-Indagini archeologiche Via Aurelia Antica-Località Malagrotta-(2011-2013)–
Malagrotta-Osteria a sinistra della Via Aurelia Antica, o strada di Civitavecchia, 8 miglia lungi da Roma , posta nel tenimento di Castel di Guido, poco prima del diverticolo di Maccarese. Essa è nella valle del Rio di Galeria, che si traversa sopra un ponte : ivi dappresso è un Casale , un granaio , la chiesa , ed un fontanile fornito di acqua da una sorgente condotta, i cui bottini veggasi a destra della strada. Il nome Malagrotta suol dirsi da una grotta che si vede sul colle a sinistra ; a me sembra però che sia un travolgimento del nome Mola Rupta, che almeno fin dal secolo X. questo fondo portava: dico fin dal secolo X, poiché non voglio fare uso della Carta di donazione di Santa Silvia per le ragioni che furono indicate nell’articolo su Maccarese. Or dunque negli annali de’ i Camaldolesi, ne’ quali si riporta quell’Atto di donazione , si trova pure riportata una Carta genuina pertinente all’anno 995, ( leggasi il tomo I.p.p.126) nella quale si ricorda la cessione e permuta fatta da Costanza nobilissima donna di una metà di un suo Casale denominato Casa Nobula, posto circa l’ottavo miglio fuori della porta San Pietro nella contrada che corrisponde appunto a Malagrotta. E questa contrada si ricorda ancora anche in altre Carte degli stessi annali, come in una dell’anno 1014 nella quale si pone fuori di porta San Pancrazio nella via Aurelia, e si nomina come Casale ,in un’altra carta del 1067 si nomina come affine al Rio Galeria, e nel secolo XIII. Col nome di Castrum Molarupta colle chiese di Santa Maria e di Santa Apollinare si designa nelle bolle di papa Innocenzo IV. Nel 1249 e di Papa Bonifacio VIII. Nel 1299, con le quali furono conferiti i beni di San Gregorio: come pure in due Atti pertinenti all’anno 1280 e 1296, documenti che sono inseriti nell’appendice del tomo V. degli Annali suddetti. Quindi il nome Molarupta rimaneva sul principio del secolo XIV. E quanto a questa denominazione così antica , che rimonta, come si vide , almeno al secolo X. facile è derivarne la etimologia da una mola ivi sul fiume Galeria esistente, la quale rottasi, ne derivò al fondo ed alla contrada il nome do Molarupta.
Roma: Malagrotta – via Aurelia-indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.Committente:Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)
Indagini archeologiche Via Aurelia-Località Malagrotta(2011-2013)
Roma: Malagrotta – via Aurelia–indagini archeologiche finalizzate all’individuazione ed all’apposizione del vincolo di un tratto della via Aurelia antica e della mansio di età imperiale ad essa afferente.
Committente: Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma (dott.ssa Daniela Rossi)
Scavi a cura della Cooperativa Parsifal – Cooperativa di Archeologia.
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Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Flaminia Leggeri Fotoreportage –Tirana, la città colorata, è la capitale dell’Albania è un paese indicato come una delle 10 destinazioni da non perdere dalla Rough Guide. Ecco i loro 10 motivi perché visitare Tirana. Marzo sarà un vero mese di festa non solo per i residenti di Tirana, ma anche per i suoi numerosi visitatori che arrivano da altri distretti dell’Albania e dall’estero.
Nell’ambito del centenario della capitale, il Comune di Tirana ha organizzato un’agenda di attività, che ricopre tutto il mese di marzo.
La notizia è stata annunciata dallo stesso sindaco Erion Veliaj, che ha condiviso con molti follower sui social network, l’agenda delle attività festive delle prossime quattro settimane.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
Tirana è solitamente in cima alla lista delle città peggiori d’Europa. Dopo decenni di dittatura stalinista, grigia e triste, povera di infrastrutture e servizi, di certo può rimanere poco attraente per i piu’ superficiali. Nel 1992. con il collasso del regime comunista, la situazione è solo peggiorata, e il caos ha avuto la meglio, ingolfando la città e creando la migliore condizione per la crescita della criminalità.
Adesso tutto è cambiato. Oggi Tirana, anche se rimane comunque una città caotica, è una piacevolissima cittadina, centro della cultura, dell’intrattenimento e della politica dell’Albania. Ha visto crescere rapidamente la sua popolazione, arrivando quasi ad un milione di abitanti ( la totalità della popolazione albanese ne conta tre milioni ). La città ti sorprenderà, ed in tutto il paese non si troverai nulla del genere!
Ecco le 10 ragioni per andare a Tirana.
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Sperimentare l’ospitalità degli abitanti
Essere invitati per un caffè o un rakia (un brandy di prugna) è un’abitudine locale e troverete gli albanesi amichevoli verso i visitatori stranieri. Essendo stata isolata dal resto del mondo per la seconda metà del ventesimo secolo, molti sono curiosi dell’afflusso di viaggiatori.
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Tirana, la città colorata
Poiché è una piccola città, è possibile coprire facilmente la zona centrale di Tirana in un giorno. Ma oltre a un’esplorazione piacevole della manciata di musei, monumenti, edifici storici e parchi, trovate un po’ di tempo per ammirare le abitazioni tiranesi . Verniciati con colori arcobaleno, aggiungono luminosità a quello che un tempo era un paesaggio urbano piuttosto monocromatico.
La cultura del caffè
L’Albania potrebbe non essere famosa per la sua cucina, ma non è un motivo per non fare attenzione al cibo. Cercate l’ottimo caffè e birra (l’Islam è la religione predominante, ma è praticata in modo molto tollerante), nonché pasticcini decenti e buon gelato. I caffè sono il luogo perfetto per guardare la gente, impostato su una colonna sonora di albanese e di Euro-pop.
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Una lezione di storia a Piazza Scanderbeg
Il centro di Tirana è Piazza Scanderbeg, che prende il nome dall’eroe nazionale che ha dato vita anche se brevemente all’indipendenza dell’Albania dall’Impero Ottomano nel XV secolo. Al centro della piazza c’è una grande statua bronzea di Scanderbeg a cavallo (immaginate Alessandro Magno incontra Thor), e la Moschea Et’hem Bey, uno degli edifici più preziosi della nazione che risale alla fine del XVIII secolo, che si trova nell’angolo sud-est. Sempre nella stessa piazza si trovano anche i principali musei della nazione, tra cui il Museo Storico Nazionale albanese adornato con un enorme muro socialista di partigiani vittoriosi.
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Quale occasione migliore per visitare una piramide dell’era moderna?
Troverete la piramide di cemento di Tirana, Piramida, a pochi passi da Piazza Skanderbeg. Costruito nel 1987 dalla figlia del dittatore albanese Enver Hoxha (che tirannicamente governò l’Albania dal 1944 al 1985) come museo a suo padre, ora sembra abbandonata, spogliata delle piastrelle che una volta la coprivano e spruzzi di graffiti. Si parla di demolirlo, ma alcuni sostengono che dovrebbe essere mantenuto intatto come un monumento adatto allo spirito dello stalinismo.
Per il “Blloku”, il cuore della movida albanese
“Blloku” è un quartiere di Tirana. Letteralmente, il suo significato è, Il Blocco ex quartiere dei dirigenti del Comitato Centrale del Partito del Lavoro. Progettato come “quartiere giardino” dall’architetto Gherardo Bosio, divenne dopo la Seconda Guerra il quartiere residenziale del dittatore Enver Hoxha. Oggi è il cuore della “movida” albanese. Oggi si trovano alberghi costosi, caffè di design, ristoranti e negozi.
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Per la vita notturna
Ogni anno la scena notturna di Tirana si muove su di un livello e i club della città, in gran parte situati intorno a Blloku, variano notevolmente in tema e atmosfera. È meglio visitarli con qualcuno del posto per sapere dove andarci (e quali evitare). Siate tuttavia consapevoli che l’Albania è ancora una società tradizionale.
Un pò di relax in Parku i Madh (Grand Park)
Questo grande parco boscoso è dove molti cittadini di Tirana vanno per passare qualche ora, sia che si tratti di pesca nel lago artificiale, picnic sui prati o passando il tempo in uno dei tanti bar-caffetterie. Tenuto conto del traffico opprimente di Tirana, questo parco consente di brillare l’atmosfera mediterranea della città.
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Per visitare il Parco Nazionale del Monte Dajti
Se volete una pausa dal centro della città, dirigetevi verso il Parco Nazionale del Monte Dajti, popolare tra i residenti di Tirana per l’aria fresca e le passeggiate fuori dal centro abitato. Potete prendere una funivia costruita dagli Austriaci (costosa) o il bus della città (a buon mercato) e una volta lì troverete alberghi, pensioni e ristoranti se ti senti di trascorrere la notte.
Un salto al mare, perché no?
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La città storica di Durazzo sul mare Adriatico è stata per decenni, dove i potenti di Tirana andavano per rilassarsi (Enver Hoxha e Re Zog disponevano di case vacanze). Oggi sono in gran parte i turisti kosovari che si avvalgono di numerosi hotel e ristoranti economici lungo il lungomare. Le cose sono ruvide e pronte, ma Durazzo è vivace, poco costosa e facilmente accessibile.
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Situata geograficamente al centro del Paese, circa 35 km a est di Durazzo e circa 40 km a nord-ovest di Elbasan, sorge in una valle racchiusa da montagne e colline (Monte Dajt a est, le colline di Kërrabë e Sauk al sud, le colline Vaqarr e Yzberisht a ovest e Kamzë a nord). È attraversata da due fiumi (il Tirana e il Lana) ed è affiancata da diversi laghi (lago di Tirana, Thatë, Farkë e Paskuqani) e da una riserva naturale nazionale (parku i madh).
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È la sede del potere del governo albanese, con le residenze ufficiali del presidente e del primo ministro albanese e del parlamento albanese. La città è oggi il principale centro economico, finanziario, politico e commerciale, nonché culturale e religioso d’Albania, sede di istituzioni pubbliche e dell’università, e grazie alla sua posizione nel centro del paese, snodo di trasporti e traffici, e al suo moderno trasporto aereo, vicino ai poli marittimi, ferroviari e stradali, è in progressiva crescita urbana. È stata insignita dei titoli di Capitale europea della gioventù per il 2022[5] e di Capitale mediterranea della cultura e del dialogo per il 2025[6].
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Estesa su un’ampia pianura al centro dell’Albania, con il monte Dajt che si eleva a est e una valle a nord-ovest che si affaccia sul mare Adriatico in lontananza, è contornata da diversi laghi artificiali.
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Territorio
Tirana dal Satellite
Il Comune di Tirana si trova a (41,33 ° N, 19,82 ° E) nell’omonimo distretto. L’altitudine media di Tirana è 110 metri (361 piedi) sul livello del mare mentre il punto più alto è a 1828 m (5,997.38 ft) sulla sommità del Gropà Mali.
Ricca d’acqua, è situata in una pianura fertile. Bagnata dal fiume di Tirana (lumi i Tiranës), il cui affluente Lana attraversa il centro abitato[7] e affiancata nella zona sud dal fiume Erzen.
La comune comprende anche diversi laghi artificiali: il lago artificiale di Tirana, intorno al quale fu costruito il Grande Parco, il lago di Farka, di Bovilla, di Allgjate, di Kus, di Kashar e di Vaqarr.
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Il clima di Tirana è temperato, con estati calde e inverni freschi e umidi.[8] Grazie alla sua posizione nella pianura di Tirana e alla vicinanza al Mar Mediterraneo, la città è particolarmente influenzata da un clima stagionale mediterraneo. È tra le città più piovose e soleggiate d’Europa, con 2.544 ore di sole all’anno
Flaminia Leggeri Fotoreportage –“Tirana, la città colorata”-
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Kappler-faccia tagliata venne per testimone a raccontarci il massacro. Si disse fanatico e sacro nella sua grande fatica d’abbattere ostaggi, un portone di buio aperto dai fari la cava di Roma antica.
Su quel trofeo di vendetta – sempre più deboli i forti ciechi nel giallo alone del tufo in polvere – in vetta lui solo a sparare per tutti i carnefici arresi all’orrore, lui solo totale furore di mazza sugli innocenti. E tacquero i venti, il silenzio non era del mondo ma di quel sangue assetato.
Kappler-faccia tagliata parlava in tedesco, il pubblico zitto l’interprete muto. Nessuno guardava più in giro, tutti fissi in un punto, quel punto: Kesselring, il viso compunto nell’ordine, il fatto compiuto. E nulla andò perduto di quelle parole, io non le riesco a staccare da me – e non da me, ma dal fitto del petto con cui le respiro. Blut diceva il sangue e tu-fo il tufo come noi, mostrando fra le sue dita la gialla arenaria che frana su quella morte impaurita, sulla giustizia vana che lascia parole.
All’Appia antica se il sole rallegra la via e s’odono i passi perduti dei morti cristiani, ricorda gli eterni minuti di questo supplizio. Domani i giusti saranno con noi nel tempo che i morti non hanno. Or la pietà dell’inganno vi chiude le tombe già aperte perché la morte vi opprima col peso di tutte le offerte, col senno di poi. Per altri innocenti, per altro furore s’accenda la prima la stessa parola d’amore che ci fu tolta: domani.
(da La storia delle vittime, 1966)
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ALFONSO GATTO
“Ad ascoltarlo [Kappler] erano tutti fissi dai propri banchi: egli descriveva la scena delle esecuzioni, esaltandosi alle sue stesse parole, stancandosi della fatica del massacro come allora, ma senza rompere l’equilibrio necessario… Erano queste stesse precisazioni che spiegavano l’episodio del massacro nel suo svolgimento e lo rendevano terribilmente vero”:Alfonso Gatto (1909-1976) seguì come giornalista del Mattino del popolo di Venezia il processo ad Albert Kesselring e Herbert Kappler, responsabili dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, compiuto come rappresaglia dai tedeschi il 24 marzo 1944, all’indomani dell’attentato di Via Rasella nel quale i partigiani uccisero 33 soldati nazisti. Fu una vera e propria strage a sangue freddo: i tedeschi, dopo averli portati nelle cave di pozzolana sull’Ardeatina, uccisero dieci italiani per ogni loro soldato, sbagliando anche i calcoli poiché le vittime furono 335, rastrellate nelle carceri di Via Tasso e di Regina Coeli – in particolare partigiani, monarchici, massoni ed ebrei – e tra i detenuti in attesa di giudizio anche per reati non politici. Poi fecero saltare la cava con le mine per sigillarla. Fu una delle crudeltà più impressionanti e gratuite dell’intera guerra, che lasciò un segno profondo nella coscienza della nuova Italia.
Mausoleo delle Fosse Ardeatine Il 23 marzo 1944, in un’azione di guerra in via Rasella a Roma, un gruppo di partigiani uccideva 33 soldati nazisti e ne feriva 38. Pronta la risposta tedesca: per ogni soldato ucciso sarebbero stati eliminati dieci italiani. Il giorno dopo, 24 marzo, 335 uomini, scelti a caso dalle truppe di occupazione tedesca tra prigionieri politici, tradotti dal carcere di via Tasso, ebrei e civili furono giustiziati. Le vittime vennero poi gettate nelle antiche cave di pozzolana situate a ridosso di via Ardeatina che vennero poi fatte brillare su ordine di Kappler per occultare la carneficina.
I movimenti di automezzi nei pressi del luogo dell’eccidio e le successive esplosioni furono però uditi da alcuni religiosi che si trovavano nelle vicinanze in qualità di guide alle catacombe. Durante la notte, i frati entrarono nelle cave e scoprirono i corpi ammassati uno sull’altro.
Per commemorare il tragico evento, e offrire degna sepoltura ai martiri della resistenza, il governo post-liberazione decise di “erigere sul luogo della vendetta tedesca un monumento a perenne ricordo dei Martiri e di tutti i caduti della guerra di Liberazione”. A questo scopo, nel settembre 1944, il Comune di Roma indisse un concorso – il primo dell’Italia democratica – per l’edificazione di un mausoleo da consacrare simbolo della Resistenza alle violenze del Reich.
I vincitori del concorso, gli architetti Giuseppe Perugini, Nello Aprile e Mario Fiorentini, progettarono un semplice parallelepipedo cavo in cemento a protezione dei sacelli dei martiri posti fuori terra ma in stretto collegamento con il luogo dell’eccidio.
La costruzione del sacrario iniziò il 22 novembre 1947. Nel 1949, il Mausoleo fu inaugurato solennemente in occasione del quinto anniversario della strage. Da allora, ogni 24 marzo, l’evento viene commemorato al cospetto di autorità, associazioni partigiane e di deportati, studenti e comuni cittadini, mentre i nomi delle 335 vittime vengono scanditi ad alta voce.
La suggestiva cancellata da cui si accede al mausoleo è opera dello scultore e pittore Mirko Basaldella. Il senso che assume è altamente simbolico di una scena di feroce massacro tratteggiato dalle figure disperatamente contorte che vi sono rappresentate.
L’imponente gruppo scultoreo in travertino posto sul piazzale è opera dello scultore di Francesco Coccia, e rappresenta tre personaggi a simbolo delle tre età. I corpi ritratti sono orientati rispettivamente verso le cave, verso il luogo delle sepolture e verso il piazzale, come a indicare il percorso al visitatore.
Il film Roma città aperta, struggente capolavoro diretto da Roberto Rossellini nel 1945, con Anna Magnani e Aldo Fabrizi ricorda quei tragici avvenimenti. Aldo Fabrizi è don Pietro, figura che ricorda i due religiosi, Don Giuseppe Morosini, fucilato a Forte Bravetta, e Don Pietro Pappagallo, ucciso nelle Fosse Ardeatine. Anna Magnani, invece, è Pina, la moglie incinta di Fabrizio, uno dei prigionieri condotti alle Fosse Ardeatine. Per cercare di salvarlo, insegue il camion sul quale è stato caricato, ma viene falciata da una raffica di mitra.
Goethe J.W., Viaggio in Italia -Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
Goethe J.W., Viaggio in Italia -,Roman Campagna
Goethe J.W., Viaggio in Italia -William Stanley Haseltine-Morning LIght,Roman Campagna
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12) – Louis Pasteur, il primo microbiologo-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 12) – Louis Pasteur, il primo microbiologo- Lo scienziato che dimostrò che i germi esistono e possono causare malattie –Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Il bicentenario di Louis Pasteur, il primo microbiolog Lo scienziato che dimostrò che i germi esistono e possono causare malattie raccontato dalla professoressa Carla Renata Arciola.
Professoressa-Carla Renata Arciola
Duecento anni fa, il 27 dicembre 1822, nasceva a Dole, un paesino della regione francese del Giura, Louis Pasteur, chimico e pioniere nello studio dei microrganismi patogeni.
Carla Renata Arciola, docente di Patologia Clinica e di Storia della Medicina nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, ci racconta l’enorme importanza delle sue ricerche per il progresso della scienza medica e per la salute dell’umanità intera.
Tutti hanno sentito nominare almeno una volta la “pastorizzazione”, il processo di conservazione degli alimenti che da Louis Pasteur ha preso il nome, ma il suo contributo al progresso scientifico in medicina è stato assai più ampio, ce lo può riassumere?
Louis Pasteur era un chimico e condusse i suoi primi studi sulla fermentazione della birra e del vino e sulla malattia del baco da seta. Si occupò di fermentazione su richiesta di alcuni fabbricanti di birra, timorosi per le sorti delle loro produzioni. I suoi studi misero in evidenza che le alterazioni nella fermentazione di questi alcolici potevano essere evitate semplicemente portando a 55- 60° C la loro temperatura per tempi molto brevi. In questo modo si otteneva la bonifica delle bevande senza alterare le loro caratteristiche organolettiche. La tecnica è stata poi utilizzata sino ai nostri giorni per “pastorizzare” il latte, le uova, i succhi di frutta e molto altro.
In tutt’altro contesto, ma sempre utilizzando il calore, Pasteur riuscì a trovare una brillante soluzione per prevenire i danni dovuti alla pebrina, la malattia epidemica del baco da seta: elevare la temperatura di qualche grado per sollecitare l’uscita delle farfalle, così da poter esaminarle al microscopio, individuare precocemente quelle contaminate ed escluderle dalla catena produttiva della seta.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Un’altra grande innovazione di Pasteur fu il concetto di “attenuazione” e di “vaccino attenuato”, che egli introdusse studiando il cosiddetto “colera dei polli”, una malattia che colpisce gli allevamenti avicoli. Pasteur coltivò materiale contaminato, proveniente da polli uccisi dalla malattia, in un brodo di coltura e poté constatare che poche gocce del brodo bastavano a uccidere un pollo sano. Si accorse però che i polli trattati con una brodocoltura vecchia di alcune settimane non morivano più e collegò il fenomeno all’attenuazione della virulenza dovuta all’invecchiamento della coltura. Inoltre, i polli così vaccinati risultavano protetti dalla malattia anche in caso di esposizione a colture fresche e vitali: questo perché il precedente contatto col vaccino attenuato aveva stimolato le loro difese immunitarie. Successivamente Pasteur estese le sue ricerche e le sue applicazioni ad altre malattie del bestiame, come il carbonchio.
Uno straordinario successo di Pasteur in ambito vaccinale riguardò la rabbia silvestre. Si deve infatti a Pasteur il merito di aver progettato e preparato il primo vaccino per il trattamento della rabbia animale e umana. La rabbia, con le sue vittime furiose, si manifestava molto drammaticamente e il trattamento cui i malati erano allora sottoposti, cioè l’applicazione di tizzoni ardenti sulle ferite, era impressionante. Pasteur sviluppò un vaccino che saggiò prima sui cani: così vaccinati, questi non sviluppavano più la rabbia se esposti ai morsi di animali rabbiosi. Poi una drammatica emergenza lo spinse a saggiare il vaccino anche sull’uomo: gli portarono un bambino che aveva subito quattordici morsi da un cane rabbioso. L’altissima probabilità che il bambino morisse di rabbia convinse Pasteur a procedere subito con la somministrazione del suo vaccino sperimentale, affiancato da un medico (Pasteur non era medico) che eseguì materialmente le iniezioni. Il bambino fu sottoposto a un ciclo di vaccinazioni con dosi crescenti e si salvò. Fu così che Pasteur divenne famoso e ricercato: vittime di morsi di cane e di lupo giunsero nei laboratori di Pasteur da tutta la Francia, e anche dall’estero, per ricevere il nuovo trattamento antirabbico. A Parigi, per il trattamento della rabbia, fu costruito appositamente, con finanziamenti pubblici, l’Istituto Pasteur.
Pasteur dimostrò anche che la “Teoria dei germi patogeni” non è solo una teoria ipotetica ma è la realtà del mondo che ci circonda. Fino a quel momento invece, l’origine delle malattie che ora chiamiamo “infettive” (peste, colera, tifo, ecc..) come era spiegata dalla medicina?
Oggi è ovvio riconoscere i batteri e i virus come causa di malattie che possono trasmettersi da un individuo all’altro ma, sino alla fine dell’Ottocento, l’origine delle malattie era ancora molto misteriosa. All’epoca di Pasteur le numerose epidemie di colera focalizzarono il dibattito sulle possibili cause di tale malattia e sui possibili meccanismi della sua diffusione. Si ipotizzava allora vagamente la natura contagiosa di molte malattie epidemiche, ma senza un coerente collegamento concettuale fra cause, effetti, evoluzione. La teoria che anche esseri viventi microscopici potessero essere coinvolti nel contagio e nello sviluppo delle malattie, benché fosse stata avanzata in più occasioni sin dal Seicento, non era mai stata dimostrata. Sino ad allora, era emersa solo una lunga serie di ipotesi e di congetture che mettevano in relazione, in modo disordinato e talora capriccioso, la fermentazione, la putrefazione, i miasmi, il contagio, l’infezione, la corruzione. Il passaggio dalle confuse ipotesi sulla natura dei contagi a una spiegazione convincente ed unitaria fu il risultato dello sviluppo di una nuova disciplina, la microbiologia, e di una nuova teoria, la teoria dei germi. Il termine microbiologia fu introdotto ufficialmente nel 1881 da Pasteur in occasione del Congresso Internazionale di Medicina di Londra e sancì il riconoscimento della teoria dei germi per spiegare l’origine di molte malattie epidemiche. Secondo la teoria, in estrema sintesi, i microbi sono causa di malattie che possono essere trasmesse da un individuo all’altro. Pasteur avviava così una vera e propria rivoluzione concettuale nella storia del pensiero scientifico.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Pasteur dimostrò inoltre la fallacia della c.d. “generazione spontanea” dei viventi. Una teoria che risaliva ai tempi di Aristotele. Per il filosofo greco gli organismi viventi nascono da altri organismi, ma possono anche generarsi spontaneamente, ad esempio scaturendo dalla putrefazione della terra. Nel 1860 l’Accademia Francese delle Scienze istituì un premio per chi fosse riuscito a far luce sulla millenaria questione con una dimostrazione scientifica. Louis Pasteur vinse il premio, dimostrando l’impossibilità della formazione spontanea dei microrganismi e spiegando che quella che appariva come “generazione spontanea” era invece il frutto di una contaminazione dall’esterno. Gli esperimenti di Pasteur rimangono un brillante esempio di rigore sperimentale.
Per chiudere, una domanda, per così dire, “di stagione”. Pasteur era nato durante le feste natalizie. Quali cibi del pranzo di Natale non potremmo mangiare (o potremmo mangiare, ma con maggior rischio per la salute) se non ci fosse stato Louis Pasteur?
La grandezza delle scoperte di Pasteur si riverbera su molti aspetti della nostra vita e della nostra salute ed è tuttora attualissima. In questo periodo di festa potremo ringraziare Pasteur quando porteremo sulle nostre tavole il panettone impastato con ingredienti pastorizzati, come le uova e il latte, o farcito con panna e crema, quando faremo bollire a lungo il brodo, per renderlo più gustoso ma anche per sterilizzarlo, oppure quando condiremo i tortellini con la panna (pastorizzata), quando stapperemo lo spumante (pastorizzato) o anche, in onore di Pasteur, lo champagne (pastorizzato) per il brindisi augurale di Natale e Capodanno.
Fonte-ALMA MATER STUDIORUM – Università di Bologna –
Vita e attività di Louis Pasteur, il primo microbiologo-Chimico e biologo francese (Dôle 1822 – Villeneuve l’Étang, Seine-et-Oise, 1895). Considerato il padre della microbiologia, a lui si devono sia la scoperta della fermentazione sia l’introduzione delle vaccinazioni e dei metodi di sterilizzazione.
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
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Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Louis Pasteur-(Dôle 1822 – Villeneuve l’Étang, Seine-et-Oise, 1895)Di umili origini–(il padre era un conciapelli), compiuti gli studî secondarî a Besançon, si iscrisse (1843) all’École normale supérieure di Parigi, addottorandosi nel 1847. Le sue prime ricerche furono di cristallografia. Il chimico tedesco E. Mitscherlich aveva osservato (1844) che il paratartrato e il tartrato doppio di soda e di ammoniaca, perfettamente identici quanto alla composizione chimica, alla forma cristallina e alle proprietà fisiche, esercitavano azioni diverse sulla luce polarizzata, senza riuscire a trovarne una spiegazione. P. si impegnò per diversi anni a ricercare la causa di un tale fenomeno, individuandola infine nella loro dissimmetria molecolare (1848). Gli studî sulla dissimmetria molecolare (P. continuerà ad occuparsi di cristallografia fino al 1857) mostrarono in seguito tutta la loro importanza dando luogo al sorgere della stereochimica. Nel 1854 fu nominato docente nella facoltà di scienze di Lilla. In quegli anni (le sue prime annotazioni sui Cahiers de laboratoire sono del 1855), P. cominciò ad occuparsi del problema delle fermentazioni, indotto a ciò anche dalle pressanti richieste di alcuni fabbricanti di birra preoccupati per le sorti del loro prodotto. L’idea allora dominante intorno all’origine e alla causa delle fermentazioni era quella sostenuta dal chimico tedesco Liebig che riteneva la fermentazione un fenomeno puramente chimico. Nel suo primo Mémoire sur la fermentation appelée lactique (1857), P. sostiene che “la fermentazione si mostra correlata alla vita“. Nella fermentazione alcolica in particolare egli notò la presenza di globuli il cui comportamento era quello di esseri viventi microscopici. Giunto a questo punto P. fu naturalmente portato a chiedersi quale fosse l’origine di questi esseri microscopici, capaci di indurre importanti fenomeni di trasformazione delle sostanze fermentescibili. Fu così che si trovò ad affrontare lo studio della generazione spontanea, antica teoria esplicativa dell’origine della vita e risalente almeno ad Aristotele. Nel sec. 17° tale teoria fu dimostrata falsa dall’italiano F. Redi per l’origine spontanea di mosche e insetti di varia natura. La teoria risorse nel sec. 18° per certi aspetti con la disputa Spallanzani-Needham. Nel 1858 F. A. Pouchet comunicò all’Académie des sciences alcuni risultati favorevoli all’eterogenesi. La disputa Pasteur-Pouchet sulla generazione spontanea durò a lungo e si concluse con il “trionfo” di P., il quale riuscì a dimostrare che con alcuni accorgimenti tecnici i liquidi utilizzati negli esperimenti, se precedentemente sterilizzati, non presentavano alcuna produzione vitale. Bisogna dire che i motivi ideologici presenti nel dibattito fecero apparire Pouchet un materialista convinto e, di contro, P. un difensore dello spiritualismo e della religione ufficiale. Un’attenta ricostruzione storica ha dimostrato che i termini reali della questione stanno ad indicare l’erroneità di tale semplificazione. Dalla teoria della generazione spontanea alla teoria generale dei germi patogeni il passo era breve e quasi obbligato. La medicina in generale e la chirurgia in particolare acquisivano i concetti fondamentali di sepsi e asepsi. Il grande chirurgo inglese J. Lister, invitando P. a Edimburgo dichiarava: “Ho bisogno di aggiungere che grande soddisfazione sarebbe per me mostrarvi qui quanto la chirurgia vi deve”. Dal 1865 al 1870 P. si dedicò quasi interamente allo studio delle malattie del baco da seta. A conclusione di questi suoi lavori poteva affermare che le due principali malattie che lo colpiscono, la pebrina e la flaccidezza, sono malattie ereditarie e contagiose, indicando i mezzi per prevenirle. Negli anni Ottanta P. si impegnò nello studio di numerose malattie infettive come il colera dei polli e il carbonchio. Grazie a queste ricerche egli riuscì a mettere a punto un metodo di attenuazione degli agenti patogeni mediante l’azione dell’ossigeno dell’aria. Attraverso l’inoculazione preventiva dei germi attenuati egli riusciva a prevenire la malattia nella sua forma più virulenta e mortale. Nasce così la tecnica della vaccinazione preventiva delle malattie infettive. Ma gli studî che gli diedero fama imperitura furono, per la loro drammaticità e spettacolarità, quelli sulla rabbia. Questi studî segnarono, per P., il passaggio dalla sperimentazione animale a quella sull’uomo. Contrariamente a quanto avveniva per le altre malattie infettive, P. non riuscì mai a isolare l’agente patogeno della rabbia. Riuscì però, col contributo fondamentale di É. Roux, a mettere a punto un metodo di attenuazione del virus rabbico. Da qui l’importante prassi della vaccinazione preventiva. La spettacolarità dei risultati ottenuti da P. sull’uomo ha contribuito a creare un vero e proprio mito-P., che attraverso una acritica vulgata storiografica ci ha tramandato un’immagine agiografica e di maniera del grande scienziato francese. Solo di recente, anche sulla base di un attento studio dei manoscritti inediti (Cahiers de laboratoire), si è cominciato a restituire una dimensione storica realistica alla scienza pasteuriana e al suo autore nella sua concreta figura di uomo e di scienziato del sec. 19°. Numerosi furono gli incarichi accademici cui P. venne chiamato: direttore degli studî scientifici all’École normale (1857-67), prof. di chimica alla Sorbona (1867-74), direttore del laboratorio di fisiologia-chimica all’École normale (1867-88); nel 1888 (fino al 1895) fu direttore dell’Institut P., fondato per lui, per ricerche di sieroterapia e microbiologia. Nel 1882 era stato eletto all’Académie française. Fu socio straniero dei Lincei (1888). Delle opere si ha un’edizione completa a cura di M. Pasteur-Vallery-Radot (Oeuvres, 7 voll., 1922-39); la Correspondance è stata pubblicata in 4 volumi (1940-51). Fonte -Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie-
Velletri-Sabato 22 e domenica 23 marzo si svolgerà a Velletri la 29° Festa delle Camelie e per l’occasione i Musei Civici di Velletri: Museo Archeologico O.Nardini, Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani e Area Archeologica delle SS. Stimmate, apriranno entrambi i giorni dalle ore 10.00 alle ore 19.00.
La giornata di sabato 22 inizierà alle ore 1o.30 con il laboratorio dedicato ai bambini dai 3 ai 5 anni Fiori tra i capelli, in cui i piccoli dopo una lettura animata sul tema dell’amicizia e dell’inclusione, creeranno un copricapo di fiori di carta da indossare durante la festa. Lo stesso si ripeterà domenica 23 alle ore 15.00 per bambini dai 6 anni in su.
Alle 12.00 sia di sabato 22 che di domenica 23 partirà una visita guidata all’Area Archeologica delle SS. Stimmate, mentre domenica 23 alle 18.00 accompagneremo i visitatori al Museo di Geopaleontologia e Preistoria dei Colli Albani alla scoperta di fossili e di altre testimonianze ritrovate nel nostro territorioper raccontare la Preistoria; sabato 22 alle 15.00 ripeteremo un’esperienza che ha già avuto grande successo: In Con-Tatto con la Preistoria, una visita guidata tattile in cui i partecipanti grandi e piccoli, tutti bendati, potranno toccare fossili, rocce e altri oggetti risalenti a migliaia di anni fa.
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
I fiori raccontano sarà un itinerario nel Centro storico tra chiese, strade e musei che avrà come tappa sabato 22 la Chiesa di Santa Lucia V.M. mentre domenica 23 si fermerà alla Chiesa di Sant’Antonio Abate per cercare in entrambi gli itinerari i fiori nascosti negli angoli di Velletri.
Sabato 22 alle ore 16.00 il percorso partirà da Piazza Martiri di Pratolungo, dove si trova il Giardino delle camelie mentre domenica 23, per lo stesso orario, l’appuntamento sarà davanti alla fontana di Piazza Mazzini. La direttrice museale, Raffaella Silvestri, accoglierà i visitatori sia sabato che domenica alle ore 17.00 nell’iniziativa Il tè delle camelie. Tra le Metamorfosi di Ovidio e le rappresentazioni nell’arte per scoprire come i reperti esposti nel Museo Archeologico parlino di mitologia ancora oggi tra letteratura e arte.
Sabato 22 alle ore 18.00 all’Area archeologica delle SS.Stimmate verrà presentato il libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque, in presenza dell’autore Manlio Lilli e del Prof. Marco Nocca.
Domenica 23 alle 10.30 al Museo di Geopaleontologia e Preistoria e nella Sala Conferenze dei musei il pubblico adulto potrà imparare a preparare degli oleoliti con piante officinali spontanee che si trovano nelle aree naturali dei dintorni, sotto la guida di una biologa con specializzazione in botanica e abilitazione professionale. I prodotti realizzati saranno destinati ad un utilizzo ad uso topico per migliorare il benessere della pelle, dei capelli o come olio da massaggio. Tutto il materiale necessario verrà fornito insieme ad un taccuino per le ricette.
Alle ore 15.00 di domenica 23 partirà da Piazza Mazzini la Riproposizione della festa romana delle Floralia a cura del Gruppo Archeologico Veliterno A.p.s. E di Il Flauto Magico A.p.s. che si concluderà di fronte all’Area archeologica delle SS. Stimmate.
In occasione della Festa delle Camelie il biglietto di ingresso ai Musei sarà ridotto
(3,00 € per l’ingresso a un museo; 5,00 € per l’ingresso nei due musei; 1,00 € per l’ingresso all’Area archeologica).
Visite guidate e In Con-Tatto con la Preistoria
Durata: un’ora circa.
€ 4,00 a partecipante
Prenotazione consigliata
Itinerario I fiori raccontano
Durata: un’ora e mezza circa.
gratuito
Prenotazione obbligatoria.
Laboratorio Fiori tra I capelli
Durata: un’ora e mezza circa.
€ 3,00 a partecipante.
Prenotazione obbligatoria.
Il tè delle camelie
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Prenotazione consigliata
Preparazione di oleoliti e guida al riconoscimento di piante officinali
Durata: due ore circa.
€ 25,00: 1 persona; € 40,00: 2 persone
Itinerario Riproposizione della festa romana delle Floralia
Durata: un’ora circa.
Gratuito
Presentazione del libro Rimpianti e rimorsi di un uomo qualunque
Durata: un’ora circa
Gratuito
Per informazioni e prenotazioni:
06 9615 8268 – 3441547465 – museicivicivelletri@gmail.com
Velletri (Roma)- Programma dei Musei Civici per la 29^Festa delle Camelie
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina – Livia (così la chiamavano tutti, ma al Battesimo era Oliva Ulpia Candida) Pietrantoni nacque a Pozzaglia Sabina, in provincia di Rieti e diocesi di Tivoli, il 27 marzo 1864. Era la seconda degli undici figli di Francesco Pietrantoni e Caterina Costantini. Già nell’infanzia si sentì attratta dalla preghiera e dalla solitudine: amava spesso andare a pregare in una cappellina in località Rifolta e in altre chiese del suo paese. Iniziò a lavorare prestissimo: prima dei dieci anni contribuì ai lavori di costruzione della strada da Poggio Moiano a Orvinio, portando secchielli di ghiaia. Tra i quattordici e i quindici anni, invece, raccolse le olive nelle campagne dei dintorni di Tivoli. Allo stesso tempo, aiutava in famiglia e curava la nonna e il padre, infermo a letto. Nel tempo libero, visitava gli anziani di Pozzaglia.
Sant’Agostina Pietrantoni-Cappella Ospedale Spallanzani-Roma-Foto di Franco Leggeri
Respinse almeno due proposte di matrimonio, ma solo a uno zio, fra Matteo, confidò che avrebbe voluto farsi religiosa e dedicarsi al servizio dei malati, anche lavorando giorno e notte. Il parente cercò una congregazione adatta a lei e individuò le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret. Il 22 marzo 1886 Livia arrivò alla Curia generalizia delle suore per il postulato, mentre il 13 agosto 1887 vestì l’abito religioso, cambiando nome in suor Maria Agostina. Fu immediatamente impegnata come infermiera nell’ospedale Santo Spirito di Roma, nella corsia per i bambini. Dal 1889 al 1894 fu in servizio tra i tubercolotici: contrasse lei stessa la malattia, ma domandò di restare in quella corsia.
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina
Sant’Agostina Pietrantoni : una santa della Sabina-Mosaico Policlinico Umberto I-Roma-Foto di Franco Leggeri
Uno dei malati, Giuseppe Romanelli, la minacciava di continuo. I superiori le raccomandarono di stare attenta, ma suor Agostina sentiva di dover proseguire ad accudirlo. Romanelli fu espulso dall’ospedale e cominciò a maturare pensieri di vendetta, specie contro la religiosa. Approfittando dell’orario di visita, il 13 novembre 1894 l’aggredì, pugnalandola alle spalle. Alla consorella che la soccorse e che le domandò se lo perdonava, suor Agostina rispose con un cenno e un sorriso, poi morì.Beatificata il 12 novembre 1972 dal papa san Paolo VI, è stata canonizzata il 18 aprile 1999 da san Giovanni Paolo II, ma la comunicazione fu data alle suore il 20 maggio successivo. Il 29 aprile 2003 La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha emesso il Decreto con cui la Santa veniva nominata Patrona degli Infermieri italiani. I suoi resti mortali, che il 3 febbraio 1941 erano stati traslati nella cappella della Curia generalizia delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida, dal 14 novembre 2004 sono venerati nella cappella a lei dedicata della chiesa parrocchiale di San Nicola di Bari a Pozzaglia Sabina. La sua memoria liturgica cade il 13 novembre, giorno della sua nascita al Cielo, ma a Pozzaglia Sabina i festeggiamenti in suo onore sono stati spostati alla seconda domenica di settembre.
A prescindere dal modo in cui è stata riconosciuta la sua santità, suor Agostina ha vissuto un Vangelo di amore e di servizio, sin dalla più tenera età. Non è un luogo comune, ma un fatto accertato dal delinearsi della sua biografia.
Aver scelto di essere una figlia spirituale di santa Giovanna Antida e, per traslato, di san Vincenzo De Paoli (sotto la cui protezione la fondatrice mise la congregazione da subito) le era sembrata una naturale conseguenza di quanto già compiva al suo paese. Inoltre, una Suora di Carità non dev’essere infatti solo piena di buona volontà, ma anche dotata di una certa resistenza fisica, dote di cui lei non era certo priva, se si pensa ai lavori pesanti che aveva affrontato quand’era ancora in famiglia.
Ammalandosi di tubercolosi, però, sembrava venire meno questo requisito. Lei mostrò, come già quando sosteneva le compagne nella raccolta delle olive, un carattere non meno tenace, chiedendo di restare tra i tubercolotici anche una volta guarita. Lì, però, trovò ugualmente la sua fine.
Le foto sono di Franco Leggeri-Biografia da Avvenire giornale della CEI
Sant’Agostina Pietrantoni:
Santa Agostina Pietrantoni: FIGLIA della SABINA
Il più antico ospedale di Roma, il Santo Spirito, si trova a pochi passi dal Vaticano. A pochi passi dal luogo dove furono giustiziati i primi martiri cristiani e lo stesso san Pietro. Tra queste mura sono passati grandi santi, per visitare e confortare gli ammalati: Filippo Neri, Carlo Borromeo, Giuseppe Calasanzio, Vincenzo Pallotti, Giovanni Bosco. E qui ha trovato la morte, e la gloria, una serva dei poveri, che il 18 aprile 1999 il Papa Giovanni Paolo II ha elevato all’onore degli altari e che la Conferenza Episcopale Italiana ha dichiarato Patrona degli Infermieri d’Italia, il 20 maggio 2003. Suor Agostina, al secolo Livia Pietrantoni, fu uccisa al Santo Spirito il mattino del 13 novembre 1894 da un malato di tubercolosi, Giuseppe Romanelli. Un episodio tragicamente casuale, all’apparenza. Il gesto di uno squilibrato, si direbbe. Ma per il popolo di Roma, che sa riconoscere i santi, non fu così, fin da subito.
Sant’Agostina Pietrantoni-Direzione Ospedale Spallanzani-Roma- -Foto di Franco
Il giorno delle esequie di suor Agostina a Roma si bloccò la circolazione. Ne dà notizia Il Messaggero del 16 novembre 1894: «Mai spettacolo più imponente fu visto in Roma. Fin dall’una di pomeriggio le adiacenze dell’ospedale di Santo Spirito e tutte le strade per le quali si credeva dovesse passare il corteo erano affollate di gente a segno di rendere difficoltosa la circolazione». Migliaia di persone si assieparono ai cigli delle strade, inginocchiandosi al passaggio della salma. «E non era la solita lunga fila di soldati allineati, la folla dell’ufficialità dai colori rari e smaglianti», commentava il cronista de Il Tempo: «Era il popolo tutto; era la Roma del popolo; era la gentile, caritatevole santa Roma che dava l’ultimo saluto a colei che, sacrificando palpiti, pensieri, vita si era data angelicamente alla carità, al sollievo dei miseri…».
Sul carro funebre spiccava la corona dei fiori della comunità israelitica, che recava scritto: «Alla martire della carità». Dietro il feretro, il professor Achille Ballori, direttore dell’ospedale, gran Maestro Aggiunto della Massoneria, che sarebbe morto anch’egli, assassinato, nel 1914, nell’atrio di Palazzo Giustiniani. Era stato lui a mettere in guardia suor Agostina da quel Romanelli, era stato lui a stilare il certificato di morte e a eseguire l’autopsia.
Suor Agostina era entrata in quell’ospedale il 13 agosto 1887, subito dopo aver ricevuto l’abito religioso. Aveva ventitré anni. Il professor Ballori assunse la direzione dell’ospedale tre anni dopo. Il suo primo atto era stato quello di espellere i 37 padri concezionisti che ne curavano l’assistenza spirituale. Erano usciti in processione una volta per sempre, croce in testa, cantando il Magnificat. Tolti i crocifissi e le immagini sacre, alle suore che restavano fu fatto divietodi pregare in pubblico, parlare di Dio agli ammalati, proporre loro i conforti religiosi. Era la Roma di Ernesto Nathan, gli anni dell’anticlericalismo aperto e ostinato. Sulla porta della corsia dei malati di tisi campeggiava la scritta: «Libertà di coscienza». Forse suor Agostina non capiva neppure il senso di quell’espressione.
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina
FIGLIA della SABINA
Non aveva ricevuto una grande istruzione. Seconda di undici figli, Livia Pietrantoni venivada un paese della Sabina, Pozzaglia, e aveva conseguito solo la licenza elementare. Non che non fosse portata allo studio, ma le difficoltà economiche della famiglia l’avevano presto condotta lontano dai banchi di scuola, sul cantiere della strada provinciale Orvino-Poggio Moiano allora in costruzione, dove trasportava secchi di ghiaia per una paga giornaliera di cinquanta centesimi. Vi lavorò a più riprese, tra i sette e gli undici anni, riuscendo nonostante questo a concludere il ciclo primario degli studi con buoni voti. La sua formazione religiosa era stata quella del catechismo e delle poche letture spirituali che orecchiava dal nonno Domenico. Il Rosario, la messa, i fiori che portava alla Madonna nella cappellina della Rifolta, poco fuori del paese. E il lavoro, fuori e dentro casa, dove papà Francesco era costretto dall’artrite e si doveva badare ai fratellini.
Sant’Agostina Pietrantoni-Esterno Cappella Ospedale Spallanzani-Roma- -Foto di Franco Leggeri
Dal CARATTERE DOLCE e FERMO
Ne era uscito un carattere forte, capace di esporsi per far allontanare un sorvegliante che importunava le sue compagne sul lavoro o per ottenere una riduzione di orario nel mese di maggio, in concomitanza con la funzione della sera nella chiesa parrocchiale. E una dolcezza ferma che le compagne e i ragazzi del luogo notavano. A suo riguardo un vecchio pastore dichiarò, dopo la sua morte: «Quando veniva sulla montagna a prendere il latte delle sue pecore, ci metteva addosso una strana confusione. Di parole e di frasi equivoche le nostre labbra ne pronunciano senza difficoltà. La presenza di Livia ci imponeva una soggezione e un rispetto che noi non sapevamo spiegarci».
Sant’Agostina Pietrantoni-Cappella Ospedale -Spallanzani-Roma-Foto di Franco Leggeri
Fra le SUORE della CARITÀ
La vocazione venne quasi per caso, con la visita in paese di uno zio, fra Matteo, che intuì la sua disposizione e scrisse per lei una lettera di presentazione alle Suore della Carità di santa Giovanna Antida Thouret. Si presentò, impacciata, a Roma, nel gennaio del 1886, e non fu ammessa. Ci volle l’intervento del parroco per farla accettare anche senza la “dote” che allora ogni novizia doveva portare con sé nell’Istituto. Il noviziato non le fu di peso, abituata com’era alla fatica quotidiana. All’ingresso ufficiale nella vita religiosa la maestra delle novizie rivolse loro un breve discorso: «Siete quaranta, come i martiri di Sebaste; che nessuna di voi esca dal numero. Forse qualcuna di voi vorrebbe imitarli nel martirio?».
Al Santo Spirito suor Agostina fu introdotta dapprima nella corsia dei bambini, senza trovare difficoltà, poiché era avvezza a badare ai fratelli fin dall’infanzia. Per questo fu mandata presto nel reparto degli adulti. Difficili, e a volte pericolosi. Il clima, come si è detto, non era favorevole alla presenza delle suore. Che dovevano spesso sopportare difficoltà, insulti, oscenità, impedimenti di ogni genere, e svolgere in silenzio il loro lavoro. Il dottor Buglioni, in servizio presso il Santo Spirito, ha lasciato di lei un ricordo: «Sempre dolcissima, si prestava a fare non solo quello che era suo dovere, ma anche di più e molto volentieri; pronta, umile, ilare». La disponibilità al servizio la espose nel 1889 al contagio di una malattia infettiva che la portò a un passo dalla morte. Durante la malattia, la consorella che la assisteva, aveva esclamato: «Se suor Agostina guarirà, la manderemo a fare l’infermiera nella corsia dei tubercolotici». E suor Agostina guarì, tra la meraviglia dei medici. Ci è rimasta la lettera con cui ne informa i familiari: «Miei carissimi genitori, qualche mese fa sono stata gravemente inferma; io dovevo morire ed essere tolta per sempre al vostro affetto, alla vostra tenerezza. In quale dolore sareste oggi immersi se ciò fosse avvenuto! Ma no, non vogliate affliggervi e con me date lode a Dio poiché al presente, per grazia speciale di Maria santissima non solo sono guarita, ma ho acquistato ancor più salute di prima. Date, dunque, lode al buon Dio e unitevi a me per ringraziarlo di tanto favore concessomi senza mio merito».
Gli ultimi cinque anni della vita li trascorse in corsia in mezzo ai malati di tubercolosi. La sua discrezione era riempita di gesti di carità. Un testimone oculare ricorda di lei: «Alla sera, prima di ritirarsi, non mancava di accostarsi al letto dei più gravi e dei più pericolosi; raccomodava loro i guanciali e diceva loro qualche buona parola. Accadeva talvolta che ammalati strani o scontenti le facessero qualche sgarbatezza, come gettare a terra il piatto delle vivande o perfino addosso a lei. Anche in questi casi suor Agostina non perdeva la pazienza e non li trattava severamente».
Un giorno, per aver sequestrato un coltello a un degente, fu aggredita e bastonata, tanto che le consorelle iniziarono a temere per lei. «Siamo molto esposte, ma il Signore ci custodisce» rispose suor Agostina «e perciò non dobbiamo trascurare il nostro dovere di carità per sfuggire il pericolo, dovesse pure costarci la vita… Dobbiamo aspettarci tutto. Gesù fu trattato così».
Riuscì col tempo a nascondere in uno sgabuzzino un’immagine della Vergine, che ogni giorno, come faceva da bambina alla cappellina della Rifolta, adornava di fiori. E di piccoli biglietti, alcuni dei quali si sono conservati: «Madonna Santissima,» leggiamo in uno di essi «consolate, calmate, convertite voi quell’infelice a cui io non posso parlare». Al letto dei moribondi, testimoniarono alcuni, «faceva la parte del sacerdote che non poteva essere chiamato. Vi passava ore ed ore ininterrottamente e il moribondo dimostrava di gradire la sua presenza, le sue parole di conforto, di pace, di ricordi e di persone care».
Anche quando contrasse la tubercolosi, poco prima di morire, chiese con insistenza alla Superiora il permesso di restare al suo posto: «Mi lasci tra i tubercolosi! Ci sono abituata. Se viene un’altra a sostituirmi, prende il male lei pure, e così siamo due vittime invece di una sola. Il Signore sa quello che conviene all’anima mia, e se vuole mi guarirà».
Giuseppe Romanelli era un pregiudicato, noto a Roma con il soprannome di “Pippo er Ciocco”. La polizia e la direzione dell’ospedale conoscevano le sue turbolenze e quando fu espulso dal reparto per intemperanze minacciò suor Agostina, che non c’entrava nulla, di vendicarsi su di lei. Scrisse su un biglietto: «Suor Agostina, non ti resta che un mese di vita, morirai ammazzata dalle mie stesse mani». La sera del 12 novembre 1894 le consorelle, preoccupate per la sua salute, l’avevano invitata a prendersi alcuni giorni di riposo. Suor Agostina rispose: «Dovremo stare coricate tanto tempo dopo la morte che ci conviene stare un po’ in piedi mentre siamo vive».
Sant’Agostina Pietrantoni-Cappella Ospedale Spallanzani-Roma-Foto di Franco Leggeri
“MADONNA MIA, AIUTATEMI!”
La mattina del 13 novembre l’assassino l’attese in un corridoio buio che portava verso la dispensa. Tre colpi alla spalla, al braccio sinistro e alla giugulare, prima che potesse rendersi conto di ciò che accadeva. Poi, dopo una colluttazione con l’unico testimone della scena, Romanelli le infisse il pugnale nel petto. «Madonna mia, aiutami», furono le sue ultime parole.
Eseguita l’autopsia, il professor Ballori constatando che non vi erano contrazioni di nervi o di cuore che indicassero qualsiasi sforzo di reazione osservò: «Suor Agostina si è fatta scannare come un agnello». Al processo contro il Romanelli il professore stesso testimoniò che suor Agostina non aveva mai “provocato” in alcun modo l’assassino né trasgredito le disposizioni che vietavano di parlare di religione.
Sant’Agostina Pietrantoni: una Santa figlia della Sabina
Nel Novecento si sono verificati numerosi casi di guarigioni scientificamente inspiegabili dovute all’intercessione di suor Agostina, che hanno portato, nel dopoguerra, all’apertura della causa di beatificazione e poi alla canonizzazione. Quando Paolo VI la proclamò beata, il 12 novembre 1972,la paragonò a una delle martiri più care al popolo romano, sant’Agnese: «Oggi è il giorno natalizio di una vergine: seguiamone la purezza. Oggi è il giorno natalizio di una martire: offriamo il nostro canto al Signore».
-La tirannia della bellezza nella Roma dei Borgia-
Casa Editrice Bompiani
Una biografia di Giulia Farnese storica sorprendente come un romanzo: la vita piena di intrighi e colpi di scena della nobildonna che al pari di Lucrezia Borgia segnò un’epoca. Una biografia storica sorprendente come un romanzo: la vita piena di intrighi e colpi di scena della nobildonna che al pari di Lucrezia Borgia segnò un’epoca. I libri di storia riservano uno spazio residuale alle figure femminili soprattutto dell’antichità e dell’epoca moderna. Giulia Farnese, nata a Capodimonte nel 1475 e morta nel 1524 a Roma, meglio nota come Giulia la Bella, è una delle rare eccezioni. E a buon diritto: non solo la sua avvenenza catturò l’attenzione di papa Alessandro VI ma grazie allo stretto rapporto con la curia papale si spalancarono davanti alla famiglia Farnese le strade del potere. In meno di cinquant’anni con una serie di coraggiose scelte di vita, fortunati incontri e giochi di palazzo rese il nome dei Farnese un riferimento imprescindibile per i secoli successivi in una Roma dominata dai Borgia e da numerose casate in lotta per ricchezza e onore.
Casa Editrice Bompiani
La casa editrice Bompiani, fondata da Valentino Bompiani nel 1929, si è presentata fin da subito al pubblico con un forte progetto di apertura alle esperienze narrative non solo italiane.Ne è testimone l’antologia Americana curata nel 1941 da Elio Vittorini, che ha rappresentato uno spartiacque per la nostra cultura e un modello di esplorazione delle ricerche espressive d’oltreoceano. Questo progetto ha continuato a caratterizzare l’evoluzione della casa editrice nei decenni a venire. L’attenzione, a tutt’oggi, si concentra sulla narrativa e saggistica, sia italiana che straniera, in particolare con le collane: “Letteraria italiana” e “Letteraria straniera” per la narrativa; e “Saggi Bompiani”, “Bompiani Overlook”, “PasSaggi”, per la saggistica. Le collane “Classici Bompiani”, “Classici della Letteratura europea” e “Il pensiero occidentale” sono volti alla valorizzazione di autori e opere imprescindibili del nostro patrimonio letterario. I “Tascabili Bompiani” custodiscono il patrimonio letterario della casa editrice, patrimonio che viene arricchito e rinnovato continuamente. Bompiani pubblica anche la rivista letteraria Panta (il cui nome è stato scelto da Alberto Moravia) – fondata da Pier Vittorio Tondelli, Alain Elkann, Elisabetta Rasy ed Elisabetta Sgarbi – che costituisce un’officina narrativa in cui sono cresciute e crescono alcune tra le nuove voci del panorama letterario. Fra gli autori del catalogo ricordiamo, tra gli altri, Umberto Eco (che con Bompiani ha pubblicato anche il notissimo Il nome della Rosa), Paulo Coelho, John R. R. Tolkien, Susanna Tamaro, Andrea De Carlo.
-Il 4 FEBBRAIO 1966 VIENE SOPPRESSO L’INDICE DEI LIBRI PROIBITI-
-Index librorum prohibitorum-
Libri proibiti dall’Inquisizione (o Sant’Uffizio)L’ Indice dei libri proibiti (in latino Index librorum prohibitorum) fu un elenco di pubblicazioni proibite dalla Chiesa cattolica, creato nel 1558 per opera della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione (o Sant’Uffizio), sotto Paolo IV. Ebbe diverse versioni e fu soppresso solo nel 1966 con la fine dell’inquisizione romana sostituita dalla congregazione per la dottrina della fede.
I precedenti:
Sin dalle sue origini le lotte della Chiesa contro le eresie comportarono la proibizione di leggere o conservare opere considerate eretiche: il primo concilio di Nicea (325) proibì le opere di Ario, papa Anastasio I (399-401) quelle di Origene e papa Leone I (440-461) quelle dei manichei. Il secondo concilio di Nicea (787) stabilì che i libri eretici dovessero essere consegnati al vescovo non tenuti di nascosto.
Il concilio di Tolosa del 1229 giunse a proibire ai laici il possesso di copie della Bibbia e nel 1234 quello di Tarragona ordinò il rogo delle traduzioni della Bibbia in volgare.
La diffusione di idee contrarie ai dogmi della Chiesa cattolica, e in particolare della Riforma protestante, fu grandemente favorita dall’invenzione della stampa a caratteri mobili (1455): la Chiesa prese dunque provvedimenti nel tentativo di controllare quanto veniva stampato.
Alla metà del XVI secolo risalgono i primi cataloghi di libri proibiti: ne furono redatti dalle università della Sorbona a Parigi e di Lovanio, per ordine di Carlo V e di Filippo II.
Nel 1543 nella Repubblica di Venezia il Consiglio dei Dieci affidò agli Esecutori contro la Bestemmia il compito di sorvegliare l’editoria, con facoltà di multare chi stampava senza permesso: nel 1549, ad opera di monsignor Giovanni della Casa, fu pubblicato un Catalogo di diverse opere, compositioni et libri, li quali come eretici, sospetti, impii et scandalosi si dichiarano dannati et prohibiti in questa inclita città di Vinegia: l’elenco comprendeva 149 titoli e riguardava per lo più opere tacciate di eresia, ma la proibizione finì con il non essere applicata per l’opposizione dei librai e dei tipografi.
Nel 1559, ad opera del Sant’Uffizio, uscì a Roma un primo Cathalogus librorum Haereticorum, con intenti quasi esclusivamente anti-protestanti: vi comparivano anche le opere di Luciano di Samosata, il De monarchia di Dante Alighieri e perfino i commentari di papa Pio II sul Concilio di Basilea.
Indice dei libri proibiti
Il primo indice del 1558:
Tra i compiti del Sant’Uffizio, istituito da papa Paolo III nel 1542, era compresa la vigilanza sui libri. Sotto papa Paolo IV, venne pubblicato un indice dei libri e degli autori proibiti, detto “Indice Paolino”, redatto dall’Inquisizione e promulgato con un suo decreto, affisso a Roma il 30 dicembre 1558. L’elenco comprendeva l’intera opera degli scrittori non cattolici, compresi i testi non di carattere religioso, altri 126 titoli di 117 autori, di cui non veniva tuttavia condannata l’intera opera, e 332 opere anonime.
Vi erano inoltre elencate 45 edizioni proibite della Bibbia e veniva condannata l’intera produzione di 61 tipografi (prevalentemente svizzeri e tedeschi). Infine si proibivano intere categorie di libri, come quelli di astrologia o di magia, mentre le traduzioni della Bibbia in volgare potevano essere lette solo su specifica licenza, concessa solo a chi conoscesse il latino e non alle donne.
Tra i libri proibiti erano il “Decamerone” di Boccaccio, “Il Novellino” di Masuccio Salernitano e tutte le opere di Machiavelli, di Rabelais e di Erasmo da Rotterdam, il “Diálogo de doctrina christiana” dei Valdesiani.
Il papa, che da cardinale (Giampiero Carafa) era stato il primo direttore del Sant’Uffizio, attribuì a quest’ultimo e alla sua rete locale l’applicazione della proibizione, a scapito del potere dei vescovi.
Indice dei libri proibiti
La storia successiva:
Nuovi indici vennero redatti anche dal Santo Uffizio sotto i pontefici successivi e le due congregazioni furono spesso in conflitto in merito alla giurisdizione sulla censura dei libri. Anche i vescovi si opposero al potere dato all’Inquisizione in questo campo.
Nel 1596, sotto papa Clemente VIII venne redatta una nuova versione dell’indice (“Indice Clementino”), che aggiunse all’elenco precedente opere registrate in altri indici europei successivi al 1564. Ripeteva inoltre la proibizione di stampare opere in volgare, già promulgata da Pio V nel 1567.
La censura ecclesiastica ebbe pesanti conseguenze: le “espurgazioni”, a volte neppure dichiarate, potevano arrivare a stravolgere il pensiero dell’autore originario e i testi scientifici non conformi all’interpretazione aristotelico-scolastica erano considerati eretici. Nel 1616 furono bandite le opere di Copernico. Gli scrittori si autocensuravano e l’attività dei librai diventò difficile per le richieste di permesso e i pericoli di confisca.
Le “patenti di lettura”, tuttavia, che in teoria avrebbero dovuto essere rilasciate solo a studiosi di provata fiducia da parte del Santo Uffizio e durare solo per tre anni, si ottenevano invece in pratica abbastanza facilmente.
Nel 1758, sotto papa Benedetto XIV, le norme furono riviste e l’indice venne corretto e reso più comodo. Fu inoltre eliminato il divieto di lettura della Bibbia tradotta dal latino. Le competenze per la compilazione e l’aggiornamento dell’indice passarono a partire dal 1917 al Sant’Uffizio.
L’indice nei suoi quattro secoli di vita venne aggiornato almeno venti volte (l’ultima nel 1948) e fu definitivamente abolito solo dopo il Concilio Vaticano II nel 1966, sotto papa Paolo VI.
L’elenco comprendeva, fra gli altri, nomi della letteratura, della scienza e della filosofia come: Francesco Bacone (Francis Bacon), Honoré de Balzac, Henri Bergson, George Berkeley, Cartesio, D’Alembert, Daniel Defoe, Denis Diderot, Alexandre Dumas (padre) e Alexandre Dumas (figlio), Gustave Flaubert, Thomas Hobbes, Victor Hugo, David Hume, Immanuel Kant, Jean de La Fontaine, John Locke, Montaigne, Montesquieu, Blaise Pascal, Pierre-Joseph Proudhon, Jean-Jacques Rousseau, George Sand, Spinoza, Stendhal, Voltaire, Émile Zola.
Tra gli italiani finiti all’indice – scienziati, filosofi, pensatori, scrittori, economisti – vi sono stati Vittorio Alfieri, Pietro Aretino, Cesare Beccaria, Giordano Bruno, Benedetto Croce, Gabriele D’Annunzio, Antonio Fogazzaro, Ugo Foscolo, Galileo Galilei, Giovanni Gentile, Francesco Guicciardini, Giacomo Leopardi, Ada Negri, Adeodato Ressi, Girolamo Savonarola, Luigi Settembrini, Niccolò Tommaseo e Pietro Verri.
Tra gli ultimi ad entrare nella lista sono stati Simone de Beauvoir, André Gide, Jean-Paul Sartre e Alberto Moravia.
ROMA-Castel di Guido-Scavi Archeologici nella Villa Romana delle Colonnacce
CASTEL DI GUIDO-Roma Municipio 13- Villa Romana delle Colonnacce .
I Volontari del Gruppo Archeologico Romano (GAR) nel Fotoreportage di Franco Leggeri nella Villa Romana delle Colonnacce.I Volontari capitanati dall’Arch. VALERIA GASPARI hanno ripreso, a pieno ritmo, gli scavi nella Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido. La Villa Romana è del II-III secolo d.C. è sita su di un pianoro all’interno dell’Azienda agricola comunale. La Villa ha strutture di epoca repubblicana che sono le più antiche e di epoca imperiale. La villa ha una zona produttiva di e la parte residenziale di epoca imperiale. La parte produttiva comprende l’aia o cortile coperto: il grande ambiente conserva le basi di tre sostegni per il tetto, mentre è stato asportato il pavimento, al centro si trova un pozzo circolare. Vi è una cisterna per la conservazione dell’acqua meteorica, all’interno della cisterna si trovano le basi dei pilastri che sorreggevano il soffitto a volta. A giudicare dallo spessore dei muri e dei contrafforti si può desumere che avesse un altezza di circa 5 metri. Nell’ambiente di lavoro si trovano un pozzo e la relativa condotta sotterranea. Torcular : sono due ambienti che ospitavano un impianto per la lavorazione del vino e dell’olio. Vi era un torchio collegato alle vasche di raccolta, mentre in un ambiente più basso vi era l’alloggiamento dei contrappesi del torchio medesimo ed una cucina con contenitori in terracotta di grandi dimensioni (dolii). La parte residenziale ha un atrio, cuore più antico dell’abitazione romana, in cui si conservava l’altare dei Lari, divinità protettrici della casa. Al centro vi è una vasca ( compluvio) in marmo in cui si raccoglieva l’acqua piovana che cadeva da un foro rettangolare sito nel tetto (impluvio). Sale da pranzo, forse triclinari , ampie e dotate di ricchi pavimenti e di belle decorazioni affrescate sulle pareti. Cubicoli, stanze da letto . Vi erano dei corridoi che consentivano il transito della servitù alle spalle delle grandi sale da pranzo senza disturbare i commensali o il riposo dei proprietari. Il Peristilio o giardino porticato: era l’ambiente più amato della casa, di solito con giardino centrale ed una fontana. Dodici colonne sostenevano il tetto del porticato, che spioveva verso la zona centrale. I volontari del GAR –Zona Aurelio , scavano con perizia e recuperano frammenti, “i cocci”, li puliscono, catalogano e , quindi, li trasportano nella sede di via Contessa di Bertinoro dove vengono restaurati e conservati . Nel 1976 la Soprintendenza Archeologica di Roma recuperò preziosi mosaici e pregevoli pitture che sono ora esposti al pubblico nella sede del museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Se la Villa è visitabile e ben conservata lo si deve all’ottimo lavoro dell’Archeologo Dott.ssa Daniela Rossi che la si può definire “Ambasciatore e protettrice del Borgo romano di Lorium “. Ricordiamo il recente, superbo, lavoro della Dott.ssa Daniela Rossi nel quartiere Massimina sulla via Aurelia. La descrizione della Villa delle Colonnacce sono tratte da un saggio-lezione che la Dott.ssa Daniela.Rossi ha tenuto nella sala grande del Castello nel borgo di Castel di Guido il 18/04/09 .
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
Note a margine dell’articolo-
Oggi erano presenti, tra gli altri, il mitico Archeologo VINCENZO ARNESE, ATTILIO PASSERINI in rappresentanza del CRSA –SOTTERRANEI di ROMA- il simpaticissimo NICOLA CURCIO e alla sua prima uscita sul campo la Dott.ssa ALESSIA NATALE-Oggi è venuto a visitare gli scavi anche il Dott. STEVE BASLEY famoso ornitologo inglese.
Si consiglia anche la visita all’Oasi Lipu di Castel di Guido, adiacente alla Villa romana, la Direttrice dell’Oasi è la Dott.ssa Alessia de Lorenzis-
Contatti -Tel.328 55 69123-e.mail:. oasi.casteldiguido@lipu.it
Articolo e Foto di FRANCO LEGGERI per Associazione CORNELIA ANTIQUA
Volontari GAR scavo Villa Romana delle Colonnacce a Castel di Guido.
mitico Archeologo VINCENZO ARNESE
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