PAOLO GENOVESI- Fotoreportage TORRE DI BACCELLI-Fara in Sabina-
La Storia-Uno dei Castelli medievali abbandonati della Sabina.
Torre di Baccelli, unico e affascinante resto del Castello di Postmontem, è adagiata su di una piccola collina boscosa, raggiungibile facilmente per mezzo di una stradina e per un breve sentiero.Il Castello di Postmontem appare per la prima volta in documenti del 994 che lo indicano come possedimento dell’Abbazia di Farfa, su cui impulso fu probabilmente fondato. Il Castello , che domina le principali vie di accesso all’Abbazia di Farfa nel 1100 fu concesso in locazione a Rustico di Crescenzo in cambio del Castello di Corese, oggi Corese Terra. La permuta non ebbe per altro lunga durata, dato che nel 1118 Postmontem apparteneva di nuovo a l’Abbazia di Farfa. Nel XIV sec. L’insediamento fu gradualmente abbandonato ed il suo territorio unito a quello di Fara in Sabina. Oggi del Castello resta la Torre, squarciata lungo uno spigolo; la visita diretta delle strutture non è agevole per la foltissima vegetazione e per il pericolo di crolli; ma , anche ad una certa distanza , resta la suggestione della Torre che domina la Valle del Farfa e gli uliveti che caratterizzano il paesaggio della Sabina.
foto di Paolo Genovesi- ricerca storica a cura di Franco Leggeri-
Di fronte al Colle di Fara sorge l’altura di Monte San Martino, abitata in epoca protostorica da un esteso ed articolato insediamento risalente all’età del Bronzo finale (la maggior parte del materiale è venuto alla luce presso le pendici orientali del monte, in località Quattro Venti). Le ricerche hanno evidenziato la presenza di alcune opere di terrazzamento con recinti di mura realizzati in pietrame a secco, di cui si ipotizzò in alcuni casi una datazione ad epoca protostorica. È stato possibile ricostruire l’andamento di almeno tre cinte murarie, irregolarmente ellissoidali, che seguivano le curve di livello[4]. Oggi questo abitato protostorico è stato identificato con Mefula,[5] antica città degli Aborigeni (mitologia), che secondo Dionigi di Alicarnasso sorgeva ad appena 5 km di distanza da Suna (Toffia)[6]. Dionigi riferisce inoltre della presenza di mura, unico caso a riguardo del popolo aborigeno, un dato che trova conferma dall’effettiva presenza sul monte di murature a secco attribuibili ad epoca protostorica (peraltro rare in questo periodo).
L’insediamento aborigeno di Mefula scompare già durante la prima età del Ferro (forse in relazione alla contemporanea nascita dei centri sabini in pianura, come la vicina Cures).
Tra il IX secolo a.C. e il VI secolo a.C. nella località di Santa Maria in Arci si era stabilito un insediamento sabino, identificato con la città di Cures, che continuò a vivere in età romana (resti di terme e di un piccolo teatro e necropoli). Il territorio era sfruttato dal punto di vista agricolo con una fitta rete di ville, costruite su terrazzamenti in opera poligonale nel II secolo a.C. e in opera quasi reticolata nel I secolo a.C. (“villa di Grotte di Torri” e ancora di Fonteluna, di Mirteto, di Cagnani e di San Lorenzo a Canneto, di Sant’Andrea e di San Pietro presso Borgo Salario, di Grottaglie, di Piano San Giovanni, di Grotta Scura, di Monte San Martino, di Fonte Vecchia).
Le origini dell’attuale abitato sembrano risalire ad epoca longobarda, alla fine del VI secolo, come sembra indicare il toponimo, derivante dal termine longobardo fara, con il significato di “clan familiare”; oppure alla devozione sempre longobarda a Santa Fara. Il castello è attestato dal 1006 e dal 1050 fu sotto il controllo dell’abbazia di Farfa. Fu quindi feudo degli Orsini. Dal 1400 è divenuto sede dell’abate commendatario di Farfa e si sono succedute le varie famiglie proprio a partire dagli Orsini fino alla famiglia Barberini, con il cardinale Francesco Barberini, nipote di papa Urbano VIII, che nel 1678 ha fondato, con sede nell’antico castello, il monastero delle Clarisse Eremite.
Nel 1867 fu toccata con la frazione di Coltodino dalla Campagna garibaldina dell’Agro Romano per la liberazione di Roma. Giuseppe Garibaldi dopo la sconfitta di Mentana raggiunse con i suoi Volontari la stazione ferroviaria di Passo Corese in comune di Fara dove partì in direzione del nord. Sempre da Fara sulla riva del Tevere partì con alcune barche la sfortunata spedizione dei Fratelli Cairoli conclusa tragicamente a Villa Glori. Testimonianze della Campagna dell’Agro Romano per la liberazione di Roma (1867) sono conservate nel Museo nazionale di Mentana.
Il 10 dicembre 1920 la frazione di Canneto Sabino fu teatro di un eccidio, il più cruento, quanto a numero di morti del cosiddetto Biennio rosso. Durante una manifestazione organizzata dai braccianti nel tentativo di ottenere migliori condizioni di lavoro un gruppo di Carabinieri ne uccise 11 in località Colle San Lorenzo.
Nonostante la fame, il freddo e gli orrori del campo di concentramento, Livia, Magda e Cibi sono sopravvissute ai terribili anni trascorsi ad Auschwitz-Birkenau. Le tre sorelle si sono protette a vicenda, condividendo il poco che avevano a disposizione senza lasciarsi piegare dalla brutalità delle SS. Ma la loro vita è ancora in pericolo. Perché, con l’avanzata degli Alleati in Germania, ad attenderle c’è un’altra terribile prova, il piano folle e criminale dei loro aguzzini: la marcia della morte. Per cancellare ogni indizio di ciò che è avvenuto nel Lager, i prigionieri dovranno camminare per giorni, al freddo e sotto la minaccia delle armi, per essere poi giustiziati. Il destino delle tre sorelle sembra segnato, ma un inaspettato colpo di fortuna fornisce loro l’occasione per ribaltare il corso degli eventi.
La loro storia ti spezzerà il cuore-Non dimenticherai mai i loro nomi «È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
The Mail on Sunday-«Un romanzo sbalorditivo.» People-«Un libro«È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
Hanno scritto di Heather Morris: The Times -«Un fenomeno. Riesce a trasmettere un messaggio potente: l’amore non si può fermare.» The Sun «Tutti dovrebbero leggerla.» The New York Times «Una lettura straordinaria.»
Biografia di Heather Morris-È un’autrice di successo, nata in Nuova Zelanda e attualmente residente in Australia, a Brisbane. I suoi libri hanno venduto 12 milioni di copie e sono stati tradotti in 52 Paesi. Ha lavorato per anni come sceneggiatrice, prima di pubblicare il suo romanzo d’esordio, Il tatuatore di Auschwitz, che ha ottenuto uno straordinario successo mondiale, rimanendo per mesi in vetta alle classifiche internazionali dei libri più venduti, e che diventerà presto una serie TV. Anche Una ragazza ad Auschwitz, il suo secondo romanzo, e Le tre sorelle di Auschwitz sono già diventati bestseller.
Biografia di Heather Morris is a native of New Zealand, now resident in Australia. For several years, while working in a large public hospital in Melbourne, she studied and wrote screenplays, one of which was optioned by an Academy Award-winning screenwriter in the US. In 2003, Heather was introduced to an elderly gentleman who ‘might just have a story worth telling’. The day she met Lale Sokolov changed both their lives. Their friendship grew and Lale embarked on a journey of self-scrutiny, entrusting the innermost details of his life during the Holocaust to her. Heather originally wrote Lale’s story as a screenplay – which ranked high in international competitions – before reshaping it into her debut novel, The Tattooist of Auschwitz.
Andrea Zanzotto racconta la poesia di Beppe Salvia. Fazi Editore-
In occasione della giornata mondiale della poesia, vi presentiamo un documento inedito, tratto dalla “Pagina Culturale” della Radio Della Svizzera Italiana del 16 giugno 1988, in cui Andrea Zanzotto si sofferma sul volume postumo di Beppe Salvia, Cuore, che ha per sottotitolo Cieli celesti.
È di straordinario interesse la collezione che si è inaugurata a Roma con l’editore Rotundo, perché ci presenta i migliori poeti giovani – veramente giovani anche per il salto qualitativo che fanno verso nuove forme – che hanno trovato il loro primo punto di incontro nelle riviste semi-clandestine “Braci” e “Prato pagano”, che si pubblicano a Roma.
Si è parlato di “scuola romana” di poesia: direi che questi autori ne rappresentino una frazione abbastanza inquietante e lontana da quella che era la classificazione della scuola romana, gravitante, mettiamo, intorno a nomi come Dario Bellezza o simili. Certo la ricchezza e l’intensità dell’esperienza in questi autori è innegabile ed anche la straordinaria profondità dell’impegno poetico.
Di Beppe Salvia bisogna dire che purtroppo ha scelto, scelto è una parola sciocca, si è tolto la vita insomma, a 31 anni. È stato un grande dolore per tutti quando si è saputo che era scomparso. In questo libricino viene data la sintesi della poesia di Beppe Salvia che si è fatta subito notare per una straordinaria limpidezza dello spalancarsi di una potenza e di un’unità lirica. Tutto resta preso come in un abbraccio di una sconcertante luce che da una parte sorregge e dall’altra però crea un inquietante sfondo di allontanamento.
II titolo data a questa sua raccolta, “Cuore”, è volutamente provocatorio, in un certo senso. Non so se sia stato dato dai redattori che hanno curato questa pubblicazione postuma, o se Salvia avesse già ordinato queste carte con un titolo simile.
Il fatto è che la sua poesia, che ha una luce di giovinezza e di alba e nello stesso tempo qualcosa appunto di terribilmente teso verso lontananze imprendibili, lascia una parola lacerata fra gli uomini e la volontà di riprendere contatto con il “cuore” del mondo. Un tema che si potrebbe dire romantico in fondo, ma non è così perché si potrebbe avvicinare la poesia di Salvia persino alle tormentate e oltranzistiche indicazioni dell’ermetismo di Calogero, il grande poeta scomparso parecchi anni fa, anch’egli in modo tragico.
C’è comunque nella poesia di Salvia una ricchezza anche di momenti veramente liberatori come in questa poesia:
Viva le lunghe ore della scuola il banco celeste come il cielo serviva a non guardare la lavagna. Viva le povere ore di malinconia viva quel tuo mugugno viva la veste bianca e le bugie viva la deserta tutta di occhi bioccoli lanugine di giugno
Ma la parte realmente preponderante, che è quella con una forte tensione tragica, viene data in componimenti più lunghi che spesso hanno la caratteristica di sonetti o pseudo-sonetti, e poi hanno delle variazioni numerose interno agli stessi temi: una specie di ribuii, una specie di tumulto di variazioni.
La mia cultura è poca e la mente fioca non ho conosciuto regole e leggi e nessuno dell’ordine dell’universo m’ha insegnato ad amare la sua natura grande e umile. Ho offeso con la mia stupidità la legge della vita, l’infinita innocenza della sua crudeltà. Adesso ho un cuore nobile ma la mia carne è pietra
Così, con poesie tutte di livello molto alto, di una piena consapevolezza del valore della parola lirica e direi al di là della lirica stessa sullo sfondo della tragicità, si caratterizza l’opera del compianto Beppe Salvia, sui quale certamente ci si augura che si debba puntare l’attenzione dei critici.
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
La Campagna Romana nelle tempere e nei pastelli di Giulio Aristide Sartorio,Man mano che la via Appia scende nelle paludi un silenzio innaturale comincia a gravare sul paesaggio . I canti si affievoliscono , non si sentono grida di gioia, ma solo l’indefesso zirlio delle cicale e un gracidare assordante . Qualche bifolco , qualche contadino , qualche buttero giallo di febbre vi fanno un triste saluto . Pian piano si scoprono tra le canne dei lustri sospetti: è l’acqua stagnante … Nei rari casali , nelle povere osterie, vi salutano uomini dall’aspetto fraterno , ma come scaturiti dal passato. Paiono di una stirpe che non è morta mai ; le loro facce sembrano lavorate come i ruderi della Campagna e su di esse si leggono i sacrifici secolari. La via Appia procede così per miglia e miglia, attraverso un paese sospetto , ricco di pascoli , di macchie, ma silenzioso . Gli archi della strada superano i canali fangosi nei quali si vedono i bufali immobili, mentre rari guizzi accusano i pesci. Qualche famiglia di pescatori ha costruito le capanne sulle palizzate e vive come gli uomini primitivi fabbricando le stuoie e le nasse. Sembra di essere catapultati in un paesaggio arretrato nei secoli; sembra d’essere in una specie di Stige e la nostra vita civile
“sembra un inganno , un’illusione”.
Questo paesaggio e questa vita –triste, solenne, straordinariamente caratteristica- il Sartorio delinea con tocchi rapidi e suggestivi in un conferenza su Terracina e traduce da tempo in piccole tempere e pastelli.
Giulio Aristide Sartorio , uscito da una famiglia d’artisti imbevuti di classicismo e che consideravano , quindi, il paesaggio come manifestazione artistica di scarsa importanza, non si dedicò sin dai primi anni agli studi che poi ha privilegiato. Fino alla Gorgone e alla Diana Efesina il Sartorio fu sotto l’influenza deli insegnamenti paterni e deve al pittore Francesco Paolo Michetti il primo impulso verso questi nuovi orizzonti.
Nell’Esposizione parigina del 1889 un suo quadro – I figli di Caino- fu premiato con una medaglia d’oro; e in questa occasione egli si recò , insieme al Michetti, alla Mostra di Parigi.
L’amore e la conoscenza profonda che il Michetti aveva per i paesisti francesi del ‘30 gli rivelarono tutto un mondo quasi ignoto, lo appassionarono per una manifestazione artistica da lui prima poco stimata. Ed a Francavilla a Mare, subito dopo Parigi , segnò con i pastelli del suo grande amico le prime impressioni di paese. Venuto a Roma, trovò nell’amicizia di due nobili illustratori della Campagna Romana- il Carlandi e il Calemann- stimolo costante a che l’improvvisa rivelazione non impallidisse. E il Carlandi e il Colemann gli furono guida nelle prime escursioni attraverso l’Agro Romano: anzi fra loro tre si fermò il progetto di una illustrazione completa di esso; progetto che, purtroppo, pare abbandonato. Ed ora ben pochi conoscono come il Sartorio le segrete bellezze e le ardenti emozioni che può offrire a
chi la contempli con anima candida e fervente l’interminata desolazione della Campagna Romana. Finora il Sartorio, sotto l’aspetto assai cospicuo di paesista, era stato conosciuto frammentariamente- quasi si potrebbe dire saggiato- nelle mostre di Venezia, di Roma, di Milano. Nel febbraio, però, sono state esposte a Londra settantatrè opere – metà tempere, metà pastelli- fra nuove e vecchie sensazioni paesistiche di lui, sì che la mostra offre la visione completa di quel che il Sartorio rappresenta non solo come paesista, ma anche come interprete di una regione nello svolgimento dell’Arte moderna. A Roma, nel salone Corrodi, si è tenuta la prova generale del grande spettacolo londinese: e artisti, amatori, studiosi, giornalisti sono accorsi: e in tutti era profondo il convincimento che il Sartorio fosse il vero multiforme poeta della Campagna Romana e che la mostra odierna avesse una significazione e una organicità profonda che la rendeva un avvenimento artistico affatto insolito. Bisognava vedere, infatti, quale tenace legame spirituale collegava tutte queste Opere così varie di soggetto, di sentimento, di tecnica e come il loro
intimo valore d’arte si intensificasse e si accendesse nel dispiegamento magnifico! La semplicità aristocratica e originale del taglio – rarissima perché segno di una personalità squisita-;la varietà dei momenti colti e la tecnica varia e sensibilissima con cui son resi ; la finezza e la intensità del sentimento onde son tutti materiali; la suggestiva magia evocatrice che li anima pareva che si avvivasse e si ampliasse in una vita più ricca e più ardente. Il Sartorio mantiene nel suo spirito una spiccata propensione per il mondo classico di cui egli ha una conoscenza straordinaria per un artista e perciò predilige quei luoghi della Campagna Romana avvolti nei veli fantasiosi delle leggende oppure onusti di memorie. Così si spiega il gran numero di quadri nei quali egli canta Terracina e il Circeo. E’ il mare di Omero e di Virgilio e-scrive il Sartorio nella conferenza citata- :”i navigli a vela che oggi lo solcano potrebbero essere le navi di Giasone, di Ulisse, di Enea, di Augusto, di Genserico; potrebbero essere flotte che portarono la Poesia , l’Arte, la Guerra, la conquista, la distruzione: pare che noi stessi abbiamo vissute tutte le vicissitudini antiche.” Circe, l’incantatrice di Colchide, ebbe nella regione il suo regno fatale: e il suo spirito sembra che aleggi ancora sul mare azzurro , sulle azzurre lenee dei monti , sulle rovine dei Templi, sugli stagni putridi e mortali . Una solenne atmosfera di silenzio
circonfonde Terracina squallida , chiusa tragicamente nella luce del suo passato, quando i traffici ed il commercio urgevano, quando gli eroi turbinavano intorno, quando l’arte risplendeva nel tempio di Anxur che prometteva al suo popolo la giovinezza eterna e in molti altri Templi e Fori e Basiliche e case. L barcgìhe pescherecce sotto al Circeo con le vele tessute di luce . gonfie e veloci sulla solenne distesa del mare azzurrissimo nella violenza del sole sembrano quelle che passarono innanzi l’isola a vele spiegate una notte remota tra il ruggire dei leoni incatenati e l’ululare dei lupi, mentre Odisseo era tenuto prigioniero nel palazzo incantato di Circe. I bufali pigri, fangosi, dagli occhi iniettati di sangue che triano una pesante carrozza presso Terracina, guazzando in mezzo all’acqua, sembrano veramente quelli abbandonati dalle torme unne di Genserico nella loro partenza precipitosa. Altri bufali lenti e grevi tirano un carro dalle enormi ruote ai monti Ausoni di linea sobria e sdegnosa, interrotta dal Pesco montano, una rupe a foggia di torre sporgente dal Tirreno come faro ciclopico. Esso fu tagliato sotto il primo impero perché contenesse la via Appia, la quale solo colà toccava il mare ed era un punto strategico guardato dal presidio romano chiuso nel Castrum che circondava il tempio di Anxur. Sul davanti del quadro il terriccio melmoso si affloscia ed affonda . L’ampio paesaggio sembra fasciato in tedio profondo , in un silenzio pauroso ed il carro ed i bufali ed i conducenti sembrano silenziose apparizioni fantastiche. Ancora altri bufali affogati nel fango , con le teste torte in alto , ansanti, guardati da due butteri monumentali, selvaggi ruderi di una remota età eroica. Desolazione epica domina anche nelle rovine del porto di Trajano, ora pozzanghera in cui guazzano i bufali, ma un tempo rifugio ricco di vele e di grida che vide partire verso l’Africa gran parte del bottino di Genserico. E’ un arco di terra melmosa cui sono attaccati ancora gli anelli per le navi e al di là di essa si stende sconfinato il mare, rompendosi in spuma sulla terra
superstite ch’esso ogni dì più incalza e sopprime. L’organismo coloristico è squisito : i toni aurati iridescenti delle nuvole pendule sul mare si fondono mirabilmente con quelli oscuri e sordi dell’acqua opaca e della terra che scoscende , rilevati dalla massa azzurra del monte e dalla macchia rossa della casetta che si erge a destra . Molti di questi finissimi quadri si fan notare , oltre che per la loro significazione sempre profonda , per la raffinata seduzione del colore. Vi è una tempera – L’aratura a Foro Appio- che è tutta una delicata sinfonia di toni gialli nell’immensità triste del piano, nelle figure dell’uomo e dei buoi, atomi perduti nello spazio. Un’altra tempera –Nel lago di Nemi, sotto villa Cesarini- in cui attraverso un incrocio fantastico di olmi e platani s’intravvede il cielo roseo sorridente sulle masse azzurrine dei monti, è un accordo finissimo di giallo, verde , rosso , azzurro. Nell’Aratura con i bufali è il roseo chiarore dei monti che anima il paesaggio illuminandolo di un sorriso infinito di pace e di gioia, mentre un lungo convoglio di bufali immani passa con andatura lenta grave come nell’eternità del tempo. Fini illustrazioni ha anche Ostia. Una tempera
che ritrae un piccolo cimitero settecentesco , il cui modesto ingresso è fiancheggiato da due colonne joniche, ornamento forse di qualche villa romana, è una visione di una semplicità e di una signorilità più che squisita, resa con magnifica nitidezza e rilievo, animata da un occhieggiare vivace di papaveri che squillano nella chiara luminosità diffusa sulla campagna. E’, come tante cose del Sartorio, una cosa fatta di niente, ma piena di freschezza e di aristocratica distinzione. Guardate il Pagliaio così morbido, tagliato finemente sull’orizzonte luminosissimo, perlaceo per lo sfolgorare del sole. Guardate lo studio di Tor di Quinto: una semplicissima linea di colline su cui si arrampicano curve le pecore, tutta soffusa di una tristezza e di una poesia infinita. Il Sartotio ha la virtù dei grandi artisti, quella di innalzare ad espressione di arte le forme più umili della vita e della natura, di essere sempre semplice ed originale insieme, di animare come per incantesimo perfino manifestazioni d’arte strascinate per tutte le mostre e tutte le botteghe. Vuol rendere le rovine dei
monumenti romani e non fa né la veduta, né la cartolina illustrata. Le colonne superstiti del Teatro di Ostia sembrano membra sparse, ma ancora viventi, di un organismo già vibrante e pare che anelino all’alto agili e fulgide; le rovine delle Terme antoniniane , quadro di fattura finissima, sembrano penetrare in ogni pietra, in ogni linea di una vita profonda e anche gli acquedotti hanno una grandiosità altera, solenne di voci remote che li rende una vera e grande evocazione di vita fuggente nei secoli. Le paludi e il Litorale pontino sono evocati in alcuni quadretti che sono i migliori della serie, specie quello rappresentante un armento di bufali che attraversa un ponte di pietra, il cui riflesso rossastro anima l’acqua appena increspata e, più ancora, quel lembo di litorale , vero capolavoro, in cui è reso possentemente l’infinito del mare e quel senso di timoroso stupore, di tristezza, di annichilimento che esso produce e che la tenue vita delle pecore beventi intensifica. Delle illustrazioni di Tivoli è assai fine quella che ritrae una cascata, ora scomparsa, scendere rumorosa e fresca tra rigogliose siepi verdi, e le due rive dell’Aniene , eleganti nella loro pace un po’ triste, fresche di ombre animatrici. Di Castel Fusano si
vede lo Stagno del Levante , immobile, triste, armonia di toni verdi, e il viale del coniglio, grandioso, in cui le masse brune dei pini ondeggianti staccano sopra il cielo diafano che appare a tratti tra esilità dei rami. La pineta di Sant’Anastasia è resa in due aspetti diversissimi- una volta oasi perduta in una desolazione immensa, affondata in un orizzonte torbido, chiuso da una monotona linea di monti- un’altra come parco signorile racchiudente una casetta candidissima: una visione gaia, fresca, aristocratica. Molti altri quadri ritraggono svariati aspetti della Campagna Romana. La strada attraverso la selva laurentina, oltre a rivelare una straordinaria abilità tecnica , è altamente suggestiva per lo sfondo misterioso, per la immobilità quasi esanime degli alberi e delle erbe che sembrano forme di una vita lontana. Di morbidezza squisita e finissima di chiaroscuro è la Raccolta del fieno. Più fine e possente il Temporale sulla via Cassia bianca di polvere, su cui rotolano con grave incedere carri tirati da bufali. L’appesantimento dell’aria , l’attenuazione dei colori pel filtrare lieve del sole, l’aspettazione misteriosa e raccolta che si diffonde sugli
uomini e sulle cose insieme a una tristezza profonda fanno apparire imminente l’abbattersi della bufera. L’Aratura di settembre in una sterminata e desolata campagna chiusa da monti assume una grandiosità sovrannaturale come se fosse una funzione sacra. Assai delicata è la Pastorale, pervasa di una tristezza elegiaca che si effonde non solo dal volto accasciato del suonatore gonfio e lacero, ma anche da quel rudero-voce d’altri tempi- staccante sul piano erboso e dalla squallida distesa interminata avvolta in una luminosità diffusa. Epica è la Sera nella Campagna Romana per il rossore tragico che avvolge come di un velo di nebbia il desolato piano erboso, le pecore strette l’una all’altra, timidamente. Certi grandi quadri hanno raggiunto una vita straordinaria, riprodotti in piccole dimensioni. Così quello già a Venezia in cui si vedono le pecore disposte a semicerchio come per un misterioso rito sotto il tenue chiarore roseo dell’estremo crepuscolo, mentre la luna rosseggia pallida e incerta dietro i vapori : pare che un silenzio argentino circonfonda ogni cosa ; pare che un infinito senso di poesia da ogni cosa emani. Così da Tonnara , esposta a
Milano nel 1906, che appare più intensa nell’azione, più armonica nella costruzione , più accordata nel colore. La pittura , con questi lavori, il Sartorio ha superbamente rappresentato e descritto la Campagna Romana.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
Biografia di Giulio Aristide Sartorio.
Allievo prima del padre e poi dell’Accademia di San Luca fece i suoi primi passi all’insegna del fortunismo alla moda con quadi in costume settecentesco o comunque contrassegnati dalla pennellata virtuoso e dalla tematica facilmente leggibile. Nel 1883 inviò all’Esposizione di Belle Arti di Roma Dum Romae consulitur morbus imperat ovvero Malaria (opera dispersa), potente dipinto neo caravaggesco di denuncia sociale. Nel 1889 vinse la medaglia d’oro a Parigi con I figli di Caino e si avvicinò a Francesco paolo Michetti, da cui derivò l’amore per il pastello e per il paesaggio. Contemporaneamente alla frequentazione di In Arte Libertas realizza il trittico Le Vergini Savie e Le Vergini Folli per il conte Gegè Primoli, opera intrisa di umori neo bizantini. Un passo successivo fu il dittico Diana d’Efeso e gli Schiavi e La Gorgone e gli Eroi – vera e propria summa della sua stagione simbolista e delle sue riflessioni sull’arte – opera che alla Biennale di Venezia del 1899 ottenne l’acquisto statale per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Tra il 1908 e il 1912
realizzò l’intero fregio per la nuova aula del Parlamento mettendo a punto un nuovo linguaggio per la decorazione ambientale dove si coniugava il classicismo michelangiolesco con la propria sigla inconfondibile. Allo stesso periodo risale la partecipazione al gruppo dei XXV della Campagna Romana, con il quale perlustrò tutti gli amati dintorni di Roma riportandone i segni distintivi in procinto di essere cambiati per sempre dal progresso. Nel 1915 partì volontario per la guerra che documentò con una serie di lavori di straordinaria modernità caratterizzati da tagli fotografici arditi e da contrasti cromatici d’effetto. Negli anni ’20 compì una serie di viaggi in Oriente e Sud America grazie ai quali realizzò una serie straordinaria di opere contraddistinte dall’immediatezza del reportage dal vivo. L’ultimo periodo si dedicò a ritrarre la famiglia Fregene mettendo a punto un’innovativa pittura di luce post impressionista di straordinaria modernità. Morì nel 1932 a Roma durante la progettazione della decorazione del Duomo di Messina. Biografia: Nasce a Roma l’11 febbraio 1860, il nonno Girolamo e il padre Raffaele, entrambi scultori, lo avviano
all’arte. Frequenta i corsi di Francesco Podesti all’Istituto di Belle Arti. 1877-79 Si mantiene realizzando soggetti alla moda neo settecenteschi e neo pompeiani sulla scia del successo di Mariano Fortuny. Si reca a Napoli dove conosce Domenico Morelli. 1883 Partecipa all’Esposizione internazionale di Roma con Malaria (Dum Romae consulitur morbus imperat). 1884 Visita a Parigi il Salon e attraverso Vittorio Corcos viene in contatto con l’ambiente degli artisti italiani ivi operanti. 1885 Lavora come illustratore per la “Cronaca Bizantina” di Angelo Sommaruga, che lo presenta a Gabriele D’Annunzio. 1886 Stringe amicizia con Francesco Paolo Michetti ed Edoardo Scarfoglio e viene in contatto con il gruppo di artisti di “In Arte Libertas” legati a Nino Costa. Prende parte all’editio picta dell’Isaotta Guttadauro di D’Annunzio. 1889 Ottiene la medaglia d’oro all’Esposizione universale di Parigi con I figli di Caino (1887-89). Durante l’estate soggiorna con D’Annunzio a Francavilla ospite di Michetti, che lo introduce alla tecnica del pastello e alla pittura di paesaggio. 1890 Frequenta il salotto del conte Giuseppe Primoli, che gli commissiona
il trittico Vergini savie e vergini folli (Roma, Galleria comunale d’arte moderna). Espone per la prima volta con il gruppo “In Arte Libertas”. 1893 Si reca in Inghilterra per studiare le opere dei preraffaelliti e conosce a Londra William Morris. In una tappa a Parigi visita nuovamente il Salon. Invia da Parigi e Londra articoli sull’arte europea alla “Nuova Rassegna”. 1895 Espone alla I Biennale di Venezia, cui sarà presente con assiduità. 1896-99 Insegna pittura alla Scuola d’arte di Weimar su invito del granduca Carlo Alessandro di Sassonia. Si accosta al simbolismo tedesco e compie studi di animali nel giardino zoologico di Weimar. 1899 La III Biennale di Venezia gli dedica una sala personale, in cui espone il dittico Diana d’Efeso e Gorgone e gli eroi (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna). 1901 È nominato membro dell’Accademia di San Luca. Sposa Giulia Bonn. 1903 Nasce la figlia Angiola. 1904 È tra i fondatori del gruppo dei XXV della Campagna romana. 1905 Giulia Bonn rientra a Francoforte portando con sé la figlia. Pubblica il romanzo Roma Carrus Navalis – favola contemporanea. 1906 Partecipa all’Esposizione di
Milano per l’apertura del traforo del Sempione con il Fregio del Lazio, poi suddiviso in diversi pannelli. 1907 Decora il salone centrale della Biennale di Venezia con il ciclo allegorico La Luce, Le Tenebre, L’Amore e la Morte (Venezia, Galleria d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro). 1908-12 Realizza il fregio decorativo della nuova aula del Parlamento italiano progettata da Ernesto Basile. 1914 Espone all’XI Biennale di Venezia. 1914-15 Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola come volontario con il grado di sottotenente di cavalleria. Ferito e catturato a Lucino sull’Isonzo è trattenuto nel campo di prigionia di Mauthausen, da cui viene liberato diversi mesi dopo grazie all’intercessione di papa Benedetto XV. Torna al fronte dove dipinge scene di guerra. 1917 Pubblica Tre novelle a perdita. 1919 Sposa l’attrice Marga Sevilla, con cui vive nella villa Horti Galateae. Dirige la moglie nel film Il mistero di Galatea. Si reca in Egitto per realizzare il ritratto di re Fuad I e visita Palestina, Libano e Siria. Il 14 settembre nasce la figlia Lidia. 1919-21 Collabora la casa di produzione cinematografica Triumphalis, firmando il soggetto di Clemente
VII e il sacco di Roma e dirigendo il San Giorgio. 1921 Espone alla Galleria Pesaro. 1922 Pubblica il poema illustrato Sibilla e lo scritto teorico Flores et Humus. 1923 Il 23 novembre nasce il figlio Lucio. 1924 Effettua il periplo dell’America Latina a bordo della Regia Nave Italia. 1929 Si imbarca sulla nave militare italiana Caio Duilio per una crociera nel Mediterraneo. 1930-32 Lavora alla decorazione musiva del nuovo Duomo di Messina. 1932 Muore il 2 ottobre e viene sepolto nella chiesa di San Sebastiano fuori le mura.
Articolo e ricerche a cura di Franco Leggeri-le foto in B/N sono originali del 1906 –
Un progetto di Michelangelo Foundation for Creativity and Craftsmanship
Un patrimonio di immagini del saper fare veneziano e veneto, uno straordinario omaggio alla città lagunare e alle sue maggiori realtà produttive in terraferma, raccolto in un volume perché non vada perduto e viva oltre i tempi e i modi del momento espositivo. Susanna Pozzoli è qui autrice a tutto tondo, avendo lavorato sia come fotografa sia come autrice dei testi: racconti brevi delle sue esperienze, professionali e umane, vissute nel tempo trascorso nelle ventuno botteghe e imprese artigiane di eccellenza, protagoniste speciali di questo lavoro autoriale. Aprono la pubblicazione una nota di Michelangelo Foundation e la prefazione di Franco Cologni. Un testo introduttivo di Toto Bergamo Rossi, direttore di Venetian Heritage Foundation, mette in risalto il valore storico e di patrimonio vivente che queste realtà incarnano per Venezia e il Veneto. La storica dell’arte Barbara Stehle è stata invitata a presentare l’aspetto artistico del progetto Venetian Way, esposto a Homo Faber 2018.
Autore SUSANNA POZZOLI, fotografa italiana residente a Parigi, ha curato progetti espositivi di ampio respiro principalmente dedicati al savoir faire artigianale. La sua ricerca personale associa alla fotografia testi e video da lei realizzati. Nel 2018 crea Venetian Way, ampio lavoro esposto alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia per Homo Faber. Nel 2019 è finalista del Premio Fondazione VAF ed espone al Museo MART di Rovereto la serie Casa Costanza. Incontro con Meret Oppenheim.
Ho solo me
In ogni giorno
Per accogliere la nuova alba
Ma non appena m’aggroviglio in un sogno
ho solo te
Ho solo me
Per incassare
Tutte le piaghe da decubito della vita
Ma appena in un sogno mi perdo
ho solo te
Ho solo me
Quando spio
Del futuro l’ora che scocca
Ma nelle mie ardenti preghiere
ho solo te
Ho solo te
Per stupirmi
E per magnificare le immagini
Ma appena ho girato le pagine
ho solo me
***
Incinta
Sono incinta di prati verdi
porto i pascoli dentro di me
Se il mio umore è divertente o saggio,
Sono incinta di prati verdi
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Bella è l’immagine!
dolce il suono
“Porto pascoli dentro di me…”
E allo stesso tempo cosa ingrata
sono incinta di deserti.
e miraggi
e chimere
grandi temporali
Di rimpianti che ingiustamente attraversano
Risate di cui non so che farmene.
E le mie gravidanze coesistono.
In tutto il mio essere. Senza limiti.
***
Finalità
Tu dici: “L’uccello canta
per festeggiare il sole…”
Tu dici: “L’uccello canta
per incantare il mio orecchio…”
Quella che ti sembra una canzone
è in realtà grido di guerra.
pianto originario
e avvertimento.
Credi che la specie
alle profondità dei mari
si divori a vicenda in giubilo
senza soffrire di carne?
Vasta selezione
dove tutto si perpetua
solo attraverso i tuoi occhiali,
ammiri, tanto e di più!
Equilibrio gigantesco!
(ti riempie di emozione…)
E quando il tuo essere vibra
per vedere intorno a te
tutte le specie, grandi e piccoli
nati per mangiarsi l’un l’altro,
Uomo, ti senti il prescelto
per cui tutto è stato fatto!
***
Cantando
Con fili di seta
Avevo intrecciato una canzone selvaggia
Selvaggia era la mia voce
E tenera era la mia canzone
***
In attesa
Questo seme che tengo
nel palmo della mia mano,
cosa farà nascere domani?
Una canna o una quercia?
Qualche pianta da giardino?
Lo ignoro e non me ne lamento.
Ma il mio cuore batte,
sapendo che nella sua vita
una vita l’attende,
il mio piacere del momento
quando dirà: presente,
finché troverà buon terreno
che lo protegge
Quindi, un buon seme attende.
Questo amore che tieni
nel palmo della tua mano
cosa farà nascere domani?
La mia felicità o il mio dolore?
O i miei infiniti rimpianti?
Non lo so, cosa sarà.
Ma lì, il mio cuore si congela
non sapendo il ruolo
nel destino che attende,
a tuo piacimento del momento.
Perché sei tu che scegli,
e sono io che soffro.
Brava la puttana in attesa
e il buon cane va d’accordo.
**
Un po’ di spettacolo…
Accordo inespresso, minuscolo.
Eppure già un legame intimo.
Un po’ di spettacolo…
Una specie di trappola
Ancora un tocco negli arpeggi.
Un dolce preludio allo stato d’assedio.
Una specie di trappola
E poi all’improvviso…
Accordi a quattro mani.
E con due bocche. Ah! gioco divino!
E poi all’improvviso…
A volte disastro…
A volte la felicità dove tutto combacia.
Sinfonia di ombre e lesene.
A volte disastro.
Corpo a corpo …
Abbinamento perfetto. Piccola morte.
E sempre una sola parola: “Ancora”
Corpo a corpo …
Un’altra pagina…
Perché molto presto tutto diventa saggio.
Come il mare dopo la tempesta.
Un’altra pagina…
Nessuna traccia …
Accordo dove tutto è già cancellato.
Insomma, dove tutto torna a posto.
Nessuna traccia …
Riposo. Tempo scaduto…
Fino al risveglio, vicino o lontano.
E poi all’improvviso: nuova esplosione!
E poi all’improvviso…
Un po’ di spettacolo…
Accordo inespresso, minuscolo.
Eppure già un legame intimo.
Un po’ di spettacolo…
Una specie di trappola
Ancora un tocco, negli arpeggi…
EVASIONE
E sarò di fronte al mare
che verrà a bagnare i ciottoli.
Carezze d’acqua, di vento e d’aria.
E di luce. Di immensità.
E in me sarà il deserto.
Entrerà solo il cielo leggero.
E sarò di fronte al mare
che verrà a battere gli scogli.
A schiaffeggiarli. A sferzarli. Usando la pietra.
A colpirli. A insinuarsi. Selvaggio.
E in me sarà il deserto.
Nessun cielo tormentato entrerà.
E sarò di fronte al mare,
statua di carne e cuore di legno.
E farò il deserto in me.
Che importerà il tempo? Scuro o chiaro…
—————————————————–
BIOGRAFIA
La poetessa belga-israeliana Esther Granek nacque il 7 aprile 1927 a Bruxelles, fu autodidatta non avendo potuto studiare a causa delle leggi antiebraiche durante l’occupazione nazista.
Nel 1940 la sua famiglia fuggì dal Belgio e si stabilì a Bagnères-de-Luchon in Francia, ma ben presto furono tutti deportati in un campo di concentramento a Brens nel Tarn. Nel 1941 riuscirono a fuggire, pochi giorni prima dello sterminio di tutti i prigionieri del campo. Tornata a Bruxelles, rimase nascosta prima con gli zii, poi, dal 1943 fino alla fine dell’occupazione nazista, con una famiglia cristiana che, con documenti falsi, la spacciava per figlia. .
Sopravvissuta all’Olocausto, si è trasferita in Israele nel 1956 dove ha lavorato per 35 anni come segretaria contabile presso l’ambasciata belga a Tel Aviv. Nel 1981 gli è stata conferita la medaglia civica di prima classe in riconoscimento della qualità del suo lavoro. Morì a Tel Aviv il 9 maggio 2016.
Autrice compositrice di canzoni, poesie, ballate e testi umoristici, pubblicò diverse raccolte. I suoi versi prendono in giro mode e convenzioni. Seducono subito per la loro fantasia e libertà. Con una grazia.
Rita Pasquetti il nuovo libro Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo-
Rieti-29 dicembre 2021-È stato pubblicato da Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo il nuovo libro di Rita Pasquetti, dedicato all’amicizia tra due nobili intellettuali nella prima metà dell’Ottocento–
Una vera amicizia quella tra il reatino Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo, come non poteva non avvenire tra due intellettuali che condividevano la prestigiosa Accademia dell’Arcadia nella prima metà dell’Ottocento. E quando il primo giugno del 1843 si volle commemorare Gargallo, l’incarico fu affidato al caro amico Ricci. Inutile dire che l’elogio ebbe un eccellente riscontro. Nella sala del Serbatoio risuonarono lodi per il traduttore dei classici latini e per il raffinato poeta. Al profilo intellettuale di vasta risonanza nazionale per il prestigio accademico si aggiunse, nelle parole del Ricci, la lodata profonda umanità del Siracusano. Giunge dunque opportuno questo puntuale saggio di Rita Pasquetti che ci restituisce il testo, ancora oggi inedito, dell’Elogio del Marchese Tommaso Gargallo per la solenne adunanza d’Arcadia, il primo giugno 1843. Bene evidenziato dalla Pasquetti il rapporto intellettuale tra Gargallo e Ricci, riprendendo, la stessa, studi già affrontati in precedenza con puntuale acribia filologica. […] Un saggio dunque di qualità, quello che vede finalmente la luce: il profilo di una fraterna amicizia vivacizzata dai ricchi profili intellettuali dei due protagonisti e, soprattutto una puntuale ricostruzione storico letteraria, ulteriore e benefico contributo alla conoscenza del significativo ruolo di Angelo Maria Ricci nella storia della letteratura italiana.
Storia di un’amicizia: Angelo Maria Ricci e Tommaso Gargallo tra Arcadia e Romanticismo
Nel 1951, l’anno in cui pubblica Il brigante, Berto è già uno scrittore affermato. I due libri precedenti, Il cielo è rosso e Le opere di Dio, composti nell’isolamento del campo di prigionia di Hereford e apparsi tra il 1947 e il 1948, erano stati accolti favorevolmente in Italia e all’estero, dove la stampa non aveva mancato di accostare lo scrittore ai maestri del neorealismo cinematografico italiano. Con Il brigante, Berto decide dunque di rendere aperto omaggio al romanzo al cui centro vi siano scottanti problemi sociali – dirà successivamente di aver scritto un libro «marxista» –, alla maniera dei narratori che, come mostra Gabriele Pedullà nello scritto che accompagna questa edizione, orbitano, in quella stagione letteraria, «attorno a Elio Vittorini e si riconoscono genericamente in un movimento neorealista dalle molte facce diverse». Traendo ispirazione da un fatto di cronaca, Berto narra la vicenda di Michele Renda, giovane reduce di guerra che, tornato nel villaggio natio tra i monti della Calabria, ingiustamente accusato di omicidio, si dà alla macchia e diventa un brigante. Una storia che consente all’autore del Cielo è rosso di porre in risalto «il conflitto assoluto di Bene e di Male, lo scandalo della virtú perseguitata, la riscossa delle vittime innocenti» (Gabriele Pedullà), e di comporre pagine particolarmente felici sulla vita delle campagne calabresi in un momento di radicale trasformazione. Come, tuttavia, Berto farà notare nella prefazione all’edizione del 1974, Il brigante non è un romanzo interamente ascrivibile al neorealismo, al movimento culturale, cioè, che mirava alla «rigenerazione morale del paese» e al «raggiungimento d’una decente giustizia sociale». Michele Renda, il suo protagonista, è un «sorpassato», un uomo «indissolubilmente legato al mondo arcaico dell’odio, del tradimento, della vendetta» e la comunità in cui si muove, animata da dicerie, è quanto di piú lontano dal grande mito della «comunità organica». In realtà, gli elementi psicologici propri della scrittura di Berto, quelli che troveranno la loro massima espressione nel Male oscuro, sono già presenti in questo romanzo in cui un eroe, estraneo e irriducibile al suo mondo, è mosso da un universo interiore nel quale bene e male sono divisi soltanto da un esile filo. Nel 1961, Renato Castellani trasse dal Brigante un film giudicato da Berto il migliore di tutti i film tratti dai suoi romanzi, e dalla critica odierna un capolavoro della cinematografia italiana.
RECENSIONI
«Uno dei piú belli e tragici romanzi che siano apparsi da anni, veramente un piccolo capolavoro». Time Magazine
«Volgendosi “in presa diretta” alla Calabria piú povera e afflitta, Il brigante ripete il gesto compiuto da Berto nei primi due romanzi, dove campeggiano le distruzioni della guerra, ma il senso dell’operazione è diverso perché questa volta Berto ambisce consapevolmente a iscriversi nella letteratura impegnata del periodo». Gabriele Pedullà
Breve biografia di Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto il 27 dicembre 1914. Nel 1947 pubblica presso Longanesi Il cielo è rosso, su segnalazione di Giovanni Comisso. Tra il 1955 e il 1978, anno in cui si spegne a Roma, dà alle stampe, oltre al Male oscuro (Neri Pozza, 2016), Guerra in camicia nera e Oh Serafina!. Con Neri Pozza sono stati ripubblicati La gloria (2017) e Anonimo veneziano (2018), per restituire all’apprezzamento dei lettori e della critica odierna l’opera di uno dei grandi autori del nostro Novecento.
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