Bernardo De Luca-Il tempo diviso Poesia e guerra in Sereni, Fortini, Caproni, Luzi-Salerno Editrice-
Descrizione del libro di Bernardo De Luca-Il tempo diviso Poesia e guerra-All’indomani del secondo conflitto mondiale, Vittorio Sereni, Franco Fortini, Giorgio Caproni e Mario Luzi provarono a restituire nei loro versi le conseguenze del trauma di massa per eccellenza, la guerra. Nati tra il 1912 e il 1917, questi quattro poeti trascorsero la “giovinezza” durante il Ventennio fascista; il passaggio alla maturità coincise, quindi, con lo choc bellico. Tre di loro furono direttamente coinvolti e chiamati alle armi: Sereni, Fortini e Caproni. Ma il ’43 rappresentò uno spartiacque per tutti: con l’arrivo degli Alleati, Sereni fu catturato in Sicilia e deportato nei campi di prigionia in Algeria e Marocco; Fortini fuggì in Svizzera e partecipò alla breve esperienza della resistenza con la Repubblica dell’Ossola; Caproni trascorse i diciannove mesi dell’Italia divisa partecipando alla resistenza in Val Trebbia. Luzi fu invece riformato per insufficienza toracica, ma durante i bombardamenti che colpirono Firenze la sua casa venne completamente distrutta e scontò anche lui direttamente i devastanti effetti del conflitto. I quattro giovani videro la propria biografia spezzata dalla guerra, un evento che non solo agì sull’esperienza vissuta ma determinò la loro fisionomia culturale, intellettuale e poetica: il tempo stesso appariva ormai diviso, rotto, “inceppato”, come dirà Sereni. Ecco perché nei libri di poesia che concepirono nel dopoguerra la frattura temporale causata dalla ferita bellica sembra raggiungere il passato, fino a torcerlo; ma mentre in Sereni, Caproni e Luzi, la possibilità del racconto viene del tutto a mancare, nella poesia di Fortini lo strappo traumatico si ricuce dentro una storia nuova. Non più da ricostruire, ma da cominciare a scrivere, in vista di un tempo “altro”. Il presente diventa attesa, proprio come il passato, che nella poesia impetra l’avvenire.
L’Autore
Bernardo De Luca insegna Letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Napoli «Federico II». Si occupa prevalentemente di letteratura moderna e contemporanea. Ha curato l’edizione critica e commentata di Foglio di via di Franco Fortini (Macerata 2018) e Del concetto poetico di Camillo Pellegrino (Salerno Editrice, 2019). Ha pubblicato i libri di poesia Gli oggetti trapassati (Napoli 2014) e Misura (Pordenone 2018).
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Versi di Resistenza: la poesia patriottica del 25 aprile , Festa della Liberazione-dal blog “L’Altrove”-
Il 25 aprile, Festa della Liberazione, rappresenta un nodo fondativo e simbolico dell’identità repubblicana italiana, in cui storia, memoria e linguaggio si sovrappongono in un dialogo plurimo e stratificato. Se la storiografia e la memorialistica hanno ricostruito i percorsi della lotta partigiana in termini politici e militari, è la poesia a custodire le forme più intime, complesse e stratificate dell’esperienza resistenziale. La poesiapatriottica nata dalla Resistenza al nazifascismo non si limita a essere documento storico o strumento celebrativo: essa si configura piuttosto come pratica discorsiva capace di interrogare i codici etici, civili ed estetici della modernità. In questo contesto, la presenza di autori come Alfonso Gatto e Franco Fortini si affianca a quella, più taciuta ma non meno significativa, delle poete partigiane come Renata Viganò, JoyceLussu, Ada Gobetti e Maria Luisa Spaziani. Analizzare le loro opere significa restituire complessità a un canone poetico-politico spesso semplificato e ridotto a paradigma maschile ed eroico.
Festa della Liberazione dal nazifascismo
Alfonso Gatto: la pietà e la memoria come Resistenza
ALFONSO GATTO
Alfonso Gatto: la pietà e la memoria come Resistenza-Tra i poeti che più intensamente hanno tematizzato la Resistenza, Alfonso Gatto (1909–1976) occupa un posto centrale. La sua raccolta La storia delle vittime (Mondadori, 1966) costituisce un corpus poetico in cui la parola si carica di responsabilità storica, emotiva ed etica. In componimenti come Le vittime, Gatto non canta l’eroismo, ma la fragilità e la morte innocente, assumendo un tono elegiaco che trasforma la poesia in atto di pietas. La memoria, in Gatto, si coniuga sempre con il dolore e con l’ingiustizia subita, in un rifiuto programmatico della retorica bellica.
Gatto, partigiano egli stesso, fa della sua lirica una forma di memoria incarnata, in cui l’esperienza della guerra e della liberazione non si separano dalla sofferenza collettiva. In questo senso, la sua poesia diventa spazio per la riflessione civile, ma anche per una visione tragica del mondo: la Resistenza, pur necessaria, non cancella il lutto. Come nota Cesare Cases, Gatto non sacralizza la guerra giusta, ma la umanizza attraverso la compassione, offrendo una delle rappresentazioni più intense e contro-retoriche dell’antifascismo poetico.
Le vittime
La storia fosse scritta dalle vittime altro sarebbe, un tempo di minuti, di formiche incessanti che ripullulano al nostro soffio e pure ad una ad una vivide di tenacia, intente d’essere.
Gli inermi che si scostano al passaggio delle divise chiedono allo sguardo dei propri occhi la letizia ansiosa d’essere vinti, il numero che oblia la sua sabbia infinita nel crepuscolo.
Dei vincitori, ai ruinosi alberghi del loro oblio, più nulla. Rimane chi disparve nella sera dell’opera compiuta, sua la mano di tutti e il fare che è del fare il tenero. È il nostro soffio che gli crede, il dubbio di perderlo nel numero, tra noi.
Franco Fortini: la parola critica della storia
Franco Fortini
Franco Fortini (1917–1994) rappresenta l’altra grande voce della poesia resistenziale italiana, ma da una prospettiva profondamente diversa. Intellettuale marxista, saggista e polemista, Fortini elabora una poetica dialettica e autocritica, in cui l’evento storico non è mai semplicemente rappresentato, ma problematizzato. Nella raccolta Poesia eerrore (1959) e poi in Una volta per sempre (1978), l’evento resistenziale si iscrive in una riflessione radicale sul linguaggio e sulla funzione dell’intellettuale.
In testi come Traducendo Brecht, Fortini afferma l’impossibilità di separare poesia e responsabilità storica: “La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi”, afferma provocatoriamente. Il riferimento a Brecht e alla poesia didattica è centrale: Fortini crede in una lirica che, anziché consolare o esaltare, interroghi, analizzi, smascheri. La Resistenza, per lui, non è solo un momento storico da celebrare, ma un problema etico-politico da rielaborare. Il poeta diventa allora testimone, ma anche interprete critico della propria epoca, capace di sfidare l’opacità della Storia attraverso la precisione della parola.
Canto degli ultimi partigiani è un testo emblematico resistenziale. Il testo si articola in strofe secche e ossessive, che alternano immagini di morte concreta – “le teste degli impiccati”, “i denti dei fucilati” – a un crescendo di disumanizzazione: “la nostra carne non è più d’uomini”. Fortini costruisce un rituale lirico della sofferenza collettiva, ma anche una promessa di giustizia: “sulla terra faremo libertà”. La voce è corale, epica e tragica insieme, radicata nella Resistenza ma rivolta a una memoria attiva, militante. L’ultimo verso, “la giustizia che si farà”, sigilla una fede laica nella storia e nella responsabilità civile.
Canto degli ultimi partigiani
Sulla spalletta del ponte Le teste degli impiccati Nell’acqua della fonte La bava degli impiccati
Sul lastrico del mercato Le unghie dei fucilati Sull’erba secca del prato I denti dei fucilati.
Mordere l’aria mordere i sassi La nostra carne non è più d’uomini Mordere l’aria mordere i sassi Il nostro cuore non è più d’uomini.
Ma noi s’è letta negli occhi dei morti E sulla terra faremo libertà Ma l’hanno stretta i pugni dei morti La giustizia che si farà.
Renata Viganò: la voce delle donne dimenticate
Renata Viganò
Renata Viganò (1900–1976), autrice del celebre romanzo L’Agnese va a morire (1949), è anche una significativa figura poetica della Resistenza. Le sue Poesie della Resistenza, meno note al grande pubblico (Wikipedia), si distinguono per il tono sobrio, narrativo, e per una forte tensione etica. La sua è una poesia quotidiana, che racconta la guerra non dal fronte armato ma dalle retrovie femminili: le madri, le contadine, le staffette, le infermiere.
Viganò rompe con la retorica dell’eroismo maschile, e afferma una visione della Resistenza come atto di cura e sacrificio. Le sue liriche, spesso semplici nella forma, hanno una forza evocativa profonda, perché portano alla luce il contributo delle donne alla lotta di liberazione. In esse il corpo femminile non è oggetto, ma soggetto della Storia: corpo che si muove, agisce, combatte e muore per la libertà. È una poesia che restituisce dignità alla memoria collettiva, ampliando il canone resistenziale oltre i confini del racconto maschile.
L’anagrafe trista è una poesia che affronta il tema del sacrificio delle donne partigiane. Attraverso un linguaggio semplice ma intenso, la scrittrice rende omaggio alle 128 donne cadute, i cui nomi compongono una sorta di “anagrafe triste”. La poesia evoca emozioni profonde, sottolineando il coraggio e la determinazione di queste donne nel combattere per la libertà. L’autrice utilizza immagini toccanti per trasmettere il senso di perdita e di memoria collettiva, rendendo il testo un tributo duraturo alla loro eroica partecipazione alla lotta partigiana.
L’anagrafe trista
Sussurravano piano piano rome le giovani fidanzate dietro le siepi d’estate a fare l’amore la prima volta, Mormoravano piano piano come la sposa che l’uomo bacia dopo la firma tremante sul registro del matrimonio. Camminavano piano piano come le mamme che vanno attorno, che sia la nOlte o che sia il giorno, alla culla del loro bambino, E invece uscivano dalla casa, ogni impresa cara era finita, Andavano fuori dalla vita per entrare nella Resistenza. Rinunciarono ai mobili nuovi comperati con tanti stenti. Non pensarono agli ingrandimenti inclinati nelle cornici. Non guardarono occhi di madri. già in pianto per altri dolori . Dalla vita si misero fuori per essere nella Resistenza. Fecero maglie e calze partigiane, fasciarono ferite partigiane, portarono armi e stampe partigiane. Ma se li agguantavano i tedeschi per mezzo di una anagrafe trista redatta dalla brigata nera, questo, voleva dire la morte. Eppure era bella la sera, In seno alla dolce stagione! Il sole, il respiro, il colore dell’aria fu per tante l’ultima vista. Altre caddero al buio, stracciate, contro le mura di un quartiere. Furono ansiose dell’ultimo istante per essere buone a tacere. Furorono paghe dell’ultima ora per disperdere il nome dei compagni nell’urlo della bocca’ infranta dal fuoco della tortura. Donne vive, vite vive: diritto e promesse d’amante. Lasciarono amore e passione per morir nella Resistenza. E qualcuna fu portata di peso e fucilata da morta, e qualcuna disse una parola dura al plotone di esecuzione.
Joyce Lussu: la traduzione del dolore storico
Joyce Lussu
Joyce Lussu (1912–1998), militante politica e traduttrice di poesia rivoluzionaria del Terzo Mondo, è tra le figure più originali della poesia resistenziale italiana. Nella raccolta Liriche, Lussu elabora una forma di poesia civile in cui soggettività e coralità si fondono. Il suo verso è secco, quasi documentaristico, ma ricco di tensione morale. La Resistenza, per Lussu, non è solo un fatto italiano, ma si inserisce in una rete di lotte internazionali contro l’oppressione.
Le sue poesie sono brevi, spesso costruite come testimonianze dirette, in cui la parola si fa strumento di resistenza contro la dimenticanza. Lussu rifiuta ogni estetismo: la forma poetica è funzionale all’urgenza del contenuto. La memoria della lotta diventa così patrimonio collettivo, e la poesia uno dei suoi veicoli più efficaci. La sua voce si aggiunge a quella di Brecht, Hikmet, Darwish: la resistenza è anche linguaggio, comunicazione, passaggio di testimone.
Ada Gobetti: il diario come forma poetica della resistenza
Ada Gobetti (1902–1968), intellettuale, pedagogista e staffetta partigiana
Ada Gobetti (1902–1968), intellettuale, pedagogista e staffetta partigiana, è nota per il Diario partigiano, testo ibrido tra testimonianza, prosa diaristica e prosa lirica. Pur non scrivendo in versi, la sua scrittura ha una densità poetica che la rende parte integrante del paesaggio letterario resistenziale. La precisione del linguaggio, la capacità evocativa delle immagini, la forza morale che attraversa ogni pagina fanno del suo diario una forma lirica della resistenza vissuta.
Gobetti restituisce la quotidianità della lotta: le marce nei boschi, le paure notturne, i bambini nascosti nei rifugi, i compagni arrestati. La resistenza, nelle sue parole, non è solo strategia militare ma scelta etica quotidiana, fatta di piccoli gesti, decisioni difficili, silenzi condivisi. Il suo sguardo femminile non è mai sentimentale, ma radicalmente politico: la poesia, qui, coincide con la pratica della libertà.
Maria Luisa Spaziani: la lirica della memoria
Maria Luisa SPAZIANI
Maria Luisa Spaziani (1922–2014), sebbene non direttamente impegnata nella lotta armata, fu testimone acuta dell’Italia resistenziale. La sua poesia, spesso più simbolica e meditativa, ha saputo cogliere l’eco lirica della Liberazione in testi in cui il tempo storico si fonde con la riflessione esistenziale. In alcune liriche, la Resistenza è evocata come tensione verso la libertà, come interrogazione della giovinezza perduta, come necessità di testimoniare.
Spaziani dimostra che la memoria della guerra può assumere anche una forma interiore, individuale, e tuttavia profondamente politica. La sua voce amplia il campo semantico della poesia patriottica, offrendone una versione meno bellicosa ma non meno intensa, in cui il trauma storico si elabora attraverso la trasfigurazione simbolica.
Poesia come vigilanza
La poesia della resistenza si configura dunque come uno spazio plurale, attraversato da voci, generi, stili e posizionamenti differenti. La centralità di Gatto e Fortini, con le loro poetiche complementari – la pietas lirica e l’analisi dialettica – trova un contrappunto necessario nella scrittura delle poete resistenti, che introducono uno sguardo di genere, una diversa etica del ricordo e una rinnovata forma del racconto storico. Rileggere oggi queste opere non significa solo fare memoria, ma anche interrogare le nostre pratiche discorsive, i nostri silenzi, le nostre esclusioni. Questi versi non sono dunque reliquie, ma un archivio vivente in cui si conserva il senso più profondo della parola democratica: non quella che esalta, ma quella che ascolta, che testimonia, che resiste. In un’epoca segnata dal riemergere di revisionismi e negazionismi, è necessario riaffermare con forza il ruolo della letteratura come spazio di consapevolezza e responsabilità. Non vi è nulla di decorativo o nostalgico in questa scrittura: al contrario, il suo compito è quello di vigilare, di mantenere acceso il fuoco della memoria, di ricordare che la libertà non è un’eredità acquisita, ma una scelta quotidiana. La poesia, in questo contesto, non celebra la patria come entità astratta, ma come spazio etico della convivenza, come luogo simbolico da difendere contro ogni forma di violenza, sopraffazione, oblio. Il 25 aprile, nella parola poetica, non è solo un ricordo: è una promessa che si rinnova ogni volta che il verso resiste al silenzio
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie scelte da Maria Borio | Apr 3, 2018-Dalla Rivista Nuovi Argomenti
Pubblichiamo una scelta di poesie da Tutte le poesie 1971-2017 di Biancamaria Frabotta (“Lo Specchio”, Mondadori, 2018), con postfazione di Roberto Deidier e nota biobibliografica di Carmelo Princiotta. La poesie ripercorrono l’itinerario dell’opera di Biancamaria Frabotta.
da Il rumore bianco (1982)
Sono questi i casi che le virgolette contano
“l’eterna indecisione dei gemelli”
il simile e il dissimile, Diotima la crespa
una maretta vispa, la luce e il moto le sono propri
l’altro è il quasi lago, il numero due, il coperchio del mondo.
Su altra pioggia cade la pioggia di ieri
ciò che sta sopra a ciò che sta sotto
chi scacciato torna dorme con noi
semina insieme panico e sonno.
*
ELOISA
E pensare che quello che ti chiedo è ben poco,
e per te facilissimo!
(Eloisa a Abelardo, Lettera 2)
I
Qui dimora l’intero e tu disperso
ci ragioni. Che io canti, più buia
sordidamente, ombra più pesante
del marmo che mi riposa non conta.
Una sola rondine non mi ti rende
la stagione perduta.
E io troppo tempo ho abitato in te
come la ragnatela in un tronco morto
al limite di una terra promessa
non cogliendomi (fu soltanto evocazione
addestramento allo stupro
il fantastico frutto dell’occidente)
mi hai nominata più bianca della luce
nido di un’idea intricata, torpida fantasia,
pupilla cieca del tuo occhio.
Si sfilava il sibilo dalla teoria lunga
delle stanze: davanti alla porta chiusa
sarò la sorella di quei meli che fuori
si spogliano lisciando a sangue i sensi
e solo la sera ne spegne il tocco.
Un triangolo è divino quando ogni punta è Dio
e ogni lato un’esca. Non c’è veglia più amara
per me che sono lontano dalla festa.
Le parole non ti costavano molto, ricordi?
scivolano via per filo e per segno
come canoe fluiscono sul filo della corrente.
Non c’era rapida che ne scuotesse il corso
scorresse anche fino al mare il discorso
del tuo sogno soltanto noi ne scontavamo il costo.
Ma subito potessi smemorarmi
annottassero ovunque le pupille degli uomini desti
in un mondo di dormienti
un bestiario delicatamente miniato dallo stilo di chi può
almeno fin quando arriverò
placida onda di lago a lambirti
i piedi di umide e molli zolle di prato
almeno fin là dove arriva l’essere
e il chierico si fa pierrot
la canaglia un’ariosa città
ogni passante un amico, un evento
allora
l’acqua coprirà il prato e ogni traccia di nome.
[…]
Biancamaria Frabotta
***
da La viandanza (1995)
La viandanza
E un’inezia in veste di gala terge
la risacca, un’inerzia, prodiga, mamma
vermiglia di vortici sei falsa calma
come l’onda lunga della riconoscenza.
Riconoscersi o congedo questa improvvida sosta
di sole che affoga? Latita
il senso lontano dalla terra ferma
e tu dormi sul filo di lana
come lo stranito starsene dei non umani
oltre le curve dove ci pedina il tempo
e sull’orlo del campo anonimi frulli di freddo
e panico che abbagli i divieti, i binari.
Così recalcitra la fame degli erbivori.
È lo spavento dei passeri poveri quello
lo sgomento delle nubi al macero. Fra poco
ci staranno addosso in tanti i polipi
della città fantasma
con tentacoli e raggiri e tu, ora lesta
a provocarli, col guizzo circasso
dell’occhio, a patirli, sordida
giovale, giovane Civitavecchia
sgarbata bilancia fra apocalisse e paese
smaniosa pazienza è la felicità che
incendia in lei troppe parole o nessuna.
Preda di insana genia, Eugenia
nata De Falchi, o insensatezza
di un nome rapace o insensatezza
di un nome ben nato
e se il volo non fosse un voto paterno
ma una nomade svendita di senno
e un’azzurra (che vegeto caos in questa
stazione) provvida grazia di rimozione?
O fu soltanto pigrizia la coincidenza mancata?
Il paranoico estro di disastri all’attesa
comparti e defence
custodi e silence
it’s forbidden, non leggi?
de stationner sur la passerelle
e à l’occurance
togliere il piombo
ruotare il vetro
premere il pulsante, ma bada
sarà severamente punito
l’abuso dei tuoi sontuosi capricci
futuri nutriti sui lidi di Caravani
di parche cartate di cozze
primizia del nuoto di secca
di granchi traversi la svogliata trafila
spiando tra le valve ora salse
di salmonella ricordi la misericordia dell’orto?
l’intemperanza della madreroccia
e nel grembo femmina il riccio
morte certa del mare (è la legge!)
brulicante di uova arancia, e limoni?
la misticanza invisa all’orgia pagana
di vergini lische, scorfani
e sparnocchie ancora in vita risenti
come torpida marciava alle narici l’alga
e la brama dell’altro, con inversa
ala d’ascesa, murata baldoria d’un istante
un istante
fu l’ardore di chi ti corresse
– Non si dice salisco, ma salgo
e tu che non soffri cavezza, coraggio fuggendo
oltre il Villaggio del Fanciullo
la Repubblica dei Ragazzi
e Marangone
fogna a cielo aperto
levata al cenno delle cento
macerie d’acqua in cui nacque
l’ultima cella foriera d’anfore e rancori
dove fanno il nido le murene
e luccicano le Orecchie di Venere
e intendono chi non dicendo
abbastanza ha già detto troppo
e con esorbitante assedio di giubilo smura
le labbra avare di racconti
e se nell’afa sfuma
la ciminiera più alta d’Europa
neppure tu le cerchi più le lapidi lambite
dal liquame della Fiumaretta
necropoli di vivi incrementi
al fabbisogno di Roma
e non avrebbe meritato l’indulto
la pena commutata nella guazza serena
di una tomba non inquinata
chi placò gli insulti della mia tosse convulsa
e divampa in cenere l’ombra
di una carrozzella in corsa
verso la rada di Sant’Agostino
dove montava la luna della buona pesca
ai polipi e spirava lo jodio sull’indomito
falò amico ai naviganti
che un vezzoso odio eclissò e ora lo smog
amico ai benestanti? E ora
nostra cocente storia convulsa
nostra avulsa radice le tombe
fra gli escrementi navigano
con la stessa indocile fretta
che sulla fusta leggera
ti induce al fasto saraceno
di crescerti la vita di un anno.
E che spasimo per un diffidente volatile
una sorte pellegrina nel padule! e che vandala
quando tu i sandali di pena scalzando
e di corda intrecciata nella mano sudata
stringevi la merendina di Santa Costanza
scorbutica novizia della Piazza Calamatta
fluivano scalze le pozzolane sulla Scaletta
con le prime notizie della paranza e senza
che sorpresa smarrirsi nei meandri
della Piazza Leandra dove
i morti restituiti
all’ebete gioco del tempo ma non tu
rapita al Pirgo di corsa e che affanno
sul tuo sandalino che fila
verso il Borgo Odescalchi
dove rabida nobiltà di veli, paglie e corde
si spegne nel vuoto delle cabine
Santa Fermìna al martirio
palma alla dritta, galera a sinistra
ti insidia ora un tenente
un serpente in piedi, la corona in testa
e nel petto smilzo timida alla sbarra
quella notte fosti tu la più bella
tra le svelte acque della Ficoncella
e le tronfie in lungo a libare
succo di viti tedesche, o vita
vita tua sottile
che il gerarca corrotto cinse di raro
vanto di provinciale grazia e ritroso
non per coscienza ma per innocenza di classe
millenovecentodiciassette
riarse un rigoglio cremisi sul fianco
il fiocco, le maniche a sbuffo
e perfetto ruotava sopra il ginocchio
il taffetà tagliato a teletti
a scorno delle ricche Guglielmi
Giovannelli
d’Ardìa Caracciolo
o Rodano Cinciari
oh come vagano semplici in mente
i nomi dei tuoi primi tormenti
oh come risalta nella prossima notte
la torcia del tuo eretico orgoglio!
Poi l’Ottimo Consiglio
del millenovecentoquaranta
non portò i suoi figli in salvo
sui monti della Tolfa, ma
canicola, canizie, canile
e stillicidio di polveri
croste, ghetti e l’inverno
che inferno affacciarsi
sulla mole del Lazzaretto Vecchio!
Là i vincitori (giurarono i vinti)
giocando a palla, venivano a galla
i teschi dei frati tra le bombe
miste alla pioggia e di salso prodigio
tutte le notti smontava la luna
della Buona Morte ai polipi e agli omeri mozzi.
Oh cimitero disperso fra le vasche
di sterile letame, annegato
nell’olio, nell’oblìo che
una petroliera dispensa dal largo
troppo fondo al porto lo scafo
troppo tagliente la chiglia
e che lago melmoso questo scavo
senza bisogni, questa vetrosa fronte
del treno che ci trascina
oltre le argille della Ripa Alba
e tutto è da imparare ormai
a danno, mamma, e se ne vanno
nella cavità dell’aria che grave
ora rimuove
i fumi di un’infanzia ormai appena visibile
come nei polmoni l’ombra di una trascurata influenza.
*
Biancamaria Frabotta
Gemina iuvant
Soltanto a sfiorarla – dicono
i miei due rivali emisferi
digrada a più lievi some
la femmina del mio cervello diviso
la sinistra ancella della nostra passione
che cola viscosi umori di nera bile
impuri fluidi di non storia
ma sa la visione e lo spirito del tempo
e se muore è d’etilismo
e sempre fuori tempo.
La sua parte è fissa.
È la parte per il tutto.
A destra invece legge
scrive e fa di conto colui che
prende di punta ogni ideuzza e la rintuzza
nella brocca rotta che risuona a vuoto
per maniera che non ne torni l’eco
tranne i costi i ricavi e
l’insana ragione mancina
ridurre alle sue minute ragioni.
Ogni punto è la testa pensante di una linea.
Ogni linea termina in un punto.
Così fingendosi amanti
i miei due rivali emisferi
entrambi mi tormentano
e non c’è ricciolo, né maliziosa frangia
a tenerne unito il gruzzolo
a ricomporre l’antica noce
della loro inimicizia.
*
Discosto dal ramo quel tanto che basta
l’ala raccolta a non dar mostra di te
mi insegni la rotta breve del Colombo
erbivoro che ama il paniere poco profondo
di vimini, la canna, il salice, il cardo.
Non il rostro delle navi che violano il porto
ma il lento sciabordio dei remi calmi come nevi.
Anche la lampada ardente dell’Inferno in cui credi
a causa tua si mitiga, il mostro si addomestica
rientra nell’uovo, rinasce pulcino
e si smorza perfino la cruda scorza
di chi a tutti i costi ti volle eterno e di te
più eguale a un altro non c’era e molteplice.
Ora di sé si scontenta e guaisce la pavida Nomade.
Piuttosto che signora vorrebbe esserti sorella.
*
Biancamaria Frabotta
per Antonio Porta
Fu nel covo del giorno
che il fuoco ti snidò
dalla tana stipata di versi
verbi, più che altro, a vedersi
a toccarsi, questi nostri anni
gettati a ingrassare le murene.
Ma i ricorsi non ripagano i ritardi.
Né i ritorni arsi dall’inerzia
che si fa febbre fredda ai polsi.
È pur sempre la ragione del morire
vivere. Sommessamente o rogo
la menzogna abbaglia la consegna.
***
da Controcanto al chiuso (1991)
[…]
Coro
Abbiate il cuore freddo madri mie.
Respingete i cattivi discorsi verso il mare.
Che un freddo penetrante entri nel villaggio.
E quando lo straniero verrà badate che sia
il portatore della buona pioggia
ricordo dell’uomo che scalpita alle porte
insetto del futuro che feconda le carte.
[…]
Seconda voce
Chi è chiuso merita violenza
e io non riesco a dimenticare la tua lingua
così inutile, assente, dolce come il miele
valere fino in fondo il mio tormento
spegnere fra le labbra e il palato, l’ugola
e le molli pareti della casa, l’unica
lieviti, viti, storia e cibi cotti
forzarti, farti violenza, aprirti
forzarmi, farmi violenza, aprirmi
segna nel caldo fiume dell’Avvento
il calendario l’Angelo
prima della donna. Inarginabile.
[…]
***
da Terra contigua (1999)
A Dario Bellezza
Arrogante garrivi alle stelle la tua dolce nenia
il fiore ancora in nuce nello scapo
e la felicità, l’ottusità d’una caccia svogliata
mai così rasente alle promesse dell’età sfacciata
ti annoiava e ti seguiva come una cagna fedele
nel subbuglio dei tuoi astratti furori.
E ti eludeva anche da quel suo astuto
gioco a tutti commestibile, ma non a te
che la morte segreta stornavi ad ogni giro
e t’era consorte l’incanto, l’incubo dei bari.
Tu non volevi altro se non l’impossibile
la tratta di favore, il pagamento del riscatto
minacciando altrimenti colpi di testa
colpi di teatro memorabili che l’indomani
bruciavi al nuovo giorno sotto dettatura.
Non tolleravi la dittatura del giorno.
E libertà t’erano gli scuri chiodati
il fresco osceno invito della notte.
*
A Toti Scialoja per i suoi ottanta anni
Non fidatevi della carta vincente
che non si nasconde nel folto del mazzo
né l’occulta la manica di un baro
né è moneta rovente che scivola
ignorata in un fiume senz’anima.
O che lenta s’incaglia sul fondo.
Stanotte non c’è anima viva sul fiume.
Né giunche, né barcaioli.
Ma gromme di dolore indocili alla gomma
lune d’oro, buchi neri
e l’ostinata balbuzie
delle cose che abbagliano un poeta.
*
TRADUZIONI
Ibn Hamdîs
Fin quando durerà il mio esilio
amici per malasorte non diversi
dai nemici che mi assetarono
dell’acqua che arrossa le labbra
e a goderne cancella ogni altra acqua
e le mie speranze delusero?
Ci sono droghe che più del male ammalano
e io sono troppo debole
e palesi le mie false ragioni.
Non è virtù della vergine placare un cuore ribelle?
Ecco, eccoti il mio occhio, tu che l’hai visto
dall’alba alla notte velato di lacrime
nella malia del tuo sguardo perduto
né fra le ombre ha più ombra il mio corpo
né pioggia che ne smorzi l’arsura.
Eppure ogni sterilità ha i suoi benefici umori…
Non vedi? Ardo di fedeltà
come il calor bianco del carbone.
E tu traditrice, vuoi spegnere la mia luce
e ti escludi dal saggio raggio del proverbio:
teme l’assenza, essenza del deserto
solo chi vi si è già smarrito.
Come sperare piacere dalla tua ripulsa?
Dalle tue vane lusinghe e promesse senza frutto?
Può forse nascere pace dalla guerra?
E un miraggio estinguere la sete nel deserto?
Volubile fanciulla che denigri
l’onda inquieta della mia pazienza
tu sola, ago della mia bilancia
fattucchiera crudele che estirpi il male
tormentando l’ammalato, cessa le tue cure
poiché il farmaco cui anelo
è la saliva delle labbra scure
e chi dal male troppo è consumato
a colei che gli rende la visita pietosa
risponde con il cenno di preghiera
dell’uomo che il mare se lo sta inghiottendo
e chi supplicando una bellezza meno avara
col male il male cerca di annientare.
Tra le stelle nessuna brilla più del sole mattutino
e tra le sue compagne nessuna è più nobile di Asma’.
***
da La pianta del pane (2003)
L’ultimo verso
Dentro gli occhi chiusi
quando vi cadde il sole
si accese un puntolino nero.
E non per vizio voleva
tenerselo l’informe
e dentro trattenerlo
nel cieco addome
divenuto sua patria.
Per non lasciarlo morire davvero
e insepolto, quell’ultimo verso
lo adottò, quell’inutile eroe.
Aurea muffa dell’estinto mattino
aerea tigna, polverosa carcassa
nocciolina che sgusci tra le dita
e, se si è presi, fedele capsula.
*
Atta
Il n’y a pas de paradis…
Ha una parola sola il bardo del ’43.
Sbiaditi kamikaze in bianco e nero
strisciavano il cielo
d’un fioco bagliore
e subito si spegnevano
come zolfanelli difettosi.
Quasi fosse uno stuolo
entra senza ferite nella tomba
il provetto architetto di Allah.
Un milione di volte e nel medesimo giorno
una gomma di fuoco ha cancellato Babele.
Ma io ho ancora troppe parole.
E questo è ancora il mio tempo.
*
da Da mani mortali (2012)
Gli eterni lavori
Dalla valletta degli ulivi una neve marina
veste di bianco le bacche della piracanta.
Potessi poggiando la testa sul cuscino
udire il mormorìo dell’anima che dorme
quando sibila la sofferenza delle piante.
Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia
che perde al vento, talvolta, una fogliolina accartocciata
accorrere dove il ramerino implora una sponda
l’ibiscus un tepore che non è qui e un’arancia
s’affaccia fra il plumbago e le spine di Cristo.
Solo al tatto la riconosco quella pace truccata
che al mattino scuote la coperta dei sogni.
*
Le fasi della luna
Trapela, nella camera oscura
come l’intelligenza nel cuore.
Illecita, ingannevolmente stanziale.
Chinata sulla sua metà in ombra
sul fianco di una panca
la faccia girata a non guardarsi
in un confuso abbracciarsi di gambe
come fosse questa l’ultima notte
per dormire insieme
non il mio sonno senza sollievo
ma il nostro che non ha rimorso.
*
I nuovi climi
Nell’estate del duemila e tre
tutto si prosciugò silenziosamente.
Un meraviglioso azzurro puntato
su di noi come un’arma radiosa
premeva i piedi sul suolo, spruzzava
di calce le pareti, entrava, senza
nemmeno una goccia di pioggia
anche di notte
dentro i nostri occhi spalancati.
Dal tronco del melo colava pece nera
e a febbraio bisognò abbatterlo intero.
Il fico si salvò scrollandosi di dosso
la veste lieve delle foglie assetate
e a luglio cogliemmo fichi secchi
da terra, come fosse Natale.
La siccità portò via anche due peschi
che si erano avviticchiati l’uno all’altro
all’insaputa di tutti, in un solo albero da fuoco.
*
Per Emily Dickinson
E se covi nel tuo bozzolo un
Mercato di parole-ciottoli
I pay in satin cash – paghi
Lingua e Vita, ma solo in contante
Yes – ti diremo – noi mendicanti.
***
da La materia prima (2012-2017)
Una volta ci fu il tempo passato.
Ovunque vagante negli eterni
ultramondi il pensiero, lo stolto
come il giusto, irrigidito
nel tormentoso intrico del viso.
Ogni cosa vissuta era tenebra.
Ogni gesto compiuto vapore.
*
Una volta ci fu il tempo futuro.
Invocato a durare latente nel seno
di attesi compimenti e di altri mortali
complimenti, più o meno incompleto
di verità relative, di errori stanziali.
Non importava che ogni cosa amata
fosse così arbitrariamente sperata.
Articolo di Maria Borio-Caporedattrice Poesia della Rivista Nuovi Argomenti
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite (“XII Quaderno italiano di poesia contemporanea”, Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).
Biancamaria Frabotta
Biografia di Biancamaria Frabotta nacque nel 1946 a Roma, città dove crebe e studiò, laureandosi in lettere alla Sapienza con una tesi su Carlo Cattaneo.[2]
Militò nel Movimento degli Studenti, durante e dopo il Sessantotto, e soprattutto nel Movimento delle Donne, a partire dal 1972, impegnandosi anche nella politica attiva con il Partito Socialista di Unità Proletaria.[3][4] Nel 1976 pubblicò Donne in poesia, che dà grande rilievo alla poesia di Amelia Rosselli e antologizza per la prima volta anche le giovanissime Patrizia Cavalli e Vivian Lamarque. Il volume, che ha suscitato un vivace dibattito,[senza fonte] tratta il tema della specificità del linguaggio poetico femminile, ripreso e ampliato in Letteratura al femminile (1980), che indaga le tracce del femminile anche nella letteratura maschile.[2]
Gli interessi accademici della Frabotta si spostarono poi dall’Ottocento al Novecento: la prima monografia fu dedicata nel 1971 a Carlo Cattaneo, la seconda nel 1993 a Giorgio Caproni. Successivamente la Frabotta scrisse saggi e recensioni ad Amelia Rosselli, Franco Fortini, Toti Scialoja, Elsa Morante.[2]
Nel 1989 pubblicò il romanzo, Velocità di fuga, vincitore del Premio Tropea.
Fece parte degli Amici della Domenica per l’attribuzione del Premio Strega,[5] e scrisse per il teatro una serie di atti unici raccolti in Trittico dell’obbedienza (1996).[3] Come traduttrice, pubblicò con Bruno Mazzoni un’antologia della poetessa romena Ana Blandiana.
Collaborò, tra gli altri, con Il manifesto e con L’Orsaminore, rivista fondata insieme a Maria Luisa Boccia, Giuseppina Ciuffreda, Licia Conte, Anna Forcella, Manuela Fraire e Rossana Rossanda.
Nel 2013 fu nominata socia onoraria della Società Italiana delle Letterate.[6]
Ebbe incarichi di docenza alla Sapienza – Università di Roma, dove si era formata alla scuola di Walter Binni, fin dal 1969. Nel 2001 divenne professore ordinario di Letteratura italiana moderna e contemporanea.
In molti suoi testi vi sono riferimenti al paesaggio rurale di Cupi, nella Maremma grossetana, luogo abituale di soggiorno.[7]
In occasione dell’uscita di Tutte le poesie 1971-2017, avvenuta il 20 marzo 2018, partecipò a eventi e trasmissioni come TGR Petrarca, il Salone Internazionale del Libro di Torino, Quante storie[8], il Festivaletteratura di Mantova[9], Poesia Festival, Pordenonelegge, InQuiete, il Caffè di Rai Uno, il Festival del giornalismo culturale, Più libri più liberi.
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
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