Paolo GENOVESI- Fotoreportage “Il Borgo di CANTALICE “ (Rieti)
Cenni storici- Il nome del borgo di Cantalice deriva da Cata Ilex e fa riferimento a un leccio che secondo la tradizione nacque nella fenditura di una roccia sul retro della Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Le prime notizie del paese risalgono all’anno 1081 e la sua importanza strategica fu confermata dal fatto che fu scelta come roccaforte da Rocca di Sotto, Rocca di Sopra e Rocchetta per difendersi dai nemici. Dopo essere stata donata al re Carlo d’Angiò nel XIII secolo dal papa, per proteggerlo meglio dal popolo germanico e dagli svevi, Cantalice attraversò un periodo di dure lotte contro le città di Rieti e l’Aquila, contro le quali trionfò grazie all’aiuto degli Aragonesi. Il periodo di massimo splendore lo raggiunse durante il dominio di Margherita d’Austria nel 1571. Seguì poi il decadimento del borgo a causa della presenza del brigantaggio e delle lotte intestine tra le signorie del borgo.
Nel cuore della Sabina, a due passi dal Monte Terminillo e alle falde dei Monti Reatini, nel piccolo borgo di Cantalice il tempo sembra essersi fermato. La sua bellezza è anche legata alla sua posizione geografica, abbarbicata come un presepe a un’altezza che sfiora i 660 mt. La vista che si gode dal borgo spazia su tutta la sottostante valle reatina, oggi occupata dalla Riserva Naturale dei Laghi Lungo e Ripasottile.
David Taylor-Esposizione- Corso completo di tecnica fotografica –
Traduzione di Riccardo De Blasi e Enrico Passoni
Editore White Star
DESCRIZIONE
David Taylor dimostra come tre importanti strumenti – il tempo di esposizione, l’apertura e USO – possono essere utilizzati per ottenere fotografie molto diverse fra loro. Dall’interpretazione della luce all’importanza del bianco, dall’utilizzo del flash alla valutazione della gamma dinamica, questa autorevole guida combina testi esplicativi con immagini spettacolari per spiegare come l’esposizione sia la chiave per ottenere risultati di alto livello nel campo della fotografia.
– Anna Maria ORTESE– Poesie da “Terra oltre il mare”
Copia anastatica da NUOVI ARGOMENTI-numero dicembre 1974
Rivista diretta da
ALBERTO MORAVIA-PIER PAOLO PASOLINI-ENZO SICILIANO
Biografia di Anna Maria Ortese
scritta da Emanuele Pozzi- FONTE -Enciclopedia delle donne
Nasce a Roma il 13 giugno da una famiglia numerosa e molto povera, che si trasferisce in diverse città prima di stabilirsi nel 1928 a Napoli.Quasi autodidatta – la formazione scolastica costituita solo dalle scuole elementari e da un anno di una scuola commerciale – Anna Maria si cimenta nel disegno e nello studio del pianoforte, ma infine si appassiona alla letteratura e scopre la propria vocazione di scrittrice. La mancata formazione scolastica fa risaltare ancor più la perfezione stilistica della sua opera, e lo stupore e la meraviglia che essa suscita, in chi vi si accosta, sono se possibile amplificati da questo dato. Nel 1933 il fratello marinaio Manuele muore al largo dell’isola di Martinica; l’eco della tragedia, velata di rimpianto e ricordo, ricorrerà in tutta l’opera della scrittrice. Il 1933 è anche l’anno del debutto con la pubblicazione di tre poesie su «La Fiera Letteraria», tra cui una intitolata Manuele: «(…)Tutto/ che ci rimane ormai di te, Manuele, è un nome solo; e dentro al petto un male/ che a questo nome si confonde» (La Luna che trascorre, ed. Empiria). Anche un altro fratello marinaio, Antonio, da lì a poco morirà al largo delle coste dell’Albania e dal 1952, a seguito della morte di entrambi i genitori, il nucleo familiare della scrittrice si ridurrà alla sorella Maria, con la quale Anna Maria vivrà tutta la vita. Tra il 1945 e il 1950 comincia a collaborare con la rivista «Sud», il che non le impedirà di trasferirsi da una città all’altra inseguendo un lavoro che le permetta di sopravvivere, quasi sempre accompagnata dalla sorella. Il rapporto sororale, essenziale nella vita della Ortese, sarà per lei anche fonte di perenne rimorso per la vita sacrificata della sorella. Infatti Maria non si sposerà per rimanerle accanto e il suo lavoro, e successivamente la pensione (da impiegata alle poste), saranno quasi le sole fonti di sostentamento per entrambe, essendo i ricavi delle pubblicazioni sempre molto modesti. La sorella Maria, così come gli altri componenti della famiglia, prenderà corpo trasfigurandosi in alcuni personaggi dolorosi, eterei e senza tempo, fondamentali nell’opera della scrittrice (uno su tutti, Juana de Il Porto di Toledo). La stessa Ortese, forse, si trasporrà nell’iguana dell’opera omonima: in un’isola perduta nell’Oceano, una piccola iguana, fatta serva da una famiglia di miseri antichi nobili spagnoli, parla e si veste come una donna e si innamora di un uomo, un nobile milanese venuto a comprare l’isola per farne un paradiso per ricchi; presto saprà quanto è crudele il mondo degli uomini, di chi si ritiene arbitro di tutto e tutti. L’iguana e le altre creature della Natura hanno sempre tratti “umani” (Il Cardillo Addolorato, il puma di Alonso e i visionari) mentre i rari umani nell’opera della Ortese sono angelici e bestiali (il monaciello, le persone incontrate in Silenzio a Milano o nei reportage giornalistici di «La Lente Oscura»). Tra una città e l’altra, Ortese comincia a pubblicare alcune opere che non avranno mai un vero successo di vendite, solo qualche «eco di polemica», come avrà modo di ricordare in Corpo Celeste, ultima opera, anzi opera-testamento che condensa lucidamente il pensiero e la vita della scrittrice: «[…]E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto». Poco successo di pubblico e scarsa attenzione da parte della critica non le impediranno di avere però dei sostenitori nel mondo letterario, uno fra tutti Pietro Citati che la definirà “la zingara sognante”, cogliendo l’essenza stessa della Ortese: «Malgrado la mia vita non sia ciò che si dice una vita realizzata, devo considerarmi fortunata perché, su un totale di almeno cinquant’anni di vita adulta, riuscii qualche volta ad accostare questa riva luminosa – io che mi considero un eterno naufrago – dell’espressione o espressività che avevano per scopo questo eterno interesse: cogliere e fissare… il meraviglioso fenomeno del vivere e del sentire[…].Tale sentimento può essere meglio definito dalle parole: estasi, estatico, fuggente, insondabile.» (Corpo Celeste). Quella descritta da Ortese è l’esperienza della realtà in cui non è possibile separare la veglia dal sogno. «[…]questo, donna, è il mondo: una cosa fatta di vento e voci – fatta di attese e rimpianto di apparizioni, fatta di cose che non sono il mondo» ( In Sonno e In Veglia) È la “stranezza” continua che suscita l’esperienza della vita stessa, che in Ortese non è mai egocentrata, ma sempre “cosmica”, una viva relazione fra tutte le creature viventi, da cui non è esclusa la pietra (e dunque la terra e i suoi abitanti come “corpo celeste”, mai separato dall’universo): la scrittura può raccogliere e restituire questa relazione solo assecondandone il movimento, quindi operando nello stesso senso della vita e della natura, per somiglianze, per spostamenti, per metafore. «Potrei ricominciare da capo, se volessi, aggiungendo tante altre cose che mi sono sfuggite. Ma tutto quello ch’è passato davanti ai miei occhi, in tutti questi anni, si stende già in un solo tono uniforme, in un solo colore azzurro, dove questo o quel particolare non hanno più importanza di un vago arricciarsi di spume o brillare di pagliuzze d’argento. Il mare! Ecco cos’è una vita quando gli anni si mettono a correre tra noi e la riva diafana sulla quale siamo apparsi la prima volta: assopito, remoto, mormorante mare» (Il Porto di Toledo). Sarà il mare e il movimento marino, che tanto ricorda il flusso di coscienza di Virginia Woolf e le intermittenze del cuore di Proust, ad avere un ruolo centrale nell’opera della Ortese, indubbiamente per il segno portato nella biografia dalla morte dei fratelli e il pensarsi “naufraga” o per le città marine che sceglierà; in secondo luogo come analogo del Tempo, “insondabile” e insieme superficie e sostanza sempre identica e sempre diversa; e inoltre come figura analoga al lavoro della sua scrittura, sulla quale pensieri, ricordi, percezioni, agiscono con un moto continuo, modellando, aggiungendo, levigando la frase, nella struttura e nella sostanza, fino a farne una concrezione mirabile in cui sembra impossibile distinguere i singoli elementi. Con Il Mare Non Bagna Napoli, nel 1953, arriverà una labile notorietà, non scevra da forti polemiche per via delle critiche mosse nel libro al gruppo di intellettuali napoletani che si raccoglie intorno alla rivista «Sud»; la scrittrice mai rinuncerà a posizioni critiche nei confronti del mondo letterario dal quale si sente ingiustamente respinta e a cui sente di appartenere a tutti gli effetti. Dalle lettere agli amici, dalle rare interviste concesse, il desiderio di essere riconosciuta come “scrittrice”, come “narratrice”, sarà sempre un punto dolente nella vita di Ortese. Dagli intensi scambi epistolari fra la scrittrice e amici, quali Citati e Dario Bellezza, si possono cogliere momenti intimi e aneddoti, di alcuni dei quali è possibile trovare un’eco nell’opera della Ortese. Sarà Bellezza a raccontare, con discrezione, l’amore per Marcello Venturi, «una delusione d’amore» come avrà modo di dirgli la stessa Ortese (che la farà apparire agli occhi del poeta, nell’occasione del loro primo incontro, con un aspetto “monacale”, “senile”, sebbene non lo fosse). Sarà ancora Bellezza nel 1986 a promuovere la raccolta di firme fra amici e intellettuali affinché le venga assegnata la pensione prevista dalla legge Bacchelli. La scrittrice confessò, in una lettera al poeta-amico, di essere stata sfrattata dalla casa di Rapallo, città scelta come ultimo porto. Bellezza rese pubblico quanto successo e avviò la petizione. Solo in tarda età, esattamente nel 1993 a 79 anni, la Ortese riuscirà ad avere un maggior successo di pubblico con Il Cardillo Addolorato, edito da Adelphi, casa editrice che già dal 1986 cominciò a ristampare tutte le sue opere (in collaborazione con l’autrice stessa) in modo da formare un corpus rivisitato e organico. La Ortese muore il 9 marzo nel 1998, tre anni dopo la sorella Maria.
Biografia scritta da Emanuele Pozzi-Da tempo immemorabile studente fuori corso di Storia all’università Stataledi Milano, è appassionato di letteratura femminile e di storia del pensierofemminile. Melomane, jazzofilo e amante dei viaggi in Oriente.Nessun merito accademico, forse un giorno nell’età senile si metterà astudiare seriamente tutto quello che in corso di laurea si deve studiare enon solo quello che gli piace. Ha una nipote bellissima, Sofia.
FONTE -Enciclopedia delle donne-
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Referenze iconografiche: Ritratto di Anna Maria Ortese, Creative Commons CC0 1.0 Universal Public Domain Dedication.
-Atti del convegno dell’Archivio di Stato di Rieti –
A cura di Renato Covino e Roberto Lorenzetti-
Editore Il Formichiere
Descrizione
Per un lungo arco di tempo a Rieti di Resistenza si era parlato davvero poco. Pochissime le pubblicazioni e pressoché nulle le iniziative convegnistiche o che, in ogni caso, proponessero una riflessione sull’argomento. Il settantesimo della liberazione, sia quello della città nel 2014 che quello dell’Italia nel 2015, si è rivelata l’occasione affinché questo tema ricevesse quella giusta attenzione che attendeva da anni.
Riattivati – Associazione Culturale -Foto del TREKKING NELLA “TERRA DELLE GROTTE” 07.11.2021
Grande successo per il nostro TREKKING “TERRA DELLE GROTTE” Ringraziamo tutti i partecipanti che hanno sfidato il clima incerto per scoprire insieme a noi l’affascinante storia di #grotti . Un ringraziamento speciale a Terra delle Grotte per questa bella collaborazione che speriamo possa portare a nuovi appuntamenti
Le storie infinite sui Magi attraversano il Medioevo, in racconti intrisi di fede e leggenda. Dei misteriosi personaggi però, nonostante fiumi di parole, sappiamo ancora poco.
Primo problema: quanti erano? Il Vangelo di Matteo non fa nessun cenno riguardo al numero. E gli evangelisti Marco, Luca e Giovanni, non li citano nemmeno. Anche sul luogo effettivo della loro sepoltura si sono susseguite discussioni e polemiche.
Di certo, la contrastata vicenda delle loro reliquie conobbe incredibili peripezie.
C’è un fatto storico: i presunti resti mortali dei mitici personaggi furono sottratti con l’inganno alla città di Milano nel 1164 da Rainaldo di Dassel, arcivescovo e cancelliere imperiale, braccio destro di Federico Barbarossa. E a partire dal 15 agosto 1248 le reliquie dei Re Magi si trasformarono nella prima, simbolica “pietra” con la quale si iniziò a costruire la monumentale cattedrale di Colonia.
Quel che resta dei misteriosi sovrani che più di duemila anni fa resero omaggio a Gesù, è ancora lì, dietro l’altare principale della grande chiesa tedesca, nell’Ara dei Re Magi: un sepolcro costruito in legno e argento dorato che misura due metri e mezzo di lunghezza e pesa trecento chili. Risale al dodicesimo secolo. È un capolavoro dell’arte orafa medievale. Forse è il più grande sarcofago del mondo. Ma cosa contenga veramente nessuno lo sa con certezza.
Il 6 gennaio, nel giorno della festa dell’Epifania, le statuine dei Magi possono finalmente trovare posto nel presepe. La data rievoca l’apparizione di Cristo ai popoli del mondo. È la parola stessa a indicare la manifestazione della presenza divina, come spiega l’antico verbo greco ἐπιφαίνω (epifàino) che vuol dire “mi rendo manifesto”.
I tre Re Magi, duomo di Fidenza
La capanna della Natività è la meta del loro lungo viaggio. I misteriosi personaggi portano doni, che offrono, adoranti, al Bambino: l’oro allude alla regalità, l’incenso alla divinità e la mirra alla Passione.
Il racconto dei sovrani che arrivano dal lontano oriente ci giunge da un’unica, antica fonte: la testimonianza stringata contenuta in alcune righe del Vangelo secondo Matteo, scritto in aramaico e poi tradotto in greco.
Nel testo, si parla dell’avvistamento della stella, dell’incontro dei Magi con Erode, dell’angelo che apparve in sogno ai sovrani orientali per dissuaderli dal tornare alla corte del tiranno e poi del loro viaggio di ritorno, alla volta dei paesi d’origine, seguendo a ritroso una rotta verso est.
Forse i Magi erano re caldei, come sostennero con forza Origene, Girolamo, Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa. Oppure dei saggi originari della Persia, come assicurarono, tra molti altri, Prudenzio, Cirillo d’Alessandria e Giovanni Crisostomo.
Partirono quando apparve loro una stella, quella annunciata dal profeta Balaam, per molto tempo attesa invano, ogni anno, da 12 uomini che salivano sul Monte Vittoria per le abluzioni e le preghiere. I Magi arrivarono dall’Oriente a Gerusalemme in tredici giorni, correndo tra i deserti con velocissimi dromedari, animali molto resistenti alla sete e capaci di percorrere tra l’alba e il tramonto un tragitto che a cavallo si copre in 36 ore. Ludolfo di Sassonia, vissuto nella seconda metà del Trecento, nella sua “Vita Christi” ripeteva all’uomo medievale che “i tre re pagani vennero chiamati Magi non perché fossero versati nelle arti magiche, ma per la loro grande competenza nella disciplina dell’astrologia. Erano detti magi dai Persiani coloro che gli Ebrei chiamavano scribi, i Greci filosofi e i latini savi”.
Dei saggi dunque, come aveva già spiegato molto tempo prima Jacopo da Varazze (1228-1298) nella sua “Legenda Aurea”, la raccolta delle vite dei santi che ebbe una enorme diffusione nell’Età di Mezzo. Il frate domenicano faceva derivare la parola “magi” da “magni”.
Erano comunque dei “gentili”. Sapienti pagani che con il loro omaggio riconobbero al Bambino Gesù una natura divina, in contrasto aperto con i giudei. L’attesa messianica di un salvatore, il Saoshyant, era coltivata attraverso l’osservazione dei fenomeni celesti dai seguaci della religione mazdea, della quale i Magi costituivano il corpo sacerdotale. Per la Chiesa, i tre personaggi citati dall’evangelista Matteo sono invece il simbolo eterno dell’uomo che si mette in cammino alla ricerca di Dio.
Papa Benedetto XVI, nell’omelia pronunciata nell’Epifania del 2011, parlò di “sapienti che scrutavano il cielo, ma non per cercare di “leggere” il futuro negli astri”. Li definì “uomini in ricerca della vera luce”, persone convinte che nella creazione esista “quella che potremmo definire la “firma” di Dio, una firma che l’uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare”.
Il fascino dei Re Magi unì a lungo l’Oriente e l’Occidente. Quando nel 614 i Persiani guidati da re Cosroe II occuparono la Palestina, distrussero subito quasi tutte le chiese cristiane. Ma risparmiarono la Basilica della Natività di Betlemme che sulla facciata mostrava un mosaico raffigurante le mitologiche figure dei sapienti vestite con il tradizionale abito persiano.
Adorazione dei Magi, Giotto, Cappella degli Scrovegni
I Magi sono diventati tre a poco a poco. All’inizio, il loro numero variava secondo i racconti.
Una cronaca orientale del 774 parla di “dodici saggi”. Altri documenti di 6, 7 o 12 personaggi. Nelle raffigurazioni emerse nelle antiche catacombe, crescono o diminuiscono secondo le convinzioni degli “artisti” che provarono a descriverli.
Quel che è certo è che la tradizione cristiana ne riconobbe tre, con i nomi che sono giunti fino a noi: Caspar, Balthasar, Melchior. Il numero definitivo fu stabilito nel Medioevo in relazione ai doni di cui erano portatori. Tre è il numero perfetto. Tre sono anche le razze umane (semitica, camitica, giapetica) rappresentate dai Magi per ricordare a tutti l’universalità del messaggio cristiano. Sant’Agostino (354-430) insisteva poi sulla tripartizione che è insita nel destino dell’uomo: nascita, fatica e morte.
Umberto Eco, attraverso Baudolino, il contadino bugiardo protagonista del suo quarto romanzo, capace di conquistare Federico Barbarossa fino a diventarne il figlio adottivo, si sofferma sui mitici luoghi di origine dei personaggi: Melichior (Melchior) è re di Nubia e di Arabia, Bithisarea (Balthasar) è sovrano di Godolia e Saba e Gataspha (Caspar) regna su Tharsis e sull’isola Egriseuta.
Mondi sconosciuti e lontani. Come i tanti racconti giunti fino a noi.
Nel secolo VIII, il Venerabile Beda descriveva Melchiorre come “un vecchio dai capelli bianchi, con una folta barba e lunghe chiome ricciute”. Gasparre era invece “un giovane imberbe”. E Baldassarre “di carnagione olivastra e con una barba considerevole”.
Roberto di Torigny nella sua “Chronique” (1182) scrisse che nell’anno 1158, quando le spoglie attribuite ai Magi furono scoperte nella chiesa milanese di Sant’Eustorgio, i resti di quei corpi sembravano appartenere a tre persone di 15, 30 e 60 anni, la cui pelle e i cui capelli erano ancora intatti.
Un miracolo. Come l’impresa che affrontò Sant’Elena, l’irrequieta imperatrice, madre di Costantino I il Grande, morta nel 330, che secondo un favoloso racconto recuperò i resti mortali dei Re Magi sul monte Vaus, identificato con la montagna chiamata Sabalan, che spicca tra le vette nell’attuale Azerbajan.
In quel luogo i Magi consacrarono una cappella a Gesù. Non sappiamo se morirono insieme. Ma secondo la tradizione furono tutti sepolti nello stesso posto.
Sant’Elena alla quale è attribuito anche il ritrovamento della Santa Croce e degli strumenti della Passione di Cristo, ora custoditi a Roma, nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, portò le preziose a Costantinopoli, allora centro del mondo.
Sogno e adorazione dei Magi, portale abbazia di San Mercuriale, Forlì, XI-XII secolo
I preziosi resti arrivarono a Milano nell’anno 343: l’imperatore Costante (320-350) li donò a Sant’Eustorgio che era andato nella capitale dell’Impero Romano d’Oriente per avere conferma della sua nomina a vescovo della città lombarda.
Le reliquie affrontarono il lungo viaggio verso l’Italia all’interno di un enorme sarcofago. Così pesante, che proprio all’entrata di Milano, i buoi che trainavano quel tesoro di fede, non vollero più andare avanti. Eustorgio interpretò quella impuntatura come un segno del cielo: le reliquie non dovevano finire nella cattedrale cittadina ma fermarsi proprio lì. Così, in quel punto, nei pressi dell’attuale Porta Ticinese, nacque la bella basilica di Sant’Eustorgio, dove un capitello illustra ancora la storia dei buoi stremati dalla fatica del trasporto del pesantissimo sarcofago.
Le reliquie dei Re Magi furono poi sistemate in una apposita cappella. E lì rimasero fino al 1164.
Due anni prima, Federico Barbarossa aveva quasi raso al suolo Milano, dopo averla messa a ferro e a fuoco. La tutela tedesca era ancora pesantissima. L’imperatore aveva affidato il controllo della città al suo braccio destro, Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia. Un uomo d’armi più che di chiesa.
I preziosi resti erano sfuggiti al saccheggio grazie al nobile Assone della Torre che li aveva occultati all’interno del campanile di San Giorgio. Rainaldo se ne accorse. Così ricattò Assone, costretto a scegliere tra la consegna delle reliquie o la sua condanna a morte. Il maggiorente milanese piegò la testa e cedette all’invasore gli amati resti. Non prima di supplicare l’arcivescovo di non rendere pubblico l’indecente scambio per il quale sarebbe forse stato linciato dai suoi concittadini. Ma Rainaldo non voleva certo dare pubblicità alla cosa. Piuttosto, era ossessionato dal prestigio che le reliquie dei Magi avrebbero portato alla sua città: Colonia da tempo era il centro più importante della Germania.
L’arcivescovo guerriero non perse tempo: allestì in fretta e furia tre feretri su cui caricò le preziose reliquie. Fece diffondere la voce che le casse contenessero i cadaveri di tre suoi parenti stretti, stroncati dalla peste, a cui voleva dare degna sepoltura in Germania.
La paura del morbo tenne lontani i curiosi. E il 10 giugno 1164 Rainaldo lasciò Milano. Il fragile e prezioso carico arrivò a Colonia, tra il giubilo degli abitanti, il 23 luglio, dopo un viaggio lungo e tortuoso, che toccò il Moncenisio, la Borgogna, la Lorena e le terre del Reno. I sacri resti, in via provvisoria, furono deposti nella chiesa di San Pietro. Tempo dopo, furono traslati nel grande duomo. Rainaldo, al culmine della gioia, fu protagonista di un altro colpo di teatro: regalò tre dita dei Magi alla vicina città di Hildesheim, alla quale era particolarmente legato per via dei suoi studi giovanili. I cittadini di tutta la regione mostrarono di apprezzare il pensiero. E nei registri dei battesimi di un vasto territorio cominciarono ad essere registrati nomi dai suoni insoliti, di sicuro poco teutonici: Melchiorre, Gaspare e Baldassarre.
Da allora, anche i re germanici, dopo essere stati consacrati con l’olio e incoronati ad Aquisgrana, presero l’abitudine di frequentare più spesso Colonia per inginocchiarsi davanti alla grande arca esposta all’interno del gigantesco duomo. I Magi erano lì, in terra tedesca. E poco importò ai sudditi del Sacro Romano Impero che un tal Marco Polo (“Il Milione”, capitolo 30) affermasse di aver visitato intorno al 1270, le tombe dei Magi a sud di Teheran: “In Persia è la città ch’è chiamata Saba, da la quale si partiro li tre re ch’andaro adorare Dio quando nacque. In quella città son soppeliti gli tre Magi in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co’ capegli: l’uno ebbe nome Beltasar, l’altro Gaspar, lo terzo Melquior. Messer Marco dimandò più volte in quella cittade di quegli III re: niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano III re soppelliti anticamente”. Quanto a Milano, dovette aspettare 740 anni per avere indietro una piccola parte di quello che le era stato trafugato.
Solo il 3 gennaio del 1904, dopo innumerevoli richieste, l’arcivescovo della città, il cardinal Ferrari, fece ricollocare due fibule, una tibia e una vertebra dei Re Magi sopra l’altare nella Basilica di Sant’Eustorgio. I resti furono posti in un’urna di bronzo, accanto all’antico sacello vuoto con la scritta “Sepulcrum Trium Magorum”.
Il reliquiario dei Magi nel Duomo di Colonia
Il culto dei tre personaggi è ancora vivissimo tra i milanesi: uno scritto di Galvano Fiamma ci informa che già nel 1336, sotto Azzone Visconti, si celebrava la cerimonia di un corteo dei Magi a cavallo, che attraversava la città, seguito da una schiera di servitori e di animali esotici. La prima tappa era l’antica chiesa di San Lorenzo, costruita a pianta centrale, ad imitazione del tempio di Gerusalemme: lì si rappresentava l’arrivo dei mitici personaggi al cospetto di Erode. Poi, sull’altare maggiore di Sant’Eustorgio, veniva replicato il momento dell’Adorazione.
Il corteo dei Re Magi, come allora, si ripete a Milano il 6 gennaio di ogni anno: da Piazza del Duomo, con fermata a San Lorenzo, fino al sagrato di Sant’Eustorgio, per portare doni alla Sacra Famiglia.
Vicino al grande sarcofago in pietra viene ancora esposta una medaglia che la tradizione cattolica dice sia stata realizzata con una parte dell’oro donato dai Magi a Gesù Bambino.
E la liturgia ambrosiana, nel giorno dell’Epifania, prevede paramenti di colore rosso.
Insieme alla basilica milanese e al duomo di Colonia c’è anche un altro luogo che conserva parte delle reliquie dei misteriosi re. Tre falangi sono custodite nella parrocchia di Sant’Ambrogio a Brugherio, in provincia di Monza e della Brianza. Sarebbero state donate dal patrono di Milano alla sorella Marcellina prima del clamoroso trafugamento di Rainaldo di Dassel del 116. Tornarono alla luce nel 1596, durante la prima visita pastorale del cardinale Federigo Borromeo. A Brugherio la devozione per il reliquario seicentesco degli “ummit”, i “piccoli uomini”, è ancora molto forte. E ogni 6 gennaio le reliquie vengono esposte alla visione dei fedeli. Pellegrini eccellenti, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre, nelle culture popolari europee diventarono i viaggiatori per antonomasia. A loro vennero intitolati, soprattutto nei paesi tedeschi, i ricorrenti nomi di tante locande ed alberghi chiamati, in loro onore, “Ai Tre Re” (Am drei Könige).
Le loro immagini, dipinte o scolpite, adornano ancora le chiese d’Europa.
Un viaggio sulle orme dei Magi diventa uno straordinario cammino nella storia dell’arte occidentale. La prima raffigurazione conosciuta spunta nella cosiddetta cappella Greca della catacomba di Priscilla: i tre personaggi indossano un chitone succinto insieme a copricapi di foggia orientale.
Sul coperchio di un sarcofago delle Grotte Vaticane, rinvenuto sotto la Basilica di S. Pietro, i Magi sono raffigurati insieme a tre dromedari. E un rilievo sulla porta lignea di Santa Sabina, a Roma, eseguito intorno al 431, mostra Maria e il Bambino che ricevono grandi scatole rotonde contenenti i regali dei mitici re. Una meravigliosa processione di vergini e martiri che muove verso il trono di Maria e Gesù è raffigurata nello splendido mosaico “Adorazione dei Magi” che si può ammirare a Ravenna in Sant’Apollinare Nuovo.
Il Duomo di Fidenza e l’Abbazia di San Mercuriale a Forlì trasmettono ancora tutto il fascino dell’antica storia. Tre stelle comete, una per ogni personaggio e doni offerti in vasi a forma di scodelle catturano lo sguardo nell’affresco di Santa Maria di Tahull, conservato nel museo d’arte catalana a Barcellona.
Magi raffigurati con le sembianze di re, si possono ammirare in una miniatura del Sacramentario di Fulda, custodita nella biblioteca dell’Università di Gottinga. Oppure nel mosaico dell’arco trionfale in Santa Maria Maggiore a Roma. E anche sugli affreschi del XII secolo di Sant’Angelo in Formis, nei pressi di Capua.
Ma la vera novità nella rappresentazione sacra arrivò con il famoso affresco dipinto da Giotto a Padova, nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305). Per. la prima volta nella storia dell’arte cristiana, nella scena dell’adorazione dei Magi a brillare sopra la capanna della Natività non c’era una semplice stella ma una cometa, forse quella di Halley, avvistata in quegli anni nei cieli notturni d’Europa.
Un nuovo schema della raffigurazione dei tre re in adorazione davanti a Maria ed al bambino Gesù emerge invece a Colonia, in un reliquiario che arricchisce il Museo Walraff-Richartz: il secondo re, con il braccio alzato, mostra al sovrano più giovane la stella sopra la testa della Madonna. Lo stesso episodio viene replicato in un altro affresco del 1450 che abbellisce la volta gotica della Arentuna kyrka di Uppland, in Svezia.
Agli inizi del Quattrocento, gli artisti aggiunsero fastosi cortei alle loro composizioni. Uno splendido esempio arriva dalle famose “Très riches heures”, il libro delle ore del duca De Berry, conservato nel Museo di Chantilly.
Negli anni successivi, le raffigurazioni dei tre re che portavano doni al Bambino Gesù si moltiplicarono, grazie soprattutto alle generose donazioni fatte alla Chiesa da molti mecenati, ansiosi di modellare la loro immagine ultraterrena a somiglianza di Melchiorre, Gaspare e Baldassarre.
I Magi di Benozzo Gozzoli
Non è un caso che il museo degli Uffizi di Firenze sia tuttora la galleria d’arte al mondo con più pale d’altare dedicate al tema della Natività. Opere meravigliose firmate da artisti come Gentile da Fabriano, Beato Angelico, Filippo e Filippino Lippi, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci.
L’incanto dell’oriente emerge tra gli ori, i broccati, gli animali esotici e le vesti lussuose, in un raffinato gioco di simboli e allegorie nella “Cappella dei Magi”, l’opera di Benozzo Gozzoli realizzata nel 1459 nel Palazzo Medici Riccardi, in via Larga a Firenze. Al centro di un paesaggio fiabesco, tre principi a cavallo guidano un corteo. L’artista non racconta il presepe ma soltanto il momento del viaggio. Il Bambino è disteso su un prato fiorito, accanto alla Madonna. Sullo sfondo, una fitta foresta. In primo piano, la visione di una trionfale cavalcata alla volta di Betlemme, celebra il potere e la gloria di altri re: i Medici, che vollero quel capolavoro come un segno indelebile del loro potere.
La poesia del cinema contro le imposizioni del potere
– articolo di Alberto Corsani-
Il regista Andrej Tarkovskij a trentasei anni dalla scomparsa
La spiritualità di derivazione ortodossa è ben presente nel cinema di Andrej Tarkovskij, come egli stesso attesta nei propri diari (Diari. Martirologio, ed. della Medusa, 2002 e seg.), benché compaia inaspettatamente, nei dettagli, fuori da ogni sistematicità programmatica; ma sono talmente tanti nelle sue opere i retaggi definibili come «spirituali» che la componente «religiosa» è da considerarsi affiancata ad altre, alcune delle quali certamente di tradizione russa (il senso della natura, la poesia intrecciata alla storia) e altre legate alla passione viscerale del regista per la cultura occidentale: si pensi alla pittura italiana (particolarmente in Toscana), alla musica sacra (Bach, ma anche Pergolesi e Purcell), alla magia commista alla scienza (nel capolavoro Lo specchio, 1974, la levitazione della mamma del protagonista, l’ipnosi che serve a guarirlo, da ragazzo, dalla balbuzie).
Ora che lo ricordiamo a trent’anni dalla precoce scomparsa, avvenuta all’età di 54 anni a Parigi, dove aveva lottato per mesi con la malattia, cogliamo forse meglio il fatto che non uno solo di questi elementi, ma proprio la loro continua commistione sanciscono il fascino dei suoi film, mentre la maestria che aveva nel creare l’inquadratura, dilatare i tempi, lavorare sul sonoro lo rendono amatissimo dagli addetti ai lavori.
Il grande tema che percorre i film di Tarkovskij è l’identificazione di un popolo, quello russo, con la tradizione: tutta la tradizione, quella religiosa e quella civile, come somma magmatica di contraddizioni. Vivere di una identificazione significa tuttavia anche lottare con l’eredità di cui si gode. Tarkovskij non idealizza mai il passato di cui peraltro riconosce il carattere indispensabile: Andrej Rublëv (1966) racconta la vita del celebre pittore quattrocentesco di icone, e il momento più emozionante è la lunghissima sequenza della fusione della campana, estenuante scena di massa in cui tutto il popolo e i maggiorenti assistono al «miracolo» tecnico e umano. Solaris (1972) racconta, a partire dal romanzo fantascientifico del polacco Stanislaw Lem, di un pianeta sul quale gli scienziati che vi lavorano vedono materializzarsi i propri ricordi e i propri cari; Nostalghia (1983), ambientato in Toscana, e Sacrificio (1986, anno della morte), ripropongono esplicitamente il tema del sacrificio di sé, come ricerca di una possibile espiazione dei mali del mondo, non solo in chiave cristiana.
Il cinema di Tarkovskij, benché il primo film, L’infanzia di Ivan, risalga al 1962, ha fatto irruzione lasciando le proprie tracce nel nostro ambiente culturale soltanto a partire dalla fine degli anni ‘70: Lo specchio è giunto nelle sale italiane solo nel 1979, poco dopo arrivava Stalker. Ma anche gli scritti teorici del regista, figlio del poeta Arsenij, sono stati tradotti in quegli anni (Scolpire il tempo, Ubulibri, 1988 e sgg.), e sono di una ricchezza concettuale notevolissima, appena turbata dalla vis polemica che percorre anche i Diari, soprattutto rivolta ai burocrati di stato che hanno sempre minato le sue produzioni, considerandolo un dissidente pericoloso.
Lo era, in effetti, pericoloso: non per un’attività politica esplicita e diretta, ma perché quella che chiamiamo la sua spiritualità, o anche la sua poesia, incrinavano le rigidità e le sovrastrutture grottesche dei regimi: come in un episodio de Lo specchio, quando la protagonista (correttrice di bozze in una tipografia) rievoca l’angoscia provocatale dal dubbio di essersi lasciata sfuggire un errore orrendo sull’edizione del giornale andata in stampa, un errore che avrebbe accostato il nome di Stalin a un animale «screditato». Nel racconto del film l’errore poi non sussiste, ma l’averlo adombrato ci dice, sottilmente, quanto il potere fosse in realtà un gigante dai piedi d’argilla.
Ma quali forze potevano metterlo in crisi? Beh, proprio quelle che si dicevano prima, un po’ arbitrariamente comprese in una categoria abbastanza arbitraria e approssimativa come quella della spiritualità (ben studiata da S. Salvestroni, Il cinema di Tarkovskij e la tradizione russa, Biella, Qiqajon, 2006): la creatività umana, l’appartenenza alla terra, la poesia (ricorrono spesso, ne Lo specchio, i versi del padre Arnesij Aleksandrovic), la mistica di un mestiere da imparare, la gestione gelosa dei propri sentimenti; a volte questi elementi possono entrare in conflitto («Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà» – Luca 9, 24): certo, tutti sono temuti dal potere, da qualunque forma di potere, dalle ideologie e dai loro bracci operativi. Tarkovskij reagiva a modo suo, con il linguaggio delle immagini, a ogni imposizione triviale finalizzata ad annichilire le coscienze. Ma non si pensi che solo ai regimi comunisti fosse da riferirsi la sua critica poetica: tutto ciò che rende l’uomo una macchina, inquadrabile e riconducibile a parametri esclusivamente numerici può essere messo in crisi dalle sequenze dei suoi film. La battaglia è tuttora in corso, purtroppo senza di lui.
Ritratti fotografici di uomini e donne combattenti
Introduzione di Cristiano Armati
Red Star Press Cooperativa Editoriale
Descrizione
Questi ultimi anni stanno rivelando — grazie soprattutto ai social network — una diversa narrazione della Resistenza.
Non più la dimensione eroica, non quella strettamente politica.
Non quella dei martiri, dei morti ammazzati e delle rappresaglie. Ma una Resistenza intima, fatta di storie personali.
Figli che raccontano i padri, nipoti che parlano dei nonni. E donne, tante donne, assenti fino a poco tempo fa dalla grande retorica resistenziale.
Il “sorriso dei partigiani” celebra l’idea che la Resistenza sia stata un fenomeno grande come la vita, che non merita di essere racchiusa in polverose celebrazioni, ma di raccontare le vicende umane di chi l’affrontò con coraggio, ma anche con allegria.
Nella tradizionale iconografia partigiana la parte del leone la fanno l’epica, l’onore restaurato, l’austerità.
Sguardi fieri, ruvidi, rocciosi. Di chi ha attraversato la guerra civile, per uscire a riveder le stelle.
Ci è stata negata l’identità di quei protagonisti. Erano immancabilmente stati martirizzati da un plotone delle SS, o caduti in combattimento, o immolatisi per la libertà.
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