La Storia, il più celebre e discusso tra i romanzi di Elsa Morante
Descrizione
A questo romanzo (pensato e scritto in tre anni, dal 1971 al 1974) Elsa Morante consegna la massima esperienza della sua vita “dentro la Storia” quasi a spiegamento totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative: da “L’isola di Arturo” a “Menzogna e sortilegio”. La Storia, che si svolge a Roma durante e dopo la seconda guerra mondiale, vorrebbe parlare in un linguaggio comune e accessibile a tutti.
Elsa Morante
RIASSUTO
A Roma, devastata dalla guerra, vive Ida Ramundo una maestra ebrea di trentasette anni, vedova e madre di Nino. Una sera di gennaio del 1941 Ida viene violentata da un soldato tedesco ubriaco. Frutto della violenza è Useppe, un bambino allegro e vivace.
Nel 1943 un bombardamento distrugge la casa di Ida che con i figli si trasferisce in un ricovero per sfollati a Pietralata. Tra stenti, disperazione e umana solidarietà trascorrono gli anni della guerra. Nino si arruola prima nelle camicie nere, poi partecipa alla lotta partigiana. Conosce l’ebreo e anarchico umanitario Davide Segre con cui ritorna a casa.
Nel 1945 alla fine del conflitto per Ida continuano le difficoltà e le sofferenze. Mentre Davide tenta l’inserimento con il lavoro in fabbrica al Nord, Nino non riesce a trovare una sua strada, si dà al contrabbando e resta ucciso in uno scontro con la polizia. Solo la presenza Useppe consente a Ida di superare il dolore. Anche Davide fallito il suo tentativo torna a Roma e diventa amico di Useppe.
Un giorno viene trovato morto nella baracca in cui vive, ucciso dalla droga. Intanto si manifesta l’epilessia, finora latente, di Useppe, di fronte alla quale Ida non può nulla. Una violenta crisi epilettica uccide il bambino. Ida non regge al dolore e perde la ragione. Ricoverata in manicomio muore nove anni più tardi.
Fonte: Wuz.it
Elsa Morante
Recensione del romanzo La Storia della scrittrice Elsa Morante,
con analisi precisa della storia e dei personaggi.
Articolo di Stefano Benucci
Questo non è un romanzo, è un mondo intero! C’è la grande letteratura, ci sono le drammatiche vicende di una famiglia romana negli anni del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra, l’amore, la disperazione la miseria, la fame, il dramma, la tenerezza e c’è la storia di Roma e dell’Italia di quegli anni ed anche la storia del resto del mondo che viene velocemente spartito dalle grandi potenze. Si tratta di un romanzo di ben oltre mille pagine molto articolato e pieno di sfaccettature con decine e decine di personaggi difficile da descrivere in poche righe. Il corso narrativo del romanzo si dipana intorno a Ida, giovane vedova e maestra elementare, di origine ebrea, che vive a Roma con l’irrequieto figlio adolescente Nino (detto Ninnuzzo). Ida, nel 1941, viene violentata da un soldato tedesco. Da questo drammatico evento nasce il piccolo Giuseppe (detto Useppe). Sono tempi durissimi, l’occupazione tedesca, la deportazione degli ebrei, i primi bombardamenti, i rifugi di fortuna, la fame. Mai in nessun libro ho trovato una descrizione così coinvolgente di quello che succedeva in quei giorni. Mai ho letto una così efficace rappresentazione della disperazione, della solitudine, della forza di volontà di una madre che lotta contro ogni avversità per la vita di un figlio. Ninnuzzo è sempre fuori, chissà dove, prima camicia nera e avanguardista, poi partigiano e stalinista, poi contrabbandiere. La povera Ida attraversa gli anni più duri della nostra storia in modo drammatico. Mi fermo qui per non spoilerare ma devo dire anche che il romanzo è infarcito di decine di personaggi credibilissimi, alcuni appena accennati, altri ben definiti che aiutano a capire l’Italia di allora. Una citazione particolare per il piccolo Useppe, personaggio tenerissimo, che nella seconda parte del romanzo diventa protagonista assoluto alla scoperta delle miserie della Roma appena uscita dalla guerra, sempre scortato dalla gigantesca cagna Bella che stravede per lui. Un libro consigliatissimo. L’unica controindicazione è che dà un po’ di dipendenza e che appena finite le 1.300 pagine si prova un senso di vuoto ma del resto con i veri capolavori succede.
Poesie di Aldo Fabrizi- attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore
Aldo Fabrizi è un attore italiano, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, è nato il 1 novembre 1905 a Roma (Italia) ed è morto il 2 aprile 1990 all’età di 84 anni a Roma (Italia). Nel 1988 ha ricevuto il premio speciale alla carriera al David di Donatello. Dal 1947 al 1988 Aldo Fabrizi ha vinto 4 premi: David di Donatello (1988), Festival di Venezia (1947), Nastri d’Argento (1951, 1975).
La Romanella
I Mì nonna, benedetta indó riposa,
se comportava come ‘na formica
e puro si avanzava ‘na mollica
l’utilizzava per un’antra cosa.
Perciò er dovere primo d’ogni sposa,
pure che costa un’oncia de fatica,
è d’esse sempre, a la maniera antica,
risparmiatrice, pratica e ingegnosa.
Si avanza un po’ de pasta, mai buttalla:
se sarta co’ un po’ d’acqua solamente,
pe’ falla abbruscolì senz’abbrucialla.
E la riuscita de ‘sta Romanella
che fa faville e che nun costa gnente
dipenne da ‘na semplice padella.
II Mò l’urtima invenzione è ‘na padella,
che quello che se còce poi se stacca,
mastice, colla, pece e ceralacca,
se rivorteno come ‘na frittella.
‘Sta novità sarà ‘na cosa bella,
ma dato che la Pasta nun attacca
in pratica sarebbe ‘na patacca
perché dev’esse mezz’abbruscatella.
Vedete, er gusto nun dipenne mica
dar fatto che diventa più odorosa,
ma dar sapore de padella antica.
E detto questo, porca la miseria,
fò a meno de la chiusa spiritosa,
perché ‘sto piatto qui è ‘na cosa seria!
Aldo Fabrizi
Pasta alla capricciosella
Provate a fa’ ‘sto sugo, ch’è un poema:
piselli freschi, oppure surgelati,
calamaretti, funghi “cortivati”,
così magnate senz’avé patema.
Pe’ fa’ li calamari c’è un sistema:
se metteno a pezzetti martajati
nell’ajo e l’ojo e bene rosolati,
so’ teneri che pareno ‘na crema.
Appresso svaporate un po’ de vino;
poi pommidoro, funghi e pisellini
insaporiti cor peperoncino.
Formaggio gnente, a la maniera antica,
fatece bavettine o spaghettini…
Bòn appetito e Dio ve benedica!.
Chi sarà stato?
Ho letto cento libri de cucina.
de storia, d’arte, e nun ce nè uno solo
che citi co’ la Pasta er Pastarolo
che unì pe’ primo l’acqua e la farina.
Credevo fosse una creazione latina,
invece poi, m’ha detto l’orzarolo,
che l’ha portata a Roma Marco Polo
un giorno che tornava dalla Cina.
Pe’ me st’affare de la Cina è strano,
chissà se fu inventata da un cinese
o la venneva là un napoletano.
Sapessimo chi è, sia pure tardi,
bisognerebbe faje… a ‘gni paese
più monumenti a lui che a Garibardi.
Aldo Fabrizi
La cottura
I Nun è ‘na cosa tanto compricata,
però bisogna sempre fà attenzione
perché ce vò ‘na certa proporzione
tra tipo e quantità che va lessata.
Me spiego: quella fina e delicata
va bene tutt’ar più pe’ du’ persone,
ma si presempio se ne fa un pilone
basta un seconno in più che viè incollata.
Insomma, c’è ‘na regola importante:
fino a tre etti se pò fà leggera
poi più s’aumenta e più ce vò pesante.
Er sale è mejo poco, l’acqua assai,
un litro a etto, l’unica maniera,
perché la Pasta nun s’incolli mai.
II Un’antra cosa: mai bollilla stretta,
e quanno l’acqua è in piena bollitura,
se butta giù e la pila se riattura
pe’ fà riarzà er bollore in fretta in fretta.
Poi dopo un po’ s’assaggia: n’anticchietta;
appena è cotta, ancora bella dura,
se leva e je se ferma la cottura
coll’acqua fresca sotto la bocchetta.
Doppo girata un attimo, scolate:
quanno l’urtima gocciola viè fòri
conditela de prescia e scodellate.
Si c’è quarcuno attenti a controllavve:
« mangiate calmi, piano, da signori » ,
si state soli… attenti a nun strozzavve.
La Creazione
Dio disse: « Mò che ho fatto Cielo e Tera,
domani attacco Luce e Firmamento,
mercoledì fò er mare, doppo invento
farfalle e fiori pe’ la Primavera.
Pe’ giovedì fò er Sole, verso sera
fò li Pianeti, er Fòco, l’Acqua, er Vento,
così se venerdì nun vado lento,
faccio sabbato ingrese e bònasera! »
Finì defatti er sabbato abbonora.
« Mò » disse « vojo vede chi protesta
dicenno che er “Signore” nun lavora…
Ho sfacchinato quarant’ore… basta!
Domani ch’è domenica fò festa…
e prima de fa’ Adamo fò la Pasta! »
Aldo Fabrizi
La dieta
Doppo che ho rinnegato Pasta e pane,
so’ dieci giorni che nun calo, eppure
resisto, soffro e seguito le cure…
me pare un anno e so’ du’ settimane.
Nemmanco dormo più, le notti sane,
pe’ damme er conciabbocca a le torture,
le passo a immaginà le svojature
co’ la lingua de fòra come un cane.
Ma vale poi la pena de soffrì
lontano da ‘na tavola e ‘na sedia
pensanno che se deve da morì?
Nun è pe’ fà er fanatico romano;
però de fronte a ‘sto campà d’inedia,
mejo morì co’ la forchetta in mano!
Aldo Fabrizi
La panzanella
E che ce vo’
pe’ fa’ la Panzanella?
Nun è ch’er condimento sia un segreto,
oppure è stabbilito da un decreto,
però la qualità dev’esse quella.
In primise: acqua fresca de cannella,
in secondise: ojo d’uliveto,
e come terzo: quer di-vino aceto
che fa’ venì la febbre magnarella.
Pagnotta paesana un po’ intostata,
cotta all’antica,co’ la crosta scura,
bagnata fino a che nun s’è ammollata.
In più, per un boccone da signori,
abbasta rifinì la svojatura
co’ basilico, pepe e pommidori.
Aldo Fabrizi
Biografia di Aldo Fabrizi rappresenta l’anima di Roma, la cosiddetta Città Eterna,che l’ha sempre considerato il suo figlio prediletto. Del popolo romano l’attore ha canzonato in oltre cinquant’anni di carriera vizi e debolezze, con quel suo umorismo tanto cinico e disincantato, quanto dissacrante e tagliente, così caratterizzante del suo fare flemmatico e arguto. Sapeva scherzare su tutto, ma prima di tutto su se stesso, ed in particolar modo sul suo fisico corpulento, palese dimostrazione della sua smisurata passione per il cibo, e soprattutto per i piatti tipici della cucina romana, che egli stesso si deliziava nel preparare. Era la voce del “popolino”, dal quale egli proveniva e che ha sempre portato nel cuore. Attraverso i suoi tipici personaggi – con i quali ha conquistato le platee dell’Italia intera a partire dai suoi esordi teatrali nei primi anni Trenta, e che ha fortunatamente riproposto in televisione negli anni Settanta – come il vetturino il cui cavallo lo batte in fatto di stanchezza, il tranviere contro cui tutti i passeggeri si accaniscono, o il cameriere dai piedi stanchi, Fabrizi esprimeva il suo spirito caustico, e conduceva una sferzante satira sulla romanità, ma ancor più in generale sull’uomo qualunque del suo tempo. In cinema debuttò nel 1942, ma si sarebbe dovuto aspettare il 1945 perché egli avesse potuto dar prova di una profonda sensibilità artistica in un ruolo diverso dai soliti, stavolta drammatico, quello di un prete eroico che si fa fucilare dai tedeschi pur di non rivelare i nomi di alcuni partigiani, nel capolavoro di Rossellini, Roma città aperta. Il film – che lo vede per la terza volta al fianco dell’amica-nemica Anna Magnani, che in quanto a schiettezza e sfacciataggine riusciva a tenergli testa – gli offrì l’opportunità di fornire una struggente e sofferta interpretazione, densa di emotività, e carica di una coinvolgente naturalezza, dimostrando così di essere un attore a tutto tondo. La sua filmografia è sterminata: lo ricordiamo spesse volte al fianco dell’amico Totò, soprattutto nel film caustico-amaro Guardie e ladri (1951) di Steno e Mario Monicelli; e poi in una serie di svariati, e talvolta grotteschi personaggi, come il contadino furbo e bonario di Vivere in pace (1947) di Luigi Zampa, il padre egoista e protervo di Prima comunione (1950) di Alessandro Blasetti, lo sfortunato e bizzarro capofamiglia nella serie de “La famiglia Passaguai” (tre film dal 1951 al ’52), di cui egli stesso fu il regista, e il ricco e rozzo palazzinaro di C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, deluso e disincantato ritratto della pseudo-impegnata generazione di sinistra del periodo post-secondo conflitto mondiale. Dopo tanti impegni come attore cinematografico, il teatro lo rivide incontrastato mattatore nella celeberrima commedia musicale di Garinei e Giovannini, Rugantino, portata per la prima volta in scena nel 1962, ripetuta diverse volte negli anni successivi, e portata addirittura a New York. Accanto ad interpreti del calibro di Nino Manfredi e Bice Valori, Fabrizi impersonò il tragicomico personaggio di Mastro Titta, un boia della Roma papalina, che dietro il suo aspetto burbero e rude, si dimostrava sensibile e bonario. Da ricordare infine le sua spassosissime apparizioni televisive, e le sue deliziose raccolte di ricette e poesie, spiritosamente intitolate La pastasciutta (1971), Nonna minestra (1974) e Nonno pane (1980). La Roma paciosa e scanzonata che lo vide nascere, se lo portò via, in una triste mattinata primaverile del 1990, quando “er sor Aldo” aveva da qualche mese compiuto ottantaquattro anni.
Antonio Gramsci il più grande politico italiano dell’era moderna.Antonio Gramsci teorico dei Consigli di Fabbrica.Antonio Gramsci Fondatore del Partito Comunista d’Italia. Maestro di Palmiro Togliatti. Il grande uomo che affrontò eroicamente e consapevolmente il martirio inflittogli dai fascisti perché il suo cervello doveva “…smettere di pensare per almeno venti anni…”. Il capo dei lavoratori italiani, nel cui ufficio la porta rimase sempre aperta per discutere spesso tutta la notte per convincere anche un solo operaio in più. L’uomo che voleva costruire il suo partito individuandolo nella parte migliore della classe operaia, dei lavoratori, degli studenti e degli intellettuali. L’immortale incitamento ai giovani: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza.”
Riportiamo di seguito un bellissimo articolo di Lelio La Porta (docente nei licei, membro della International Gramsci Society, collaboratore di Critica marxista, saggista) scritto per Patria Indipendente nell’80° della scomparsa
Antonio Gramsci
Gramsci, la condizione umana e l’indifferenza
L’esperienza in una scuola. Cos’è la politica. Amare una persona e amare una collettività. Le storpiature volute degli intellettuali di destra
di Lelio La Porta su Patria Indipendente
L’80° anniversario della morte di Antonio Gramsci è alle nostre spalle. Ma può essere alle nostre spalle il pensiero di un uomo che vanta più di 20.000 saggi sulla propria opera pubblicati in ogni parte del mondo e traduzioni dei propri scritti in molte lingue? Oppure, ci si può ricordare di lui soltanto in occasione delle commemorazioni e degli anniversari (in verità più della morte che della nascita secondo un “modus operandi” consolidato per cui sembra che i grandi da ricordare siano soltanto morti senza aver mai visto la luce)? Non basta la cerimonia che, ormai da tre anni, si tiene ogni 27 aprile (giorno e mese del 1937 in cui Gramsci spirò in una clinica romana) presso l’urna che contiene le sue ceneri nel Cimitero della Piramide Cestia, a Roma. Se dopo il 2017, anno in cui si sono susseguiti convegni in ogni parte d’Italia e del mondo, seminari, presentazioni di volumi, ci si accomodasse nella ripetitività di attività già viste, magari dirette soltanto al solito gruppetto di studiose/i, l’eredità gramsciana perderebbe il suo senso culturale, politico, pedagogico e ne verrebbe sminuita anche la classicità da più parti rivendicata. Credo che si debba tenere viva la presenza gramsciana soprattutto in quei luoghi in cui o non c’è mai stata o è necessario che cominci ad esserci, perché sono i luoghi a cui Gramsci stesso pensava come fondamentali per la conquista dell’egemonia e del consenso da parte dei gruppi subalterni. Per chiarire il senso del ragionamento, si propone il passaggio dei Quaderni del carcere in cui Gramsci sottolinea la diversità fra la società russa conquistata con la Rivoluzione di Ottobre e quella italiana o, in genere, occidentale:
In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale [1].
Usando una terminologia militare, Gramsci fa capire che in Italia la conquista dell’egemonia passa attraverso l’occupazione delle fortezze e delle casematte che costituiscono la società civile; e fra queste casematte ce n’è una a cui Gramsci attribuisce un’importanza particolare: la scuola. Questo è uno dei luoghi in cui Gramsci, che di essa si è interessato in mille modi, mai è entrato, o, comunque, ha una presenza molto limitata.
Si sa che esistono le mosche bianche, come quel gruppo di insegnanti che, nel corso di un recente convegno gramsciano a Bari, hanno presentato, insieme alle loro classi, dei lavori aventi come oggetto alcune categorie del pensiero gramsciano. Ma ci si è mai chiesto qual è la condizione della conoscenza di Gramsci nelle nostre scuole? Bisognerà pur rendersi conto che Gramsci non può essere soltanto argomento di dotte disquisizioni di carattere filologico o di incontri accademici quando la sostanza politica del suo pensiero, ossia la filosofia della prassi, tutto fa meno che essere prassi in quanto rimane rinchiusa nei ristretti recinti di libresche elucubrazioni? Insomma o Gramsci conquista le casematte e le occupa (proprio perché questo sembra essere il suo obiettivo quando scrive di filosofia della prassi e del ruolo degli intellettuali) oppure rimarrà uno che è diventato famoso, seppure soltanto per una sera, in quanto il senso comune (altra battaglia tipicamente gramsciana è proprio quella relativa alla trasformazione del senso comune corrente in un nuovo senso comune) ne ha sentito parlare una volta durante un’edizione del Festival di Sanremo. Per conquistare le casematte bisogna penetrare al loro interno; per diffondere Gramsci nella scuola, la prima casamatta di cui si serve il dominante per dominare il dominato, e mantenerlo nella condizione di subalternità (pensino lettrici e lettori alla Legge 107/2015 nota come “La buona scuola”, che è l’ultimo strumento di dominio utilizzato dagli attuali dominanti per imporre il consenso ad una serie di obbrobri, fra cui occupa il primo posto la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, che può essere ribattezzata la fucina del precario a vita ipersfruttato e prealienato nel senso marxiano del termine), bisogna andarci.
La scena: cittadina molto nota per alcune sue particolarità artistiche che si trova subito dopo il confine fra Lazio ed Umbria. Istituto medio-superiore del posto: bello, funzionale, moderno, in possesso di tutte le novità tecnologiche che sono all’altezza dei tempi all’interno di una scuola. Aula Magna: un anfiteatro con comodissime sedie per gli spettatori e un tavolo a disposizione dei relatori con impianto acustico e schermo. Due relatori invitati dalla dirigenza scolastica a parlare di Antonio Gramsci, questo sconosciuto. Non servono discorsi troppo articolati sulle categorie gramsciane; necesse est parlare di lui: di un figlio, di un marito, di un padre, di un detenuto politico, di un uomo, soltanto di un uomo che ha, però, con i suoi scritti, acquisito un prestigio tale da collocarlo fra i cinque italiani dopo il XVI secolo più citati nella letteratura mondiale di arte ed umanità. Mentre è facile far capire ai giovani che Gramsci era stato bravissimo alle elementari, bravo al liceo, che lo sarebbe stato all’università, più complicato è far capire loro che lasciò l’università per il giornalismo e, poi, soprattutto, per la politica. La politica (si scorge scorrere un brivido lungo la schiena dei giovani ascoltatori) cos’è? Questa è la domanda che si coglie dagli sguardi degli astanti che ritengono che la politica sia gioco di potere, conquista e mantenimento di scranni in Parlamento a qualsiasi condizione, corruzione, malaffare e altro del genere. Quando si fa capir loro che la politica è cosa di tutte/i, che essa è la stessa aria che respiriamo, che non è approfittare di una posizione di privilegio per goderne ogni beneficio; quando si fa capir loro che la politica deriva da una passione profonda, da un amore profondo, per il mondo e i suoi abitanti e che per essa si può rinunciare anche ad una comoda e gratificante carriera dal punto di vista economico; allora gli sguardi, da corrucciati, diventano attenti ed interessati e vogliono saper qualcosa in più. E allora non si può fare altro che leggere una lettera famosa (ovviamente per chi ha qualche frequentazione gramsciana, ma che diventa una scoperta per chi sente parlare per la prima volta del grande sardo) che Gramsci scrisse alla sua compagna Giulia da Vienna il 6 marzo del 1924 (un mese dopo sarebbe stato eletto deputato):
Che cosa mi ha salvato dal diventare completamente un cencio inamidato? L’istinto della ribellione, che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso 10 in tutte le materie nelle scuole elementari, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti. Esso si allargò per tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna ed io pensavo allora che bisognava lottare per l’indipendenza nazionale della regione: «Al mare i continentali!» Quante volte ho ripetuto queste parole. Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale. Mi sono appassionato così alla vita, per la lotta, per la classe operaia. Ma quante volte mi sono domandato se legarsi a una massa era possibile quando non si era mai voluto bene a nessuno, neppure ai propri parenti, se era possibile amare una collettività se non si era amato profondamente delle singole creature umane. Non avrebbe ciò avuto un riflesso sulla mia vita di militante, non avrebbe ciò isterilito e ridotto a un puro fatto intellettuale, a un puro calcolo matematico la mia qualità di rivoluzionario? Ho pensato molto a tutto ciò e ci ho ripensato in questi giorni, perché ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l’amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido [2].
L’amore è una delle molle che spinge Gramsci verso la politica: amare una persona vuol dire scoprire la capacità per amare una collettività. Il vero rivoluzionario, diceva Che Guevara, “è guidato da grandi sentimenti d’amore” [3]. Ecco un motivo di ulteriore attenzione da parte della gioventù presente che scopre che Guevara non è una fabbrica di magliette, come spiritoseggiavano Checco Zalone, da un lato, e Ficarra e Picone, dall’altro, in due film, ma è stato un uomo in carne ed ossa che ha combattuto duramente per gli altri rimettendoci la vita. Proprio come Gramsci che è stato ucciso dal fascismo (e non possono essere accettate, in quanto false e menzognere, versioni diverse che rendono corresponsabile della sua morte il suo partito che, anzi, come ha recentemente ricordato il nipote di Gramsci, cioè il figlio del secondogenito Giuliano, che porta il nome del nonno, il partito provvide a pagare le spese delle cliniche nelle quali Gramsci fu ricoverato dopo aver lasciato Turi, tacitando anche l’ulteriore motivo di discredito e di insopportabile sciatteria di chi ha sostenuto che i ricoveri nelle cliniche fossero una sorta di benevola concessione del regime fascista nei confronti del prigioniero).
Lampi negli occhi della gioventù presente (una parte non minima di essa aveva preferito la proiezione del film di Tarantino Bastardi senza gloria, in occasione del Giorno della Memoria; cosa c’entrasse un film del genere con il motivo per cui veniva proiettato, resta e resterà un insolubile mistero, almeno per chi scrive!). L’amore, invece, c’entra qualcosa, molto più di qualcosa, con la politica. Gli sguardi incrociavano gli sguardi. Si perveniva alla conclusione che questo insegnamento derivava dalla lettura di una lettera di Gramsci alla sua compagna. A questo punto la richiesta inattesa per chi parlava: un nuovo incontro, ma questa volta per leggere Gramsci, per entrare nel merito delle sue scelte attraverso la lettura dei suoi articoli giovanili e delle sue lettere prima del carcere. Magari con l’aggiunta di qualche lettera carceraria visto che è stato ricordato che le Lettere dal carcere vinsero, alla loro prima uscita nel 1947, il Premio Viareggio con voto unanime della giuria, presieduta da Leonida Répaci; la motivazione dell’assegnazione del premio a Gramsci che concorreva con Moravia, Berto, Pavese, Natalia Ginsburg, Quasimodo e Luzi: “La condizione umana non ha avuto in questi tempi confusi un più lucido assertore e testimone”. Che i nostri tempi, seppure non oltraggiati da abominevoli dittature, almeno per il nostro Paese, siano ancora confusi è un dato di fatto. Per combattere questa confusione, anticamera dell’indifferenza che tutto uccide e ammorba, Gramsci è un ottimo antidoto, soprattutto se somministrato in dosi massicce nella scuola; una casamatta che va conquistata assolutamente per non perdere in modo definitivo la possibilità futura che i governati diventino governanti e che, perciò, nella prospettiva gramsciana, si attui la democrazia politica:
(…) la «democrazia politica» tende a far coincidere governanti e governati, assicurando a ogni governato l’apprendimento più o meno gratuito della preparazione «tecnica» generale necessaria [4].
Comunque, va eretta una barricata a protezione di Gramsci e dei suoi scritti. Bisogna prendere la parte di Gramsci, essere partigiani in modo sincero ed autentico a difesa di un patrimonio della nostra cultura libera e democratica. E questo erigere le barricate e resistere contro l’inganno e la menzogna, va insegnato nelle scuole a partire, appunto, dalla difesa di Gramsci e dal contrattacco nei confronti di chi non si perita neanche per un momento di gettare confusione usandolo. Infatti, si deve stare molto attenti a fargli dire quello che non ha mai detto intervenendo sui suoi testi in modo illecito e assolutamente poco appropriato. Ce lo ricorda proprio lui:
“Sollecitare i testi”. Cioè far dire ai testi, per amor di tesi, più di quanto i testi realmente dicono. Questo errore di metodo filologico si verifica anche all’infuori della filologia, in tutte le analisi e gli esami delle manifestazioni di vita. Corrisponde, nel diritto penale, a vendere a meno peso e di differente qualità da quelli pattuiti, ma non è ritenuto crimine, a meno che non sia palese la volontà di ingannare: ma la trascuratezza e l’incompetenza non meritano sanzione, almeno una sanzione intellettuale e morale se non giudiziaria? [5]
Dunque: è in circolazione nelle italiche librerie un testo (si tratta di Imperdonabili di Marcello Veneziani) nel quale si scrive di Gramsci in un capitolo intitolato Tra Lenin e Mussolini. Voglio soffermarmi sul riferimento abbastanza esplicito dell’autore agli insegnanti, soprattutto a quelle/i che vengono da lui definiti di “formazione gramsciana” ma inconsapevoli, loro malgrado, che di essi Gramsci scriveva “noiosissima caterva di saputelli” e, in più, “professori canagliuzze, insaccatori di leggiadra pula e di perle, venditori di cianfrusaglie”.
Bene: la prima citazione è tratta da un articolo del 29 dicembre 1916, comparso sull’Avanti!, intitolato “L’Università popolare” [6]. Gramsci, ricordando il suo “garzonato universitario”, si compiaceva di avere avuto insegnanti notevoli che gli avevano trasmesso la serietà e il rigore negli studi, oltre al metodo, all’applicazione nella ricerca, alla passione filologica, alla dimensione civile dell’insegnamento:
“L’insegnamento, svolto in tal modo, diventa un atto di liberazione (…). È una lezione di modestia, che evita il formarsi della noiosissima caterva di saputelli, di quelli che credono aver dato fondo all’universo quando la loro memoria felice è riuscita a incasellare nelle sue rubriche un certo numero di date e nozioni particolari”.
Quindi, a ben leggere, possiamo invitare le/gli insegnanti italiane/i a tener ben stretta la loro formazione gramsciana in quanto Gramsci proprio non ce l’aveva con loro. Così come, contrariamente a quanto sostenuto nel libro di cui si sta scrivendo, non era per nulla contro il latino e il greco, anzi esattamente il contrario.
La seconda citazione è in realtà, nonostante sia riportata fra virgolette nel libro, un assemblaggio di frasi prese qua e là da un articolo del 27 novembre 1917 intitolato La difesa dello Schultz [7]. Si tratta di un testo in cui Gramsci difende l’uso della grammatica latina dello studioso tedesco Schultz dagli attacchi di Arnaldo Monti (presidente del “Fascio studentesco per la guerra e per l’idea nazionale”), motivati, soprattutto, dal fatto che si era in guerra contro i tedeschi e da questo fatto si prendeva lo spunto per criticare l’opera di un tedesco (si tratta di una forma di nazionalismo becera e odiosa oltremodo in quanto andava a toccare la cultura). In realtà, gli epiteti gramsciani riportati nel libro in circolazione, ora nelle nostre librerie, non sono affatto rivolti contro i docenti bensì contro Monti che, attaccando lo Schultz, vorrebbe fare dei giovani studiosi di latino degli “eleganti umanisti” quando, invece, lo studio della scuola classica, ossia quella fondata sul latino e sul greco, “deve preparare dei giovani che abbiano un cervello completo, pronto a cogliere della realtà tutti gli aspetti, abituato alla critica, all’analisi e alla sintesi”.
Introdurre Gramsci, quello vero e non storpiato da letture ideologicamente interessate, nelle scuole, non come semplice oggetto di assemblee di istituto, in quanto curiosità da sottoporre momentaneamente all’attenzione, ma come momento fondamentale del percorso formativo, dovrebbe essere compito primario, se non del Ministero (che ha ricordato l’anniversario con una circolare con la quale si invitavano le scuole a riflettere sul suo pensiero, circolare inosservata, forse perché le scuole sono troppo impegnate ad insegnare alla nostra gioventù la prassi del lavoro non pagato con l’alternanza scuola-lavoro), di ogni singola/o insegnante in quanto Gramsci e la scuola si identificano e possono, insieme, indicare una strada per resistere allo strapotere dei dominanti.
Lelio La Porta, docente nei licei, membro della International Gramsci Society, collaboratore di Critica marxista, saggista
Antonio Gramsci
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 866.
[2] A. Gramsci, Lettere 1908-1926, a cura di Antonio A. Santucci, Einaudi, Torino 1992, pp. 271-272; ora anche in A. Gramsci, Un Gramsci per le nostre scuole, a cura di L. La Porta, Editori Riuniti, Roma 2016, pp. 210-211.
[3] E. Che Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba in ID., Scritti scelti, a cura di R. Massari, erre emme, Roma 1993, v. II, p. 711.
[4] A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 501.
[5] Ivi, p. 838.
[6] A. Gramsci, Cronache torinesi 1913-1917, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1980, pp. 673-676.
[7] A. Gramsci, La Città Futura 1917-1918, a cura di S. Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, pp. 458-461. Sono, peraltro, le stesse frasi proposte nella replica all’interrogazione parlamentare del 27 maggio 1997 da Fortunato Aloi, insegnante, uno dei leaders della Rivolta di Reggio nel 1970, deputato del Msi, poi di Alleanza Nazionale, sottosegretario all’Istruzione nel governo Berlusconi I, rieletto parlamentare nel 1996.
Antonio Gramsci
Fonte- Enciclopedia TRECCANI on line-
Biografia di ANTONIO GRAMSCI–Uomo politico e pensatore (Ales, Cagliari, 1891 – Roma 1937). Membro del PSI e fondatore de L’Ordine Nuovo (1919), fece parte dell’esecutivo dell’Internazionale comunista (1923). Divenuto segretario del Partito comunista d’Italia e deputato (1924), affrontò la questione meridionale, indirizzando la politica dei comunisti verso l’unione con i socialisti massimalisti. Nel 1924 fondò il quotidiano politico l’Unità, organo del PCd’I. Per la sua attività e per le sue idee fu condannato a venti anni di carcere (1928). Il suo pensiero politico, espresso anche nei numerosi scritti, si articolò in una rilettura globale dei fenomeni sociali e politici internazionali dal Risorgimento in poi, che lo portò a criticare per la prima volta lo stalinismo, a teorizzare il passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”, a formulare i concetti di “egemonia” e di “rivoluzione passiva”. Per la statura del suo impegno intellettuale e politico è considerato una tra le maggiori figure della prima metà del Novecento italiano.
Vita e attivitàVicino in gioventù all’autonomismo sardo, frequentò l’univ. di Torino dal 1911, avvicinandosi alla milizia socialista e rivoluzionaria. Iscritto al PSI dal 1913, fu redattore del Grido del popolo e dell’Avanti!; dopo la sommossa popolare dell’ag. 1917 divenne segretario della sezione socialista torinese. Nel maggio 1919 fondò L’Ordine Nuovo, settimanale di cultura socialista diretto soprattutto alla classe operaia, che militava in favore dell’adesione del Partito socialista all’Internazionale comunista e a sostegno del movimento dei consigli di fabbrica; nel 1920 le posizioni de L’Ordine Nuovo ebbero l’approvazione di Lenin e nello scontro interno al PSI G. si avvicinò all’ala astensionista guidata da A. Bordiga, che auspicava la costituzione del Partito comunista d’Italia (PCd’I), sezione italiana dell’Internazionale comunista. Membro del comitato centrale del nuovo partito (genn. 1921), fu a Mosca dal giugno 1922 al nov. 1923 ed entrò nell’esecutivo dell’Internazionale. Dal 1923 G. maturò il distacco dalle posizioni di Bordiga (che si trovava in polemica con l’Internazionale), per cui, rientrato in Italia nel maggio 1924, divenuto segretario del partito (nel 1924 era stato anche eletto deputato) e avendo fondato già a gennaio dello stesso anno il quotidiano politico l’Unità come organo del PCd’I, indirizzò, sfidando la dura linea di repressione perseguita dal governo fascista, la politica comunista verso l’unità con i socialisti massimalisti e verso un radicamento nella società italiana che aveva come fine l’alleanza tra gli operai e le masse contadine del Mezzogiorno (la “questione meridionale”), linea che ebbe la definitiva sanzione nel III congresso del PCd’I (Lione, 1926). Arrestato nel nov. 1926 con altri dirigenti del partito, nel 1928 G. fu condannato dal Tribunale speciale a venti anni di reclusione per attività cospirativa, incitamento all’odio di classe, ecc., e trascorse il periodo detentivo prevalentemente nel carcere di Turi e, dal 1934, in una clinica di Formia. Le condizioni di salute, già incerte, si aggravarono durante la reclusione e G. morì poco dopo la scarcerazione, avvenuta per amnistia.
Opere e pensiero -Sia la pubblicazione degli scritti politici, sia le Lettere dal carcere (postumo, 1947; ed. ampliate 1965, 1988), sia, e soprattutto, i Quaderni del carcere (postumo, 1948-51; ed. critica 1975) hanno avuto grande rilevanza nella cultura italiana del dopoguerra. Sul terreno politico, risale infatti a G. una delle prime e più incisive critiche politiche allo stalinismo (1926), nonché l’abbozzo, nei Quaderni, di una strategia rivoluzionaria fondata su un’idea non repressiva del potere (egemonia), in grado di tener conto della complessità e delle articolazioni della moderna società industriale (passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”). Prevalentemente ispirati da esigenze ermeneutiche e dunque solo indirettamente militanti, i Quaderni iniziano un’indagine di ampio respiro critico su molti aspetti della società, della storia e della cultura moderna: attraverso il concetto di “rivoluzione passiva” G. tenta, per es., di unificare una serie di fenomeni attuali legati al coinvolgimento e al ruolo delle masse nella società moderna, quali l'”americanismo”, la pianificazione sovietica e persino il fascismo; lo stesso concetto viene utilizzato anche su un piano storiografico, rispetto al quale hanno avuto particolare risonanza le considerazioni sui limiti democratici dello stato nazionale unitario, alla cui base vi è la lettura del risorgimento italiano come rivoluzione popolare mancata. Rilevanti gli approfondimenti su altri temi quali la storia degli intellettuali italiani, il pensiero politico di Machiavelli e il rapporto tra letteratura e società; sul terreno propriamente filosofico, il serrato confronto con B. Croce, la cui elaborazione viene complessivamente valutata come ritraduzione nel linguaggio speculativo idealistico del materialismo storico, si accompagna con un’interpretazione del marxismo in chiave storicistica e antideterministica (“filosofia della praxis”), lettura che pone al centro della riflessione l’attività umana come è storicamente determinata e l’insieme dei concreti rapporti (economici, sociali, ideologici, giuridici, ecc.) che legano gli uomini tra di loro.
Fonte- Enciclopedia TRECCANI on line-
Ordine nuovo, L’ Testata fondata a Torino da A. Gramsci. Uscì come settimanale di cultura socialista dal maggio 1919 al dicembre 1920, rappresentando le istanze del movimento dei consigli di fabbrica e, più in generale, le posizioni della tendenza comunista torinese. Quotidiano del partito comunista dal gennaio 1921 al dicembre 1922, uscì infine a Roma come quindicinale dal marzo 1924 all’aprile 1925. Vi collaborarono tra gli altri P. Togliatti, A. Tasca, U. Terracini.
DESCRIZIONE-Il 18 maggio 1911 muore Gustav Mahler.Questo libro rivela le chiavi per accedere al mondo interiore del più contemporaneo tra i Classici.
Mahler camminava con gli occhi fissi a terra, per non calpestare alcuna creatura vivente. Poteva darsi che in ogni infima creatura stesse imprigionata una grande anima. La sua idea del divenire nasceva da ciò che Johann Peter Eckermann, nelle Conversazioni con Goethe, fa dire al poeta che il Maestro venerò sopra ogni altro: “La convinzione della nostra immortalità nasce, per me, dal concetto dell’attività; poiché se io opero senza posa fino alla mia morte, la natura è obbligata ad assegnarmi un’altra forma di esistenza quando questa mia attuale non può più continuare a contenere il mio spirito”. Di questo perenne operare, Mahler fu profeta e martire. Nacque ebreo, divenne cattolico, ma nel suo intimo rimase sempre un panteista devoto al culto della Natura, sorgente di quella spaventosa, demoniaca e insieme angelica, energia che egli si dannò per trattenere nella propria musica. Senza di essa, sarebbe stato solo un epigono dei Romantici, non un neo-pagano con le radici immerse in un esoterismo così primigenio da esserci, oggi, più che mai inquietante.
Mahler, Gustav
Trionfo e crisi della sinfonia
Compositore e direttore d’orchesta austro-ungarico, Gustav Mahler visse tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, ponendosi come sensibile interprete di un mondo in crisi e prossimo al disfacimento. Le sue sinfonie per orchestra e coro, di imponenti dimensioni, e i Lieder, per voce e pianoforte o voce e orchestra, portarono il linguaggio romantico a uno sviluppo estremo, aprendo la strada alla musica moderna
Dalla Boemia a Vienna
Gustav Mahler nacque nel 1860 a Kalischt, in Boemia, in una modesta famiglia ebrea molto numerosa. La morte di cinque dei suoi fratelli e il carattere violento e dispotico del padre contribuirono a sviluppare nel giovane Gustav quel forte senso del tragico, che pervade spesso la sua musica.
Riconosciuto il precoce talento musicale del figlio, fu tuttavia proprio il padre a incoraggiare e sostenere gli studi di Mahler, dapprima a Iglau, in Moravia, e dal 1875 al 1878 al Conservatorio di Vienna. Il periodo di studi viennese fu molto fecondo, per il confronto con l’intensa attività musicale della città austriaca, a quel tempo dominata dalle figure dei grandi musicisti Johannes Brahms e Anton Bruckner, con il quale Mahler entrò in contatto.
La carriera di direttore d’orchestra
Terminati gli studi, Mahler divenne direttore d’orchestra, professione che praticò per tutta la vita. Dotato di qualità fuori dal comune, ebbe una prestigiosa carriera che lo portò dai teatri di provincia a quelli di città come Praga, Lipsia, Budapest e Amburgo. Arrivò a ricoprire la carica di direttore dell’Opera di Vienna (1897-1907), ottenuta con l’appoggio di Brahms e dopo la conversione al cattolicesimo, e poi del Teatro Metropolitan di New York (1907-11), in anni dif;ficili per lui, colpito dalla morte della figlia e dall’insorgere di una malattia cardiaca.
Nonostante il successo internazionale e pur esercitando la direzione d’orchestra con rara serietà e perfezionismo, Mahler visse sempre in maniera conflittuale il rapporto con questa professione, ritenendo che essa sottraesse tempo alla sua attività di compositore.
La produzione liederistica
A parte poca musica da camera, Mahler compose Lieder e sinfonie. Il termine Lied, che nella nostra lingua corrisponde alle parole lirica, canzone, romanza, indica una composizione vocale-strumentale che unisce poesia e musica. Questo genere ebbe una lunga tradizione in area tedesca e una grande fioritura nel periodo romantico (romanticismo).
Tra i numerosissimi Lieder di Mahler vanno ricordati il ciclo dei Canti della giovinezza (1880-83 e 1887-90) i cui testi sono tratti in parte da Il corno meraviglioso del fanciullo, una raccolta di poesie popolari di Achim von Arnim e Clemens Brentano. Da tale raccolta Mahler trasse anche il ciclo omonimo, Il corno meraviglioso del fanciullo, nelle versioni per voce e pianoforte (1892-98) e per voce e orchestra (1892-95). Su testo proprio sono invece i Canti di un giramondo (voce e pianoforte, 1883-85; voce e orchestra, 1890-95). Agli ultimi anni della produzione di Mahler appartengono i Canti di bambini morti (1901-04) per voce e orchestra e il Canto della terra (1907-09), un esteso lavoro sinfonico-vocale che opera una fusione tra il Lied e la sinfonia.
Le sinfonie
Mahler compose nove sinfonie, mentre una decima rimase incompiuta. Egli considerava la sinfonia come l’espressione musicale più alta, manifestando così la sua fedeltà alla tradizione; allo stesso tempo ne rendeva evidente la crisi con un linguaggio complesso, talvolta intimo e sommesso, talvolta grandioso e drammatico, in cui è frequente l’inserimento di temi popolari e di atmosfere ispirate alla natura. Nelle sinfonie di Mahler il numero dei movimenti, la loro durata e l’organico vengono spesso dilatati fino a dimensioni insolite; inoltre la ricerca timbrica e strumentale è particolarmente innovativa. Tutto ciò rese Mahler un fondamentale punto di riferimento per i musicisti del Novecento.
Dopo la Prima sinfonia, poi detta Titano (1884-88), Mahler compose tre sinfonie per orchestra e voci soliste, scritte tra il 1884 e il 1900. La Quinta sinfonia (1901-02), la Sesta (1903-04) e la Settima (1904-05) sono invece solo per orchestra. L’Ottava sinfonia (1906), detta Sinfonia dei mille per l’imponente organico, costituisce un insieme omogeneo per linguaggio e ispirazione con la Nona (1908-09), il Canto della terra e l’Adagio della Decima (1910), sinfonia che Mahler non completò per la morte avvenuta nel 1911.
Olga Aleksándrovna Spesívtseva, Una delle migliori “prima ballerina” del XX secolo
Articolo del Profesor José Gongora Ballet–Olga Aleksándrovna Spesívtseva, también Olga Spessivtseva (Spessivtzeva y Spessiva) (Ольга Александровна Спесивцева) (18 de julio de 1895—16 de septiembre de 1991) fue una célebre bailarina rusa cuya carrera se extendió entre 1913 y 1939.
Una de las máximas prima ballerinas del siglo XX. De excelente técnica clásica, estilo inmaculado y espiritualidad escénica se la considera la encarnación de la bailarina romántica rusa. Irónicamente, su vida tendría un trágico desenlace al sufrir un colapso nervioso, al igual que el personaje Giselle, obra de ballet que sería la más representativa de su vida.
Olga Aleksándrovna Spesívtseva
Nació en Rostov del Don, era hija de un cantante de ópera, al morir su padre ella fue enviada a un orfanato en San Petersburgo. En 1906, entró a la academia imperial de danzas donde estudio con Klavdia Kulichévskaya, Yevguenia Sokolova y Agrippina Vagánova. Se graduó en 1913 e ingresó al Teatro Mariinski donde fue promovida a solista poco después. Fue una de las más famosas Giselle y Odette/Odile de El lago de los cisnes de su época.
En 1916, Serguéi Diáguilev la invitó a la gira de los Ballets Russes por América reemplazando a Tamara Karsávina, donde bailó con Nizhinski, regresando al Mariinski en 1918. Siguió alternando sus presentaciones en Leningrado con giras, entre ellas la realizada por los Ballets Russes a Londres y Buenos Aires en 1923.
Gracias a la intervención de su exmarido Borís Kaplún, un funcionario del régimen bolchevique, logró abandonar Rusia en 1924 para establecerse en París donde fue etoile de la Opera parisina (donde creó Salomé y Las criaturas de Prometeo de Serge Lifar) hasta 1932. Ese año creó una legendaria Giselle en Londres con el joven Anton Dolin, fue la primera en bailar en Occidente la variación del primer acto agregada posteriormente.
Entre 1932-37, hizo giras por el mundo con obras de Michel Fokine y Bronislava Nijinska.
Sufrió de depresión crónica y su última aparición fue en el Teatro Colón de Buenos Aires en 1939, año en el que se mudó a Estados Unidos para dedicarse a la enseñanza.
En 1943, sufrió un severo colapso nervioso y fue internada durante 20 años hasta que en 1963 sus amigos Anton Dolin, Felia Doubrovska y Dale Fern, la mudaron a Valley Cottage en la Fundación Tolstói, una comunidad rusa en el estado de Nueva York fundada por la hija menor del escritor Lev Tolstói, Aleksandra Tolstaya.
Vivió pacíficamente hasta morir de 96 años.
En 1964, la BBC realizó un documental sobre su vida y en 1966, Antón Dolin escribió su biografía ‘The Sleeping Ballerina’.
En 1982, aparece entrevistada por Antón Dolin en el documental “A portrait of Giselle” junto a otras siete supremas intérpretes del rol.
El ballet “Red Giselle” está inspirado en ella.
Olga Aleksándrovna Spesívtseva
Olga Aleksándrovna Spesívtseva, anche Olga Spessivtseva (Spessivtzeva e Spessiva) ( Ольга Александровна Спесивцева) (18 luglio 1895-16 settembre 1991) è stata una celebre ballerina russa la cui carriera si estende tra il 1913 e il 1939.
Olga Aleksándrovna Spesívtseva
Olga Aleksándrovna Spesívtseva
Olga Aleksándrovna Spesívtseva
Una delle migliori prima ballerine del XX secolo. Di eccellente tecnica classica, stile immacolato e spiritualità scenica è considerata l’incarnazione della ballerina romantica russa. Ironia della sorte, la sua vita avrebbe un tragico esito quando soffre di un esaurimento nervoso, proprio come il personaggio Giselle, opera di danza che sarebbe la più rappresentativa della sua vita.
Nato a Rostov del Don, figlia di un cantante d’opera, dopo la morte del padre lei fu mandata in un orfanotrofio a San Pietroburgo. Nel 1906 entrò nell’accademia imperiale di ballo dove studio con Klavdia Kulichévskaya, Yevguenia Sokolova e Agrippina Vaganova. Si è laureata nel 1913 ed è entrata al Teatro Mariinski dove è stata promossa a solista poco dopo. Era una delle più famose Giselle e Odette/Odile de Il lago dei cigni dei suoi tempi.
Nel 1916, Serghej Diaguilev la invitò al tour dei Russes Ballets in America sostituendo Tamara Karsavina, dove ballò con Nizhinski, tornando al Mariinski nel 1918. Continuò ad alternarsi le sue esibizioni a Leningrado con tour, tra cui quella fatta dai Russes Ballets a Londra e Buenos Aires nel 1923.
Grazie all’intervento del suo ex marito Boris Kaplún, un funzionario del regime bolscevico, riuscì a lasciare la Russia nel 1924 per stabilirsi a Parigi dove fu etoile dell’Opera parigina (dove Salomé e Le creature di Prometeo de Serge Lifar) fino al 1932. Quell’anno creò una leggendaria Giselle a Londra con il giovane Anton Dolin, fu la prima a ballare in Occidente la variazione del primo atto aggiunto successivamente.
Tra il 1932-37, ha girato il mondo con opere di Michel Fokine e Bronislava Nijinska.
Soffriva di depressione cronica e la sua ultima apparizione fu al Teatro Colón di Buenos Aires nel 1939, anno in cui si trasferì negli Stati Uniti per dedicarsi all’insegnamento.
Nel 1943 ha avuto un grave crollo nervoso ed è stata internata per 20 anni fino a quando nel 1963 i suoi amici Anton Dolin, Felia Doubrovska e Dale Fern la trasferirono a Valley Cottage presso la Fondazione Tolstoj, una comunità russa nello stato di New York fondata dalla figlia minore del Scrittore Lev Tolstoj, Aleksandra Tolstaya.
Ha vissuto pacificamente fino alla morte di 96 anni.
Nel 1964 la BBC ha realizzato un documentario sulla sua vita e nel 1966 Anton Dolin ha scritto la sua biografia ‘The Sleeping Ballerina’.
Nel 1982 appare intervistata da Anton Dolin nel documentario “Un portratto di Giselle” insieme ad altre sette interpreti supreme del ruolo.
Maria Stuarda, forma italianizzata di Mary Stuart, è stata sicuramente la regina più importante della Scozia.
Nota Biografica:
Nata l’8 dicembre 1542 da Giacomo V Re di Scozia e dalla sua seconda moglie Marie de Guise, duchessa francese imparentata con la casa reale di Francia, Maria era la nipote di Margaret Tudor, sorella di Enrico VIII d’Inghilterra, il re famoso per aver rotto i legami con la chiesa cattolica e aver istituito la fede anglicana.
Poco dopo la sua nascita, il padre morì lasciando lei come unica erede e nel 1543, nella cappella del Castello di Stirling, la piccola fu incoronata Maria, Regina di Scozia.
Ci fu una breve reggenza di James Hamilton mentre nel 1554 la madre Marie de Guise decise di rompere il fidanzamento tra la figlia ed il principe Edoardo, figlio di Enrico VIII che con questo sposalizio avrebbe messo le mani sul regno di Scozia.
Maria Stuarda
Descrizione del romanzo:
Il “brutale corteggiamento” ebbe inizio. Così venne definito quello che seguì a questa rottura, le campagne militari inglesi contro la Scozia nel tentativo di rapire Maria e farla sposare con Edoardo. Marie de Guise fuggì portando con sè la figlia di castello in castello fino ad arrivare nella corte di Francia storica alleata scozzese dove il re Enrico IIapprofittò per farla sposare con il figlio Francesco II nel 1558 che però morì poco dopo.
Cresciuta e allevata alla corte dissipata di Caterina de’ Medici, fu la legittima regina di Scozia. Nella terra che fu di William Wallace fu richiamata dai membri dell’aristocrazia, ansiosi anzitutto di assicurare al loro paese l’indipendenza dai vicini meridionali. Infatti, il Parlamento scozzese, senza l’assenso della sovrana, aveva ratificato la modifica della religione di Stato passando da quella cattolica a quella protestante sotto la spinta del furore del riformatore John Knox.
Maria sbarcò a Leith nel 1561, possedendo numerose virtù e talenti appresi dall’educazione ricevuta in Francia, ma era manchevole di quella forza per far fronte alla pericolosa situazione scozzese.
I rapporti con la cugina Elisabetta I d’Inghilterra
Nel frattempo sul trono di Inghilterra salì Elisabetta, figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, la donna per cui il re ruppe i rapporti con la Chiesa di Roma. I rapporti tra le cugine, Maria Stuarda ed Elisabetta I, furono difficili e complicati. innanzitutto per la fedeltà che molti cattolici inglesi decisero di dare alla regina di Scozia non riconoscendo Elisabetta. Ancor di più, ad incrinare i rapporti tra le due regine, accorse la difficile situazione della successione.
Elisabetta non aveva figli e non era intenzionata ad averla. Maria invece, captando la possibilità di unire i due regni sotto la sua egida, si sposò con il cugino Lord Darnley, che grazie a sua madre vantava certi diritti di successione al trono inglese. Dal matrimonio nacque Giacomo VI di Scozia (poi Giacomo I d’Inghilterra), battezzato nel Castello di Stirlingsu una tavola rotonda, come a renderlo il nuovo re Artù che avrebbe presto unito Scozia e Inghilterra.
A rendere ulteriormente intricati i legami tra le regine fu la morte sanguinosa del marito di Maria Stuarda, accusata dalla cugina di essere complice dell’attentato. La regina scozzese aveva un segretario favorito, l’italiano Rizzio, in contrasto con Darnley e i nobili protestanti che dominavano la politica del paese. Rizzio fu ucciso dallo stesso Lord sotto gli occhi della regina. A sua volta, un anno dopo il marito di Maria fu ucciso da James Hepburn, IV conte di Bothwell, che divenne poi il marito della regina di Scozia, rendendo ancora più credibile la sua implicazione nell’assassinio del precedente marito.
I nobili scozzesi, benchè non eccessivamente morali, furono urtati da questi atti che disonoravano la nazione. Imprigionarono Maria a Lochleven per processarla. Ella fuggì per chiedere asilo alla cugina Elisabetta.
La regina d’Inghilterra, nonostante l’antipatia per Maria, odiava anche le ribellioni e la figura del calvinista Knox. Decise così di trattenerla in prigionia cercando di intavolare una trattativa ma con condizioni di pace alquanto irragionevoli, come che rinunciasse al trono a favore di Giacomo VI e che lo facesse educare in Inghilterra.
I continui rifiuti, la sete di vendetta, e l’aspirazione a sposare il re Filippo di Spagna la portarono per ben 19 anni ad essere imprigionata e ad essere accusata di complicità nelle congiure contro la regina anglicana. La prova della sua partecipazione fu trovata nella firma al documento della cospirazione di Babington che prevedeva la morte di Elisabetta. Il processo che ne seguì la condannò a morte, nonostante il figlio Giacomo chiese che la pena fosse commutata in esilio.
La condanna a morte fu firmata il 1° febbraio 1587 per quella che le Camere definirono “quel drago enorme e mostruoso ch’è la regina degli scozzesi”.
Durante il processo, Maria Stuarda, per sottolineare la sua fedeltà alla religione cattolica, alla Scozia e il non essersi piegata all’Inghilterra anglicana, disse ai suoi accusatori “guardate nelle vostre coscienze e ricordate che il teatro del mondo è più ampio del regno d’Inghilterra.” Essendo una regina straniera, nonché la prima sovrana ad essere giustiziata nonostante legittimamente unta e coronata, non poteva essere accusata di alcun tradimento.
La sua vita, divenuta così modello di eroina di romanzo, campionessa di fede, fu venerata dal mondo cattolico come santa e martire. Trascorse i suoi ultimi giorni pregando e perdonando il suo boia al quale disse “vi perdono con tutto il mio cuore, perché ora io spero che porrete fine a tutte le mie angustie”.
Morì decapitata l’8 febbraio del 1587 con ben due colpi di scure, indossando una sottoveste di raso rosso, colore liturgico del martirio per la religione cattolica usato per dimostrare la sua innocenza. La regina chiese che le dame, alla sua morte, vestissero il “nero spagnolo”. Il nero divenne il colore ufficiale del lutto per i re, i principi e nobili vari, cioè coloro che erano più vicini ai papi e agli uomini influenti della Chiesa.
Le opere a lei ispirate
La sua figura ispirò un romanzo di Alexandre Dumas in cui si concentra la malinconia per il ruolo storico per cui la Regina era nata ma che le sanguinose vicende le impedirono di essere. A lei furono anche dedicate un’opera lirica di Gaetano Donizetti e un’opera di teatro di Frederich Schiller. Vittorio Alfieri nel 1788 scrisse la tragedia “Maria Stuarda”.
A livello cinematografico sono decine i film in cui compare e due su tutti la vedono protagonista, entrambi intitolati “Mary Queen of Scots”, usciti nel 1971 e nel 2013. Nel primo la figura della regina fu recitata da Vanessa Redgrave che ottenne anche una candidatura agli Oscar per questo ruolo. Tra il 2013 e il 2017 le è stata dedicata anche una serie TV, chiamata ”Reign”, incentrata sulla sua giovinezza impersonata dall’attrice Adelaide Kane.
Nel 2018, invece, è uscito il film “Maria regina di Scozia“, diretto da Josie Rourke con protagoniste Saoirse Ronan e Margot Robbie. Si tratta dell’adattamento cinematografico di My Heart is my own: the life of Mary Queen of Scots, biografia della regina scozzese scritta da John Guy.
Biografia di Maria Stuarda-Figlia (Linlithgow 1542 – Fotheringay Castle, Northamptonshire, 1587) di Giacomo V e di Maria di Lorena. Mandata in Francia (1548) perché fosse sottratta al fidanzamento con Edoardo d’Inghilterra voluto da Enrico VIII, M. vi fu educata alla corte di Enrico II e fidanzata col delfino Francesco, che poi sposò nell’apr. 1558. Bella, di carattere energico, seppe tener testa alle difficoltà che Caterina de’ Medici, avversa al partito dei Guisa, cui M. era legata da rapporti di parentela, le opponeva, dominando il debole marito. La morte di Francesco II (5 dic. 1560) la fece però attenta alla situazione in Scozia, dove si era favorevolmente conclusa, con l’aiuto di Elisabetta d’Inghilterra, la lotta per la proclamazione del protestantesimo; M. si rifiutò di riconoscere il trattato di Edimburgo, in base al quale erano stati espulsi i Francesi, ma accettò l’invito dei lord protestanti, presto delusi dell’amicizia di Elisabetta, e nell’agosto 1561 sbarcò a Leith. Furono anni tranquilli: la collaborazione fra i lord protestanti e M. fu cementata dall’appoggio del conte di Moray e dell’ala moderata dei protestanti scozzesi, che consentì a M. la personale professione del culto cattolico e una generale politica di tolleranza religiosa. Il difficile equilibrio (la pressione dei circoli cattolici su M. non era meno forte del violento estremismo di J. Knox) fu rotto quando M., che aveva rifiutato un matrimonio col conte di Leicester proposto da Elisabetta, sposò, incurante dell’opposizione protestante, Enrico Darnley, il capo dei cattolici scozzesi (1565); poi sconfisse Moray, che si rifugiò in Inghilterra. La grave situazione fu complicata dall’ambizione del debole Darnley a farsi proclamare principe-consorte e dall’improvvisa passione di M. per il suo segretario Davide Rizzio; una breve alleanza di Darnley con i nobili protestanti, sempre più irritati dai tentativi di restaurazione cattolica di M., portò all’assassinio di Rizzio (1566) e poi si sfasciò. M. diede una nuova prova del carattere tutto passionale e non politico della sua azione; riconciliatasi col marito (il 19 giugno le nasceva il figlio Giacomo), riuscì a scindere l’opposizione dei nobili, e con l’aiuto dei conti di Bothwell, di Huntly e di Atholl tornò a Edimburgo dal suo rifugio di Dunbar, iniziando una relazione con Bothwell, che fu l’inizio della catastrofe. Darnley fu assassinato (9 febbr. 1567), e nel maggio successivo, dopo avventurose vicende, M. sposò, secondo il rito protestante, Bothwell. La violenta opposizione dei nobili, che vincitori a Carberry Hill costrinsero M. all’abdicazione e al ritiro a Lochleven, travolse la sua testarda resistenza e, sconfitta ancora a Langside, M. cercò rifugio in Inghilterra presso Elisabetta. L’avversione personale per la regina cattolica, che aveva in varie occasioni mostrato di non voler rinunciare ai suoi diritti al trono inglese, fu contenuta dall’imbarazzo politico di Elisabetta che non voleva immischiarsi nella punizione di una regina; e per un momento si pensò di risolvere la difficile situazione sposando M. col duca di Norfolk. Un progetto che fallì presto, mentre M. tentava disperati complotti con i Guisa e con Filippo II di Spagna, finché, compromessasi imprudentemente nella congiura di A. Babington, nell’ott. 1586 fu processata e (11 ottobre) condannata a morte. Dopo molte esitazioni, Elisabetta si decise a firmare il decreto di morte, che fu eseguito il 7 febbraio 1587.
Paola Agosti,Benedetta Tobagi-Covando un mondo nuovo-
-Giulio Einaudi editore-
Il libro di Benedetta Tobagi e Paola Agosti-Questa splendida raccolta di fotografie degli anni Settanta è il frutto di una selezione a quattro mani di Paola Agosti, autrice degli scatti, testimone e interprete unica di un’epoca, e Benedetta Tobagi, che ora ridà loro voce, con grande immediatezza e piglio narrativo, raccontandoci quella che è stata definita la sola rivoluzione riuscita del Novecento, ovvero quella delle donne. All’alba del decennio l’Italia è un Paese plurale, dove convivono ragazze in minigonna e signore nerovestite con lo scialle in testa, battagliere avvocate e altrettanto battagliere operaie e contadine. Plurali sono anche le anime del movimento femminista, sia per i diversi rapporti che intrattengono con i vari partiti sia per quale ritengono la sfera giusta su cui concentrare gli sforzi. A Roma la via prediletta è quella dell’azione politica, a Milano prevale il tentativo di liberarsi attraverso i gruppi di autocoscienza. Nonostante le differenze, però, le grandi lotte del decennio vengono portate avanti a ranghi uniti, in primis quella per il diritto all’aborto. Oltre a illustrare e narrare tutto questo, Agosti e Tobagi trasmettono l’incredibile vitalità e creatività del movimento delle donne negli anni Settanta, che si manifestano negli slogan, come quello che dà il titolo al libro, nei pupazzi che portano ai cortei, nelle pratiche di self help e nei girotondi. La gioia di una stagione dirompente che ha conquistato alcuni dei diritti di cui godiamo oggi, una fonte di ispirazione tuttora valida.
Paola Agosti, Benedetta Tobagi-Covando un mondo nuovo
«Tenere insieme liberazione individuale e collettiva, l’impegno per una profonda trasformazione ed evoluzione personale e al tempo stesso per un cambiamento radicale della società, per renderla piú giusta, aperta, umana, perché l’una e l’altra cosa possono accadere davvero soltanto insieme: è una nota di fondo che dagli anni Settanta si è travasata nel femminismo intersezionale contemporaneo, e mi pare possa essere uno degli elementi piú preziosi che il movimento delle donne porta in dote al XXI secolo».
Benedetta Tobagi- Pavia – L’autrice di Covando un mondo nuovo parteciperà all’incontro Una liberazione individuale e collettiva, alle ore 21 presso il Collegio nuovo (via Abbiategrasso, 404). Conduce l’incontro Marina Tesoro. L’incontro si tiene in presenza e in remoto. È obbligatoria la registrazione al seguente link entro il 2 dicembre per la partecipazione in presenza; entro il 3 dicembre, ore 18.30 per chi desidera collegarsi da remoto. L’evento è trasmesso anche in diretta Facebook su @collegionuovopavia.
Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati .
Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo
di Ilan Pappé (Autore)-Michele Zurlo (Traduttore)
Descrizione del libro di Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo-Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappe´ rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappe´ rappresenta probabilmente l’analisi piu` completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione piu` grande del mondo». Pappe´ analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele e` riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle ONG che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappe´ denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappe´ e` al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianita` nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perche´ non chiuda gli occhi di fronte ai crimini contro l’umanita` a cui e` soggetta da piu` di settant’anni la popolazione indigena della Palestina.
Armando Lostaglio- Giuseppe Tornatore “Il Collezionista di Baci” cinematografici
Il collezionista di baci. Ediz. illustrata di Giuseppe Tornatore Mondadori Electa 2014
Un libro sul bacio cinematografico. Un regalo per la San Valentino. Ciascuno di noi ha nel fondo del proprio intimo cassetto il bacio più bello, quello che al cinema ha visto da ragazzo, che lo ha ammaliato e forse turbato. Nel 2014, il regista premio Oscar Giuseppe Tornatore ne ha fatto un libro prezioso, un volume fotografico per raccontare il bacio cinematografico attraverso le suggestioni che proiettavano i manifesti dei film. Vere e proprie opere d’arte pittorica.
Questo libro – pubblicato da Mondadori Electa, 215 pagine – ha un pregio particolare, oltre a quello di farci rivivere scene famose di film che fanno parte della storia del secolo scorso: restituisce dignità a quegli artisti che dipingevano i manifesti, pittori come Anselmo Ballester, Alfredo Capitani, Luigi Martinati. “E come Casaro – sottolinea Tornatore – che è stato quello che ha portato più a lungo questa tradizione della cartellonistica pittorica, ma ci sono stati degli artisti, dei pittori che per arrotondare facevano i manifesti per il cinema. Era un’arte particolare, i manifesti erano bellissimi.”
Il regista siciliano, ideatore dell’indimenticabile sequenza finale di “Nuovo Cinema Paradiso” dedicata proprio al bacio, che il parroco don Adelfio tagliava perché li giudicava scabrosi, ha selezionato e commentato più di duecento manifesti originali che coprono un arco temporale di circa un secolo. Si tratta di immagini provenienti dalla collezione di Filippo Lo Medico, il quale – aggiunge ancora Tornatore – “ha dedicato tutta la sua vita alla gestione di sale cinematografiche ed ha collezionato 60 anni di cartellonistica cinematografica. Quando vide “Nuovo cinema Paradiso” manifestò l’idea di fare una raccolta di baci nei manifesti e oggi, a distanza di 25 anni, il sogno si realizza”. Il libro ripercorre dunque su un’unica traiettoria un arco temporale che va dal 1926, col bacio tra Rodolfo Valentino e Vilma Banky nel film “Il figlio dello sceicco”, fino al 2005 con “Cinderella man” e il bacio tra Russell Crowe e Renee Zellweger.
E come non ricordare la locandina dell’indimenticabile bacio tra Clark Gable e Vivien Leigh di “Via col vento” (del 1939) e de “La dolce vita” (del 1960) fra Marcello Mastroianni e Anita Ekberg nella mitica Fontana di Trevi? Ed ancora quello tra Audrey Hepburn e George Peppard in “Colazione da Tiffany”; sublime quello tra Marcello Mastroianni e Sophia Loren in “Una giornata particolare” di Ettore Scola; vigoroso e reale quello tra Jack Nicholson e Jessica Lange in “Il postino suona sempre due volte”; e, più vicino a noi nel tempo, il bacio quasi innocente tra Leonardo Di Caprio e Kate Winslet del “Titanic”; e quello della coppia (allora anche nella vita) Nicole Kidman e Tom Cruise per l’ultimo film di Kubrick “Eyes wide shut”.
Ma il bacio preferito di Tornatore qual è? “Ne ricordo tanti, ma se dovessi scegliere non ho dubbi: è quello fra Tyron Power e Kim Novak in “Incantesimo”, perché con questo film fu inaugurato il Supercinema di Bagheria che era a poche centinaia di metri da casa mia. Lì sono entrato per la prima volta a vedere un film, lì sono ritornato da solo e da ragazzo, sempre in quella sala ho lavorato come proiezionista ».
Una testimonianza toccante che profuma di amore verso il cinema; il bacio che ha segnato la nostra passione rimarrà quello fra il pugile Rocky Graziano/Paul Newman e Norma/Pier Angeli (l’italiana Annamaria Pierangeli), diretti nel 1956 da Robert Wise in “Lassù qualcuno mi ama”, il primo film della personale folgorazione verso quest’arte.
Armando Lostaglio
Nota biografica di ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all’Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica – Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l’imbrunire (2012); Il genio contro – Guy Debord e il cinema nell’avangardia (2013); La strada meno battura – a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.
Il collezionista di baci. Ediz. illustrata di Giuseppe Tornatore Mondadori Electa 2014
L’inciviltà dell’irrazionalità Di difficile collocazione come genere letterario, “A COME ATEA” di Carla Corsetti è un saggio diretto in particolar modo ai popoli del primo mondo questo primo mondo che detiene – forse ancora per poco – il primato geopolitico, tecnologico, scientifico, economico, militare, e culturale dell’intero pianeta. Per ogni lettera dell’alfabeto, l’autrice ha trattato alcune parole particolarmente significative che le hanno permesso di sviluppare le sue riflessioni di lucida pensatrice.
Questo glossario delle opinioni non è frutto solamente di una mente acuta che sa scandagliare la storia, le cause della violenza e della corruzione nel mondo, la spietatezza e la follia dell’essere umano ma anche frutto d’un cuore caldo che ama l’essere umano, che ha osservato con meraviglia gli occhi innocenti dei bambini e sa che nasciamo tutti puri, ma poi la nostra storia, la nostra cultura, l’ambiente in cui cresciamo e viviamo, producono schegge impazzite, generano il “male” quel “male” che in natura non esiste. La prima lettera di questo saggio-glossario è proprio “Atea”, e l’ateismo viene definito come il fondamento della costruzione critica di ogni individuo razionale.
Carla Corsetti ,Avvocato, Segretario di Democrazia Atea
Carla Corsetti ,Avvocato, Segretario di Democrazia Atea
Chi scrive questa prefazione è anch’egli ateo, ateo nato in un paesino del sud Italia ed educato in compagnia di tutti i sacramenti che la tradizione cattolica gli riservava. Poi sono cresciuto, le fiabe dell’infanzia sono svanite assieme alla fiaba di Betlemme, e la mia vita – mente fredda e cuore caldo, razionalità e sentimento – ha cominciato a trovare la sua armonia. E ogni giorno che mi sveglio sono felice di essere nato, di aver conosciuto la vita. E sono grato all’evoluzione che – attraverso 4 milioni di anni – ha portato la mia mente a ragionare in questo modo.
Vado proprio d’accordo con la mia mente di ateo, perché la mia vita è una continua scoperta, un viaggio responsabile, con la consapevolezza che gran parte di quello che accade a me, alla mia famiglia, al popolo a cui appartengo e alla specie umana, dipende dalle mie azioni, dall’agire di noi uomini e non da un fantomatico dio.
Le statistiche ufficiali dicono che gli atei dichiarati nel mondo sono un terzo del totale della popolazione mondiale, ma probabilmente siamo molti di più in quanto gli atei non fanno mai sfoggio del loro pensiero.
Credo che l’umanità intera possa contare sulla razionalità degli atei, sul loro equilibrio, sulla loro continua ricerca di armonia fra la loro essenza e madre natura che ci ha donato la vita.
Ma essere atei nella tollerante terra nordeuropea è un conto, altra faccenda lo è nell’ultima roccaforte della chiesa cattolica, l’organizzazione più astuta e spietata prodotta dalla specie umana, che – oltre ad aver imprigionato, torturato, bruciato vivi popoli interi – ha incatenato la mente degli uomini per manovrarli, dominarli, depredarli: la nostra povera disgraziatissima Italia, nazione la cui presenza del clero è alla base della corruzione morale che trasversalmente si spalma su tutta la società italiana.
La nostra autrice ci parla con la purezza delle sue idee, mettendo a nostra disposizione una visione dettagliata e generale di tutti i problemi che tratta visione rafforzata dai suoi studi di giurista, che rendono questo testo unico, profondo, a mio parere appassionante. Le tematiche potrebbero già incuriosire solo scorrendo parte del complesso e variegato indice (bibbia, crocifisso, divorzio, donne, famiglia, giustizia, homo sapiens, Islam, libertà di coscienza, mafia, origini, Rinascita Democratica, stato ateo, testamento biologico, unità d’Italia, etc. etc.) ma in realtà le materie trattate racchiudono un principio comune a tutte: far conoscere eventi che davamo per scontati ma che non avevamo mai veramente approfondito, particolari inediti, un grido d’allarme percependo in ogni pagina la motivazione di questo grido: accendere la favilla della speranza tenendo ben chiara una visione dello Stato imperniata su un sistema riconducibile essenzialmente ai diritti fondamentali dell’uomo.
Carla Corsetti non risparmia nulla e nessuno, né il modello comunista né quello neoliberista, entrambi responsabili della povertà di milioni di esseri umani. Né la FIAT (che non conosce la dignità umana) né la classe politica, che aggrava sempre più quella classe lavoratrice economicamente disagiata che per giunta l’ha appoggiata. Alla voce “Giustizia”, l’autrice offre una denunzia implacabile, spietata, così come richiede la gravissima situazione del nostro paese declamando che dopo aver distrutto la scuola, ora hanno distrutto la giustizia civile. E sull’Ordine dei Giornalisti, ci dice che sono pochissimi a farne parte, in quanto quasi tutti gli iscritti o sono politici di mestiere, oppure persone assoldate da bancari o industriali. Un trattamento di particolare durezza Carla Corsetti riserva a tutte le religioni, in special modo a quelle monoteiste, per il loro controllo della sessualità, soprattutto quella della donna per poter avere il controllo sull’intera comunità. E ricorda il proverbio africano: Se darai l’istruzione a un uomo formerai un individuo, se darai istruzione a una donna formerai una società.
Dopo aver paragonato la Lega Nord al Partito fascista per l’odio razziale che fa nutrire contro gli immigrati ci propone una riflessione ch’è anche un augurio, affinché contro l’abbrutimento della barbarie leghista sgorghi il germe del riscatto proprio nell’intelletto di quei ragazzi che non si faranno plagiare dalla follia razzista dei loro genitori: noi non abbiamo fretta e sapremo aspettarli dentro gli infiniti spazi della civiltà.
Ecco, questa frase offre al saggio sociologico-politico “A COME ATEA” una sensazione d’aria fresca, confermandoci che la nostra autrice si occupa di tutte le possibilità della natura umana. Carla Corsetti, inoltre, ci fa incontrare personaggi incredibili come Anna Maria Mozzoni, antesignana dell’emancipazione femminile che lottò affinché le donne potessero votare nel 1876, puntualizzando che esiste un universo femminile distante dal marciume imperante.
La condizione delle donne è un parametro imprescindibile per misurare il grado di civiltà di una Nazione ed è arrivato il tempo che anche gli uomini ne prendano atto.
Fra le pagine più terribili di questo libro-denuncia, ci sono quelle dedicate alla tessera 1816, che testimonia che Silvio Berlusconi faceva parte dal 1978 del programma eversivo “Rinascita Democratica”, promossa dalla loggia massonica P2 (Propaganda Due) capeggiata da Licio Gelli.
Poi la nostra autrice ci offre una dissertazione sullo “Stato Ateo”, premettendo che imporre l’ateismo è un crimine contro l’umanità, come pure imporre una religione è un crimine contro l’umanità (e riflettendo che spesso per “Stato ateo” il pensiero va immediatamente agli Stati comunisti che imposero l’ateismo con la violenza). Mentre gli Stati atei potranno differenziarsi tra dittatoriali e democratici, quelli teocratici saranno necessariamente dittatoriali non potendo contenere in sé il germe della libertà di pensiero, fonte, di per sé, di spinte democratiche.
È la tensione unitaria che tiene avvinto questo singolare glossario delle opinioni che rivela lo struggente balenio del cuore caldo dell’autrice, che fa pulsare la sua razionalità in modo così genuino, puro, che le fa studiare con attenzione il progetto della Commissione Europea EXREL (la cui finalità era quella di prevedere l’evoluzione delle religioni e di conoscere con quali meccanismi potranno evolversi nelle società future).
Carla Corsetti, ben conscia della responsabilità affidata a questo libro, pur sapendo che l’Italia non ha partecipato al progetto EXREL e che nessuno ne abbia parlato, leva la sua penna dalle ali di fiamma soprattutto contro le religioni – inesauribili moltiplicatori di povertà – e ci lascia col sostegno della sua nobile istanza affinché i governi più evoluti impediscano, nel futuro, che le nostre società possano degenerare nell’inciviltà dell’irrazionalità ritrovando quell’idea universale capace di unire il mondo.
Prefazione di Adriano Petta
Breve biografia di Carla Corsetti ,Avvocato, Segretario di Democrazia Atea
Carla Corsetti nasce a Roma nel 1962. Ha conseguito la maturità classica e si è laureata in Giurisprudenza. Ha accompagnato gli studi universitari con un assiduo tirocinio nello studio legale del padre. Esercita la professione di avvocato. E’ sposata e madre di due figli. Si è sempre occupata di politica ed ha ricoperto il ruolo di consigliere comunale nel 1993 in una lista civica di centro-sinistra. Nel 2009 ha fondato Democrazia Atea e attualmente ne è il Segretario nazionale. Si dichiara atea dalla nascita e ritiene che essere anticlericali sia un dovere morale.
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