SALISANO-Foto Reportage del 30 e 31 maggio 1927-Festeggiamenti civili e religiosi in onore di Santa Giulia
Riassunto parziale del report della Festa in onore a Santa Giulia-
SALISANO-30 e 31 maggio 1927-“Il Borgo , straordinariamente addobbato, aveva in tutte le vie archi di trionfo in mortella con lampadine elettriche tricolori, in tutte le case sventolava la bandiera tricolore e in moltissime finestre erano esposti arazzi preziosi e di colori smaglianti…” prosegue la cronaca :” Nel pomeriggio iniziarono i festeggiamenti in onore di Santa Giulia patrona di Salisano.” prosegue il cronista:”Ebbe luogo l’inaugurazione della nuova campana dedicata ai Caduti in guerra.”.
Prosegue il cronista:“ Alla sera del 30 e del 31 si svolse un brillantissimo programma di fuochi di artificio .” prosegue il report :” Il concerto locale con un variato ed applaudito programma musicale della Banda Musicale diretta dal Maestro Leporati…..”
Il Comitato dei festeggiamenti, presieduto dal sig. Ettore Manelfi era composta dalle più autorevoli personalità di Salisano. L’operato del Sig. Manelfi fu lodato da tutti e dalle Autorità con le seguenti parole:” Vada un plauso ad Ettore Manelfi per le cerimonie così ben riuscite”
La letteratura, nelle mani degli sciocchi, è intollerabile. La letteratura, tuttavia, ha sempre contato tra le sue fila una parte di miserabili, che prendono in mano la penna solo perché si trovano interessanti. Del resto, come diceva Goethe, «ci sono libri che sembrano scritti non per l’istruzione del lettore, ma per fargli vedere che l’autore sapeva qualcosa». Ed è così che, anno dopo anno, le librerie vengono invase di opere inconsistenti quanto un refolo d’aria. Esiste, tuttavia, un esiguo numero di scrittori che si chiedono cosa voglia dire scrivere, a cosa serva e, soprattutto, a chi. Scrittori che non si sentono, a differenza di altri, autorizzati a scrivere. O per cui la scrittura rimane, al di là di tutto, un’attività poetica, un’opera di invenzione e di ricerca con successo irregolare. Attraverso una serie di illuminanti digressioni sulla scrittura e sulla lettura, Tanguy Viel passeggia tra gli scaffali delle biblioteche, si interroga sulla vita degli scrittori e scorge, in ogni pagina letta, la promessa di una risposta alla ricerca che sta svolgendo. Ad accompagnarlo in questo viaggio subacqueo – poiché nei libri veri c’è sempre qualcosa di marino – alcune tra le più
Breve biografia di Tanguy Viel è nato nel 1973 a Brest e vive a Nantes.Ha collaborato con France Culture, ha scritto per numerose riviste. I suoi libri sono: Le Black Note, Cinéma, L’assoluta perfezione del crimine (Neri Pozza 2004), Insospettabile (Neri Pozza 2006, BEAT 2017), Paris Brest (Neri Pozza 2010).
Celebrato libro come il massimo scrittore cinese del Novecento e fra i creatori della lingua scritta contemporanea, Lu Xun è il più rappresentativo fra gli uomini colti che si riconoscono nella rivoluzione popolare. La presente raccolta costituisce un condensato della sua estesa produzione saggistica (sedici volumi di saggi e discorsi) e comprende testi scritti fra il 1918 e il 1936, anno della sua morte. I testi si situano in un periodo di profonde trasformazioni: la modernizzazione della società, la nuova centralità politica delle masse contadine e l’avanzare della rivoluzione socialista. Legati al tempo e all’occasione quotidiana (il trasformarsi dell’istituzione familiare, una descrizione di Shangai, il teatro moderno, i costumi sessuali, l’avvento della fotografia…), fanno emergere le contraddizioni fra realtà privata e condizione storica, fra l’esigenza immediata di felicità e la lotta sanguinosa «per il futuro», fra tradizione e distruzione, tipicità cinese e dimensione universale. Non solo, dunque, questi scritti sono un viatico prezioso per comprendere l’evoluzione della Cina nel Novecento; nella loro acutezza, essi acquistano altresì un’ampiezza di significato che va oltre i confini di un paese e di un periodo determinato: è nella contraddittorietà della vita, nella miseria, nell’oscurità di un mondo che cambia, che si definisce il rapporto reale tra la modernità e la tradizione cinese, per cui questa può rimanere viva solo a misura che se ne distrugga il dominio, solo nel dare a sé e alle cose nuova forma.
Indice
«Salvae i bambini» di Edoarda Masi
Nota biografica
Nota biobibliografica
Nota sulla pronuncia
Tavola cronologica sulle dinastie cinesi
La mia opinione sulla castità – Come oggi essere padri – Che cosa accade dopo che Nora se ne è andata – Prima che arrivi il genio – Il crollo della pagoda di Leifeng – Fotografie – I nemici della poesia – Il proposito di sacrificarsi – Note scritte sotto la lampada – A proposito di «Di sua madre!» – Del guardar le cose a occhi aperti – Lo «studio dei classici» del quattordicesimo anno – Di come si debba rimandare il fair play – Rose senza fiori – Rose senza fiori II – In memoria della signorina Liu Hezhen – Rose senza fiori III – Cina muta – Breve saggio sulla faccia dei cinesi – La letteratura di un’epoca rivoluzionaria – Qualche chiacchiera sulla lettura – Risposta al signor Youheng – Come scrivere – Noterelle – Sulla classe intellettuale – Sulla torre – Divergenza di letteratura e politica – Letteratura e rivoluzione – Scambio di lettere – Opinioni sulla nuova letteratura di oggi – La non rivoluzionaria fretta di rivoluzione – Opinioni sulla Lega degli scrittori di sinistra – Lo stato attuale del mondo letterario nell’oscura Cina – Compiti e destino della «letteratura nazionalista» – Sul soggetto nella narrativa. Lettera – Evviva i «lavoratori intellettuali» – Ricordo per dimenticare – Dalla satira allo humour – Dal piede delle donne cinesi si induce che i cinesi mancano al giusto mezzo. E da ciò si induce che Confucio aveva una malattia – Come cominciai a scrivere racconti – Ode alla notte – Ragazze di Shanghai – Passeggiata in una sera d’autunno – Su due o tre cose cinesi – Su delle fotografie di bambino – Che strano! – Che strano! II – Chiacchiere di un profano sulla scrittura – Caratteri cinesi e latinizzazione – Confucio nella Cina moderna – Su Dostoevskij – A proposito del nostro movimento letterario oggi – Risposta a Xu Mouyong e sul fronte unito antigiapponese – «Anche questa è vita»… – Morte
Indice storico
Indice dei nomi non cinesi
L’autore Lu Xun
Lu Xun, pseudonimo di Zhou Shuren (Shaoxing, Zhejiang, 1881 – Shanghai, 1936) narratore e poeta, saggista e critico letterario, è considerato il padre della letteratura cinese contemporanea, il primo ad aver scritto un racconto (Il diario di un pazzo) in cinese moderno, attingendo largamente dalla lingua parlata. Tra le sue opere ricordiamo Alle armi (1923), Errare incerto (1926), Storie rivisitate (1935). Oltre alla Falsa libertà, Quodlibet ha pubblicato Erbe selvatiche (2003), una raccolta di brevi testi riconducibili al sanwen, uno dei numerosi sottogeneri della vastissima tradizione letteraria cinese, al confine tra la prosa e la lirica.
Quodlibet srl via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi 23 62100 Macerata tel. +39 0733 26 49 65 / fax 0733 26 73 58
Sede di Roma: via di Monte Fiore, 34 00153 Roma tel. +39 06 5803683 / 06 5809672
Se non avete ancora letto “Il Maestro e Margherita”, opera postuma di Michail Bulgakov, è venuto il momento di farlo! Rendetevi disponibili, prego, per una lettura intensa quanto sorprendente e assurda. Diversamente, nel caso lo aveste già letto, spero che le mie parole, qui, in questo confidenziale e prezioso spazio, vi rimandino alla sua rilettura. A me è capitato di riprenderlo tra le mani dopo vent’anni dalla prima volta, chiedendomi cosa, esattamente, avessi letto, giacché non era del tutto svanito il ricordo di essere stato letteralmente rapito dall’esposizione di quelle pagine, così ben lavorate da raccordarsi con il genio dei grandi maestri dello spirito russo. Tradotto e pubblicato da Einaudi, nel 1968, a vent’otto anni dalla morte dell’autore, il libro viene recensito sul “Corriere della Sera” da Eugenio Montale, che definisce il romanzo “un miracolo che ognuno deve salutare con commozione”.
Il poeta italiano scrive: “Un romanzo-poema o, se volete, uno show in cui intervengono numerosissimi personaggi, un libro in cui un realismo quasi crudele si fonde o si mescola col più alto dei possibili temi – quello della Passione – non poteva essere concepito e svolto che da un cervello poeticamente allucinato. È qui che il poco noto Bulgakov si congiunge con la più profonda tradizione letteraria della sua terra: la vena messianica, quella che troviamo in certe figure di Gogol’ e di Dostoesvkij e in quel pazzo di Dio che è il quasi immancabile comprimario di ogni grande melodramma russo.”
Cosa dovremmo sapere, dunque, di un’opera che quasi tutti gli esperti metterebbero nella lista dei migliori libri di sempre? Non possiamo ignorare, per esempio, che Bulgakov iniziò a scriverla nel 1928 e che ne distrusse la prima versione, lavorando in seguito a diverse altre, fino ad arrivare, aiutato dalla moglie Elena, a quella definitiva del 1940, portata al termine poco prima di lasciare questo mondo.
Il tema della distruzione del romanzo viene ripreso anche dalla testimonianza della storia d’amore tra il Maestro e Margherita, un punto di forza irrinunciabile dell’intera vicenda narrata, ma non il solo. Cosa ci fa, infatti, il Diavolo a Mosca, nelle vesti di Woland, accompagnato da personaggi memorabili, tra cui il maggiordomo stravagante, Korov’ev, e il clownesco gatto sovrappeso, Begemont? Certamente, insieme, daranno luogo a un esilarante e sconvolgente mulinello di accadimenti che vi terranno fermi alle pagine mediante un racconto che procede su due piani: in uno si narrano le vicende che si susseguono a Mosca, nell’altro si sviluppa il romanzo scritto dal Maestro, ambientato durante la Pasqua, ai tempi di Ponzio Pilato e Gesù.
E qui il tema tra il bene e il male si complica a tal punto che la stessa distinzione tra buoni e cattivi non è affatto netta. Satana appare quasi benevolo e si prende gioco della mediocrità e della vacuità delle persone. Mentre, Margherita, nella sua grazia e bellezza, mostra il suo lato oscuro e distruttivo. Quanto, a Ponzio Pilato, lavandosi le mani non dissolve la sua fragilità e la solitudine.
Il testo sfoglia con maestria elementi bizzarri e surreali, che si mescolano con la denuncia politica e sociale, con la religione, la giustizia, l’amore, l’illusione e il potere. E come ogni grande classico, il capolavoro di Bulgakov ci lascia alle nostre domande e riflessioni, magari aprendoci la strada a qualche dubbio, ma nella certezza di aver letto un’opera intramontabile e senza tempo, che avrà sempre qualcosa da insegnare a ogni nuova generazione.
I lettori di ogni epoca potranno considerare come difronte a tanta sofferenza e ai diritti negati, i protagonisti di questa grande opera letteraria abbiano ancora voglia di fare cose folli e innamorarsi del rischio. Margherita è desiderosa di vita e avventura e non è al corrente dei particolari del suo viaggio: sa solo che quando arriverà alla meta, potrà finalmente chiedere pace e redenzione per lei e per l’uomo che ama. Pertanto, la donna si lancia nuda, in volo, fluttuando come in un quadro di Chagall, sulla città di Mosca e i suoi dintorni, tra boschi e un paesaggio lacustre.
-‘La paga del sabato’, forse il libro più moderno di Fenoglio-
Recensione di Giacomo VERRI-
Con cent’anni e un mezzo scaffale di capolavori postumi, oggi si scrive Beppe Fenoglio tra i nomi grossi della letteratura italiana. In vita però ancora non era il gigante sulle cui spalle ambiamo salire, il punto di riferimento per chi voglia cimentarsi con le cose di Resistenza; quand’era attorno ai trent’anni e spediva dattiloscritti all’Einaudi, era un uomo alle prese con rifiuti e tirate d’orecchi.
Vittorini fu per lui un giudice severo e lapidario. Calvino, l’amico diplomatico – nel senso migliore –, temperava le sentenze del burbero siciliano e suggeriva al ragazzo di Alba le mosse per non farsi travolgere nella partita a scacchi col mondo dell’editoria. Se con Vittorini era questione di età e di esperienze – quattordici anni li separavano e una risma di libri – con Calvino non c’entravano l’anno di nascita o l’educazione sentimentale e politica; Beppe e Italo uscivano dalla stessa esperienza di giovanissimi combattenti per la libertà ed erano quasi coetanei – anzi, Calvino era più giovane di tre anni. Solo che il ligure s’era inserito prima e meglio nel mondo della carta stampata mentre Beppe faceva l’outsider per orgoglio e per amore della sua terra. Nessuno lo avrebbe strappato alle Langhe perché nessuna grande città gli era necessaria per diventare un grande scrittore. Di questo era persuaso.
Ed era bravo a incassare batoste. Tralasciamo il cicchetto messo nero su bianco da Vittorini sul risvolto della Malora, nel 1954; lì, nell’accettare e pubblicare il secondo libro di Fenoglio (e nel dire quanto casa Einaudi puntasse sull’autore), sbandierava al pubblico quelli che a suo avviso erano i limiti del testo (e, pericolosamente, i timori sulla piega presa dal ragazzo): proprio i “più dotati tra questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile” – scriveva Vittorini – vanno avvertiti che, se lontani dalle “cose sperimentate personalmente”, corrono il rischio “di ritrovarsi al punto in cui erano, verso la fine dell’Ottocento, i provinciali del naturalismo, i Faldella, i Remigio Zena”; entrambi peraltro esponenti della periferia letteraria, come Fenoglio (l’uno di quella scapigliatura piemontese teorizzata da Gianfranco Contini, l’altro nato a Torino ma attivo in area ligure).
Insomma, l’autore del Partigiano Johnny è forse morto con l’idea di non disporre dei numeri per fare un romanzo come si deve – “Le posso dire sin d’ora che il mio secondo libro sarà ancora di racconti (molto probabilmente non posseggo ancora, se mai lo possiederò, il fondo del romanziere)”, scriveva nel giugno del 1953 –, anche perché la sua prima prova di romanzo, La paga del sabato, fu messa in pausa da Calvino e bocciata poi da Vittorini.
Ecco allora Calvino a Fenoglio nel novembre del 1950:
Ti dico subito quel che ne penso: mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime; certo anche molti difetti, sei spesso trascurato nel linguaggio, tante piccole cose andrebbero corrette, molte cose urtano il gusto – specie nelle scene amorose – e non tutti i capitoli sono egualmente riusciti.
Però sai centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che sembra davvero rara, I rapporti di Ettore con la madre e con il padre, quei litigi, quei desinare in famiglia, e anche i rapporti con Vanda, e tutto il personaggio di Ettore; e certe cose della rivalità Ettore-Palmo: lì non sbagli mai la botta, hai coraggio, hai idee chiare su quello che fa e che pensa la gente, e lo dici. Idee fin troppo chiare: evidentemente tu hai l’orgoglio di riuscire a dire tutto e non la modestia di chi si limita a dare occhiate spaurite nelle sempre misteriose vite altrui. È questo spesso a forzarti la mano e a farti scrivere pagine che mi sembrano un po’ irritanti, specialmente – come ti dicevo – nella storia di Vanda. Intendiamoci: tutto vero, anche lì non sbagli un colpo, e non ci sono mai, o quasi mai, parole false né compiacimento (perciò ti salvi dalla pornografia), mai sei troppo, mi sembra, giovanilmente ambizioso delle cose che racconti. […] Ma molte cose sono buone nel tuo racconto e sono molto contento d’averlo letto. Non ultimo merito è quello di documento della storia di una generazione; l’aver parlato per la prima volta con rigorosa chiarezza del problema morale di tanti giovani ex-partigiani.
Dunque il lavoro giunto in casa Einaudi a Calvino piace con qualche riserva. Vorrebbe vederlo pubblicato. I punti forti e quelli deboli li ripete a Vittorini nel passargli il dattiloscritto (è “di un certo Beppe Fenoglio, di Alba”) dopo aver incassato il parere favorevole di Natalia Ginzburg: il narratore è robusto, “fuori da ogni compiacimento letterario, con un sacco di cose da dire”, il libro è molto bello, la storia pure, così il tema degli ex partigiani che mal si adattano alla vita in tempo di pace; ma “ha molti difetti di lingua e di gusto”, scrive, “in certi punti rasenta la pornografia”, aggiunge; inoltre, “quando non è alle prese con una situazione psicologia, fa del cinema, ma del buon cinema, credo di quello che tu definisci ‘secco’”. E va detto che quest’ultima annotazione è davvero generosa e cerca di intercettare la benevolenza di Vittorini, edulcorando ciò che invece più brutalmente aveva scritto a Fenoglio: “Le storie dei banditi non sono la cosa migliore del racconto: c’è dietro molto di già scritto, molto cinematografo; il personaggio di Palmo ha tutto un albero genealogico di gangster cretini che gli ha insegnato come deve parlare e come deve muoversi”.
Eppure il libro piace anche all’editore Giulio Einaudi e questi lo ribadisce a Vittorini.
Ma i “difetti di gusto”, la trascuratezza del linguaggio e soprattutto il sapore di cinematografo pesano tanto da precludere alla Paga del sabato la via verso la pubblicazione (Vittorini, a fine lettura, scrive a Calvino: «L’ultima parte del Fenoglio mi persuade meno. Diventa film sempre di più, e non sa essere altro che film»). O meglio, Fenoglio ci riprova, rimaneggia il testo e lo consegna nel febbraio dell’anno successivo ma niente, Vittorini lo affossa di più ancora. Così Fenoglio – sebbene da casa Einaudi lo consiglino a dirottare il romanzo verso altri editori – decide di lasciar perdere, contentandosi di trarne un paio di racconti, Ettore va al lavoro – un condensato dei primi capitoli – e Nove lune, che confluiranno nei Ventitre giorni della città di Alba, il primo suo libro.
Un giudizio quindi severo che, sottotraccia, deve pesare ancora oggi, e non si sa il perché; è un fatto tuttavia che La paga del sabato abbia mancato appuntamenti importanti, come la presenza nel volume dell’opera omnia curato da Dante Isella per Einaudi-Gallimard (Biblioteca della Pléiade) nel 1992; per fortuna viene però riproposto quest’anno, per il centenario, in una nuova veste editoriale, con la bellissima copertina disegnata da Andrea Serio, come avviene per tutti gli altri titoli fenogliani.
Dunque vediamo più da vicino questi difetti. Il primo che Calvino gli ascrive è la trascuratezza del linguaggio; certo quello della Paga del sabato non è il leggendario “fenglese” del Partigiano Johnny, la miscela d’italiano neologizzante e di inglese impuro che troveremo nel Fenoglio rizomatico e labirintico dei lavori più tardi; è un italiano, questo primo, sintatticamente sporco di osteria e di terra eppure potente e scattante nella presa sul reale. A leggerlo sembra fresco, pare di essere lì dove stanno i personaggi ma, alla prova dei fatti, risulta difficilissimo da riprodurre, a volte inimitabile. Modernissimo e arcaico allo stesso tempo.
Qualche esempio: la battuta di un dialogo; parla la madre del protagonista, Ettore, e dice che lei sola può dare dello stupido all’uomo che ha sposato:
Io posso dire di tuo padre cosa voglio, tutto quel che mi sento, sono l’unica che può. Tuo padre è uno stupido, è cieco e tu lo incanti come vuoi e per questo tu non ce l’hai mai con lui. Ma ce l’hai sempre con me perché io non sono stupida, io tu non m’incanti [il corsivo è mio], perché io so quel che vuoi dire prima che tu parli, perché a me non la fai e per questo ce l’hai sempre con me!
Poi una splendida descrizione nelle ultime pagine del libro, prima del tragico epilogo:
Tornava a casa, senza trovarci nessun senso in quel rincasare, andava curvo come se avesse commesso una vigliaccheria nota a tutti e per la quale non avrebbe mai più potuto sentirsi lui, la luna era un mostro di giallore, di grossezza e di vicinanza, ai suoi raggi le maniglie d’ottone delle porte brillavano velenosamente.
La sintassi non sempre è corretta ma nello scarto dalla norma schiude una singolare unicità e un’esemplare aderenza alle cose. Fenoglio, fin d’ora, manifesta il proprio specialissimo idioletto, portato poi alle estreme conseguenze nel Partigiano Johnny, ma qui colto all’alba; e – mi azzardo a dire – in questa versione aurorale è addirittura attualissimo, un archetipo di lingua che partecipa del minimalismo d’oltreoceano trapiantato in Langa e di un residuo di lirismo spigoloso e avaro come una saponetta crepata dal sole.
Ci sono poi le questioni che Calvino dice urtano il gusto, le scene di amore, di sesso, di sguardi fruganti in quel guazzabuglio di impeti che affondano tra i sensi e il pudore. Che dire? Anche queste, a un orecchio del XXI secolo, suonano attualissime e ormai più che sdoganate.
Ettore ha una morosa diciottenne di nome Vanda. I loro sono convegni perlopiù fugaci in cui il rapporto carnale, gioioso ma sferzante, va di pari passo con un dialogo in bilico tra passione e scontrosità imperiosa. Prendiamo a titolo d’esempio la prima apparizione della ragazza, che è pure il primo incontro tra i due a cui il lettore assiste, e il primo andare su per la collina, in quel “casotto rustico” a mezza costa dove sono soliti avvenire i loro rendez-vous d’amore. È sera e i due hanno fretta perché lei deve farsi trovare fuori del cinema alle undici. Camminano, quasi corrono; lei sta davanti e promana sensualità perché sa “che lui ora non staccava gli occhi dal movimento svelto delle sue gambe sotto la gonna scodinzolante”. L’eccitazione però s’accavalla all’inquietudine di Ettore, al suo precorrere il futuro, il disagio per l’indomani in cui avrebbe iniziato il lavoro alla “fabbrica della cioccolata”. Lui la raggiunge, la stringe fortissimo, le fa paura; e poi riprendono la marcia e lei sfreccia incalzata dal desiderio di accoppiarsi sebbene lui creda che la premura stia sciupando tutto quanto. “Non correre così – le dice –, arrivi affannata e così non è più bello, dovremo perdere tempo perché tu ti calmi”. Finché poi, neppure mezza pagina oltre, si consuma l’amplesso, felice e brutale (con deviazioni espressionistiche: “le gambe di lei si agitarono per aria come le braccia di uno che annega”), durante il quale Vanda grida tanto, nel silenzio della collina, da spaventare Ettore.
I loro incontri appaiono tutti di questa risma; veloci, frenetici, quasi violenti; in lei sono esplosioni di godimento anche un po’ servile, mentre precipitano lui in una dimensione di felice rabbiosità e di irrazionale e morbosa attrazione verso la morte, probabile residuo della brutalità depositatagli dalla guerra (durante un precedente incontro, rievocato in flashback, era accaduto che Ettore avesse condotta Vanda in riva al fiume, che si fossero coricati quasi a sfioro dell’acqua e che Ettore avesse detto: “facciamo l’amore che ci vedano tutti gli spiriti degli annegati”; e che poi, di fronte alla ritrosia della ragazza, lui l’avesse picchiata).
Ci sono dunque in quest’uomo ruvidità, un’inquietudine distorta e addirittura sadica; sempre lungo il fiume, in un nuovo convegno, lei dice di non poter fare nulla con lui perché ha le mestruazioni ed Ettore, non è chiaro se per volontà di controllo oppure per cinico o perverso godimento, resta “abbasso ad aspettare che lei si sedesse e così poté vederle la macchia rossa al centro delle mutandine bianche”; fatto sta che la passione autoritaria, venata di scontento, che Ettore mostra nel rapporto erotico apre la via ad altre chiose sulla natura morale del protagonista e, legate ad esse, ad ulteriori considerazioni sui difetti che vennero accollati alla Paga del sabato.
S’è detto dell’eccessiva presenza del cinema; in una nota anonima custodita negli archivi Einaudi e che Luca Bufano ha con tutta sicurezza attribuito a Vittorini si legge: “I difetti del romanzo mi sembra che risultino confermati nella seconda versione. Il cartonaccio del cinematografo non lo leva più nessuno di là dentro”. Ciò risulta evidente nelle parti dedicate all’incontro tra Ettore e Bianco, come lui ex-partigiano, e negli episodi che vedono Ettore affiliarsi a quest’ultimo in una serie di attività illecite, come l’estorsione di denaro ai danni di ex-fascisti (tentativo di ribaltare i precedenti rapporti di potere), e il contrabbando di cocaina.
Ma che tipo di cinematografo è quello che l’orecchio di Vittorini e di Calvino sentivano suonare tra le righe? Una prima emblematica risposta la ricaviamo dalla pellicola che Ettore stesso va a vedere poche ore prima di inaugurare la sua vita da fuorilegge. È pomeriggio e vuole far venire le sei perché l’appuntamento con Bianco è per dopo cena. Al cinema danno Sfida infernale (titolo originale My Darling Clementine), western di culto del 1946, ma uscito in Italia nel 1948, interpretato da Henry Fonda e diretto da John Ford. È proprio il tipo di film che a Ettore piace, così sta lì a guardarselo per due volte di seguito; parla di uomini in banda che rubano mandrie, di pistoleri spacconi dalla pellaccia dura, di cowboys ubriacati da un senso dell’onore assoluto, di furfanti e assassini; è inoltre la prima pellicola cinematografica che epicizza la sfida all’O.K. Corral, la sparatoria più celebre dell’epopea western poi resa immortale dall’omonimo film del 1957, diretto da John Sturges, e interpretato da due giganti come Kirk Douglas e Burt Lancaster. Ciò che ha dunque in testa Ettore è il cinema americano, quello delle sfide tra uomini con la pistola facile, la polvere appiccicata al sudore, il whiskey nel bicchiere e un branco di donne asservite ai loro desideri. E questo, se vogliamo, fa oggi un po’ sorridere. Ma credo vadano fatte almeno due ulteriori considerazioni; la prima, la cui paternità va attribuita a Philip Cooke, che ha studiato la presenza filmica nella Paga del sabato, ci dice che così come Johnny interpreta la realtà attraverso il filtro della letteratura, così Ettore lo fa per mezzo del cinema, che è strumento di comprensione e orizzonte ideale entro cui sistemare la propria esistenza:
la matrice, il contorno dentro cui le decisioni di Ettore sono prese, così come la sua percezione del mondo esterno, contengono elementi cinematografici. Il cinema struttura la natura della sua comprensione del mondo. Questo tipo di idea appare anche ne Il partigiano Johnny, quando Johnny reagisce agli estremi della guerra partigiana evocando inconsciamente testi letterari, soprattutto lavori epici, in modo da capire un po’ del caos e del disordine che lo circondano. Davvero ad un certo punto egli si sente il protagonista di una serie di racconti brevi, dal momento che preferirebbe vivere la vita come se fosse in un romanzo. L’eroe de Il partigiano Johnny è ossessionato dalla letteratura, il protagonista della Paga del sabato dal cinema.
Epperò l’ossessione che Ettore dimostra per il cinema, specialmente americano, oltre ad invaderne i sogni e la realtà quotidiana (americane non sono solo le pellicole di cui si nutre, ma americani sono i cocktail che beve al bar, le canzoni che ascolta, la gestualità a tratti caricaturale che contraddistingue lui e gli uomini suoi compari, e americani sono i princìpi a cui informano le loro gesta, molto recitate, da fuorilegge), risulta il sintomo più evidente del malessere che lo divora. Il secondo rilievo si lega infatti alla disposizione psicologica di coloro che, ex-partigiani, faticano a rimettere gli abiti civili. Il reducismo può essere un dramma, e per Ettore lo è di sicuro. Il centro del romanzo ruota attorno al rabbioso malcontento di un ragazzo fatto uomo che non vuole accettare di andare sotto padrone ed essere destinato a un’esistenza mediocre, socialmente ed economicamente, quando qualche anno prima, in piena guerra partigiana, era lui a comandare venti persone. Nella scena che apre il terzo capitolo Ettore s’avvia al grande portone metallico della fabbrica della cioccolata dove inizierebbe il mestiere di impiegato compilatore di lettere di vettura. Ma lui proprio non ci sta, così si nasconde in un orinatoio e da quella ironica e misera specola osserva la strana umanità con cui aborrisce di mischiarsi:
Io non sarò mai dei vostri, qualunque altra cosa debba fare, mai dei vostri. Siamo troppo diversi, le donne che amano me non possono amare voi e viceversa. Io avrò un destino diverso dal vostro, non dico più bello o più brutto, ma diverso. […] Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie.
In tale prospettiva il cinema non è più solo modello di vita ma vocabolario dello scontento e disegno di evasione. Di fronte a una realtà deludente e opaca la risposta è il miraggio di qualcosa che è tanto lontano e tanto diverso da risultare non solo irraggiungibile ma addirittura marcatamente e dozzinalmente grottesco. Avevano ragione, in questo senso, Vittorini e Calvino quando lamentavano nelle scene cinematografiche una certa mancanza di gusto e di originalità, perché il cinema che insegue Ettore è una chimera disperata e rancorosa, una stizzita evasione, un cliché adottato in mancanza d’altro, non un ideale di perfezione come quello epico sospirato dal partigiano Johnny.
La vita è deludente e pure le pellicole in cui Ettore si nasconde e che mima nella vita reale lo sono, sebbene abbiano le parvenze di un mondo migliore. Ma non c’è mondo migliore. Tanto che i suoi sogni e le sue aspirazioni, anche quando deciderà di lasciare la vita da gangster per aprirsi una pompa di benzina in proprio (un’altra favola americana?) sono tutte deluse e grottescamente sommerse dal prosaico ma fatale epilogo. E ancora una volta la Paga del sabato è davvero il più moderno tra i romanzi fenogliani; il cinema che lo pervade assomiglia agli schermi dietro e dentro i quali ci tuffiamo oggi, alla ricerca di un anestetico che eluda e allevi un’esperienza del reale sempre più monotona e insignificante. Ma non è quella la soluzione.
E neppure ne offre una Fenoglio per il suo antieroe, fragile, seppure tutto d’un pezzo, così travagliato, di certo meno integro moralmente e psicologicamente del suo successore Johnny. La solitudine di Ettore non è incrollabile, muscolosa né nobilitante come quella del più celebre tra i partigiani di Fenoglio, quello che “partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”; la dimensione umana di Ettore non è grande né immobile nella conquista di una perfezione; è una dimensione guasta, in frantumi ma tenuta insieme dal fantasma del cinema.
Perché il reducismo che Fenoglio racconta tanto bene è un essere rimasti a mezza via, reduci non solo dalla guerra ma da un’esistenza piena, prigionieri di una terra di nessuno – tra la guerra e la pace, tra la vita e la morte –, sporcati dallo splendido mistero dell’urlo di libertà che era stata la guerra di Liberazione, ma che infine deposita in Ettore i segni duraturi di una febbre inesauribile, di un disadattamento sociale e psichico, di un’irriducibilità alle convenzioni e di un dispetto incurabile, che fa di lui un eroe (o un antieroe) attualissimo.
Articolo di Giacomo Verri
Giacomo Verri è nato nel 1978 a Borgosesia (VC), dove vive e insegna lettere nella scuola media. Ha esordito con il romanzo Partigiano Inverno (Nutrimenti, 2012), con cui era stato finalista al Premio Calvino, e ha pubblicato la raccolta Racconti partigiani (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2015). Nel 2019 ha pubblicato per Nutrimenti Un altro candore.
Fonte-Giacomo Verri Libri –il blog di chi ama i libri e la buona musica-
Il 15 gennaio del 1914 nasceva Etty Hillesum, la scrittrice olandese di origini ebraiche morta ad Auschwitz il 30 novembre del 1943. La pubblicazione, da parte di Adelphi, dell’edizione integrale prima del Diario e ora delle Lettere ci permette di conoscere da vicino la vita e il pensiero di questa straordinaria donna, che, quanto più la realtà intorno a lei si faceva orribile e insostenibile, tanto più seppe immergersi nella sua interiorità, scoprendone le profondità e le ricchezze ineusaribili e traendone la forza per amare chiunque incontrava.
L’incalzare della storia e della persecuzione nazista la distolsero progressivamente dai suoi amati studi, la letteratura russa e Rilke su tutti, portandola a scegliere in libertà di operare a Westerbork, il centro dove i tedeschi raccoglievano gli ebrei prima di mandarli a morire ad Auschwitz. Lei stessa, il 7 settembre del 1943, fu caricata su un convoglio diretto al lager insieme al padre, alla madre e al fratello Mischa.
Non esiste modo migliore di ricordarla, nel centenario della nascita, che leggere e meditare la sua storia, ben tramandata nei due volumi citati. È quello che vogliamo fare in questo spazio, lasciandole la parola. Ascoltiamo la sua voce, tratta dalle Lettere (Adelphi), immaginandola mentre si aggira per il campo di Westerbork a consolare e incoraggiare, senza che il sorriso si spegnesse mai sulle sue labbra.
«Arrabbiarsi ed essere scontenti non è produttivo; soffrire davvero per qualcosa è produttivo, e precisamente perché nella scontentezza, nell’arrabbiarsi c’è una passività attiva, mentre nella sofferenza c’è un’attività passiva».
«Questo momento storico, così come lo stiamo vivendo adesso, io ho la forza di sostenerlo, di portarlo tutto sulle mie spalle senza crollare soto il suo peso, e posso perfino perdonare Dio, che le cose vadano come devono andare. Il fatto è che si ha tanto amore in sé, da riuscire a perdonare Dio!!!».
«Io credo che dalla vita si possa ricavare qualcosa di positivo in tutte le circostanze, ma che si abbia il diritto di affermarlo solo se personalmente non si sfugge alle circostanze peggiori. Spesso penso che dovremmo caricarci il nostro zaino sulle spalle e salire su un treno di deportati».
«Se noi dai campi di prigionia, ovunque siano nel mondo, salveremo i nostri corpi e basta, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni nuova situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive».
«Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti. E assenza di odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più facile e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale».
«La gente si smarrisce dietro ai mille piccoli dettagli che qui ti vengono quotidianamente addosso, e in questi dettagli si perde e annega. Così non tiene d’occhio le grandi linee, smarrisce la rotta e trova la vita assurda. (…) E malgrado tutto si approda sempre alla stessa conclusione: la vita è pur buona, non sarà colpa di Dio se a volte tutto va così storto, ma la colpa è nostra. Questa è la mia convinzione, anche ora, anche se sarò spedita in Polonia con l’intera famiglia».
«A ogni nuovo crimine o orrore dovremmo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo indenni a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra a guerra finita. Forse sono una donna ambiziosa, ma anch’io vorrei dire una parolina».
Articolo di Paolo Perazzolo-Fonte Famiglia Cristiana
The first-ever exhibition curated by Peter Lindbergh himself, shortly before his untimely death, Untold Stories at the Düsseldorf Kunstpalast served as a blank canvas for the photographer’s unrestrained vision and creativity. Given total artistic freedom, Lindbergh curated an uncompromising collection that sheds an unexpected light on his colossal oeuvre. This artist’s book, the official companion to the landmark exhibition, offers an extensive, firsthand look at the highly personal collection. When it came to printing his photos, Lindbergh chose a special uncoated paper – a thin sheet with a soft, open surface – as a deliberate aesthetic statement. Renowned the world over, Lindbergh’s images have left an indelible mark on contemporary culture and photo history. Here, the photographer experiments with his own oeuvre and narrates new stories while staying true to his lexicon. In both emblematic and never-before-seen images, he challenges his own icons and presents intimate moments shared with personalities who had been close to him for years, including Nicole Kidman, Uma Thurman, Robin Wright, Jessica Chastain, Jeanne Moreau, Naomi Campbell, Charlotte Rampling and many more. This XL volume presents more than 150 photographs―many of them unpublished or short-lived, often having been commissioned by monthly fashion magazines such as Vogue, Harper’s Bazaar, Interview, Rolling Stone, W Magazine, or The Wall Street Journal. An extensive conversation between Lindbergh and Kunstpalast director Felix Krämer, as well as an homage by close friend Wim Wenders, offer fresh insights into the making of the collection. The result is an intimate personal statement by Lindbergh about his work.
Piero Rattalino-Sergej Prokofiev- La vita, la poetica, lo stile
Zecchini Editore-Varese
DESCRIZIONE
Se si scorre il catalogo delle opere di Prokofiev si capisce subito quanto vasti fossero i suoi interessi di creatore: opere, musiche di scena, sinfonie, concerti, lavori sinfonico-corali, da camera, solistici. Nessun grande compositore del Novecento, e nemmeno dell’Ottocento, presenta una così ampia sventagliata di generi trattati o, meglio, nessuno ha lasciato tracce profonde in ogni campo della musica. Per trovare un altro Prokofiev bisogna risalire al Settecento e imbattersi in Mozart. Sia Mozart sia Prokofiev sono innanzitutto drammaturghi e in ogni fase della loro attività compongono opere liriche. Ma, al contrario di un Verdi o di un Wagner, non concentrano nel teatro tutto il loro impegno creativo. I tempi di Prokofiev non sono in verità i tempi di Mozart. Il pubblico del Settecento “consuma” almeno al 90% musica contemporanea e chiede al compositore novità e novità, il pubblico del Novecento è soprattutto consumatore di musica stagionata e chiede all’interprete ciò che l’avido dente del tempo non ha potuto sgretolare. Perciò Prokofiev, peraltro fecondissimo creatore, compone molto meno di Mozart. Però è “mozartiano” di spirito e si misura anche in un campo, la musica da film, che per ragioni anagrafiche non compariva nel cosmo mozartiano. Possiamo d’altra parte dar per certo che, se fosse stato al servizio di un principe-arcivescovo, Prokofiev avrebbe scritto musica sacra in quantità. Musicisti, entrambi, intus et in cute. Entrambi, ben consci del loro genio, arroganti in quanto uomini. Tormentati entrambi in vita, entrambi indomabili, entrambi, in senso lato, libertini di spirito. Di Mozart sappiamo ormai tutto quel che era possibile sapere. Di Prokofiev non ancora. Ma è compito imprescindibile del XXI secolo studiarlo e capirlo.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.