Roccantica in Sabina-già Rocca d’Anticodall’antico nome latino “Rocca de Antiquo“:< poichè se vi ha luogo in Sabina che d’ogni parte vanti tanto di memorie profane de’ secoli di Saturno, che di memorie ecclesiastiche della primitiva chiesa, egli è certamente questa, sia per la sua rocca forte per struttura e natura, per gli avanzi di anticaglie di cui sono dissiminati i dintorno, sia pei trofei antichi della pietà cristiana ne’ scacri templi>.
“………consurgere tecta,
Arcis et Antiquae protes ventura videbit…”
(Massari:Sabiniade, lib.I)
Roccantica: “Dall’Eremo di San Leonardo alle Pozze del Diavolo”
Sacro e profano: dall’eremo di San Leonardo alle Pozze del Diavolo, nel silenzio dei Monti Sabini.
Le case in pietra compatte tra loro e sovrastate dalla Torre e dal Monastero delle Clarisse, viste dalla valle, fanno già intuire l’atmosfera che si respira tra i vicoli di Roccantica. In questo piccolo borgo, sorto alle pendici dei Monti Sabini e su cui svetta il Monte Pizzuto, una delle cime più alte dell’Appennino Sabino, il tempo sembra essersi fermato. Tra le strette stradine pedonali del centro storico e le piazzette raccolte, si respira un’atmosfera suggestiva e si viene accolti da un rigenerante silenzio. Il borgo, abitato da poco più di 600 persone, custodisce le sue tradizioni storiche legate al periodo medioevale con eventi rievocativi, che animano il borgo nel mese di Agosto, e con una sartoria di abiti medioevali che confeziona vestiti per le celebrazioni di tutta Italia. Anche la rigogliosa natura montana della zona non è da meno, portando con sé storie e leggende. Come nel caso della sorprendente dolina carsica del Revotano, raggiungibile a piedi a pochi chilometri dal borgo, in cui sarebbe sprofondato il precedente villaggio.
Vi facciamo conoscere questo tranquillo borgo della Sabina, luogo di partenza di escursioni e tour naturalistici. Un borgo che nonostante lo spopolamento subìto nel corso degli anni, mantiene fascino e un antico centro storico tra i più integri del Lazio.
Le origini di Roccantica
Le origini accertate del borgo risalgono alla menzione di un “fundus antiquum” che rientra tra i possedimenti dell’Abbazia di Farfa, nell’ 840 dopo Cristo, e in seguito tra quelli di Grimaldo, figlio di Benedetto di Ubaldo dei duchi di Benevento. Fino a questo momento sembra ci fossero solo terreni e abitazioni, senza l’incastellamento. Nel 1061 passò sotto la giurisdizione della Santa Sede, diventando Castra Specialia, castello di proprietà della Chiesa. Fu da subìto fedele a Papa Niccolò II, che qui si rifugiò perché inseguito dalle truppe alleate di Benedetto X. Nel XIV secolo, a differenza di altre comunità sabine, non partecipò alla rivolta contro l’autorità pontificia e nel 1415 fu concessa in feudo agli Orsini. Tornò alla Camera Apostolica nel 1728.
Il borgo in passato si chiamava Rocca d’Antico, derivando probabilmente dal latino Anticus, ‘anteriore’, ‘che sta davanti’. Nel 1923 passa dalla provincia di Perugia in Umbria, alla provincia di Roma nel Lazio, e nel 1927 passa a quella di Rieti, venendo anche accorpata al comune di Aspra Sabina. Nel 1939 viene nuovamente staccata da Aspra Sabina, riacquistando autonomia comunale.
Cosa vedere a Roccantica
Entrando da una delle tre Porte antiche del borgo, e curiosando tra gli scorci dei vicoli, si raggiungono le chiese gotiche di San Valentino e quella di Santa Caterina D’Alessandria, che conserva affreschi quattrocenteschi che illustrano la vita della Santa. Risalendo sulla cima del borgo, e con una stupenda vista panoramica, c’è la Torre Niccolò II che fungeva da difesa e da vedetta come la triplice cerchia di mura di epoca medioevale. Sempre sulle zone più alte borgo sorge il Monastero delle Clarisse, ex Castello Ursino, e poco distante la piccolissima chiesa di Piedirocca, con all’interno l’affresco raffigurante Maria in trono con Bambino, luogo di pellegrinaggio della popolazione del posto. Per gli amanti delle escursioni, lungo il sentiero che conduce alla gigante dolina carsica del Revotano si incrocia l’Eremo rupestre di San Leonardo che si affaccia a picco su un torrente sottostante e con tracce di affreschi del ‘400.
Da visitare anche il Roseto Vacunae Rosae, un grande giardino botanico dedicato alle rose, con oltre 5mila varietà, allestito con fontane ornamentali, privato ma aperto al pubblico con cadenza stagionale. Nei dintorni del borgo, seguendo il torrente Galatina, nella zona degli Eremi di S.Michele e S. Leonardo, fra boschi rigogliosi si trova la suggestiva cascata Pozze del Diavolo.
Cosa mangiare a Roccantica
Uno dei piatti tipici della cucina locale è il Frittello, a cui è dedicata una sagra nel mese di marzo, che consiste in cavolfiori in pastella fritti. Un altro prodotto pregiato della zona è la castagna rossa del Cicolano, oltre alla produzione dell’olio extra vergine della Sabina. Non mancano i ristoranti dove mangiare bene, anche piatti della tradizione: “Le cucine del Borgo”, “La Trattoria del Compare”, la taverna “La Tana del Branco”. E per gli amanti della cucina vegetariana “La Tacita Country Club”.
Dove dormire a Roccantica
Nel borgo di Roccantica ci sono alcune possibilità di pernottamento. Si può soggiornare all’interno del borgo nella struttura “La Runa House”, un ostello dove sono ammessi anche gli animali. L’ “Agriturismo San Lorenzo” è invece una cascina ristrutturata immersa invece tra vigne e oliveti del borgo. Poco distante dal centro storico di Roccantica ci sono altre soluzioni di pernottamento: “La Casa Nettarina”, a Poggio Mirteto; “La vecchia Quercia”, a Selci; “Agriturismo Nociquerceto”, a Tarano.
Come arrivare a Roccantica da Roma
Per raggiungere Roccantica da Roma: Uscire all’uscita Ponzano Romano-Soratte dell’autostrada A1, proseguire fino alla SS 313 seguendo le indicazioni per Roccantica, svoltare sulla SP 48c.
Roccantica sorge a 457 metri di altezza sul livello del mare, su un costone del Monte Pizzuto, che arriva ad un’altezza di 1.288 m s.l.m., nel territorio comunale il picco del Monte Menicoccio, è di 1.204 m s.l.m
Torre di Niccolò II è ciò che resta delle origini del Borgo, originariamente protetto da una triplice cerchia di mura. Costruita prima dell’anno Mille, la torre ha sezione quadrata ed ha il nome del papa con il quale i Roccolani, parteggiarono contro Benedetto X. Niccolò II ricompensò la fedeltà del popolo con vari privilegi.
Architetture religiose
Sono di notevole interesse le chiese gotiche di San Valentino e di Santa Caterina; quest’ultima è stata affrescata nel 1430 da Pietro Coleberti con otto dipinti sulla vita della santa Caterina d’Alessandria.
Aree naturali
Nel territorio comunale di Roccantica esiste la grande dolina, nota come Revotano, del diametro di circa 250 metri, in cui, secondo una leggenda locale, sarebbe sprofondato il precedente villaggio.
Nel 1939 viene nuovamente staccata da Aspra Sabina, riacquistando dignità comunale.
ROCCANTICA in SABINA
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-Poetessa-Deportata ad Auschwitz sopravvissuta alla Shoah :”Testimonierò finché avrò fiato “
Roma- Intervista ad Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta alla Shoah. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia-Il 29 ottobre, presso il Centro bibliografico dell’ebraismo italiano “Tullia Zevi” a Roma, si è svolto l’evento di avvio della seconda edizione del progetto didattico «Tra Resistenza e Resa. Per sopravvivere Liberi! 80 voglia di libertà!», promosso dalla Commissione storica dell’Ucebi e dalla Fondazione Cdec. A quell’evento è intervenuta la scrittrice, poetessa, testimone della Shoah, Edith Bruck a cui abbiamo rivolto alcune domande.
– Nella sua scrittura convivono due lingue: quella dell’infanzia, l’ungherese, e quella dell’età adulta, l’italiano. Per raccontare la sua vita, ha scelto l’italiano. Che cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
«Voglio dire subito che non ho mai scelto nulla nella vita, non avevo la possibilità di scegliere. Sono arrivata in Italia nel 1954, dopo tantissimi pellegrinaggi, passando per i campi di concentramento, e vagabondando per l’Europa distrutta. Sono arrivata per puro caso a Napoli e lì ho avuto una sensazione molto strana. La gente mi guardava, mi sorrideva, e mi sembrava che mi stessero dicendo: “Rimani qui!”. È stata una sensazione che non posso spiegare bene, ma sentivo che in quel paese avrei potuto vivere. Così sono rimasta. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto vari lavori, e ho preso lezioni di grammatica italiana. Lentamente ho imparato la lingua. Devo precisare che prima di scrivere il mio primo libro in italiano, avevo scritto in ungherese nel 1946 Chi ti ama così. Quando sono uscita dall’Ungheria, l’ho fatto clandestinamente. Dopo la guerra, al ritorno dai campi, ho trovato un paese che viveva sotto il comunismo, che non era certo migliore del fascismo. Così ho lasciato l’Ungheria e ho dovuto abbandonare le poche cose che avevo scritto in ungherese, tra cui anche quel mio primo scritto. Dopo essere arrivata in Italia, ho pubblicato il mio primo libro in italiano nel 1959, un’autobiografia. Scrivere è stato un atto necessario per me: scoppiavo di parole, avevo bisogno di liberarmi da quell’inferno che rischiava di rimanere dentro di me per sempre».
– Quale significato attribuisce alla lingua italiana?
«Innanzitutto, per me essa rappresenta una salvezza, una barriera protettiva. Nella lingua materna sono stata offesa, umiliata, insultata. Nel ’42, non potevamo nemmeno uscire per strada senza rischiare di essere aggrediti o insultati. Nel 1944, non furono i tedeschi ma i fascisti ungheresi, le croci frecciate, a bussare alla nostra porta e a deportarci. Avevo solo 13 anni quando un ragazzino in divisa da gendarme, che non arrivava ai 20 anni, schiaffeggiò mio padre, che non aveva nemmeno 50 anni. In quel momento capii che qualcosa era finito per sempre. Sono stata prima ad Auschwitz, poi ci trasferirono a Bergen-Belsen, attraverso le famose marce della morte. Partimmo in mille, ma arrivammo vive in meno di 50. Ci portarono in un campo degli uomini, una “tenda della morte”, dove il pavimento era coperto di cadaveri. Lì alcuni uomini morenti mi dissero: “Se sopravvivi, racconta. Non ci crederanno, racconta anche per noi”. Promisi che l’avrei fatto. La mia sopravvivenza è stata anche una testimonianza per quelli che non hanno potuto raccontare. Per me testimoniare è un dovere morale, e continuerò a farlo finché avrò fiato».
– In Ungheria, le leggi razziali precedettero quelle italiane di due anni. Come vede la situazione attuale in Ungheria e in Europa?
«È triste constatare che l’antisemitismo è ancora presente, anche in Ungheria, dove il governo di Orbán alimenta una politica di chiusura. In tutta Europa, vediamo risorgere i partiti di destra e i movimenti che rievocano ideologie pericolose. La situazione mi preoccupa molto, ma continuerò a testimoniare la mia esperienza, a raccontare, perché credo che ogni vita sia preziosa e che nessuno debba mai dimenticare quello che è accaduto».
– Lei è anche traduttrice, grazie al suo lavoro molti italiani hanno conosciuto i poeti ungheresi Miklós Radnóti e Attila József…
«Tradurre è un lavoro difficile, perché bisogna entrare nello spirito della poesia. Miklós Radnóti è stato una grande fonte di ispirazione per me. Quando ho tradotto la sua poesia, ho sentito che, pur nel dolore e nella morte, c’era una ricerca di speranza. Tradurre queste voci è stato un modo per farle vivere ancora, per farle arrivare anche agli italiani».
– Quali sono le sue prossime pubblicazioni?
«È uscito da pochi giorni libro Oltre il male, scritto con Andrea Riccardi, edito da Laterza. Poi, nel 2025, pubblicherò una nuova raccolta di poesie dal titolo Le dissonanze. Si tratta di una raccolta suddivisa in due parti. La prima è sempre legata alla memoria di mia madre, di mio padre, e di mio fratello, che non ha mai scritto e ha parlato della tragica esperienza dei campi di concentramento solo una volta. Dopo la guerra, gli chiesi perché non riuscisse a raccontare. Alla fine, con molta difficoltà e una voce flebile, trovò il coraggio di dire che una volta, al suo ritorno da una giornata di lavoro forzato, vide che il giaciglio di mio padre era vuoto. Chiese al medico: “Dov’è mio padre?”, ed egli rispose che quel giorno erano morti tanti prigionieri, e che poteva andare fuori a cercarlo. Mio fratello ritrovò mio padre tra i cadaveri: l’aveva abbracciato, gli aveva chiuso gli occhi e aveva cercato uno straccio per coprirlo, perché era nudo. Poi lo lasciò lì, tra centinaia di corpi. Mio fratello raccontò questa storia una sola volta, e non abbiamo saputo mai nulla della sua esperienza nei campi: né cosa pensava né come sopportava le sofferenze di quei giorni. Aggiunse solo: “Non chiedetemi mai più niente”.
Nella seconda parte della raccolta, invece, parlo delle molestie sessuali che ho subito in passato, senza fare riferimenti espliciti ai nomi, ma evocando personaggi noti tra cui uno scrittore, un regista, un giornalista, uomini molto noti in Italia, che si sono comportati in modo indegno. Continuerò a testimoniare per tutta la vita che mi resta, dando voce a chi ha vissuto ciò che ho vissuto io: non solo mio fratello ma i tanti milioni di persone uccise dalla furia nazifascista. Credo che ogni vita sia preziosa e che sia importante raccontare, affinché non si dimentichi».
Articolo e intervista di Deborah D’Auria-
Fonte –Riforma .it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
POESIE DI VERA PAVLOVA– Tradotte da Linda Torresin
Vera Pavlova-di ascendenze ebraiche, nasce a Mosca il 4 maggio 1963. Vera Pavlova si laurea con il massimo dei voti presso la prestigiosa Accademia di musica Gnesin, specializzandosi in storia della musica. Lavora come guida al Museo Šaljapin, pubblicando anche saggi di musicologia.
Comincia a scrivere versi a vent’anni, in clinica ostetrica, dopo la nascita della sua prima figlia. Nel 1988 la rivista letteraria “Junost’” pubblica alcuni versi della Pavlova, ma il vero successo arriva nel 1996 dopo la pubblicazione di 72 sue poesie sul quotidiano “Segodnja”. Da allora la Pavlova firmerà ben diciotto libri, tradotti in una ventina di lingue.
Attualmente la poetessa vive tra Mosca e New York.
Vera Anatolyevna Pavlova (‹See Tfd›Russian: Вера Анатольевна Павлова; born 1963)[1][2] is a Russian poet.
Biography
Vera Pavlova was born in Moscow, 1963. She studied at the Oktyabryskaya Revolyutsiya Music College and only started publishing after graduation.[2] She graduated from the Gnessin Academy, specializing in the history of music.
She is the author of twenty collections of poetry, four opera libretti, and lyrics to two cantatas. Her works have been translated into twenty five languages. Her work has been published in The New Yorker.[3]
Vera Anatól’evna Pávlova è nata a Mosca il 4 maggio 1963. Si è diplomata presso l’Istituto Musicale “A.G. Shnitke” e l’Accademia di Musica“Gnesinych”, specializzandosi in storia della musica. Ha cominciato a scrivere poesie a 20 anni, dopo la nascita della prima figlia Natal’ja, oggi cantante lirica. In una intervista ha dichiarato: «La mia prima poesia è stata un messaggio inviato a casa dal reparto maternità dell’ospedale. Avevo appena partorito la mia prima figlia. Fu un genere di felice esperienza mai provata né prima né dopo. La felicità fu così intollerabile, che mi spinse a scrivere una poesia per la prima volta. Da allora scrivo e ricorro alla scrittura ogniqualvolta mi sento intollerabilmente felice o infelice. E poiché la vita mi riserva in abbondanza occasioni per entrambi i sentimenti, negli ultimi ventisei anni ho scritto praticamente senza sosta. Non posso permettermi di stare lontano dalla scrittura. Potrebbe essere chiamata tossico-dipendenza, ma io preferisco chiamarla la mia forma di metabolismo».
Parlando di sé con estrema franchezza, la sua poesia è rivolta principalmente alla vita privata e intima della donna contemporanea. Linda Torresin scrive: «Musicista prima ancora che poetessa, le armonie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame tra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia di Vera Pavlova. La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – è questa per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita».
È una poesia di breve intenso respiro, scritta tutta d’un fiato. Mi fa venire in mente Ars poetica del poeta polacco Leopold Staff, da me tradotta tanti anni fa:
Un’eco dal cuore sussurra:
«Prendimi prima ch’io languisca,
Che diventi diafana, azzurra,
Che impallidisca, che sparisca!»
Come una farfalla l’afferro,
Non per sbalordire il mondo,
Ma per rendere l’attimo eterno,
Perché tu comprenda a fondo…
Ha scritto più di venti raccolte di poesie, cinque libretti d’opera e quattro testi per cantata. È stata tradotta in venticinque lingue. Vive tra Mosca e New York.
Poesie di Vera Pavlova tradotte da Paolo Statuti
* * *
Un hobby? – Ce l’ho: raccolgo
arcobaleni, meteoriti,
sogni, cartoline del paradiso,
conversazioni al buio,
cartellini NON DISTURBARE,
pareri di esperti,
anelli di fidanzamento
e programmi di concerti.
* * *
Alle sette è già buio.
Mi gusto un libro in poltrona.
Una foglia gialla è volata dentro,
ha chiesto asilo.
Da’ ospitalità alla rifugiata
e prendila come segnalibro.
Libro, cosa viene dopo?
Un breve epilogo.
* * *
Piego un gesto amorevole come latta
e costruisco una casa, cominciando dal tetto.
Scrivo ciò che voglio leggere.
Dico ciò che voglio sentire.
Scrivo: la tua amarezza è ardente.
Taccio, ti compatisco per il Braille.
Formiche, entrate in casa, trascinando
la tenerezza cento volte più pesante di voi stesse!
in modo che tu non possa pronunciarla impulsivamente
e, riflettendoci, possa fermarti
a metà…
*
La solitudine è una malattia
trasmissibile sessualmente.
Io ti lascio in pace, e fallo anche tu.
Stiamo un po’ da soli
per parlare di questo e quello
senza dire tutto,
abbracciamoci e capiamo:
chi è solo non si può curare.
*
Mi tieni fra le tue braccia e pensi forse di avermi presa?
Ma io mi libererò del corpo come coda di lucertola,
e tu dovrai cercare tra le stelle
ciò che mi cercavi tra le gambe.
La traduzione è stata condotta sulla base del testo russo pubblicato in: Vera Pavlova, Sem’ knig, Moskva, Eksmo, 2011
Traduzione dal russo di Linda Torresin
NIENTE FUGHE
la poesia concreta di Vera Pavlova
di Linda Torresin
________________________________________
VERA PAVLOVA Poetessa russa
Per la russa Vera Pavlova (1963), musicista prima ancora che poetessa, le melodie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame fra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia della moscovita, come riassume Pavel Belickij (“Nezavisimaja gazeta”): «La carnalità, col suo gusto e il peso, la quintessenza della carnalità, musica degli umori come musica della vita, carnalità degli amplessi, la vita della carne, la morte della carne e la sua legittima trasfigurazione nella poesia: ecco l’universo poetico di Vera Pavlova». La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – questa è per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita.
Dopo Achmatova e Cvetaeva, la Pavlova si conferma dunque la nuova voce della poesia femminile russa.
Non ci lasceremo mai. Nella Resistenza e nella memoria- articolo di Amalia Perfetti
Questo è un libro prezioso, come lo sono i libri che raccontano le storie delle donne e degli uomini che hanno partecipato alla lotta di Liberazione del nostro Paese. Questo vale per chi scrive, ma penso di poter parlare anche a nome di quante e quanti come me hanno l’onore di conoscere Iole Mancini. Feltrinelli Editore “Un Amore partigiano” ha però un valore aggiunto. Tante volte abbiamo sentito questa straordinaria ragazza di 102 anni raccontare dei terribili giorni a via Tasso; tante volte l’abbiamo sentita descrivere la “fame nera” di quei nove lunghissimi mesi dell’occupazione di Roma, ma anche dell’amore per il suo Ernesto, Ernesto Borghesi, uno dei gappisti romani. Ed è bello sapere che ora i ricordi di Iole sono anche lì, nero su bianco, e possiamo condividerli tutte le volte che vogliamo.
Iole Mancini.Un amore partigiano
L’amore per Ernesto è il protagonista principale del libro, è il titolo a segnalarcelo subito e lei ci tiene moltissimo. Un sentimento nato in vacanza, in spiaggia, come nascono tanti amori. Era l’estate del 1937, alle Grotte di Nerone di Anzio, Iole aveva 17 anni. Ricorda tutto di quel momento e lo racconta a Concetto Vecchio che in questo libro ha raccolto le memorie di Iole. E questa è un po’ una storia nella storia: quella dell’incontro tra il giornalista e la partigiana. Quella tra Vecchio e Mancini doveva essere un’intervista per il 25 aprile del 2021 ma si è trasformata in un libro e in un’amicizia. Mesi di incontri, chiacchierate, ricordi, fotografie, letture, ricerche. Nel volume ritroviamo insieme alla narrazione della storia di Iole e di Ernesto, quella dei mesi della lotta di Liberazione a Roma e dell’amicizia che nasce tra il 2021 e il 2022 e si cementa a ogni presentazione. Lo abbiamo visto alla prima che si è svolta a Roma, presso la Casa della memoria e della storia, lo scorso 29 aprile e a quella di Colleferro il 3 giugno successivo. Tra loro è un dialogo che sul filo del racconto, del ricordo e dell’intesa continua oltre il libro. In qualche modo il libro, che pure è intenso, ricco di particolari, emozionante, è come se fosse l’inizio di un ragionamento ininterrotto.
Iole è generosa e attenta nel libro come nelle presentazioni (che ha fatto e vuole continuare a fare) nelle quali con i suoi occhi vispi cerca lo sguardo delle ragazze e dei ragazzi. Ed è a loro che vuole parlare in particolare: “raccontare quelle terribili storie, quei mesi così crudeli è importante – inizia così l’intervento di Iole nella presentazione romana –, perché i giovani non lo sanno, non conoscono la Resistenza e allora bisogna spiegare a loro com’era nata, come si è sviluppata in tutta Italia spontaneamente”, o ancora come scrive nel libro che “i giovani devono capire cos’è la dittatura, che può sempre tornare, sotto altre forme. Non immaginano neanche minimamente quel che abbiamo patito nei nove mesi dell’occupazione nazifascista, che tempo infame!”.
Il libro è un continuo intreccio tra la storia d’amore di Iole ed Ernesto e le azioni coraggiose dei gappisti romani, di una città che si ribella e fa rete; e poi gli arresti, le fucilazioni, l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Iole ed Ernesto si sposano “nell’ora più buia di Roma” il 5 marzo 1944: pochi giorni prima era stata uccisa Teresa Gullace, qualche giorno dopo, il 7 marzo, a Forte Bravetta sarebbero stati fucilati per rappresaglia dieci partigiani, tra i quali Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Toto Bussi. Erano giorni di paura e fame, resta difficile per noi oggi pensare di sposarsi proprio in quel clima. “Perché – chiede Vecchio a Iole Mancini – celebrare il matrimonio proprio in quel momento livido, con gli Alleati sbarcati ad Anzio da due mesi ma incapaci di avanzare verso la Capitale? I nazisti, sempre più efferati, davano la caccia agli oppositori con rastrellamenti a tutte le ore”. “Proprio per questo! – risponde la partigiana – per essere almeno marito e moglie nel caso fosse avvenuto l’irreparabile”.
Per Iole ed Ernesto non avvenne l’irreparabile, ma furono mesi sempre più difficili, segnati prima l’arresto di lui poi dalla fuga e poco dopo dall’arresto di Iole che finisce a via Tasso per 10 lunghissimi giorni: lei resiste, non parla, continua a dire – è Priebke a interrogarla – che Ernesto “sta a regina Coeli”.
Arriverà il 4 giugno 1944, la Liberazione di Roma. Sarà il destino a salvare Iole, ma è una storia, questa, che si deve leggere o ascoltare con le parole di una testimone straordinaria di mesi difficili, lunghissimi, ma nei quali si costruiva la libertà. E Iole ricorda sempre che “la libertà è una parola per me preziosa, perché significa la vita”. In questo libro di vita ce n’è tanta, quella difficile dei tempi difficili e bui nei quali però mai era venuta meno la speranza di un mondo migliore. Le parole di Iole ci invitano a continuare a farlo e a non abbassare mai la guardia, a partecipare.
Abbiamo bisogno di leggere e conoscere storie come quelle di Iole Mancini, che magari faranno venire la voglia di saperne di più e di guardare le città e i luoghi in cui viviamo con occhi diversi e riconoscenti, proprio come dice Concetto Vecchio parlando di Roma dopo averla “percorsa” attraverso gli occhi di Iole e di quante e quanti hanno raccontato quei mesi terribili sì, ma di solidarietà, speranze, coraggio e amore.
Amalia Perfetti, presidente della sezione Anpi Colleferro “La Staffetta Partigiana” e componente della presidenza Anpi provinciale di Roma-
Fonte–Patria Indipendente- Periodico dell’ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
ANPI –Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Foto Gallery
Roma, Casa della memoria e della storia. Al centro Iole Mancini e Concetto Vecchio, con loro Marina Pierlorenzi, vicepresidente comitato provinciale Anpi Roma, che ha moderato l’incontro, e Fabrizio De Sanctis, presidente del comitato provinciale Anpi Roma e dirigente nazionale dell’associazione dei partigiani-Colleferro (RM). Iole Mancini e Concetto Vecchio insieme ad Amalia Perfetti (in piedi con il fazzoletto Anpi al collo), presidente della sezione locale dei partigiani e autrice della recensione, e a tanti giovani che non sono voluti mancare alla presentazione del libro-Iole ed Ernesto sposiUna bellissima foto di Iole Mancini, ragazza partigiana di 102 anni…ANPI- Comitato antifascista della SABINA
Robert Capa e Gerda Taro:la fotografia, l’amore, la guerra
in mostra fino al 2 giugno 2024 a CAMERA-
– Centro Italiano per la Fotografia di Torino –
Robert Capa e Gerda Taro
TORINO-A CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino continua la mostra Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra, con 120 immagini che raccontano una delle stagioni più intense della storia della fotografia del XX secolo: il rapporto professionale e affettivo fra Robert Capa e Gerda Taro. Dai cafè della Parigi degli anni Trenta ai campi di battaglia della Guerra civile spagnola, il percorso espositivo segue le vicende di Endre – poi francesizzato André – Friedmann e Gerta Pohorylle (questi i loro veri nomi). Fuggita dalla Germania nazista lei, emigrato dall’Ungheria lui, si incontrano nella capitale francese nel 1934. In un momento in cui trovare committenze è sempre più difficile, i due inventano il personaggio di Robert Capa, un famoso fotografo americano arrivato da poco nel continente, alter ego con il quale André si identificherà per il resto della sua vita. Anche Gerta cambia nome e assume quello di Gerda Taro.
La svolta decisiva però arriva nel 1936, con l’inizio del conflitto civile spagnolo. Proprio nello scenario della prima guerra ‘fotografica’ della storia, Capa e Taro realizzano i loro scatti più noti – immagini realizzate seguendo da vicino le battaglie ma anche i momenti di vita quotidiana dei miliziani – trovando in questo impiego terreno fertile per esprimere le proprie idee antifasciste. Un impegno che costerà la vita di Gerda nel luglio del 1937, nel mezzo di una ritirata a Brunete, rendendola la prima reporter a morire sul campo. La mostra è curata da Walter Guadagnini e Monica Poggi, attraverso le fotografie e la riproduzione di alcuni provini della celebre “valigia messicana”, scomparsa dal 1939 e ritrovata a fine anni Novanta, contenente 4.500 negativi scattati in Spagna dai due fotoreporter e dal loro amico David Seymour, detto “Chim”.
Informazioni 14 febbraio – 2 giugno 2024 camera.to
Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)
Lunedì 11.00 – 19.00
Martedì 11.00 – 19.00
Mercoledì 11.00 – 19.00
Giovedì 11.00 – 21.00
Venerdì 11.00 – 19.00
Sabato 11.00 – 19.00
Domenica 11.00 – 19.00
Sede espositiva
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino
Fred Stein, Gerda Taro e Robert Capa, Cafe de Dome, Parigi, 1936
Estate Fred Stein. Courtesy International Center of Photography
Robert Capa, Morte di un miliziano lealista, nei pressi di Espejo Fronte di Cordoba, Spagna, inizio settembre, 1936
The Robert Capa and Cornell Capa Archive, Gift of Cornell and Edith Capa, 2010. Courtesy International Center of Photography
Gerda Taro, Miliziana repubblicana si addestra in spiaggia. Fuori Barcellona, 1936
Gift of Cornell and Edith Capa, 1986. Courtesy International Center of Photography
Nota per i suoi reportage di guerra, è anche conosciuta per essere stata la compagna di Robert Capa[1] e per aver stabilito con il fotoreporterungherese un forte sodalizio professionale. È considerata insieme a Capa una dei più importanti fotografi di guerra. La sua morte violenta a 26 anni (fu travolta da un carro armato durante la Guerra civile spagnola [2]) contribuì a mitizzarla come donna rivoluzionaria e coraggiosa caduta per le proprie idee e per il suo lavoro[3].
Biografia di Gerda Taro
Gerda Taro gettyimages-
Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce da una famiglia di ebrei polacchi. È portata per lo studio, è una buona giocatrice di tennis, ama vestirsi bene e fin da bambina dimostra di avere un carattere forte. Nonostante le sue origini borghesi, giovanissima entra a far parte di movimenti socialisti e di lavoratori. Per questo motivo e per la sua origine ebraica, l’avvento del nazismo in Germania le crea molti problemi. Finisce in carcere in quanto attiva nel Partito Comunista Tedesco, interrogata non parla e, grazie al suo passaporto polacco, viene liberata. Con un amico lascia la Germania alla volta di Parigi, mentre i suoi genitori decidono di rifugiarsi in Palestina ed i fratelli in Inghilterra[4].
Gerda Taro i funerali
Nel 1935 a Parigi grazie alla sua intelligenza e adattabilità, la poliglotta Gerta trova lavori come dattilografa e segretaria. Tramite l’amica e coinquilina Ruth conosce l’ungherese Endre Friedman. Come lei è ebreo, comunista, antifascista e ha conosciuto il carcere e sbarca il lunario facendo il fotografo. Endre e Gerta si fidanzano e sarà proprio lui ad iniziarla alla fotografia. Insieme, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, inventano il personaggio “Robert Capa”, un fantomatico celebre fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Grazie a questo curioso espediente la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi.
Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola, guerra che inciderà parecchio sulla vita dei due. Giunti in Spagna diventano immediatamente importanti testimoni della guerra, realizzando molti reportage pubblicati in periodici come “Regards” o “Vu.”
Nota fra le milizie antifasciste per la sua freschezza, coraggio ed eccezionale bellezza, rischiò sempre la vita per realizzare i propri servizi fotografici. All’inizio il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente, i due divisero la ‘ragione sociale’ – CAPA – e Endre Friedman adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé[6].
Gerda realizzò, in un periodo in cui Capa era per alcuni giorni a Parigi per rapporti con le agenzie, il suo più importante reportage durante la battaglia di Brunete. All’inizio parve una grande vittoria repubblicana. Il contrattacco franchista ribaltò presto la situazione e Gerda fu allora testimone dei selvaggi bombardamenti dell’aviazione nazionalista, scattando numerose fotografie sempre con estremo rischio per la propria vita.
Testimoni raccontano che spesso incitava lei stessa i combattenti “all’attacco”; la sua fede rivoluzionaria e antifascista era puro slancio. L’articolo che venne pubblicato sulla rivista Regards, diede un grande lustro alla reporter tedesca.
Gerda-Taro-prima-fotogiornalista-guerra-di Spagna
La morte
Al ritorno dal fronte di Brunete, Gerda Taro perse la vita a causa di un terribile incidente. Gerda viaggiava aggrappata al predellino esterno della vettura del generale polacco “Walter” (Karol Świerczewsky), colma di feriti; Walter era un noto comandante delle Brigate Internazionali. Quando aeroplani tedeschi volarono a bassa quota sul convoglio repubblicano mitragliandolo, nel trambusto generale un carro armato urtò l’auto alla quale era aggrappata Gerda, che cadde sotto i cingoli del carro armato restando schiacciata dallo stomaco in giù.
Gerda Taro
Gerda non perse conoscenza e durante il penoso trasferimento, che durò ore, all’ospedale di Madrid ‘El Goloso’ (zona dell’Escorial) si mantenne le viscere in sede con la pressione delle proprie mani; i testimoni ricordano un’incredibile freddezza e coraggio nella ragazza. Alcuni tra i migliori medici delle Brigate Internazionali le trasfusero plasma e tentarono di operarla senza anestetici e senza antibiotici (di cui non vi era disponibilità), di suturare la devastante ferita ma si resero subito conto che ogni tentativo non l’avrebbe mai salvata; il suo organismo non poteva più svolgere alcuna funzione vitale che si protraesse oltre le poche ore.
Gerda Taro_Photo Robert Capa
All’infermiera che dovette vegliarla fu indicato di somministrarle tutta la morfina possibile per non farla soffrire, in quanto il decesso era inevitabile. La ragazza si preoccupava comunque delle proprie macchine fotografiche chiedendo “se si erano rotte”. Restò in vita e vigile sino all’alba del 26 luglio 1937; morì intorno alle ore 5 semplicemente “chiudendo gli occhi”. Gerda aveva 26 anni.
Gerda Taro
Il suo corpo fu traslato a Parigi e, accompagnato da 200.000 persone, fu tumulato al Père-Lachaise con tutti gli onori dovuti ad un’eroina repubblicana. Allo scultore Alberto Giacometti venne chiesto di realizzare il monumento funebre. Pablo Neruda e Louis Aragon lessero un elogio ‘in memoriam’. Il suo compagno Capa non si riprese mai più dalla morte della dolce e vivacissima Gerda, prima donna reporter a morire sul lavoro. Da allora anch’egli rischierà sempre la morte sul lavoro, incontrandola poi nel 1954 nella guerra d’Indocina.
Gerda Taro
Un anno dopo la morte di Gerda, nel 1938, Robert Capa pubblicherà in sua memoria Death in the Making, riunendo molte foto scattate insieme. La sua tomba a Parigi giace dimenticata nella zona del Père-Lachaise dedicata ai rivoluzionari e alla Resistenza, vicino al noto “Mur des Federés”.
Nel 1942 il regime collaborazionista fascista francese censurò l’epitaffio inciso sulla tomba di Gerda, epitaffio mai più restaurato. La tomba, dopo le modifiche occorse nel 1953, è accessibile da un viottolo posteriore, quindi posta “alla rovescia” rispetto a quando fu costruita. La tomba di Gerda Taro fu l’unica ad essere violata dalla mano nazi-fascista, forse per l’influenza che la giovane rivoluzionaria, caduta nella guerra contro il fascismo, ancora esercitava sulla crescente Resistenza francese.
Rimasta a lungo nell’ombra del più noto fidanzato Robert Capa e relegata al ruolo di sua compagna (e in qualche cronaca anche di moglie), dalla metà degli anni 1990 Gerda Taro è oggetto di interesse storico per il suo ruolo di giovanissima donna contro-corrente, rivoluzionaria militante sino al sacrificio massimo e protagonista della storia della fotografia e della resistenza al fascismo[6][7][8].
Robert Capa- Nasce in Ungheria da una famiglia ebrea proprietaria di una avviata casa di moda. Capa è un bambino vitale e rissoso che in famiglia viene soprannominato “Cápa”, squalo in ungherese. Ha appena diciassette anni quando viene arrestato per le sue simpatie comuniste; appena liberato abbandona la terra natale alla volta di Berlino. Là s’iscrive all’università alla facoltà di scienze politiche, sognando di diventare giornalista. Per mantenersi trova un impiego presso uno studio fotografico, cosa che lo avvicina al mondo della fotografia. Inizia a collaborare con l’agenzia fotogiornalistica Dephot sotto l’influenza di Simon Guttmann[3]. Autodidatta, nel 1932 è a Copenaghen, dove Lev Trockij tiene una conferenza. Nonostante il divieto di fare fotografie, elude la sorveglianza e realizza alcuni scatti. È il suo primo servizio pubblicato[4].
A causa dell’avvento del nazismo, Capa nel 1933 lascia Berlino per Vienna, per poi, l’anno successivo, partire alla volta di Parigi. Ma in Francia incontra difficoltà nel trovare lavoro come fotografo freelance. Al caffè A Capoulade, nel Quartiere Latino, nel settembre 1934 fa la conoscenza di Gerda Taro, una studentessa tedesca di origine galiziana, anch’essa fotografa autodidatta. Robert e Gerda stabiliscono un solido rapporto sentimentale e professionale[4].
A Parigi Capa conosce anche David Seymour (nato Szymin), che a sua volta lo presenterà ad Henri Cartier-Bresson, tutti giovani fotografi di origini sociali e geografiche diverse, ma legati dal linguaggio dell’immagine. Il suo primo servizio importante è quello del maggio 1936 che documenta le manifestazioni per l’ascesa al potere del Fronte Popolare; una sua foto diventa la copertina della rivista «Vu» (“Visto” in italiano).
Nell’agosto del 1936 Gerda Taro riesce a procurargli un accredito stampa per documentare la guerra civile spagnola ed assieme prendono un aereo per Barcellona.[5] Qui, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, i due inventano il personaggio di “Robert Capa”, un fantomatico fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Lo pseudonimo Robert Capa viene scelto per il suono più familiare all’estero e per l’assonanza con il nome del popolare regista italo-statunitense Frank Capra. Grazie a questo curioso espediente, la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi. All’inizio, in effetti, il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente i due divisero la “ragione sociale” CAPA e Endre Friedmann adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé.
Foto Robert Capa. SPAGNA -Vallecas en 1938
Il 26 luglio 1937 Gerda muore tragicamente a Brunete, nei pressi di Madrid (rimane schiacciata durante un errore di manovra di un carro armato “amico”). L’anno dopo Robert pubblica un libro in omaggio alla sua amata, Death in making, che contiene anche le fotografie, scattate da entrambi, della guerra in Spagna.
Bruna Bertolo e Ornella Testori- L’ufficiale in bicicletta-
Editore NEOS- Torino
Il caso di Lucia Boetto Testori rievocato in un libro , L’ufficiale in bicicletta ,dalla figlia Ornella-Particolarmente coinvolgente è quando una figlia racconta la vita dei suoi genitori: in questo libro* è quella di una mamma straordinaria, Lucia Boetto Testori, che fu giovanissima protagonista della Resistenza antifascista nel Cuneese, non solo trasportando sulla sua bicicletta esplosivi, ma come “ufficiale-ispettore”, tenendo i collegamenti tra i partigiani e i dirigenti del Cln di Torino, e compiendo anche imprese rischiosissime con gli Alleati inglesi, paracadutati in aiuto degli “Autonomi” di Enrico Martini “Mauri”, per cui fu insignita di una medaglia di bronzo al Valor militare.
Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta-
Ornella Testori – che nella sua professione si è occupata di biologia e medicina, in particolare quella nucleare, conducendo studi sulla tiroide – rievoca con precisione e anche humour le spericolate azioni di Lucia ragazza, non solo come le ha ascoltate dalla sua viva voce, ma approfondendole con una precisa documentazione, mentre un affresco che inquadra più propriamente gli avvenimenti è presentato nella prima parte del libro, in un’attenta e ampia ricerca della storica Bruna Bertolo e le prefazioni di Luciano Boccalatte e di Nino Boeti.
Fu Frida Malan che mi fece conoscere Lucia, che io vedevo sempre con lei, Bianca Guidetti Serra e Gisella Giambone nelle manifestazioni partigiane, in particolare quando erano invitate a qualche dibattito dai movimenti delle donne, e loro quattro rappresentavano concretamente l’ampio schieramento politico e ideologico della Resistenza: Frida, i “GL” nell’ala socialista, Bianca, quella azionista poi vicina al Pci, Gisella quella garibaldina derivante dal padre Eusebio, ucciso al Martinetto, e Lucia quella liberale degli “Autonomi”. A quel filone di pensiero si riferivano sia Lucia sia il marito Renato Testori – annota la figlia Ornella – e moltissimi antifascisti cuneesi che poi divennero partigiani nelle file degli Autonomi e di “Giustizia e Libertà”: «crociani ed einaudiani, un poco gobettiani», e giustamente polemizza con quella vulgata riduttiva della narrazione «Antifascismo-e Resistenza-solo comunista». Una vulgata, appunto, perché le ricostruzioni storiche fanno giustizia di questa «appropriazione indebita» – come la chiama Ornella – presentando invece un variegato quadro “plurale”.
Con questo intento io intervistai Lucia, nel mio libro dedicato alla vita vissuta di “testimoni della Resistenza”, in particolare delle valli valdesi, che mi onoro di aver conosciuto personalmente, costituendo un grande lascito per tutti (“… Eppur bisogna andar…”, Claudiana, 2006). Serbo il ricordo di una signora elegante, che conservava una serena bellezza, non scalfita dalle dure vicende patite, ma rievocate con misurata passione (l’eccidio di Boves, gli ebrei in fuga dalla Francia chiusi nei vagoni piombati come antefatti dolorosi e choccanti della sua “presa di coscienza”, la disfatta della IV Armata che si rovesciava nel Cuneese), e che raccontava straordinarie vicende, la più straordinaria di tutte quella della “bandiera del Corpo dei Volontari della Libertà” (che infatti dà il titolo all’intervista) che lei portò arrotolata intorno al corpo a Torino, perché doveva sfilare al corteo della Liberazione il 6 maggio 1945. Lucia non poté partecipare al corteo, pare perché il marito Renato Testori non la svegliò in tempo: la bandiera sfilò portata dal partigiano siciliano Vincenzo Modica, “Petralia”, che aveva l’altro braccio al collo, ferito.
Da questa significativa vicenda di “non esserci”, dopo tanto operare e rischiare, inizia simbolicamente quell’occultamento del ruolo delle donne nella Resistenza dal dopoguerra in poi, e l’allontanamento dalla vita politica per farne solo mogli e madri: ci è voluto il ruolo delle storiche femministe degli anni ’70-’80 per riscoprirle. E l’intervista si chiudeva con un amaro ricordo: tanti anni dopo, in una manifestazione del 25 Aprile, Lucia desiderava toccare la bandiera che aveva portato a rischio della vita, ma, decorata di medaglia al valore, la bandiera era scortata con tutti gli onori, e Lucia non poté avvicinarsi. Questo epilogo segna simbolicamente il percorso di tante donne oscure, dimenticate, che invece hanno combattuto “senza armi” come Lucia, per costruire il nostro presente: Senza il lavoro delle donne – ho sentito riconoscere da tanti partigiani – la Resistenza non avrebbe potuto sopravvivere.
* Bruna Bertolo e Ornella Testori, L’ufficiale in bicicletta. Torino, Neos, 2023, pp. 127, euro 17,00.
Articolo di Piera Egidi Bouchard-
Fonte Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
DESCRIZIONE-Torino operaia e fascismo- Una storia orale –Questo libro, pubblicato per la prima volta quarant’anni fa e tradotto in inglese pochi anni dopo, è basato sulla memoria di circa settanta donne e uomini nate-i tra il 1884 e il 1922, intervistate-i nella seconda metà degli anni settanta, comparata con una serie di fonti d’archivio (rapporti di polizia, cinegiornali dell’Istituto Luce, documenti giudiziari). I protagonisti, appartenenti alla classe operaia torinese, raccontano la loro visione della vita, della storia, di se stessi, evocando il periodo fascista e il rapporto ambivalente tra Mussolini e le masse. Si delinea così un quadro multiforme della Torino operaia degli anni venti e trenta nel secolo scorso: i divertimenti e le canzoni popolari, la condizione delle donne, l’atteggiamento verso i meridionali, la religione, il fascismo nella vita di tutti i giorni.
Ne emerge un quadro di piccoli episodi di «resistenza» quotidiana come graffiti e scherzi, una cravatta rossa o una vecchia canzone socialista, ma anche da eventi traumatici come l’aborto, unico mezzo di controllo della fertilità largamente disponibile ancorché clandestino. È quindi documentata una negoziazione quotidiana col potere che va al di là del semplice dilemma consenso/dissenso. Un capitolo finale è dedicato a un evento «mitico» della Torino operaia e antifascista: il silenzio degli operai della Fiat in risposta al discorso del duce, nel corso dell’inaugurazione della Fiat Mirafiori nel 1939. Il testo combina approcci mutuati dalla storiografia, dall’antropologia, dalla psicologia e dalla microsociologia, offrendo un ampio spettro di forme narrative e metodologiche e una riflessione sui meccanismi della memoria e sul suo rapporto con il presente in cui è elaborata. La sua riproposta invita ad attualizzare il ruolo centrale di una categoria politica e sociale come la vita quotidiana in quanto luogo privilegiato della soggettività, e a prendere in considerazione quanto i «grandi mutamenti» devono a «decisioni individuali».
Luisa Passerini
Autore-Luisa Passerini-Emerita di Storia all’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ha usato fonti orali, scritte e visuali per lo studio dei soggetti del cambiamento sociale e culturale, dai movimenti di liberazione africani ai movimenti operai, delle donne e degli studenti. Ha indagato il rapporto tra il concetto di identità europea e quello di amore romantico. Tra i suoi libri: La quarta parte (Manifestolibri, 2023); Storie d’amore e d’Europa (L’ancora del Mediterraneo, 2008); Memoria e utopia. Il primato dell’intersoggettività (Bollati Boringhieri, 2003); L’Europa e l’amore (Il Saggiatore, 1999); Storie di donne e femministe (Rosenberg & Sellier, 1991); Mussolini immaginario (Laterza, 1991); Autoritratto di gruppo (Giunti, 1988).
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Officina Libraria, “casa editrice” in latino umanistico, ha vocazione internazionale ed è specializzata in pubblicazioni d’arte e illustrati.
Fondata nell’ottobre 2006 a Milano e oggi a Roma, l’Officina Libraria di Marco Jellinek e Paola Gallerani ha pubblicato da allora oltre 450 titoli, che spaziano dalla saggistica storico artistica alla fotografia, dal design di gioielli alla ceroplastica, aprendo di recente alla storia e alla letteratura.
Molti dei volumi più ricercati sono produzioni o coedizioni con prestigiose istituzioni italiane e straniere: dalla I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (l’imponente catalogo della collezione di dipinti, la collana I Tatti Research Series), al Kunsthistoriches Institut di Firenze e al Centro Internazionale Studi di Architettura Andrea Palladio; dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano (la guida di tutti i dipinti esposti e il catalogo della mostra 100 anni di scultura) alla Galleria Borghese (le mostre su Bernini, Picasso e Valadier e i prossimi cataloghi ragionati delle Sculture e degli Arredi), le Gallerie Nazionali Barberini Corsini (diversi cataloghi e i 100 capolavori), dal Museo del Bargello (il catalogo ragionato degli avori) all’Accademia Carrara di Bergamo (100 capolavori, il catalogo ragionato dei dipinti del XIV-XV secolo) per citarne alcuni. Senza dimenticare il musée du Louvre, di cui Officina è il solo coeditore italiano: con la preziosa collana di facsimili del Cabinet des dessins, la serie dei cataloghi ragionati dei disegni italiani e i volumi per mostre come Giotto, Messerschmidt, Valentin de Boulogne, Rembrandt fino a Le corps et l’ame, sulla scultura italiana del ’500, insignito del Prix du catalogue d’exposition 2021, e che nell’edizione italiana accompagna la mostra Il corpo e l’anima al Castello Sforzesco di Milano.
Che si tratti di cataloghi di mostre, opere di fondo, guide o saggistica applichiamo all’editoria contemporanea, che ha tempi di produzione sempre più serrati, l’attenzione e la cura editoriale d’altre epoche, sia nella redazione che nei progetti grafici e nella riproduzione delle immagini. Alla base del nostro lavoro c’è il progetto culturale di fare libri di qualità, nei contenuti e nella forma, restituendo all’editore quel ruolo di mediazione culturale e non semplice marchio di produzione che gli è proprio, nella scelta dei progetti, nell’interazione con autori, istituzioni e committenti, nella realizzazione dei volumi, e nella loro promozione e diffusione a pubblicazione avvenuta, sia attraverso le librerie (in Italia siamo distribuiti da Messaggerie Libri; in Francia da Daudin (DOD & Cie), in US-UK e resto del mondo da ACC Art Books) che nei principali bookshop di mostre e musei, e con campagne mailing specifiche presso le biblioteche italiane e straniere.
Gli editori
Marco Jellinek
Marco Jellinek • Laureato in chimica e filosofia alla University of Kansas, ha cominciato ad occuparsi di editoria nel 1987 come redattore e responsabile commerciale extra-librario alla Jaca Book di Milano, per passare alla Disney Libri come senior editor e poi come direttore marketing da Skira. Nel 2002 ha fondato la 5 Continents Editions e nel 2005 la consociata Equatore che ha diretto fino all’ottobre 2006, pubblicando prestigiosi volumi d’arte e fotografia, come Parate Trionfali e New Guinea, rispettivamente vincitori dei premi Justus Lipsius e 2006 AAM Museum Publications Design Competition.
È la mente economica e strategica di Officina Libraria e le scelte editoriali poggiano sulla sua cultura storico artistica, seconda soltanto alla sua passione per la montagna.
Paola Gallerani • Laureata e specializzata in storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano, è stata caporedattore della 5 Continents Editions dalla sua fondazione al maggio 2006, occupandosi del coordinamento editoriale dei volumi d’arte e saggistica e di tutte le coedizioni con il musée du Louvre. Ha collaborato con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, catalogando l’archivio Giovanni Testori, di cui è la principale esperta, e ha insegnato Organizzazione delle attività editoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Nell’ottobre 2006 fonda con Marco Jellinek l’Officina Libraria, occupandosi oltre che della direzione editoriale anche della grafica della maggior parte dei volumi. Dal 2011 si occupa anche di LO, l’etichetta per bambini, scegliendone i titoli con Marco, spesso traducendoli e a volte inventandoli (anche con lo pseudonimo di Amélie Galé). Nel 2016 crea Ab Ovo edizioni, il marchio di Officina dedicato a salute e benessere.
Sandro Pertini-25 APRILE La Liberazione come festa popolare
ROMA-25 APRILE 1950-
Storia dei resoconti del 25 aprile di quell’anno nella stampa quotidiana.
Roma,La Storia del 25 aprile – Anche se già dal 1947 il 25 aprile era stato proclamato Festa nazionale, è solo nel 1950 che per la prima volta l’anniversario viene celebrato con una cerimonia ufficiale ed unitaria, come ci dice il manifesto affisso a cura del Comitato organizzatore:
“Aderendo all’invito di tutte le forze della resistenza, sotto gli auspici del Parlamento, le rappresentanze del Senato e della Camera e del Governo, le formazioni volontarie della lotta per la Liberazione, le Direzioni dei partiti che parteciparono alla riscossa, le organizzazioni dei combattenti e dei mutilati hanno deciso di celebrare con una solenne unica cerimonia in Roma la data del 25 aprile.”
Il significato della celebrazione unitaria, che trova insieme schierati autorità e popolo, è evidente.
A cinque anni di distanza dall’evento che è certamente tra i più grandi e decisivi della nostra storia, gli italiani non ingrati e non immemori desiderano elevare in concordia il loro pensiero di reverenda gratitudine alla memoria dei Martiri, dei Morti gloriosi, dei partigiani della libertà. Ma ora e al disopra del rito commemorativo, l’Italia rinnovata intende riaffermare la perenne validità del patrimonio ideale che si identifica nel movimento della Resistenza.
La Resistenza si riallaccia con i suoi valori etici e politici ai moti del nostro Risorgimento; lo completa attraverso la sempre maggiore partecipazione attiva e consapevole fatta di sacrifici e di sangue del popolo ai destini della Patria.
La celebrazione del 25 aprile nella unità degli animi e degli intenti di tutte le forze vive che vi parteciparono ha pertanto un valore di altissimo insegnamento. Per tutti gli italiani il patrimonio ideale della Resistenza è sacro e inattaccabile. Appartiene indissolubilmente – ora e sempre – alla storia del nostro Paese.”
Festa della Liberazione, 25 aprile significato e storia – NUOVA RESISTENZA antifascista
1)
Prima del 1950
Negli anni precedenti diverse manifestazioni erano state organizzate da associazioni, prima fra tutte l’Anpi, e da partiti, né erano mancate alcune iniziative del Governo. Così il 25 aprile 1946 il Ministro Gasparotto aveva pubblicato una relazione nella quale forniva i dati del contributo italiano alla Liberazione: l’esercito italiano il 1 gennaio 1946 aveva una forza di 385.156 uomini, secondo le aliquote fissate dagli alleati; le perdite furono di 128.506 morti; 29.398 furono i feriti.
2)
Nello stesso anno il Luogotenente generale del Regno, Umberto II di Savoia, aveva diretto un proclama alle Forze Armate ed aveva concesso medaglie d’oro al valor militare a partigiani e a famiglie di caduti, come farà anche l’anno successivo.
Alle manifestazioni in genere avevano partecipato autorità civili e militari, a volte lo stesso Primo ministro. Di solito si era trattato di Messe di suffragio, deposizione di corone d’alloro o di fiori, comizi. Al pomeriggio si erano aggiunte esibizioni di bande, feste, balli, pesche di beneficenza, la gara ciclistica “Gran Premio della Liberazione” sul circuito della Passeggiata Archeologica, che continuerà per alcuni anni, competizioni pugilistiche, proiezione di film e trattenimenti vari.
Nel 1946 “l’Unità” scrive: “Durante tutto il pomeriggio e la sera […] a Campo dei Fiori, a piazza Borghese, a piazza Testaccio, a piazza Ragusa, a Via Alberto da Giussano, a Porta Cavalleggeri, a Monte Sacro, sui vecchi selciati del centro, nei lontani quartieri della periferia i festoni e le stelle luminose issate su improvvisati spacci di bibite e vino si agitavano nel vento della sera.
I padri, le madri, i giovani, i bambini, le ragazze, gli uomini semplici si muovevano tra la musica che suonava per loro, liberi e felici nelle strade percorse ogni mattina per recarsi al lavoro. Due anni fa per quelle strade gli invasori e i nemici del popolo circolavano nelle
automobili mimetizzate. Due anni fa a giugno per quelle strade e per quelle piazze il popolo passò esterrefatto e delirante per la Liberazione.
[…] Quando il popolo balla nelle strade e nelle piazze, sotto il cielo, vicino alle sue case è un brutto giorno per tutti i suoi nemici. Quei balli e quei canti significano forza, perché sono espressione di amore, di solidarietà e di fratellanza.
Il popolo italiano ha ritrovato la solidarietà e la fratellanza combattendo e distruggendo il fascismo suo nemico. Ogni anno come quest’anno il popolo romano ricorderà quell’impresa, ritroverà il senso della sua forza e del suo amore ballando per le strade.”
Anche la Rai nel 1947 aveva trasmesso un programma di canti partigiani.
Numerosi erano stati anche i proclami e gli appelli pubblicati per il 25 aprile. Tra questi merita di essere ricordato quello che, nel 1949, l’Alleanza femminile ha diretto alle donne del Fronte, appello nel quale si dice:
“Nel giorno che ricorda la Liberazione del nostro Paese e la grandiosa epopea della lotta partigiana inviamo il nostro saluto a voi tutte, donne d’Italia, che avete or ora sostenuta una così dura battaglia per la democrazia, non come allora, aperta e leale, contro un nemico ben individuato, ma una battaglia sorda contro le calunnie e le perfidie e le insidie di coloro che non conoscono lotta onesta e sincerità d’intenti”
4)
L’appello si conclude con l’invito alle donne a restare unite con chi difende i valori della libertà, del lavoro, della pace.
Solo nel 1948 le manifestazioni erano state vietate. Quell’anno la lotta per le elezioni politiche era stata durissima. La Democrazia Cristiana aveva mobilitato tutte le sue forze, in primo luogo i parroci, contro il pericolo rosso; padre Lombardi, “il microfono di Dio”, tuonava dalla Rai; agli operai si ricordava che Nel segreto della cabina Dio ti vede, Stalin no. Gli animi erano esasperati e i disordini non erano e non sarebbero mancati. La Dc aveva vinto, ma i timori non erano placati e le manifestazioni, anche quelle per il 25 aprile, erano state vietate.
“L’Unità”, commentando il provvedimento, deplora il ministro Scelba che “ha assurdamente esteso anche alle manifestazioni indette per ricordare questa data solenne della storia d’Italia il provvedimento che vieta di tenere fino a nuove disposizioni manifestazioni e riunioni pubbliche. A tutti i prefetti ha diramato disposizioni in tal senso. Solo alla Dc il ministro Scelba, quest’uomo la cui faziosità si accentua ogni giorno che passa, consente di tenere comizi e cortei per le città d’Italia. E proprio in occasione del 25 aprile vien data notizia di manifestazioni che i democristiani – essi soli – si apprestano a tenere a Firenze con la partecipazione dei loro leaders politici per dare anche a questa giornata un carattere di parte.
Tuttavia il ministro Scelba si illude se pensa di poter impedire, con un suo decreto, che i lavoratori e i partigiani rievochino degnamente la lotta antifascista, che i caduti abbiano i loro fiori, che in tutte le città d’Italia i partigiani rivivano il 25 aprile col loro vecchio, genuino entusiasmo e che con essi tutta la popolazione democratica lo riviva.”
Partigiani
5)
Il 25, in realtà, la ricorrenza fu ricordata quasi ovunque. A Milano, però, si registrarono scontri e ferimenti.
Quanto ai temi trattati, nel corso degli anni essi si sono strettamente connessi agli avvenimenti in corso. Così, ad esempio, nel 1949, e negli anni immediatamente successivi, la celebrazione per la sinistra è legata alla propaganda per i Comitati per la pace che si oppongono ai blocchi militari, “bellicisti”, ed in particolare all’ingresso dell’Italia nella Nato, appena costituita. Si ricordano perciò innanzi tutto i 72.000 morti, le centinaia di migliaia di feriti, i 40.000 mutilati.
Un appello in tal senso è anche indirizzato dall’Udi alle donne perché rinnovino il giuramento di lottare per gli ideali che animarono la guerra di Liberazione:
«Mentre si minaccia il nostro Paese con patti bellici ricordiamo e facciamo ricordare a chi non vuole, che il nostro popolo avrebbe perduto l’indipendenza e la libertà se le eroiche armate partigiane non avessero riscattato, con l’onore, anche il diritto ad un maggior rispetto da parte dei vincitori: salutiamo nei partigiani d’Italia i primi ed i più degni difensori della pace del nostro Paese.»
ANPI –Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
6)
La prima celebrazione unitaria
Quando nel 1950 si decide la manifestazione ufficiale, fanno parte del Comitato che la organizza i Presidenti del Senato e della Camera, Bonomi e Gronchi, il Presidente del Consiglio De Gasperi, il primo Presidente della Repubblica De Nicola, gli ex Presidenti del Consiglio Orlando e Nitti, il senatore Croce, i membri del Cln dell’Italia centro- meridionale Casati, Lussu, Nenni, Reale e Scoccimarro, i membri del Cln dell’Alta Italia Marasca, Merzagora, Morandi e Pertini, i comandanti del Corpo Volontari della Libertà Parri, Longo e Cadorna, i segretari dei Partiti che parteciparono alla Resistenza Togliatti, Mondolfo, Reale, Saragat, Gonella e Villabruna, i Presidenti dell’ANPI, dell’Acnr e dell’Anmi Boldrini, Viola e Ricci, i dirigenti della Resistenza e i deputati e senatori Amendola, Bauer, Bergamini, Brosio, Calamandrei, Carandini, Cevalotto, Cianca, Della Torretta, Fancello, Gasparotto, La Malfa, Lombardi, Mattei, Molè, Ponti, Porzio, Quarella, Romita e Taviani e i dirigenti delle associazioni combattentistiche di Roma Bruno, Cirenei e Garzoni.
Per la ricorrenza, l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di guerra, l’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci e l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia hanno rivolto a tutti gli italiani il seguente messaggio:
Sandro Pertini-25 APRILE La Liberazione come festa popolare
“ITALIANI: ex partigiani, ex combattenti di tutte le guerre!
Ritorna con l’aprile l’anniversario del nostro riscatto.
Misconoscimenti ed oltraggi, che già seguirono al Primo Risorgimento, non possono né potranno mai diminuire la grandezza popolare e nazionale del Secondo Risorgimento d’Italia.
Da Cefalonia, da Napoli delle ‘quattro giornate’, dai campi di concentramento e dalle camere di tortura, dalle Fosse Ardeatine come da Marzabotto e da Vinca, dai paesi montani non piegati dalle rappresaglie, dalle città insorte e liberate parecchi giorni prima che arrivassero gli Alleati, dalle fabbriche e dai porti salvati, ritornano a noi in un vento di epopea i 72.500 Caduti per la Libertà. Essi ci ammoniscono, e ammoniscono il mondo, a ricordare la tragica esperienza della guerra e del fascismo, e l’eroica prova di capacità data dal popolo italiano risollevando dalla catastrofe la bandiera della Patria.
L’esempio che danno le Associazioni dei Combattenti e reduci, dei Mutilati e Invalidi di guerra e Anpi nel celebrare insieme il 25 aprile, come una delle grandi date patriottiche in cui si esaltano gli ideali comuni di libertà, di indipendenza e di pace, sia seguito dall’intera Nazione.
Erano di tutte le regioni d’Italia e di tutti i ceti i Martiri della Resistenza. Ed è stata la loro unità e l’unità attorno ad essi di tutto il popolo che ha salvato allora l’Italia.
Nella difficile situazione attuale sappia l’Italia trarre dall’anniversario della Liberazione motivo di concordia e di fierezza nazionale, luce per un avvenire di pace e di progresso, insegnamento generoso per le giovani generazioni.
Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra – Associazione Nazionale Combattenti e Reduci – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.”
7)
I commenti sui mezzi di informazione
Il richiamo al Risorgimento e la definizione della Resistenza come secondo Risorgimento e completamento del primo erano già stati molto frequenti negli anni precedenti e ritornano nel 1950. Anche l’articolo di Mario Vinciguerra sul “Messaggero” del 25 aprile accosta Resistenza e Risorgimento e considera la situazione dell’Italia nei due momenti. Ma la situazione d’oggi, egli dice, “è certo assai più difficile di quella degli anni che seguirono immediatamente le guerre d’indipendenza e che pure appariva così fosca ai patrioti di allora. Per essi il terreno della patria comune era più facile a ritrovare ed un’atmosfera di più elevata moralità permetteva cavalleresche rinunzie che oggi purtroppo appaiono inconcepibili. […] quello che rattrista e dà giustificate ragioni di preoccupazione è che in mezzo all’elemento fattivo del mondo politico non siano stati superati lo spirito e la pratica di parte. […] guardando la situazione quale è non m’illudo che la celebrazione di oggi riuscirà a portare una parte non trascurabile di italiani su un fondamentale piano di intesa nazionale. Si può dire che essa è ancora una truppa accampata e con le armi al piede. Non voglio discutere le ragioni e anche gli ideali per i quali essa intende combattere ancora. Non sono i miei; ma li comprendo. Però sul
terreno politico bisogna regolare le proprie azioni non su disquisizioni dottrinarie, sibbene sui risultati derivanti dal formarsi o dal rompersi di un certo equilibrio di forze.
L’intesa coi partiti rivoluzionari – malgrado l’intima contraddizione – sarebbe stata ancora possibile, se essi l’avessero voluta mantenere quale fu al tempo della Resistenza. Perché fosse mantenuta, era necessaria una garanzia di pace interna e di sicurezza nazionale. Questo non è stato possibile perché la contraddizione era troppo forte. In verità si tacque di fronte al tremendo pericolo comune; ma quando si cominciò a parlare, ci si accorse che mai come questa volta si parlavano due linguaggi, Per essi la Resistenza significava la difesa della rivoluzione; per noi significò e significherà sempre la difesa della Patria.”
25 APRILE La Liberazione come festa popolare
Non molto diverso è il tono delle parole dell’on. Taviani a Genova, dove ricorda il pericolo del bolscevismo e l’impossibilità di schierarsi con i comunisti che hanno dimostrato “di essere altrettanto totalitari e altrettanto pericolosi dei nazisti.”
9)
Nell’editoriale del “Giornale d’Italia” del 26 aprile si dice: “Nello spirito del Risorgimento […] oggi si celebra più che la Liberazione dai tedeschi la caduta di una dittatura e la fine di una guerra infausta che trovò gli italiani divisi e avversi, si celebra […] il ripristino del reggimento democratico nell’aureola splendente della santa Libertà. […] oggi alcuni partiti intendono distinguere, travisare, sopraffare, nel chiaro intento di conquistare posizioni di privilegio che contrastano non solo con lo spirito di quella unione, ma con la volontà liberamente espressa dal popolo in libere elezioni. […] mettere la Resistenza a servizio di un partito che si dice democratico, anche se aggiunge progressivo, quando è notorio che si tratta di una dittatura che tiranneggia le stesse classi sulle quali si regge, è un errore grossolano nel quale solo gli ingenui in buona fede e i falliti in cerca di una favola di salvezza possono cadere.”
10)
Anche il Pci fa riferimento al Risorgimento, ma con toni assai diversi, perché come aveva detto Secchia nel 1946: “i combattenti del nostro Risorgimento non hanno impugnato le armi per essere considerati, dopo un anno appena, dei briganti, per essere messi da parte come lo fu già Garibaldi dopo il 1860, a Caprera. La loro opera non è finita. I partigiani, i patrioti, tutti gli italiani insorti contro la barbarie tedesca e fascista hanno combattuto non solo per liberare l’Italia dalle orde teutoniche, ma per ripulirla dal marciume fascista, per liberarla dall’istituto monarchico causa di tante rovine, per fare dello Stato italiano una repubblica democratica e progressiva.
Il 25 aprile 1945 ha aperto la strada al 2 giugno 1946. Due date, un solo obiettivo: Repubblica, Pace, Lavoro.”
11)
Costante del resto è il richiamo alla pace e alla concordia da parte delle forze di centro e di destra, mentre la sinistra tende a porre l’accento sempre più spesso sulle speranze e gli ideali traditi. Nell’articolo di Arturo Colombi su “l’Unità” del 25 aprile 1950 si dice: “Il ricordo dei nostri morti, delle battaglie combattute in unità d’intenti, delle ansie e delle speranza comuni a tutti coloro che avevano scelto un’altra via che non fosse quella del fascismo e della guerra, è più che mai necessario oggi che taluni uomini e partiti, i quali pur combatterono, in un modo o nell’altro, a fianco della classe operaia e della sua avanguardia comunista e socialista, hanno abbandonato e tradito gli ideali della Resistenza e perseguitano i migliori combattenti della libertà e fanno causa comune con i ceti che costituirono la base e furono i profittatori della dittatura mussoliniana […]. Mentre il paese si apprestava a celebrare la data gloriosa di Aprile ed era lecito attendersi da chi dirige il governo una parola ispirata all’unità e alla concordia del popolo, abbiamo udito invece nuove parole di odio contro i partiti popolari ed espressioni invece di invitante rammarico verso i fascisti. […] come potrebbero gli italiani non essere angosciati dallo spettro della guerra, quando il governo è legato mani e piedi ai forsennati guerrafondai d’oltre oceano e sbarcano sul nostro suolo le armi di quegli imperialisti che non esitano a provocare incidenti di frontiera a diecimila chilometri dal loro territorio?
Non si ricostruisce il Paese asservendolo all’imperialismo del dollaro, né vi può essere ripresa economica, nella pace e nella libertà, finché si conta solo sulle elemosine interessate dello straniero e quando si perseguitano la classe operaia, i lavoratori e i partigiani, proprio perché essi sono rimasti fedeli agli ideali di rinnovamento sociale, di libertà e di pace che animarono la Resistenza.
25 APRILE La Liberazione come festa popolare
Per ricostruire e rinnovare l’Italia non occorre tanto l’aiuto americano e ancor meno quello dei rigurgiti fascisti. Occorre aver fiducia nelle virtù del nostro popolo […].
Come negli anni della guerra di Liberazione, così oggi noi abbiamo fiducia nel nostro popolo, è nel nostro popolo e nella sua unità antifascista che noi dobbiamo ricercare le forze e i mezzi per risorgere come popolo libero che costruisce il suo avvenire, che assicura il lavoro e il pane a tutti i suoi figli per risorgere come nazione grande, pacifica e rispettata nel mondo.
Il convegno su Resistenza e cultura
Ci sembra che questo sia lo spirito nel quale si realizza quell’unità antifascista, la quale ha trovato in questi giorni una espressione così alta al Convegno sulla Resistenza e sulla Cultura.”
12)
Questo Convegno, organizzato a Venezia, al quale hanno partecipato numerosi ed importanti intellettuali, si conclude con l’approvazione della seguente, importante mozione:
“Il Convegno ‘La Resistenza e la Cultura italiana’ tenutosi a Venezia i giorni 22, 23 e 24 aprile 1950, nella diversità e varietà di origini e di idee dei convenuti, dichiara che le sofferenze ed il martirio di tutto il popolo, nei lunghi anni della dominazione fascista e nazista, la lotta e la Liberazione che la cultura italiana, nello spirito delle sue tradizioni, suscitò e condusse con tutti gli italiani contro la tirannide fascista e per la Liberazione del Paese, sono patrimonio comune ed intangibile di tutta la nazione. Denuncia la insidia e la protervia delle forze ostili alle libertà nazionali che, male interpretando come debolezza il generoso sforzo di riconciliazione della democrazia, si riorganizzano nella sistematica denigrazione di ogni aspetto e fase della lotta per la libertà, in una azione consapevole volta a rendere inoperante la Costituzione, giovandosi dell’appoggio di elementi dirigenti fascisti reintegrati nell’apparato statale, nella scuola, nella stampa e tra l’inerte disinteresse dei pubblici poteri.
E richiama l’attenzione del Paese sui pericoli interni e internazionali del rifiorire delle forze che condussero l’Italia alla catastrofe.
Ricorda agli immemori che, se un Italia democratica e pacifica può oggi rivendicare il diritto dell’unità e dell’integrità nazionale, questo si deve al sacrificio dei partigiani e dell’esercito di Liberazione. Impegna tutte le forze della cultura e della politica democratica italiana a fermamente difendere i perenni valori di libertà politica, civile, religiosa, intellettuale che ispirò la lotta di Liberazione in Italia e nel mondo.”
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13)
Il giorno della Liberazione vengono lanciato vari messaggi: il sindaco di Trieste, ing. Gianni Bartoli, indirizza un messaggio a tutti i sindaci d’Italia; la Federazione Italiana Volontari per la Libertà esorta la nazione a difendere i valori della libertà e della pace contro ogni nostalgico tentativo di ritorno o di sovversione.
Il messaggio dell’Anpi è invece diretto alle Forze Armate e dice:
“Nel quinto anniversario della Liberazione salutiamo fraternamente gli Ufficiali ed i Soldati delle Forze armate alla cui storia gloriosa la vittoria del 25 aprile appartiene. Gloria ai reparti di tutte le Armi che l’8 settembre in Italia e all’estero, trovandosi nella tragica situazione di cui non essi, ma il fascismo era responsabile, seppero resistere a Roma come a Cefalonia, a Torino come nei Balcani, e per il riscatto d’Italia trasformarsi in partigiani. Onore agli Ufficiali e Soldati dell’eroico Corpo Italiano di Liberazione. E onore al popolo italiano che prendendo la iniziativa della guerra partigiana e costituendo il Corpo Volontari della Libertà, ha voluto ridare all’Italia e al suo Esercito indipendenza e dignità. La vittoria conquistata insieme ha permesso all’Italia di risorgere, ha acceso nel cuore dei suoi figli una nuova speranza.
Col nostro saluto, esprimiamo l’augurio che sia messa a frutto nelle Forze Armate della Repubblica, l’eredità preziosa della Resistenza e che sia rafforzata l’unione delle Forze Armate con gli ex partigiani, gli ex combattenti di ogni guerra e tutto il popolo per garantire insieme che la nostra Patria viva e prosperi nella pace, sia libera e indipendente come l’abbiamo voluta noi combattenti, come l’hanno sognata i nostri Morti, come la Costituzione dichiara.
Evviva il 25 aprile!
Evviva le Forze Armate della Repubblica!
Evviva l’Italia
L’Esecutivo dell’Anpi”
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14)
La Camera del lavoro ha inviato all’Anpi un saluto e l’auspicio della intensificazione della lotta per l’affermazione dei valori della Costituzione e della pace contro ogni tentativo di riportare il Paese al fascismo e alla guerra.
Il messaggio del Presidente della Repubblica
Infine il messaggio che il Presidente della Repubblica ha diretto al Comitato organizzatore dice:
“Nell’alta parola che le forze della Resistenza hanno dedicato al 25 aprile il Paese riconosce i sentimenti onde la sua anima è commossa al ricorrere di questa data. Per ogni italiano è soprattutto motivo di compiacimento il carattere unitario del richiamo a quei comuni ideali che, nel solco della gloriosa tradizione del Risorgimento, il nostro popolo ancora una volta volle e seppe tradurre in momenti segnati da martirii e sacrifici. Nella fedeltà di ognuno a quegli ideali, nel sapere in essi ritrovarsi di quanti li servirono e nel perpetuarsi in ogni cuore della memoria di coloro che ad essi fecero olocausto della vita, la Patria risorta ravvisa l’auspicio di un migliore avvenire garantito dal costante rafforzamento delle sue istituzioni democratiche e dalla perenne incolumità da ogni tirannide.”
15)
La cerimonia ufficiale, che viene trasmessa per radio, si tiene la mattina del 25 al Teatro Adriano, dove sono presenti i rappresentanti di tutti i partiti. Accanto all’oratore, on. Bonomi, Presidente del Senato, ci sono gli onorevoli Orlando, Togliatti e Gronchi. “L’Unità” sottolinea “la significativa assenza di De Gasperi dalla manifestazione unitaria”. La sala e la piazza Cavour sono affollatissime. Il comizio di Bonomi viene perciò diffuso da altoparlanti anche all’esterno, dove si accalca molta gente che non ha trovato posto nel teatro. L’on. Bonomi, presentato da Molè, ricorda come proprio a Roma dopo l’8 settembre i capi dei movimenti antifascisti si erano riuniti in un modesto appartamento di via Adda. C’erano i democristiani De Gasperi e Ruini, il comunista Scoccimarro, il liberale Casati, il socialista Nenni, il Leader del Partito d’Azione La Malfa. Lo stesso Bonomi li presiedeva. Egli rilegge il testo dell’ordine del giorno che fece allora votare: “Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta ed alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.”
16)
Bonomi ricorda poi i partigiani del Nord e le quattro divisioni dell’esercito (la “Cremona”, operante nei pressi della laguna di Comacchio, la “Friuli”, sull’Appennino, la “Folgore” e la “Legnano”, in Emilia Romagna) che dopo la Liberazione di Roma si posero al loro fianco, oltrepassando la linea gotica, per sconfiggere le ultime postazioni tedesche. Il contributo dato dall’Italia alla vittoria della democrazia, dice Bonomi non è stato adeguatamente apprezzato dagli alleati che hanno confuso le responsabilità di pochi con quelle di un popolo intero. “Ricordo […] i tristi giorni per la conferenza per la pace dell’estate 1946 a Parigi. Io fui dei tre Cirenei (gli altri erano gli on.li De Gasperi residente del Consiglio, e Saragat Presidente dell’Assemblea Costituente). […] L’Italia vi fu accolta come un reo che deve sedersi sul banco dei vinti […]. Nonostante tutto, molto cammino è stato fatto da allora nella faticosa opera di risollevare l’Italia nell’estimazione del mondo e specialmente dei vincitori, ma molto resta ancora da fare.”
Passando alla situazione interna dell’Italia l’oratore ricorda la necessità di mantenersi uniti, nonostante le diversità dei programmi di partito, nella difesa della libertà e della democrazia e per la difesa del patrimonio ideale per il quale si è combattuto e tanti martiri sono caduti. “Contro questo patrimonio […] si appuntano oggi accuse e rancori. Non si può negare che quel quadro luminoso possa aver avuto qualche ombra, perché tale è il destino di tutti i grandi eventi storici, ma non sono ammissibili recriminazioni da parte di coloro che in quelle circostanze si schierarono dalla parte del tedesco invasore.”
17)
Bonomi dice anche che: “Non possiamo tollerare oblio e ignominia contro il secondo Risorgimento”.
Altre manifestazioni
Accanto a quella unitaria si tengono a Roma anche altre manifestazioni. Tra quelle ufficiali ricordiamo che la mattina alle 10, il capo si Stato Maggiore generale, accompagnato dai segretari generali delle Forze Armate, ha deposto una corona sulla tomba del Milite Ignoto, mentre un reggimento rendeva gli onori militari e la banda dei Carabinieri intonava l’inno di Mameli. Lapidi in onore di caduti vengono scoperte a Cavalleggeri e al Salario.
Né sono mancate le manifestazioni popolari. Ne ricordiamo qualcuna, come i comizi che si sono conclusi con balli e trattenimenti tenutisi a cura dell’Anpi nelle sue varie sezioni. Quella dell’Esquilino, in particolare, ha offerto un pranzo nella trattoria Osvaldo a 50 bambini poveri con il contributo degli abbacchiari di Piazza Vittorio.
Anche i giovani organizzano manifestazioni: quelli della Fgci (la federazione giovanile comunista) di Val Melaina una conferenza e una serata danzante pro “Pattuglia”, quelli del quartiere Latino-Metronio fanno festa in sezione, mentre la Fgci del Prenestino va in gita a Tivoli.
25 APRILE La Liberazione come festa popolare
A cura di Franco Leggeri-
– Ricerca Storica Campi profughi in Sabina-
A cura di Franco Leggeri- Isa Folliero
per ANPI Sabina/-a bibliografica –
NOTE
Unica celebrazione nazionale dell’anniversario della Liberazione, “Il Messaggero”, 23 aprile 1950, p.1.
128.506 morti 29.398 feriti: “Il Messaggero”, 25 aprile 1946, p.1
A. R., Quando il popolo balla per le strade, “l’Unità” 27 aprile 1946, p.2.
25 aprile ’45 – 25 aprile ’49, l’“Unità”, 25 aprile 1949, p.1.
Popolo e partigiani rivivranno domani lo spirito dell’eroica insurrezione d’aprile, “l’Unità”, 24 aprile 1948, p.4.
25 aprile ’45 – 25 aprile ’49, “l’Unità”, 25 aprile 1949, p.1.
Solenne celebrazione unitaria della gloriosa insurrezione d’aprile, “l’ Unità”, 23 aprile 1950, p. 1.
Mario Vinciguerra, 25 aprile, “Il Messaggero”, 25 aprile 1950, p.1.
Oggi solenne rievocazione del V anniversario della Liberazione, “Il Messaggero”, 25 aprile 1950, p.1.
Sav., Rivendichiamo la nostra parte col rosso vivo del sangue versato dai partigiani e dai soldati, “Il Giornale d’Italia”, 26 aprile 1950, p. 1.
Pietro Secchia: Vittoria di popolo, 25 aprile, p.1
Arturo Colombi, L’Italia esalta il patrimonio della Resistenza fondamento e garanzia della Repubblica Democratica, “l’Unità”, 25 aprile 1950, p. 1.
Con un solenne impegno unitario si è chiuso il Convegno di Venezia, “l’ Unità”, 25 aprile 1950, p. 1.
La celebrazione ufficiale a Roma, “l’Unità”, 25 aprile 1950, p. 1.
Oggi solenne rievocazione, cit., 25 aprile 1950, p.1.
L’annuale della Liberazione celebrato solennemente in tutta Italia, “Il Messaggero”, 26 aprile 1950, p.1.
Ibidem
Nilde Iotti e Palmiro TOGLIATTI-25 APRILE La Liberazione come festa popolare25 APRILE La Liberazione come festa popolare25 APRILE La Liberazione come festa popolare25 APRILE La Liberazione come festa popolare
Andrea Pozzetta-Lui solo non si tolse il cappello-Editore Interlinea
Descrizione del libro di Andrea Pozzetta-Lui solo non si tolse il cappello-Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola-Tra la provincia di Pavia e la val d’Ossola, passando per la Svizzera e per il più vasto continente europeo, la vita avventurosa di Ettore Tibaldi (1887-1968)si dipana in una biografia che per la prima volta ne ricostruisce il lungo e tortuoso percorso politico e civile. Medico, scienziato, docente, militante socialista, repubblicano, interventista durante gli anni della prima guerra mondiale, organizzatore degli ex combattenti e reduci, antifascista, dirigente della Resistenza, ideatore e presidente del governo della Repubblica partigiana dell’Ossola, esule, protagonista della vita politica del secondo dopoguerra fino al raggiungimento della carica di vicepresidente del Senato: questi sono solo alcuni dei principali risvolti di un’esistenza vissuta lungo una precisa linea di condotta etica e morale, fondata sulla lotta per la democrazia e la giustizia sociale. In nome dei suoi ideali Ettore Tibaldi fu perseguitato dal regime fascista, perse il lavoro di docente universitario, fu allontanato dalla famiglia, ma seppe anche resistere e offrire un esempio di azione, come durante le settimane di libertà della Repubblica dell’Ossola. La storia di Ettore Tibaldi è la storia di un uomo che ha dato tutto di se stesso per un’idea di civiltà e di democrazia.
Ettore Tibaldi(1887-1968)
Titolo
Lui solo non si tolse il cappello
Sottotitolo
Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola
Da “la Provincia“, Roberto Lodigiani su Lui solo non si tolse il cappellodi Andrea Pozzetta
«A questa figura di medico e antifascista militante, ancora oggi molto conosciuta in Val d’Ossola, relativamente poco a Pavia, ha dedicato una dettagliata biografia Andrea Pozzetta, ricercatore storico e docente delle superiori: “Lui solo non si tolse il cappello. Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola” (Interlinea) verrà presentato domani nel Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria (ore 17); dialogheranno con l’autore Elisa Signori e Marina Tesoro».
Andrea Pozzetta
Da “La Stampa Novara“, su Lui solo non si tolse il cappello di Andrea Pozzetta
«“Lui solo non si tolse il cappello” è il libro dedicato a Ettore Tibaldi che viene presentato oggi alle 17,30 a Casa Ceretti a Intra. Il volume, opera di Andrea Pozzetta, è edito da Interlinea e l’autore, proprio per questo libro, ha di recente vinto il premio “Repubblica partigiana dell’Ossola” assegnato dal Comune di Domodossola.»
Andrea Pozzetta
Andrea Pozzetta
Andrea Pozzetta
Andrea Pozzetta, dottore di ricerca in Storia, è insegnante, ricercatore e direttore scientifico presso la Casa della Resistenza di Verbania. Collabora in particolare con le attività del Centro di documentazione.
Nelle sue ricerche si è occupato di storia politica dell’Italia repubblicana, di storia culturale della prima guerra mondiale, di storia delle culture politiche, di antifascismo e Resistenza.
POZZETTA Andrea
Casa della Resistenza, Centro di documentazione, via Turati 9, 28924 Verbania (VB)
BIOGRAFIA
Studi e formazione
Dottorato di ricerca in Storia (XXIX ciclo) presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Pavia. Tesi: «Tutto il partito è una scuola». Le scuole di partito del Pci e la formazione dei quadri (1945-1981) (tutor prof. Pietro Angelo Lombardi).
Laurea specialistica in Storia dell’Europa moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Pavia, anno accademico 201o/2011. Tesi in storia contemporanea: Essere comunista tra Italia e Unione Sovietica. Luigi Longo 1922-1969, relatore professoressa Marina Tesoro.
Diploma di master universitario di primo livello in Professioni e prodotti dell’editoria, anno accademico 2011/2012, presso Collegio Santa Caterina da Siena-Università degli Studi di Pavia.
Laurea triennale in Scienze Politiche (curriculum storico-politico), anno accademico 2007/2008, all’Università di Pavia.
PUBBLICAZIONI
Monografie
Passaggi di speranza. Contrabbandieri, passatori, fuggiaschi e partigiani in Ossola e Verbano, Verbania, Tararà 2024.
Lui solo non si tolse il cappello. Vita e impegno politico di Ettore Tibaldi, protagonista della Repubblica dell’Ossola, Novara, Interlinea 2021.
«Tutto il Partito è una scuola». Cultura, passioni e formazione nei quadri e funzionari del Pci (1945-1981), presentazione di Albertina Vittoria, Milano, Unicopli, 2019.
Industriarsi per vincere. Le aziende e la Grande Guerra, presentazione di Alessandro Barbero, Interlinea, Novara 2018.
Curatele
Leopoldo Bruno Carabelli, Memorie di un ribelle, a cura di Andrea Pozzetta, Interlinea, Novara 2018.
Articoli
«Morire stroncati dal piombo era preferibile». Lettere di rifugiati ossolani in Svizzera (1944-1945), in «I sentieri della ricerca», 2018.
«Tutto il Partito è una scuola». Esperienze formative nelle scuole di partito del Pci degli anni Settanta, in «Contemporanea», n. 3 (2016)
Un medico sovversivo: Ettore Tibaldi tra garibaldinismo e antifascismo, in «I sentieri della ricerca. Rivista di storia contemporanea», n. 19/20 (2014/2015).
Luigi Longo e la costruzione del “nuovo internazionalismo”: 1964-1969 in «Storia e Futuro», n. 35, Giugno 2014.
Contributi e capitoli in opere collettanee
«Nel collettivo apprendo un metodo di lavoro». Pratiche di formazione delle scuole di partito del Pci tra secondo dopoguerra e anni Settanta, in Maestri e pratiche educative dall’Ottocento a oggi. Contributi per una storia della didattica, a cura di Monica Ferrari e Matteo Morandi, Scholé, Brescia 2020
La prima guerra della modernità. Esperienze tra economia e società nel Piemonte Orientale, in La città di Novara e il Novarese nella prima guerra mondiale,a cura di Cristina Vernizzi, Interlinea, Novara 2018.
Tra «eroi capovolti» e «custodi del disordine». Curzio Malaparte interprete della storia europea (1921-1931), in “Chroniques italiennes web” 35 (1/2018) Curzio Malaparte Esperienza e scrittura a cura di Maria Pia De Paulis-Dalembert.
Un «luogo venerato, che virtù d’avi consacrava al sapere». Momenti celebrativi e autorappresentazioni nell’Università di Pavia, in Almum Studium Papiense. Storia dell’Università di Pavia, vol 2, tomo II, a cura di Dario Mantovani, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, Milano 2017.
Schede: Il Circolo di studi sociali: Carlo Bianchi e le origini del socialismo pavese e Le reti di sociabilità di studenti e professori, in ibidem.
«Ci sono veramente delle canaglie fra i soldati!» Curzio Malaparte: da Viva Caporetto! a La rivolta dei santi maledetti, in Inchiostro proibito, Libri censurati nell’Italia contemporanea, presentazione di Roberto Cicala, Edizioni Santa Caterina, Pavia 2012.
In difesa del “Buon costume”. A proposito delle forme di censura nell’Italia contemporanea, in Inchiostro proibito, Libri censurati nell’Italia contemporanea, presentazione di Roberto Cicala, Edizioni Santa Caterina, Pavia 2012.
Curatele di mostre
Mostra documentaria e fotografica Ettore Tibaldi: medico sovversivo. Da Certosa di Pavia alla Repubblica dell’Ossola (Comune di Domodossola, sala esposizioni, 2-26 ottobre 2019).
Mostra documentaria e fotografica Mino Milani: una città, la guerra, la giovinezza (Musei civici del Castello Visconteo di Pavia 30 ottobre-11 novembre 2018).
LA PRIMA AL CINEMA CAPRANICA DI ROMA CITTÀ APERTA DI ROBERTO ROSSELLINI –
ROMA CITTÀ APERTA il film si ispira alla vicenda di Dante Bruna che nell’aprile del 1944, per 70 mila lire, denuncia ai tedeschi – provocandone l’arresto e la fucilazione – don Giuseppe Morosini e il sottotenente Marcello Bucchi (trucidato alle Fosse Ardeatine) perché collegati con la banda partigiana “Mosconi”, attiva a Monte Mario. La storia giudiziaria di Bruna si conclude, invece, il 13 ottobre del 1953 con la conferma di 30 anni di carcere.
P.P.PASOLINI:“Ecco… la Casilina, su cui tristemente si aprono le porte della città di Rossellini… ecco l’epico paesaggio neorealista, coi fili del telegrafo, i selciati, i pini, i muretti scrostati, la mistica folla perduta nel daffare quotidiano le tetre forme della dominazione nazista” da (P.P. Pasolini, La religione del mio tempo). Con Roma città aperta, proiettato i primi di ottobre per l’anteprima italiana al Festival del Quirino, Rossellini riproduce la memoria stessa del suo pubblico, ponendosi suo malgrado quale messia della nuova cinematografia neorealista. Se il riconoscimento di tale ruolo suscita in Italia qualche perplessità, gli americani si dicono entusiasti dell’opera rosselliniana. Tanto da indurre la critica a considerare Rossellini la chiave che aprirà le porte degli investimenti americani nel cinema italiano.
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