Gilda. Si allontana dunque per incontrare la sua amata.
Rigoletto entra a Palazzo, fingendo indifferenza, cercando di scoprire dove i rapitori hanno nascosto sua figlia. Capendo che è in compagnia del Duca, si getta verso la porta della camera, ma i cortigiani si frappongono per bloccarlo.
Alla fine Gilda esce dalla camera e abbraccia il padre: gli confessa di aver perso l’onore e essersi innamorata di quello che credeva essere un povero studente.
Rigoletto giura dunque vendetta verso il Duca.
RIGOLETTO di Giuseppe Verdi
ATTO III
Una locanda diroccata, appena fuori dalla città di Mantova. Rigoletto e Gilda sono lì fuori in attesa; all’interno solo Sparafucile.
Gilda confessa al padre di amare il Duca di Mantova. Rigoletto le spiega che non è l’uomo che lei crede, che corteggia molte donne e poi le abbandona.
All’interno della locanda intanto entra il Duca di Mantova vestito da semplice Ufficiale di Cavalleria, chiedendo una stanza e del vino.
Sparafucile dà un segnale e sua sorella Maddalena entra nella locanda. Il Duca si lancia nel corteggiamento della giovane donna.
All’esterno Rigoletto e Gilda assistono alla scena. La giovane innamorata rimane scioccata dall’udire quelle stesse parole – una volta indirizzate a lei – rivolte a un’altra donna. Rigoletto le intima di partire in sella a un cavallo e andare a Verona; lui l’avrebbe raggiunta il giorno successivo.
Sparafucile esce dalla locanda per parlare con Rigoletto: riceve da lui una parte del denaro per portare a compimento l’uccisione del Duca. Rigoletto si allontana, impartendo al sicario un ultimo ordine: vuole essere lui stesso a gettare nel fiume il corpo senza vita del Duca.
Intanto la giovane Maddalena sta cedendo al fascino del Duca, tanto da provare un sentimento per lui. Sparafucile rientra nella locanda e fa accomodare il Duca in una stanza per la notte.
RIGOLETTO di Giuseppe Verdi
Gilda – non potendo sopportare di abbandonare il suo amato – torna verso la locanda, travestita da mendicante.
All’interno sente Sparafucile e Maddalena che parlano dell’imminente uccisione del Duca. Maddalena si è invaghita del giovane e vorrebbe salvarlo, proponendo al fratello di uccidere invece Rigoletto e rubargli il resto del denaro. Viste le rimostranze del fratello, Maddalena propone una soluzione alternativa: se qualcuno fosse entrato nella locanda prima di mezzanotte, l’avrebbero ucciso al posto del Duca e intascato il resto dei soldi da Rigoletto.
Sentendo queste parole, Gilda capisce che anche Maddalena è innamorata del giovane Duca. Decide allora di immolare la sua vita per risparmiare quella del suo amato: bussa alla porta della locanda e va incontro alla sua fine.
Rigoletto fa ritorno alla locanda: consegna il denaro a Sparafucile e riceve un sacco con dentro quello che pensa essere il corpo del Duca.
Parte verso il vicino fiume per gettarvi il cadavere. Arrivato alla sponda del fiume, ode però una voce in lonatananza: quella del Duca.
Rigoletto apre allora il sacco per vedere cosa contiene: vi scopre la figlia ormai moribonda. Gilda chiede al padre di perdonare questo suo gesto d’amore e di perdonare il suo amato Duca. Con queste parole la giovane si spegne.
Rigoletto urla il suo dolore contro la maledizione del Conte di Monterone e si accascia sul corpo senza vita della figlia.
Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Per la mano sinistra
La forma è limpida – per esprimere cose e opache.
Ma se, dalla porta in cui appaio, fossi già scomparso?
Certi giorni, che trascorrono senza di me.
Scrivere è un atto di violenza, un magico errore, una gioia senza nome.
La poesia non nasconde e non svela.
La forma della poesia confluisce in suoni che ne cancellano l’architettura.
Prima di scrivere, maturo la gioia di tacere.
Sciolse la scena del disastro con parole che risuonarono armoniose.
Somigliando a qualcuno mi scopro inimitabile.
Lo spostamento di un avverbio è più eversivo di una rivoluzione vittoriosa.
Le opere inessenziali hanno una grazia particolare.
I fiumi si differenziano per i detriti che trascinano.
***
La pertinenza del testo: modulare una passione.
Le perfezioni sono attimi.
La poesia è abitare desideri impossibili.
Il fulmine frantuma lo specchio che riflette il lampo.
Lo scrittore ha un solo dovere: essere cosciente delle proprie visioni.
Perché la mia lingua sia vera, deve averla nutrita il buio.
L’immobilità: limite estremo del rallentamento del moto.
Lo scoglio non esaurisce il flusso delle onde.
Scrivo per prepararmi a scrivere in qualche impossibile giorno
Siamo perduti, solo se siamo stati ingiusti.
Disimpari lo stupore e cominci a morire.
Disorientare il presente: sopravvivere.
***
Allo scrittore accade di anticipare se stesso senza conoscersi ancora.
La parola è indicibile. Ma occorre scrivere per saperlo.
Morirò per non essere sopraffatto dalla morte.
Maldestri e inutili, stupidi e balordi. Eletti.
Qualcuno si crede originale per eccesso d’ignoranza.
Il linguaggio può trasformare, ma bisogna esserne all’altezza.
Non c’è nulla di conforme: mi aiuta la scienza del deforme.
Nascere sempre nel tempo sbagliato.
Scrivo per ripetere ciò che non sono. Per allontanarmi da me
Non avendo più nessun desiderio, come posso desiderare la morte?
Solo quando la casa va a fuoco, è visibile la sua architettura.
***
Chi è cieco grida di non vedere. Non scrive aforismi sulla cecità.
Distruggere quel suono solo per aprire le orecchie a un altro suono.
L’arte, consumando opere, non si annulla ma cambia forma.
La parola è trasparenza dell’io all’esperienza dell’abisso.
Non si crea verità ma la si dissotterra.
Prima necessità: esprimersi. Prima necessità: ammutolire. Da dove si inizia?
Un uomo che guardi se stesso da lontananze estreme e trovi un linguaggio possibile.
La forma dell’io, alla radice, è visione del non-io: vertigine dello specchio.
Un dio – ma simile al fumo che sale dalle macerie.
La forma più primitiva del sapere è un soffio di vento.
Il passato non è mai certo della sua estinzione.
***
La follia, come l’arte, presume di sconfiggere la morte.
La scrittura è spartito per la voce.
Troppe parole, nella pagina, e pochissimi ricordi, nella mente.
Uccidermi sarebbe perdere il flusso vivente di cui solo io sono occhio e orecchio.
Avvicinarsi alla mancanza di maschere è la via maestra per togliersi la vita.
Scrivere è parlare di un vento di cui non ricordiamo il suono.
Nessuna interiorità è personale.
Tutte le idee vengono dal sonno.
Solo chi si sveglia può osservare dormire.
Dormire è appartenere al segreto di un altro.
All’interno del sonno c’è un risveglio di cui la scrittura è complice.
Il testo è il risveglio ma il fondo della parola è il sonno.
Stile: gioco di equilibri attorno a un precipizio.
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La scrittura è il sogno illegittimo ma reale della resurrezione.
Il sonno rende la veglia un territorio misterioso.
La vita: progressivo misconoscimento del mondo.
Ci sono fantasmi che devono esistere per noi e oltre di noi.
Farsi sopraffare dalle voci è la volontà di creare un non-luogo della letteratura.
Il punto più in ombra corrisponde al centro della luce più intensa.
Disegni fatti di fuliggine e cenere, di ciò che è esistito ed è bruciato.
Il vero incendio è dove soffochi, non nel chiarore delle fiamme.
Ricordo impossibile: il sole sotto il cuscino.
L’opera deve restare segreta, se occorre, contro il suo stesso autore.
Annotare, ma lentamente.
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Missione impossibile ma necessaria: trovare le frasi lucide dello stordimento.
E’ l’opera stessa a inventare l’io nel quale vuole esprimersi.
La scrittura può descrivere i colori, ma ogni descrizione è un’ombra.
La musica tradisce il corpo meno della parola.
Della musica attrae il silenzio suscitato dalle note.
Scrivere: emorragia che non può essere fermata.
Ci sono ferite che richiudere sarebbe un delitto.
Aveva molto buio, nelle dita.
Accettare il fallimento personale come la linfa necessaria.
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Perseverare nel sogno: scegliere il delirio contro l’annientamento.
Alcuni intervalli, dentro il mio sonnambulismo: gli atti vitali.
Riposare dai miei folli. Non vivere più in loro ostaggio.
Ritrovare, sotto il torace, la gaia, palpitante oppressione di creare.
Letteralmente non togliere mai la penna dal foglio.
Stupirsi per chi ti chiede cosa stai scrivendo.
I libri: la propria ferita, inarrestabile, scesa a patto con delle cicatrici.
La «cifra del tappeto» di tutta la mia opera è la necessità di vivere nonostante.
Per chi esige una certa luce, l’ombra non sarà mai sufficiente.
Non vivere neppure un attimo senza le potenzialità della parola.
Pagina mai vuota – inesauribile esorcismo.
Silloge dal titolo celaniano, incantevole: Da quale rupe riflessa (finalista al Premio Lorenzo Montano 2021, sezione «Raccolta inedita»). Ossia: dall’impossibilità di guardare in faccia, senza schermi, la luce. E qui si parla di giochi sui sipari che sono riverberi di oggetti deprivati di consistenza, ombre d’acqua, resti del diluvio.
Marco parla di uno «stormire» come brezza della dismisura oceanica più che brusio di foglie. L’acqua e l’aria appaiono elementi trionfali e trionfano, vorticosi e dolorosi elementi, sulla terra e sul fuoco, esperienze deludenti. Che il poeta si sia annidato nel riflesso per deviare l’urlo del ‘reale’ lacaniano, della Chose?
Protezione, forse, raffica parata continuamente per un indice di salvezza. Ercolani tenta di mettersi salvo, lungi dal suo credo ogni senso o sentimento della Redenzione. Sparire è il suo traguardo, nel silenzio, tra le ammirate nuvole, tra i fumi e gli ectoplasmi di una Genova opaca e graffiante, sparire, walserianamente. Quasi un sì, quasi un’obbedienza in extremis. Obbedienza all’altrove, alle nebbie.
Poesia mentale, tutta tesa alla cosa estraente, al nucleo e alla polvere particellare. Fino al sinistro di certe ombre persecutrici. Ombre che sopraggiungono allorché la distanza si fa più netta ed esatta. Appare allora il desiderio taciuto del salto, l’affondo nel buio. Non un buio romantico, decadente, ma deangelisiano, irto di editti e spaventi.
Tutto avviene, scrive il poeta, come se «quel lungo incredibile altrove […] non esistesse e l’aria fosse / ancora quel precipizio del volo perfetto / sopra la pietra finale».
Alfonso Guida
Marco Ercolani, Psichiatra e scrittore
***
Non parli la nostra lingua
arrivi e non parli:
guardi quel doppio sole,
come i fuggiti dal mondo guardano,
senza lacrime dopo la fuga,
la doppia luce e non abbassano gli occhi.
Arrivi, e questo cielo a picco
è tuo.
***
Cenere sognata dai morti
numero primo –
sillaba.
Senza una parola che rompa il muro della lingua
posso trascrivere me?
Vagabondo nelle stazioni
ma non ho occhio di folle.
La corda dondola vuota dal ramo.
Quale testa sprofonderà nell’ombra?
***
Qui non foglie, non alberi,
ma l’immagine esatta di una porta
nel profumo del giorno.
I venti, sulla maniglia,
indifferenti alla morte.
Torniamo
verso la luce bianchissima
inventiamo
un cielo mai, mai
notturno.
La vista ritorni,
del mare muto.
Marco Ercolani è nato nel 1954 a Genova, dove vive e lavora come psichiatra. S’interessa alla poesia contemporanea e al rapporto arte-follia. Numerose sono le sue pubblicazioni, in ambito sia scientifico sia letterario, sia come unico autore sia in coppia con Lucetta Frisa.
Marco Ercolani
* Marco Ercolani, Nel fermo centro di polvere (Il Leggio, Chioggia (Ve), 2018
LA POESIA COME ENIGMA NECESSARIO
Marco Ercolani è nato a Genova nel 1954. E’ psichiatra e scrittore. Artista complesso: narratore, critico letterario, saggista, curatore di collane, aforista, poeta. Insomma un autore che pratica la parola ed usa il linguaggio nelle sue forme, stili e strutture diverse. Come ha scritto Dario Capello, questo “È il libro di un poeta che da sempre conosce il senso della vertigine, del doppio movimento, imprendibile, delle cose e della lingua che le nomina. La parola di Marco Ercolani è qui scagliata, scagliata fuori dal suo stesso fluire ritmico, dopo essere stata a lungo macerata, febbrilmente meditata.” E’ la padronanza del linguaggio che prima di tutto colpisce in questa raccolta raffinata, articolata, profonda. La lingua qui “ritrova una forza non comune, un’originalità di dizione che altri poeti hanno perduto o non sanno trovare” (così scrive Antonio Devicienti nella sua introduzione) per cui la raccolta è portatrice di un piacere in sé, quello di incontrare una scrittura forte e piena, consapevole e ricca di sfumature. In un momento storico in cui la perdita di qualità del linguaggio va di pari passo con lo scadere della qualità della vita sociale e culturale del nostro Paese, credo che Ercolani ci offra una via di riflessione critica necessaria. Persona che analizza lucidamente, spietatamente il proprio lavoro, autore critico con se stesso, come con gli altri, Ercolani, nell’intervista curata da Gabriela Fantato che arricchisce il libro, chiarisce il senso del suo lavoro e della sua poetica. “La poesia, in quanto enigma, è esperienza dell’inconciliabile. Tutto non è mai come appare: l’universo di ogni parola ha l’inafferrabilità e la potenza del miraggio. La magia del canto incrina la compattezza del discorso, lo dissolve…”. La scrittura di Ercolani, per sua stessa indicazione, cerca “sequenza musicali” che nascono non dalla retorica (vera o presunta) della rima, ad esempio, ma dalla forza intrinseca dei significati che il poeta esprime, allude, indica, scolpisce. La poesia assume così un senso ontologico, fluttuante magari in certi momenti, ma sempre determinato. La poesia di Ercolani è un viaggio che cerca l’Altro dentro di noi e così facendo si sorprende e sorprende il lettore di pari passo. Il lirismo di Ercolani è di una forma diversa da quello abituale: siamo dinnanzi ad un lirismo “metafisico” non perché trascenda le cose, ma perché accede alle cose, entra nel vivo della materia poetica. Un lirismo quindi che sa fondere intelletto ed emozione, riflessione e visione intuitiva. La poesia di Ercolani è colta, ricca di riferimenti espliciti ed impliciti, ma mai pedante; egli sa connettere pensiero e visionarietà, un po’ come accade appunto per la musica. La scrittura nella poesia di Ercolani cerca il senso ed è senso essa stessa nel momento in cui si dice; la lingua accade e così si descrive, riflette su se stessa, propone una direzione a se stessa nel momento in cui indica le cose. Non ci si attenda quindi una poesia cerebrale, intellettualistica: “Nel fermo centro di polvere” è fuoco, passione che brucia, segreto che non si svela, miraggio necessario del nostro andare.
Stefano Vitale
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Lei tace, tu abbandoni le braccia.
Torna segreto, il sole.
Lettere ancora bianche, mai scritte, mai perdute.
Aprono i cancelli. Ma del vento nessuna traccia.
Soffierà, forse.
In cima alle pietre.
Buio agli occhi. Vertigine.
Naufraghi sul tavolo.
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Torre alta. Parto da qui.
Il bianco che le onde lasciano alla notte
è schiuma viva, dove l’acqua evapora:
restano, sempre, le fitte d’ombra dei versi.
Io parlo da qui:
insperabile reale limpida
voce.
Respiro, ma ai miei giorni
manca qualcosa di terrestre e di dolce.
Il lavoro poetico?
Rigorosa dilapidazione.
Essere nel nulla e non salvarsi. Cancellare
le parole nel foglio vuoto.
Leggere le pagine di chi fu vivo
e guardare la bellezza del cielo:
ritardare il congedo dal mondo,
léggere, non
scrivere più,
smettere di ripararsi dal cielo.
Finalmente
non capire.
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Le maschere della mente
Immobile durante il giorno a leggere e a pensare,
ma ogni notte, la testa sul cuscino,
le gambe ferme, a perdifiato
nella terra lucente per sognare,
nella terra sconosciuta, in cima ai torrenti,
fra i monti percossi dai venti,
correre,
con cose strane da guardare,
nessun incubo a potermi spaventare…
Ma poi svegliarsi
e inutile e lungo torna il giorno.
Impossibile trovare la terra non vista,
impossibile riascoltare il sogno:
muto alle parole adulte
diventare il bambino trasparente
che abita la stanza di niente,
fumo di parole
le maschere della mente.
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Ostuni
Dove sono le pietre che l’occhio inventava fra viso e mondo,
la masseria tra gli ulivi, le mura circolari e in alto
l’abbagliante, bellissima Ostuni?
La ricordo e la cerco
mentre scrivo all’interno del foglio,
lettera sotto lettera:
sotterro le frasi
concentro lo spazio
attendo che si laceri
la mia invisibile, affilata parola.
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Tornare e tacere
A chi mi chiede, scrollo la testa.
È un no a ogni domanda:
appena ricorderei
qualcosa come odissee e ciclopi,
uno spazio invaso da navi e acqua,
il mondo interrotto dal ritmo del navigare
fra cieli sotterranei.
Il segreto è tornare, e tacere.
Ciò che ha vibrato
tradurlo in brevi bisbigli e rinascere
in silenzio, la nebbia dissolta,
in una vaga fedeltà
di testimoni di nulla.
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Note sull’Autore Marco Ercolani (Genova, 1954), è psichiatra e scrittore.
Per la narrativa scrive: Col favore delle tenebre, Praga, Il ritardo della caduta, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala, Il tempo di Perseo, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa, Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser 1954-1956, Destini minori.
Per la saggistica: Fuoricanto, Vertigine e misura, L’opera non perfetta, Il poema ininterrotto, L‘archetipo della parola. René Char e Paul Celan e Fuochi complici.
Per la poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore, Nel fermo centro di polvere. I suoi taccuini sono raccolti in Nottario. Partecipa al convegno internazionale Bruno Schulz: il profeta sommerso. Suoi testi in riviste (Nuova Corrente, Poesia, La mosca di Milano), antologie (Altra marea) e siti web (La dimora del tempo sospeso, Doppio zero).
Vince il Premio Montano, il Premio per l’Aforisma “Torino in sintesi”, il Premio Morselli e il Premio Smasher. In coppia con Lucetta Frisa cura “I libri dell’Arca” e scrive: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane (Âmes inquiètes, tr. fr. di Sylvie Durbec, Éditions des états civils, 2011), Sento le voci (J’entends les voix, ibidem, 2011), Il muro dove volano gli uccelli, Diario doppio e Furto d’anima.
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Marco Ercolani
Nota biobibliografica–Marco Ercolaniè nato a Genova nel 1954, dove vive e lavora come psichiatra. Scrive racconti fantastici e vite immaginarie e indaga il rapporto arte/follia. Tra i suoi libri di narrativa: Col favore delle tenebre (Coliseum, 1987), Vite dettate (Liber, 1994), Lezioni di eresia (Graphos, 1996), Sindarusa (Tabula fati, 1997), Il mese dopo l’ultimo (Graphos, 1999) Carte false (Hestia, 1999), Il demone accanto (L’Obliquo, 2002), Taala (Greco & Greco, 2004) e Il tempo di Perseo (Joker, 2004.) È autore di due volumi di critica poetica, Fuoricanto (Campanotto, 2000) e Vertigine e misura (La vita felice, 2008). Ha curato il volume collettivo Tra follia e salute: l’arte come evento (Graphos, 2002) e il convegno L’arte della follia (Genova, Biblioteca Berio, 2004.) Suoi testi sono pubblicati in Riga, Poesia, Il gallo silvestre, Ipsofacto, Nuova Corrente, Anterem, La clessidra, Nuova Prosa, La mosca di Milano, Ciminiera. È stato redattore di Fanes, rivista di cultura psicoanalitica, e di Arca. Quaderni di scrittura. Con Luisella Carretta ha ideato la collezione di arte e scrittura Scriptions. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto L’atelier e altri racconti (Pirella, 1987), Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000) e Anime strane (ibidem, 2006) e dirige per le edizioni Joker «I libri dell’Arca».
Louis GILLET-Gli Artisti francesi in Italia-Copia anastatica della Rivista PAN n°8 del 1934
Louis GILLET- Storico e critico d’arte francese-(1876–1943)
Louis GILLET– Storico e critico d’arte francese, nato a Parigi l’11 dicembre 1876; ivi morto nel luglio 1943. Il suo primo saggio, intorno alla cattedrale di Chartres, orientò il suo gusto verso il Medioevo. I volumi giovanili su Nos Maîtres d’autrefois e Les primitifs français (1904) chiariscono la natura di una mentalità che si vale della erudizione positivistica ma sa trasfigurarla nell’emozione del bello e nelle relazioni della sensibilità. Gli studî successivi lo interessarono alla conoscenza dell’arte rinascimentale. Il Raphael, scritto durante un viaggio in Italia, è del 1907. Appena uscito dalla Normale fu lettore a Greifswald, poi docente alla Université Laval di Montréal. Altri viaggi in Italia gli consentirono di ammirare la pittura giottesca e fu spinto a scrivere l’Histoire artistique des Ordres Mendiants (1912), dove tracciò il quadro dell’influenza della spiritualità francescana dal Due al Seicento. Dell’anno appresso è l’Histoire de la Peinture Française du XVIIéme et XVIIIéme siècle, di grande perspicuità espositiva. Partecipò alla prima Guerra mondiale e la sua mente acuta di osservatore e di storico ne ricavò vivaci considerazioni raccolte in L’assaut repoussé (1919) e in La bataille de Verdun (1920). Gli studî su L’art flamand et la France erano apparsi mentre durava la guerra. La sua attività continuò intensamente con il libro su Watteau (1921), la redazione del vasto quadro di sintesi su l’Histoire des arts en France (1922) e La Peinture dans les Pays-Bas au XVIéme; XVIIéme et XVIIéme siècle e delle arti in America. Riprese gli studî francescani di cui sono frutto i due volumi su Saint-François d’Assise (1925) e Sur les pas de Saint-François d’Assise (1926); ampliò la precedente trattazione manualistica in La peinture française: Moyen-Age; Renaissance (1928); diede forma definitiva al saggio su La Cathédrale de Chartres (1929). In Cathédrales (1935) studiò le cattedrali di Reims, di San Giacomo di Compostella e ancora quelle di Chartres e di Assisi. La Cathédrale vivante (1936) è un’analisi che cerca di cogliere il senso intimo delle grandi chiese francesi. È stato redattore dal 1917, di letterature straniere alla Revue des deux mondes, e dal 1934 critico letterario all’Écho de Paris. Nel 1929 pubblicò la corrispondenza inedita tra Sainte-Beuve e de Vigny. Libri di viaggio e reportages politici sono Le tapis enchanté, Rome et Naples e Londres et Rome (1936). Collaborò anche, per la storia dell’arte francese, all’Enciclopedia Italiana. Accademico di Francia dal 25 novembre 1935.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Louis GILLET-Gli Artisti francesi in Italia-
Louis GILLET-Gli Artisti francesi in Italia–
Louis GILLET- Storico e critico d’arte francese (1876–1943)
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Articolo di Antonio Tarallo
Santa Teresa d’Avila
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica-Non solo una grande santa, dottore della Chiesa, ma anche una sublime poetessa-“Il poeta comincia dove finisce l’uomo”, così sentenziava il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset. Santa Teresa d’Avila Dottore della Chiesa, nella sua profonda esperienza mistica, si è servita anche della poesia, oltreppassando così con i suoi componimenti quel guado che divide l’uomo dall’infinito.
Eppure troppe volte sono stati dimenticati i suoi versi in cui è possibile trovare un vero e proprio scrigno di bellezza e di spiritualità. Al loro interno, infatti, è possibile persino scovare quella che sarà poi conosciuta comunemente la “trasverberazione del cuore”, una delle grazie mistiche di cui santa Teresa spiegherà nella sua Vita, l’autobiografia della santa: il dardo, la “freccia” dell’Amore di Dio colpisce il suo cuore, lo tramuta e lo sublima facendolo avvicinare al Cuore di Dio in nozze mistiche. Nozze che, in molte occasioni, sembrano essere celebrate dalla santa nei suoi componimenti poetici: santa Teresa ascende a Dio così come discende nelle profondità della poesia.
Sfogliando queste pagine poetiche, è possibile dividere la produzione in versi in tre determinati gruppi: prima di tutto troviamo le poesie mistiche nelle quali si respira tutta la spiritualità della santa; il secondo gruppo comprende le poesie che hanno come oggetto le feste liturgiche come il Natale, l’Epifania o l’Esaltazione della Croce; e, infine, il terzo gruppo, scritte – come lei stessa le definisce – con “stile di fratellanza e di ricreazione”: sono versi che celebrano avvenimenti interni alla comunità religiosa per allietare le consorelle della comunità monastica.
Tre diverse situazioni poetiche, ma con un elemento in comune ben preciso: la Bellezza. Santa Teresa è stata sempre affascinata – fin dalla fanciullezza – dalla bellezza artistica, nelle sue diverse espressioni, ma specialmente era attratta dall’arte pittorica e scultorea. Più volte, nel libro della sua Vita, si sofferma sul piacere che prova per l’armonia scaturita dalla musica del fruscio della campagna che la circonda. Più volte si sofferma sulle note di una canzone che ha ascoltato. E’ proprio questo, infondo, l’humus dell’anima da cui nasceranno i suoi versi, frammenti poi di una Bellezza ancora più vasta, quella del Signore. Un riassunto della sua visione poetica è possibile trovarlo in questi suoi versi che delineano, tratteggiano con efficacia il suo animo poetico dedicato a Dio: “Bellezza che trascendi/ ogni bellezza!/ Senza ferire, fate soffrire;/ senza dolore, voi fate morire”. Passare in rassegna tutte le poesie che ha composto santa Teresa sarebbe impresa alquanto ardua visto la molteplicità di temi affrontati. Cercheremo, allora, di fare una breve selezione.
Vivo sin vivir en mi (Vivo ma non vivo in me) è questo il nome di una delle poesie-canzoni più importanti della sua produzione. I versi racchiudono ossimori e altre figure retoriche assai care ai poeti, di ogni epoca: “Vivo ma non vivo in me/e attendo una tal vita/ da morirne se non muoio”.
E ancora “Questa divina prigione/ dell’amore in cui vivo,/ ha reso Dio, mio prigioniero/ e libero il mio cuore;/ e causa in me tanta passione/ da morirne se non muoio”. Del tutto particolare, rimane la seconda tipologia di produzione, quella legata alle feste liturgiche. Il loro maggior merito è quello di aver introdotto nei monasteri carmelitani il ricorso alla poesia come componente festiva della vita religiosa. Un tema fondamentale – e non poteva essere altrimenti – per l’ordine carmelitano è quello della Croce che santa Teresa canta in diversi componimenti da condividere con le proprie consorelle. E’ il caso di En la Cruz está la vida (Nella Croce risiede la vita), composta per le religiose del monastero di Soria, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce: “Le religiose la cantano durante la processione che fanno in detto giorno per i corridoi del monastero, recandosi al luogo della sepoltura comune, sotto il coro inferiore. E’ una funzione commovente: si procede a croce alzata, e le religiose tengono in mano rami di palma e di olivo”, così si legge in un antico manoscritto.
I versi che santa Teresa compone per quest’occasione sono versi dal ritmo serrato, scandito da sillabe che vengono cadenzate in rima. Bisogna ricordare che questi componimenti vivevano poi dell’improvvisazione delle consorelle. Si può, dunque, solo immaginare l’effetto vero e proprio che potevano avere. Altra occasione, il Santo Natale: nei monasteri carmelitani si respirava un’aria di particolare gioia durante le feste natalizie; ogni comunità aveva le sue modalità di festeggiare e molte di queste sono state introdotte dalla stessa Santa Teresa e dall’altro poeta carmelitano, San Giovanni della Croce. E’ possibile trovare il tema della notte santa nelle seguenti poesie: Pastores que veláis (Pastori che vegliate), nel componimento Al nascimento de Jesús (Per la nascità di Gesù), e ancora nella graziosa canzone En la noche de Navidad (Nella notte di Natale).
L’entrata di una nuova sorella nel Carmelo era poi celebrata come una grande festa. Ed è così che nascono per queste occasioni speciali alcuni poemetti che riescono a offrirci una sorta di fotografia della vita nei monasteri del Carmelo: “Il leggiadro vostro velo/ dice a voi di stare in veglia/ di montar la sentinella, fino a che lo Sposo venga./ Nella vostra mano accesa/ sempre abbiate una candela;/ sotto il velo state in veglia”.
Santa Teresa, una voce poetica votata al Signore; un forziere di ricordi e immagini che andrebbe riscoperto perché la mistica passa anche per la poesia.
Articolo di Antonio Tarallo-Fonte ACI Stampa
Santa Teresa d’Avila e la poesia mistica
Roma , martedì, 15. ottobre, 2024 16:00 (ACI Stampa).Articolo di Antonio Tarallo Santa Teresa d’Avila, una delle più affascinanti figure della Chiesa.Teresa d’Avila e le sue Opere: pagine di una profondità spirituale inaudita. Leggere le sue parole è come percorrere un viaggio verso Dio. Basterebbe leggere solo alcune righe della sua “Vita”, opera autobiografica della santa, per rendersi conto di quanto la santa mistica spagnola sia importante per comprendere la storia della Chiesa; di quanto sia preziosa la testimonianza dei Santi per il cammino di ogni fedele: “Chi ha come amico Cristo Gesù e segue un capitano così magnanimo come lui, può certo sopportare ogni cosa; Gesù infatti aiuta e dà forza, non viene mai meno ed ama sinceramente. Infatti ho sempre riconosciuto e tuttora vedo chiaramente che non possiamo piacere a Dio e da lui ricevere grandi grazie, se non per le mani della sacratissima umanità di Cristo, nella quale egli ha detto di compiacersi. Ne ho fatto molte volte l’esperienza, e me l’ha detto il Signore stesso”.
La “Vita” è un’opera fondamentale per entrare nella biografia della Santa d’Avila. I primi 5 capitoli esprimono l’intento fondamentale della Santa e narrano alcuni fatti salienti della sua vita. Il capitolo 6 è dedicato a San Giuseppe e alla devozione a lui rivolta. Bisogna ricordare che su 18 case che Teresa fonderà ben 12 le intitolerà a San Giuseppe. Nei capitoli 7,8,9 e 10 Teresa dà consigli preziosi a coloro che, progressivamente si danno all’orazione. Dal capitolo 11, la Santa accenna ai vari metodi per praticare l’orazione. E per poter meglio spiegarsi farà uso di molte similitudini. Da questo momento in poi, il testo assume l’aspetto di un trattato sull’orazione. Il capitolo 23 è la descrizioni delle immense esperienze mistiche avute nella sua vita. L’ultima parte del libro, infine, racconterà di come si può parlare di una “nuova vita” per la Santa dopo l’incontro intimo con il Signore.
Bisogna poi ricordare un altro testo fondamentale, il “Cammino di perfezione”, testo composto da quarantadue capitoli, che riesce a distillare tutta la sostanza dell’insegnamento teresiano: l’orazione; le virtù evangeliche; la Chiesa e Cristo. E’ un’alternanza di confidenze e consigli personali. E’ appunto un “cammino” al quale il lettore è invitato: l’autrice, lo guida, lo consiglia, lo esorta nella strada che porta alla perfezione.
Ma, sicuramente, il testo più famoso della Santa rimane “Il Castello interiore”. Il testo è un approfondimento dei due libri precedentemente redatti: è uno sviluppo ancor più intenso. Si ispira a un castello con sette stanze, come immagine dell’interiorità dell’uomo, introducendo il simbolo del baco da seta che rinasce farfalla. Nelle pagine, l’eco del “Cantico dei Cantici”, libro del Vecchio Testamento. Troviamo, infatti, una delle figure-immagini più care a Santa Teresa d’Avila (e a San Giovanni della Croce, anche lui Carmelitano): il simbolo dei “due Sposi”. Bellissima l’immagine dell’Amato (Cristo) e dell’amata (Santa Teresa) che si snoda in un dialogo amoroso. Grande importanza è data alle virtù evangeliche che per Santa Teresa d’Avila rappresentano la base, le fondamenta di tutta la vita cristiana e umana: il distacco dai beni terreni, ossia la povertà evangelica; la fraternità del mondo; l’umiltà come amore alla verità; la determinazione e la perseveranza come frutti del coraggio cristiano; la speranza che viene descritta come “sete di acqua viva”.
Santa Teresa d’Avila -Scultura del Bernini
In tutto questo percorso è importante, ovviamente, la preghiera, l’orazione. Il fare silenzio dentro sé per poter esplorare le “sette stanze”dell’anima. Una preghiera che si amplia, si sviluppa con la crescita nella vita stessa. In sintesi, più si cresce nell’orazione, più si entra in sé stessi nel poter così dialogare con Dio e unisrsi spiritualmente con Lui.
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