Elisabetta BIEMMI -Lo sguardo di una donna nella Resistenza
Lo sguardo di una donna nella Resistenza: L’Agnese va a morire di Renata Viganò
Un titolo che anticipa l’esito di una vicenda straziante ma al contempo necessaria per cogliere un inedito sguardo sulla Resistenza.
Articolo di Elisabetta BIEMMI
Alcuni nomi di donne partigiane, come Renata Viganò, risuonano nella nostra mente come conosciuti, tra cui Nilde Iotti, la prima donna Presidente della Camera dei deputati, e Lidia Menapace, scomparsa lo scorso anno, oltre alla bresciana Agape Nulli e alla cuneese Margherita Mo. Tuttavia per molto tempo la storiografia ha taciuto il ruolo che molte donne ebbero durante la Resistenza, che è stata considerata per lo più un momento di lotta e di rivendicazione prettamente maschile. L’umiltà di molte donne nel dopoguerra non ha cancellato il ruolo essenziale che spesso molte di loro ebbero all’interno delle bande partigiane, come staffette, vere e proprie combattenti ed anche con ruoli importanti in ambiti istituzionali.
Molti nomi maschili, inoltre, si riscontrano sugli scaffali delle librerie e delle biblioteche rispetto al tema della Resistenza, tra cui Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Luigi Meneghello, Carlo Cassola, Cesare Pavese. Voci sicuramente autorevoli e stilisticamente incisive, che con le loro parole hanno saputo trasporre storie reali o fittizie, ma sicuramente importanti per rendere viva la memoria della Resistenza.
Renata Viganò-Romanzo L’Agnese va a morire
Un’altra voce che ha contribuito a quest’intento è sicuramente quella di Renata Viganò, che ha il merito di proporre al lettore la prospettiva di una donna, Agnese, negli anni drammatici tra il ’43 e il ’45. La stessa Viganò fu partigiana e partecipò come infermiera ma anche come staffetta e collaboratrice per la stampa clandestina. Già nel 1949 il romanzo L’Agnese va a morire fu pubblicato per Einaudi, ottenendo grande successo: oltre all’attribuzione del Premio Viareggio nello stesso anno, fu realizzata una trasposizione cinematografica, nel 1976, con la regia di Giuliano Montaldo.
Renata Viganò costruisce un personaggio sfaccettato e duplice, con una narrazione in prima persona che immerge maggiormente il lettore nell’animo di Agnese. È una donna pratica e pragmatica, che nonostante l’apparente durezza esteriore, dimostra inizialmente insicurezza nel rapportarsi con i compagni partigiani. Anche la sua partecipazione alla Resistenza non è immediata: è proprio dalle parole di Agnese che traspare un suo iniziale attutito interesse per le questioni politiche o di partito, che contrariamente riguardavano il marito. Da queste parole si riscontra la precedente distanza ma anche il momento di trasformazione, in particolare a seguito della cattura del marito da parte di un gruppo di soldati tedeschi:
«Vennero a trovarla tre uomini che abitavano a poca distanza dal paese […] – Voi certo sapete che Palita è del nostro partito. […] L’Agnese li guardava, uno dopo l’altro, e la sua grossa faccia esprimeva un timore attento, quasi uno sforzo di stare in ascolto per togliere da quelle parole l’eco della lontana voce di Palita. Rispose: – Mio marito ne parlava, ma erano cose di politica e di partito, cose da uomini. Io non ci badavo. So che ha sempre voluto male ai fascisti, e dopo anche ai tedeschi, e diceva che i comunisti ci avrebbero pensato loro per tutti, anche per i padroni che ci sfruttano, a fare piazza pulita -. Appena l’ombra di un sorriso passò nei suoi occhi: – Diceva proprio così: piazza pulita. I tre annuirono con forza, e il più giovane disse: – Per far questo, bisogna lavorare. Palita è un bravo compagno. Faceva molto per noi –. L’Agnese lo interruppe: – Se c’è qualcosa che posso fare io… – Arrossì, come se si fosse azzardata a dir troppo, e si strinse il fazzoletto sotto il mento: – Chissà se sarò buona, – aggiunse. Allora le spiegarono che cosa avrebbe dovuto fare, e lei diceva di sì, meravigliata che fossero cose tanto facili. Si vedeva che era contenta, che prendeva coraggio. Si attentò anche a suggerire qualche suo parere e i compagni l’approvarono […] – Se “loro” vi pescano, ci rimettete la pelle […] Palita deve ritrovarvi, quando ritornerà – […] – Io non mi farò prendere da “loro”, ma Palita non ritornerà –. […] Le lacrime le segnarono due righe sul viso largo ed immobile; se le asciugò con le punte del fazzoletto, indispettita di farsi vedere piangere»[1].
Elisabetta BIEMMI -Lo sguardo di una donna nella Resistenza
Attraverso lo sguardo di Agnese e la penna dell’autrice, con la sua capacità evocativa e con la scelta di pochi elementi descrittivi, è possibile avere una piccola sensazione dell’atmosfera cupa e straziante di quegli anni. Anche le Valli di Comacchio, in cui è ambientata la vicenda e che l’autrice conosce a fondo, partecipano a quest’atmosfera, diventando anch’esse l’ennesimo ostacolo con cui i partigiani devono confrontarsi:
«Fuori era un freddo terribile. Il sole gelido cadeva sulla neve dura come la pietra. La tramontana precipitava a tratti, scuotendo la nuda immobilità della campagna, il cielo curvo e vuoto. Clinto arrivò al canale, proseguì lungo l’argine. […] Guardava lontano, con i suoi occhi avvezzi ai colori della valle, e, proprio dai colori, a conoscerne i segreti. Presso la riva l’acqua era torbida, grigia, si muoveva col vento, ma al largo appariva lucida e ferma, con un riflesso quasi azzurro: senza nebbia, una trasparenza di vetro spesso, un pauroso senso di continuità, di saldezza, di peso. Clinto sapeva che cosa era, l’aveva visto tante volte: l’acqua di tutta la valle non era più acqua ma ghiaccio»[2].
La durezza della quotidianità è ovviamente determinata dalla presenza dei fascisti, vili e che «spadroneggiavano con prepotenza, cogliendo l’occasione di vendicarsi di vecchi rancori e di umiliazioni recenti»[3], e dei soldati tedeschi, la cui altrettanta meschinità porta la protagonista a compiere un gesto estremo, violento e sulla cui descrizione l’autrice non indugia ma piuttosto rivela come la sua repentinità fosse determinata quasi da uno strazio interiore:
«Era stata un’azione che le somigliava tanto poco, che era venuta dal di fuori, come il comando di un estraneo. Adesso se la trascinava dietro come un peso, un fagotto scuro, e aveva voglia di svolgerla, di rivederla, ma non ne era capace»[4].
Tra le ultime pagine del romanzo, emergono con forza le parole di Agnese, che con la sapienza e la consapevolezza dei partigiani, testimoni di quegli anni fondamentali, enuncia queste parole, che in alcuni punti appaiono innocenti e portatrici di quell’illusione che la fine di un conflitto porta sempre con sé: l’impossibilità che possano accadere nuovamente uguali atrocità
«Io sono vecchia e non ho più nessuno. Ma voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerra. E a quelli che hanno avuto paura, e si sono rifugiati, e si sono nascosti, potrete sempre dirla la vostra parola; e sarà bello anche per me»[5].
[1] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 23
[2] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 174.
[3] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 40
[4] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 55
[5] Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014, p. 229.
Immagine di copertina: Al centro: Renata Viganò, L’Agnese va a morire, Einaudi, 2014. Partendo dall’alto, da sinistra a destra: Lidia Menapace, Margherita Mo detta Meghi, Carla Capponi, Nilde Iotti, Irma Bandiera, Gina Galeotti Bianchi, Agape Nulli Quilleri.
Viviamo d’un fremito d’aria,
d’un filo di luce,
dei più vaghi e fuggevoli
moti del tempo,
di albe furtive,
di amori nascenti,
di sguardi inattesi.
E per esprimere quel che sentiamo
c’è una parola sola:
disperazione.
Dolce, infinita, profonda parola.
Vaga e triste è degli uomini la sorte:
degli uomini che passano
con non maggior fragore d’una foglia
che si tramuta in terra.
Precario stato il loro.
La morte è uno sciogliersi,
non un finire,
e senza tempo, senza memoria
il terrestre viaggio.
Il sole è stanco di contemplare
una tanto monotona vicenda.
Così parlava un monaco
neghittoso e bizzarro,
là, nell’antico Oriente:
piccolo uomo assediato
da immani fantasmi.
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che, esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
Il bosco di primavera
ha un’anima, una voce.
È il canto del cuccù,
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dietro il richiamo lieve,
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi.
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriadi.
L’autunno romano tempesta
con furia senile.
E’ Giove che si cruccia
di non poter risplendere
in tutta la sua gloria,
dio irragionevole e antico.
E tuona con fragore
di mobili in isgombero,
lampeggia con improvvise
accensioni di lampadina,
rinnovando in autunno i suoi capricci
primaverili,
e gli alberi si illudono
di rinverdire.
Nume violento e spossato
che, al dolce tempo restio,
poi che passò l’estate
nel caos ci precipita,
per farci rivedere la sua faccia,
di là da questo diluvio,
insostenibilmente luminosa.
Io pago tutto.
Non c’è peccato
ch’io non abbia finora
debitamente scontato.
Ho un organismo vitale
che vuole, contrariamente
al Diavolo di Goethe,
vuole il Bene e fa il Male.
Pensate quale puntualità
e che liste di conti da saldare.
Ai messi del Signore
l’uscio della mia casa è sempre aperto.
E spesso delle loro intimazioni,
prevenendole,
io stesso senz’attenderli
mi faccio esecutore.
Sì che quand’essi giungono
ritto sull’uscio li fermo
e li rimando dicendo:
Amici, sono anch’io
cursore e complice di Dio.
Che dunque venite a fare
se il debito è già pagato ?
Forse è perciò che una donna cattiva
suole dire celiando
ch’io sono un santo e innanzi di morire
farò miracoli.
Talvolta infatti io mi vedo come uno
di quei poveri santi
che sulle tele delle sacrestie
stanno in adorazione della Vergine,
inutilmente aspettando
un suo sguardo.
Ma vi dico, in verità,
che volentieri darei, se pur l’avessi,
una tanto gloriosa vocazione
per un poco d’allegra umanità.
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale.
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
Che cosa mi colpisce oramai!
Un velo d’ombra di mare
sui monti lontani,
un lembo di nuvola tutelare.
Ma basta levare la testa.
Le cose non stanno che a ricordare.
Piano piano i minuti vissuti,
fedelmente li ritroveremo.
Coraggio, guardiamo.
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei così m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
più e più insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, più per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
Quel fatale e prescritto momento
che ci diremo addio
è già in ogni distacco
del tuo volto dal mio.
Cosa lieve è il tuo corpo!
Basta che io l’abbandoni per sentirti
crudelmente lontana.
Il più corto saluto è fra noi due
un commiato finale.
Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo
così, senza speranza.
Se tu sapessi com’è già remoto
il ricordo dei baci
che poco fa mi davi,
di quel caro abbandono,
di quel folle tuo amore ov’io non mordo
che sapore di morte.
La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
che uno sterile avvicendarsi
di rovinose abitudini
e vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire.
E sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Oimè. Tutto il mio chiuso
e cocente rimorso
altro sfogo non ha
fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
per possedere i giorni
che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.
Al bar della stazione ci fermiamo tutti per un caffè. Se viaggiando nel tempo fino, ci fossimo fermati alla stazione di Corneto Tarquinia, negli ultimi anni dell’Ottocento, avremmo scambiato due chiacchiere con un certo Antonio Romagnoli. Magari ci avrebbe dato qualche informazione sugli orari dei treni; magari avremmo scambiato qualche chiacchiera in modo distratto, sul governo o sul tempo.
Intanto avremmo visto un bambino giocare da qualche parte e quel bambino è il figlio illegittimo di Antonio Romagnoli e di Giovanna Caldarelli. E quel bambino, di nome Nazareno, nato sfortunato per via di una menomazione al braccio sinistro, nato già solo in un mondo che sembra non avere troppo posto per lui, quel bambino è un poeta, uno di quelli bravi davvero.
Cambierà nome e sarà Vincenzo Cardarelli il poeta che più di tutti ha cantato l’incanto dell’amore, della giovinezza, dell’adolescenza e come il tempo possa travolgerci.
La vita di Vincenzo Cardarelli
Vincenzo Cardarelli (nato Nazareno Caldarelli) nasce nel 1887 in una famiglia di umili condizioni, a Corneto Tarquinia (Viterbo) dove un tempo splendeva la civiltà etrusca: il padre gestisce il bar della stazione ferroviaria e ha una relazione con Giovanna Caldarelli, che ne resta incinta.
Nazareno è un figlio illegittimo e per la madre è difficile riuscire a tirarlo su. Dopo le scuole elementari, lascia gli studi e a diciassette anni si trasferisce a Roma trovandosi a fare i mestieri più vari, ad esempio il correttore di bozze per il giornale l’«Avanti». Era il primo contatto con il mestiere di giornalista che avrebbe iniziato proprio con quel giornale.
La rivista letteraria La Ronda
La sua carriera giornalistica fu intensa in quegli anni e furono molte le collaborazioni di Cardarelli con altri giornali come «Il Marzocco», «Il Resto del Carlino», ecc.
Non partecipò alla prima guerra mondiale poiché riformato e passò invece di città in città (Firenze Venezia, Milano, Lugano…) per poi tornare a Roma dove fu tra i fondatori e direttori della rivista letteraria «La Ronda», di cui fu anche il maggiore esponente e teorico.
La morte
Fu il momento di massima gloria per il poeta, perché poi, nonostante altre importanti collaborazioni, finì mano a mano sempre più isolato e lontano dai riflettori.
Morì in solitudine a Roma nel 1959. È sepolto a Tarquinia, per sua volontà, davanti ai luoghi della civiltà etrusca da lui tanto amata e più volte evocata poeticamente.
VINCENZO CARDARELLI
L’esperienza de «La Ronda» per un ritorno all’ordine
Parlare di Cardarelli richiede una doverosa premessa sulla rivista «La Ronda» e sugli ideali letterari da essa proposti. Dopo gli squilibri e le esagerazioni del Futurismo, dopo la febbre di cambiamento sfociata nella grande guerra, ecco che si avverte l’esigenza di tornare all’ordine e all’armonia.
Roma si candida a nuovo centro della letteratura italiana, scalzando idealmente Firenze (dove erano state fondate le riviste la «Voce» e «Lacerba»).
La rivista «La Ronda», uscita per la prima volta nell’aprile del 1919, con la sua bella copertina color mattone e il disegno di un tamburino che chiama a raccolta, si impone di ritrovare l’ordine perduto e recuperare la misura e l’equilibrio del mondo classico, perseguendo una ricerca stilistica capace di rispecchiare sia l’eleganza e la concretezza della forma, sia la profondità intellettuale.
Antonio Baldini (1889-1962), scrittore, giornalista e saggista italiano, co-fondatore della rivista ‘La Ronda’. Roma, 1950 circa — Fonte: getty-images
Soprannomi dei fondatori
Sono sette i redattori e co-fondatori della «Ronda»: Riccardo Bacchelli (1891-1985), Antonio Baldini (1889-1962), Bruno Barilli (1880-1952), Vincenzo Cardarelli (1887-1959), Emilio Cecchi (1884-1966), Lorenzo Montano (alias Danilo Lebrecht, 1880-1952) e Aurelio Emilio Saffi, segretario di redazione.
I fondatori si chiamano anche «i sette savi» o «i sette nemici» e ciascuno ha un soprannome ironico. Antonio Baldini è Margutte, il celebre goliardo mezzo-gigante che troviamo nel Morgante di Luigi Pulci; Vincenzo Cardarelli detto “pubblicista”, Emilio Cecchi “esquire” (lo scudiero, perché deve difendere i poeti con la sua esperienza nella critica letteraria), Riccardo Bacchelli è “possidente”, Antonio Baldini è “baccelliere in lettere”, Lorenzo Montano è “industriale”, “Bruno Barilli è “compositore”, Aurelio Emilio Saffi è “docente nelle scuole governative”.
Gli obiettivi de La Ronda
Questa rivista non ambisce a creare un’opinione politica, ma vuole solo occuparsi di letteratura. Troppo fresco è il ricordo degli intellettuali interventisti come Pascoli e D’Annunzio o il bellicismo dei poeti futuristi come Marinetti.
Quali sono allora gli obiettivi? Riassumiamo:
Culto dei classici
Gusto aristocratico della letteratura
Ricerca del decoro espressivo
Ordine e misura.
«La Ronda» difende anche l’idea della cosiddetta prosa d’arte e il cosiddetto «capitolo», una prosa descrittiva che punta a creare un frammento compiuto (che è un ossimoro) capace di esprimere controllo e piena chiarezza del dettato.
Queste due forme poetiche rappresentano un’evoluzione particolare della prosa lirica. I modelli letterari di riferimento della prosa «rondista» sono:
Questi sono dei modelli di riferimento, ma i rondisti non sono chiusi in sé stessi, avulsi da quanto è accaduto o sta accadendo nella letteratura europea. La fine della «Ronda» è nel 1922.
Ordine, armonia e disciplina sono diventate parole di propaganda del regime fascista e questo creerebbe una sovrapposizione inammissibile. Si chiude così la sua stagione, in un dignitoso e duro silenzio.
La poetica di Cardarelli
Versi discorsivi
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli
Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasione
La soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morte
Si legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del vagabondaggio
Il tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
C’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»
Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Abbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
Cardarelli innamorato
L’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Compito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
L’addio
Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
E qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
Nostalgia e rimpianto
Nascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Con una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
VINCENZO CARDARELLI
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Amore e solitudine
“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
L’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
Novita Amadei- Da solo -Neri Pozza –Articolo di Paola Schellenbaum-
L’intenso ultimo romanzo di Novita Amadei-Pochi giorni fa, il 24 febbraio, i media hanno ricordato l’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina. Sono già passati tre anni e la situazione è in stallo. Ogni tentativo di fare progressi verso una pace giusta e duratura si arenano, come accade nelle guerre ibride, dove si utilizzano le armi insieme a disinformazione, fake news, cyberattacchi, in un clima di sospetto e di allarme continuo che impediscono fiducia e collaborazione. Se il 24 febbraio 2022 è considerato dagli ucraini un aggravamento di un conflitto, che si era già manifestato in altre forme dal 2014, non si può che concordare con il tentativo di riaffermare il ripristino del diritto internazionale e il rispetto delle regole nei negoziati, pena la disintegrazione di ciò che era stato pazientemente creato all’indomani della Seconda guerra mondiale in Europa, cioè il valore della collaborazione comunitaria e delle diversità riconciliate.
Novita Amadei
Novita Amadei- Da solo -Neri Pozza –
Novita Amadei
Che senso ha dunque riflettere su empatia e compassione, in tempo di guerra?
Il nuovo romanzo di Novita Amadei, Da solo (Neri Pozza 2025) affronta il tema, raccontando la vicenda di un bambino costretto dalla madre a mettersi in salvo da solo, salendo su un treno per Bratislava nella affollatissima stazione di Zaporizzja. Jarek ha solo 10 anni, la destinazione è scritta a penna sulla mano, nello zainetto ci sono le pagelle perché è bravo in matematica, e nella mente ha tanti giochi di immaginazione. L’Autrice, che da molti anni opera in progetti con migranti e rifugiati, ne ha ricostruito la vicenda seguendo un doppio registro: quello del romanzo inventato a cui si aggiunge un breve reportage in cui la scrittrice va in cerca dei suoi interlocutori per ascoltare quali significati e quali sacrifici hanno comportato le scelte, pur di sopravvivere. Nel rispetto della verità finzionale e di quella reale che si intrecciano, diventando risorsa una per l’altra, in un gioco di immaginazione che coinvolge lettori e lettrici. È il coraggio di una donna che è anche madre e figlia, è il coraggio di un bambino che è costretto a crescere in fretta.
L’Autrice ha sviluppato il suo talento a partire da un gruppo di ricerca che nel 2003-2006 all’OIM-Organizzazione internazionale delle migrazioni di Roma inventò l’approccio etno-sistemico-narrativo nella formazione per terapeuti transculturali e operatori psicosociali. È lì che la incontrai per la prima volta. Da allora siamo diventate amiche e siamo rimaste in contatto, nonostante le distanze geografiche, gioendo insieme per l’uscita di ogni suo nuovo libro (ricordo a Pralibro ma anche a Pinerolo le presentazioni di Dentro c’è una strada per Parigi e di Finché notte non sia più, sempre per Neri Pozza).
Da solo si legge d’un fiato per la scorrevolezza del flusso narrativo che alterna i punti di vista dei diversi personaggi coinvolti nella vicenda drammatica. È una fiaba onirica e trasformativa – una storia di guarigione – per lo stile di scrittura ma anche per la capacità dell’Autrice di chinarsi su ogni personaggio empaticamente e intersoggettivamente, al fine di raccontare quel dialogo reale e immaginario che sempre accompagna le situazioni difficili, nelle microsituazioni quotidiane. A dimostrazione di come il conflitto si sia insinuato nella società, la storia comincia con il gioco della guerra con cui i bambini si intrattengono prima che essa sia scoppiata per davvero, quando ancora un adulto può intervenire per fermarne l’insensatezza. Dopo, è troppo tardi e occorre solo affrontare l’emergenza con tutti i limiti e le difficoltà ma – talvolta – anche con le risorse positive che emergono inaspettatamente, nelle situazioni disperate, attraverso le relazioni con chi è diverso o con chi non si conosce. Come avviene nel lungo viaggio in treno per il piccolo Jarek.
In televisione la guerra in Ucraina sembra solo un gioco di cattivo gusto per questioni territoriali, mentre nel Paese la popolazione civile sperimenta condizioni di vita difficilissime, c’è la paura dello stress post-traumatico nelle famiglie, si contrasta la diffidenza che si insinua per le atrocità subite, si tenta di arginare la disperazione – sperando contro speranza – in un futuro che si allontana sempre più, con un tessuto comunitario da ricostruire, relazioni umane da salvaguardare, una nuova generazione da proteggere, di qua e al di là dei confini. Ci sono da ricostruire case, scuole, ospedali, biblioteche, teatri, cinema, centri sociali, e invece siamo fermi ai giochi geopolitici, alla volontà di dominio e al bullismo di leader che continuano a ritardare il momento in cui tutto potrà ricominciare.Articolo di Paola Schellenbaum
Fonte- Riforma.it-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Novita Amadei
Breve Biografia di Novita Amadeiè nata a Parma e vive in Francia. Lavora come consulente nel campo dell’asilo politico e delle migrazioni internazionali, e anche la sua attività da giornalista pubblicista è relativa a questi temi. Dentro c’è una strada per Parigi (Neri Pozza 2014), il suo romanzo d’esordio, è stato finalista alla prima edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza e anche ai premi Bottari Lattes Grinzane e Corrado Alvaro e ha vinto il XXVIII Premio Massarosa. Sempre presso Neri Pozza sono usciti i romanzi Finché notte non sia più (2016) e Il cuore è una selva (2020), le raccolte di racconti Ragazze di Parigi (2018) e Operazione umanitaria (2019), oltre a un contributo nell’antologia L’allegra brigata (2020).
Stefano Garzaro – “Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza “
Per un nuovo 25 aprile- Articolo di Gian Mario Gillo-Il libro Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza di Stefano Garzaro (edito da Piemme) è stato recentemente presentato nei locali della libreria Claudiana di Torino. L’ultima fatica editoriale dell’autore, professionista nel campo dell’editoria scolastica e saggista, è un antidoto alla riscrittura della storia. Ripercorre la tragedia delle ultime due guerre mondiali e si sofferma in particolar modo sulla Seconda, preceduta dal Ventennio fascista che aveva attuato in Italia persecuzioni contro gli oppositori con la promulgazione di leggi “fascistissime”, antiebraiche e razziali, razziste; racconta poi la lotta per giungere alla Liberazione.
Stefano Garzaro – “Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza “
Le circa duecento pagine sono anche un omaggio ai tanti martiri della giustizia e della libertà; soprattutto partigiani e partigiane, come ben ricorda nella prefazione la segretaria nazionale dell’Anpi, Michela Cella.
Il libro risponde a domande dirimenti: perché si festeggia il 25 aprile? Che cosa è stata la Resistenza? Chi furono e come operarono i partigiani? Perché l’Italia fascista decise di entrare in guerra? Soprattutto, consegna al lettore tante storie, alcune delle quali inedite. I nomi citati sono un mosaico narrativo dal quale emergono figure importanti legate all’antifascismo.
Dall’opposizione del torinese Gobetti (morto in Francia per le botte prese in Italia) si passa a quella di Giacomo Matteotti (di cui lo scorso anno ricorreva il centenario della morte), un uomo capace di essere la sintesi di qualità diverse in una persona sola: politico, intellettuale, pubblicista antiregime: per questo ucciso dai fascisti nel giugno 1924.
Cita Willy Jervis, il “traghettatore” di perseguitati su irti sentieri di montagna, che, ricercato nella zona di Ivrea, trovò rifugio in val Pellice, dove proseguì l’attività della Resistenza. Il volume ricorda anche aneddoti come quello di Sandro Pertini che, quand’era presidente della Camera dei deputati, non volle ricevere il fascista che lo teneva recluso in confino a Ventotene, all’epoca questore di Milano.
Garzaro racconta anche le tragedie belliche, sociali e antropologiche più dolorose: le stragi naziste contro i civili, come quella di Sant’Anna di Stazzema, e altre, dimenticate dalla storia; entra nell’abisso umano della Shoah, ricorda le deportazioni di politici e di dissidenti, e di coloro che erano considerati diversi.
Il libro è un omaggio al grande valore civile e umano di tante persone. Garzaro ricorda ad esempio Nunziatina, la staffetta partigiana «che visse due volte» perché sopravvissuta alla fucilazione (seppur fucilata), e ancora i due bambini napoletani, che persero la vita per liberare – impugnando le armi – la loro città.
Uno scrigno prezioso di pagine che dona nuova vita a coloro che la persero, proprio per difendere quella che oggi è la nostra libertà. Elenca nomi, fatti, storie che rischierebbero di perdersi. Partigiano della memoria, l’autore, ci regala questo piccolo manuale da leggere tutto d’un fiato come esercizio democratico in vista del prossimo 25 Aprile.
* S. Garzaro, Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza. Milano, Piemme, 2022, pp. 192, euro 14,50.
Fonte- Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi in Italia.
Poesie di Giampiero Neri- Grande solitario della Poesia italiana-
Giampiero Neri – Poeta e critico letterario e all’unanimità considerato uno dei maggiori poeti del Secondo Novecento Italiano nonché il più in ombra dei grandi maestri, come lo definì Andrea Cortellessa.
1. L’aspetto occidentale del vestito
A Giancarlo Majorino
Corso Donati, il metrò
scava diverse gallerie ai giardini
radici che non dissero inutilmente
le ossa di qualche romano in provincia
e una valigia di fibra
la ferrovia della stazione Nord,
ora non ricordo tutti i particolari
un tempo passato corre via dietro gli alberi.
Giampiero Neri
*
2.
La Pavonia maggiore o Saturnia
la farfalla Atropo ed altre specie notturne
sono un notevole esempio di mimetismo.
Si adattano in parte all’ambiente
per il colore più scuro e intenso
grigio bruno sulle ali
ma anche per i continui segni
che vi ricorrono in forma di cerchi
e nel modo uguali.
All’origine di questi ornamenti
si incontra una simmetria,
uno schema fissato in anticipo
muove insieme chi cerca
e chi ha interesse a non farsi riconoscere,
una corrispondenza alla fine.
*
3.
Il cattivo tempo è alle porte e consiglia la prudenza, come comanda nostra madre Chiesa.
In concreto il temporale minacciò di far volare un numero straordinario di carte.
Risultava sempre più difficile incontrare il professore, costantemente impegnato nella correzione di qualche compito.
E avendolo visto per caso:
“Il dottor Livingstone, suppongo” disse, mentre gli tendeva la mano attraversando vasti deserti di tavolini rossi e sedie impagliate.
*
4.
L’osservatore si orienta su alcuni particolari. Il colore delle foglie o la presenza di effimere sulle rive dei torrenti. Strani insetti che hanno breve vita, come dice il nome.
Verso il centro della riserva sta il falco rosso, cacciatore notturno. Durante il giorno è nascosto, ma qualche volta attraversa una valletta o una radura, molestato dai passeri.da: Liceo
5.
Villa Nena
La facciata era sicuramente liberty.
Come onde apparivano i balconi
verso il lago,
in parte nascosti dagli alberi.
Nella casa che è stata abbandonata
cigola la porta non chiusa,
della vecchia proprietà
non si hanno notizie da tempo.
E’ rimasto nel quadro alla parete
un documento del ’43,
un attestato che la signora è cittadina straniera
sotto la protezione del Consolato.
*
6
Due tempi
La civetta è un uccello pericoloso di notte
quando appare sul suo terreno
come un attore sulla scena
ha smesso la sua parte di zimbello.
Con una strana voce
fa udire il suo richiamo,
vola nell’aria notturna.
Allora tace chi si prendeva gioco,
si nasconde dietro un riparo di foglie.
Ma è breve il seguito degli atti,
il teatro naturale si allontana.
All’apparire del giorno
la civetta ritorna al suo nido,
al suo dimesso destino.
*
7
Pesce d’acqua dolce
Lavarello è il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago. Ha la testa piccola, come di chi deve pensare poco. Ma per la forma si adatta alla profondità. Il colore è bianco argento. Sta nei confini dell’acqua scura, fredda e si suppone pigro e pacifico.
Sul banco del pescivendolo si vede qualche volta, il corpo coronato dal rosso vivo delle branchie.
*
8
Capitolo ottavo, VII
Lo scrittore di provincia soffriva d’insonnia. Si dedicava a ricerche di interesse storico ma non aveva abbandonato i vecchi progetti letterari.
Stava leggendo il finale del capitolo ottavo “anche tu valoroso Casca, le tue lucertole sul muro”.
*
9
Delle misure, dei pesi, III
Del declinante mondo di Maria Signaroli
che abitava da noi in campagna
non si poteva domandare.
Oscillava fra le finestre della stanza,
qualche volta in giardino,
finché cadde sul pavimento.
Era una mattina se ricordo bene,
l’anno il ’32 o il ’33.
*
Giampiero Neri
10
Sovrapposizioni, I
Piegando indietro la testa, l’ospite imitò il verso di un gufo.
Una nota breve, simile a un abbaiare, a un colpo di tosse.
Aveva una barba rada, gli occhi grandi, giallastri.
*
11
IV
Del gufo reale o Sminteo, distruttore di topi, si può dire che è raro. Vive nei boschi abbandonati ma
imbattersi nel suo sguardo severo, nelle sue penne arruffate, può turbare.
Del suono kiok, kiok, del verso teck, teck.
Procedono dalla forma originaria, senza mutamenti. Segnali di un mondo scomparso.
Qualche volta si sente nella notte un richiamo stridulo, una voce alterata.
da : Dallo stesso luogo
13
Dallo stesso luogo alla memoria di Edoardo Persico
(Napoli 1900 – Milano 1936)
Come l’acqua del fiume si muove
contro corrente vicino alla riva
si disperde dentro fili d’erba
lontana dal suo centro
la memoria fa un cammino a ritroso
dove una materia incerta
torna con molti frammenti.
*
14
Dove il fitto bosco
scendeva con avvallamento profondo
verso un luogo nascosto
a un tratto gigantesco,
appariva mutato l’aspetto degli alberi
in quel punto
prendeva nome di orrido
.
*
15
Quella strana colonia
di rari villeggianti
era dispersa.
Dei loro campi di tennis
e vani conversari
era rimasto un eco di saluti notturni
di biciclette che si allontanavano
.
*
16
Viaggi I
Era una trappola per talpe
che aveva progettato, una tagliola
per la loro sortita allo scoperto
e del fumo insufflato nei cunicoli.
Ma era passato il tempo
si svolgeva un diverso avvenimento
anche noi diventati talpe
per il variare delle circostanze
*
da: Altri viaggi
17
Segnali
Dei vari colori
pericoloso è il giallo
accompagnato al nero
nella forma dell’ape
e di altre specie più rare,
e la diversità dei grigi
dei bianchi specialmente.
*
18
si era fermato e lasciato cadere la bicicletta
sulla strada, l’amico di mio padre
“se tutto doveva finire…” mi aveva detto abbracciandomi,
era stato il commento.
*
19
Variazione
Si nasconde il gufo sul ramo
durante il giorno,
si adatta a una diversa parte
nel suo breve travestimento.
Ma col variare della luce
abbandona la sua muta inoffensiva,
nella sua forma e figura
si presenta al rituale appuntamento.
*
20
Figura
In quella parte del campo
vicino al deposito di legna
si era levata una figura indistinta,
come una macchia più scura
nel buio della sera,
sembrava un cane che volava sopra i tetti.
*
21
Tracce
Presa fra i sassi dove si nasconde
la lumaca fa udire un breve suono
unico segno manifesto
della sua muta esistenza.
Del suo andare solitario
si vede qualche volta una traccia,
come una scia luccicante nell’erba.
Giampiero Neri
Biografia di Giampiero Nerinato a Erba (Como) nel 1927. è morto il 15 febbraio a Milano, dove ha vissuto dal 1950 – Poeta e critico letterario e all’unanimità considerato uno dei maggiori poeti del Secondo Novecento Italiano nonché il più in ombra dei grandi maestri, come lo definì Andrea Cortellessa. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: L’aspetto occidentale del vestito (Parma, Guanda, 1976), Liceo (ibid., 1986) e Dallo stesso luogo (Milano, Coliseum, 1992) confluite successivamente in Teatro naturale (Milano, Mondadori, 1988); Erbario con figure (Como, LietoColle, 2000) e Finale (Olgiate Comasco, Dialogolibri, 2002) sono invece parte di Armi e mestieri (Milano, Mondadori, 2004) cui seguono Paesaggi inospiti (Ibid., 2009). Molti gli studi sulla sua poesia ed i volumi pubblicati tra i quali si ricordano Giampiero Neri. Poesie e immagini, regia di Vincenzo Pezzella (Milano, Viennepierre, 2005), Giampiero Neri. Il poeta architettonico, a cura di Pietro Berra (Olgiate Comasco, Dialogolibri, 2005) Giampiero Neri. Il mestiere del poeta, a cura di Massimiliano Martolini (Ancona, Cattedrale, 2009), la traduzione apparsa negli Stati Uniti Natural Theater: Selected Poems, 1976-2009, introduzione e a cura di Victoria Surliuga, traduzioni di Ron Banerjee (New York, Chelsea Editions, 2010) e l’eccellente Giampiero Neri un maestro in ombra, a cura di Alessandro Rivali (Milano, Jaca Book, 2013). L’ultima raccolta di poesia pubblicata da Giampiero Neri è Il professor Fumagalli ed altre figure (Milano, Mondadori, 2012) ed è il volume che segna il distacco del poeta dalla poesia in favore delle prose brevi. Le brevi prose qui proposte sono una anticipazione del nuovo libro.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista, activista y defensora de los Derechos Humanos, Alaíde Foppa escribió desde su propia vida con la contundencia de quien quiere transformar con la palabra. Gabriella Borrelli analiza la poesía de esta escritora desaparecida durante la dictadura guatemalteca de Romeo Lucas García. Ilustra Aymará Mont.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Hay vidas que son como un grito. Un grito que permanece en el aire por décadas, no ensordecedor sino potente para sonar bien lejos. Esa necesidad de alzar la voz para atravesar continentes es una de las características de la poesía, la obra y la vida de Alaíde Foppa. Española de nacimiento, guatemalteca por decisión política y amorosa, pasó su infancia en Argentina y se formó en Italia. Poeta, crítica de arte, traductora, activista por los derechos humanos y catedrática universitaria, fundó un periódico fundamental para la historia del feminismo latinoamericano: FEM.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por los pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
–no corteza vacía–
una imagen que brilla en el espejo
–no sombra que se esfuma–
y una voz clara
–no pesado silencio–
alguna vez escuchada.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
La vida de Alaíde Foppa estuvo signada por el movimiento político de Latinoamérica. Lo personal y lo político borran sus límites (im)precisos cuando la militancia política se hace de los días y de la vida. Tres de sus cinco hijos pertenecían al Ejército Guerrillero de los Pobres, lo que a dos de ellos les costó la vida.
Cinco hijos tengo,
cinco caminos abiertos,
cinco juventudes,
cinco florecimientos.
Y aunque lleve el dolor
de cinco heridas
y la amenaza
de cinco muertes,
crece mi vida
todos los días.
Alaíde permanece aún desaparecida desde que en 1980 un grupo de inteligencia guatemalteca conocido como G-2 la secuestró una mañana en el centro de Ciudad de Guatemala.
Anatomía no es destino (1976):
Durante milenios la mujer ha sido considerada en función de su cuerpo y de su sexo: el parto, la crianza, la «satisfacción» sexual que puede dar al hombre, su intrínseca impureza determinada por las hemorragias, su efímera belleza, su condición de ser inútil y agotado cuando ya no es fecunda. Aún los llamados trabajos «femeninos», dependen sobre todo del cuerpo, pues son en su mayoría tareas «manuales». La mujer, por su parte, aceptó el papel que se le asignaba y, consciente de que su cuerpo era lo único importante que poseía, no pudo menos que dedicarle toda su atención, si deseaba valorar sus atributos; estuvo por lo tanto, casi siempre dispuesta a ser de uno u otro modo «objeto sexual». Hoy las cosas han cambiado, ya no se discute, por ejemplo, si la mujer tiene o no alma, como sucedió todavía en los primeros siglos del cristianismo oficial, y muchas mujeres desempeñan tareas que no son precisamente inútiles. Sin embargo, los estereotipos persisten y en una forma implícita se les sigue regateando a las mujeres el derecho –y el deber– de ser algo más que un cuerpo.
La idea de una poesía de combate, de verso corto y directo que la acompañara en su militancia se vuelve palabra. La presencia del romancero en algunos poemas atraviesa un castellano hecho del exilio, una lengua que puede dar cuenta del sueño latinoamericano de la revolución y también lanzar una línea histórica hacia los movimientos de mujeres revolucionarias.
«Mujer»
Un ser que aún no acaba de ser,
No la remota rosa angelical,
que los poetas cantaron.
No la maldita bruja que los inquisidores quemaron.
No la temida y deseada prostituta.
No la madre bendita.
No la marchita y burlada solterona.
No la obligada a ser buena.
No la obligada a ser mala.
No la que vive porque la dejan vivir.
No la que debe siempre decir que sí.
Un Ser que trata de saber quién es
Y que empieza a existir.
Alaíde nació en Barcelona en diciembre de 1914 y publicó: Poesías (1945), La sin ventura (1955), Los dedos de mi mano (1960), Aunque es de noche (1962), Guirnalda de primavera (1965), Elogio de mi cuerpo (1970) y Las palabras y el tiempo (1979).
«Un día»
Este cielo nublado
de tempestad oculta
y lluvia presentida
me pesa;
este aire denso y quieto,
que ni siquiera mueve
la hoja leve
del jazmín florecido,
me ahoga;
esta espera
de algo que no llega
me cansa.
Quisiera estar lejos,
donde nadie
me conociera:
nueva
como la yerba fresca,
ligera,
sin el peso
de los días muertos
y libre
ir por caminos ignorados
hacia un cielo abierto.
Elogio de mi cuerpo puede leerse como manifiesto poético y estético de un feminismo activo conectado con las luchas de liberación latinoamericanas sin perder la búsqueda poética. Un corazón como puño en alto, una dulzura potente, una vida que vuelve.
«El corazón»
Dicen que es del tamaño
de mi puño cerrado.
Pequeño, entonces,
pero basta
para poner en marcha
todo esto.
Es un obrero
que trabaja bien,
aunque anhele el descanso,
y es un prisionero
que espera vagamente
escaparse.
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
BIOGRAFÍA
Alaíde Foppa nació en Barcelona, el 3 de diciembre de 1914, su padre era un periodista liberal argentino y su madre, Julia Falla, guatemalteca, provenía de una familia de ricos hacendados. Vivió en Argentina e Italia, donde cursó sus estudios de secundaria. Cursó el bachillerato en Bélgica, y la universidad en Roma, en el Departamento de Letras y de Historia del Arte. En 1943 llegó a Guatemala, y en 1944 asumió la nacionalidad guatemalteca. Colaboró activamente en la revolución, se casó con Alfonso Solorzano con quien vivió un primer exilio en México, fue docente de la Facultad de Filosofía y Letras de la Universidad Nacional Autónoma de México en la que ejerció la cátedra de literatura italiana y de sociología. Se trasladaron a París cuando su marido fue nombrado cónsul en la capital francesa. En 1950 regresó a Guatemala junto con su familia, pero cuatro años después tuvieron que salir nuevamente al exilio tras el derrocamiento del gobierno del coronel Jacobo Árbenz Guzmán en junio de 1954.
Durante la década de los años setenta algunos de sus hijos se involucraron con la guerrilla guatemalteca, específicamente con el Ejército Guerrillero de los Pobres (EGP). En 1980 su hijo Juan Pablo, murió en Nebaj, su esposo murió atropellado en la Avenida Insurgentes de la ciudad de México.
En 1980, viajó a Guatemala a renovar su pasaporte guatemalteco vencido y el 19 de diciembre fue secuestrada en pleno día, se asumió que fue el gobierno del general Fernando Romeo Lucas García el que ordenó la desaparición y más tarde el asesinato de Alaíde Foppa, pero no pudo comprobarse. En 1999, su hijo mayor, Julio, residente en México, realizó una campaña internacional, para tratar de encontrar sus restos y a los culpables de su muerte.
Foppa fue pionera en el feminismo, en 1976 fundó la revista Fem, la primera revista semanal feminista de México. Colaboró también en el Foro de la Mujer, programa radiofónico transmitido por Radio Universidad en México durante varios años y se integró activamente a la Agrupación Internacional de Mujeres contra la Represión. También fue crítica de arte y en 1977 organizó en el Museo de Arte Carrillo Gil una exposición de mujeres artistas.
BIBLIOGRAFÍA
Poesía:
El ave Fénix: Las palabras y el tiempo (1945)
Poesías (1945)
La sin ventura (1955)
Los dedos de mi mano (1958)
Aunque es de noche (1959)
Guirnalda de primavera (1970)
Elogio de mi cuerpo (1970)
Poesía. Guatemala: serviprensa centroamericana (1982)
Ensayo:
La poesía de Miguel Ángel. México (1966)
Confesiones de José Luis Cuevas. México (1975)
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Parole di carne e ossa : Alaide Foppa
Costa poco la parola, anzi, non costa nulla. Tanto, la si dice soltanto e dire non è fare. Dire non vale. Non è vincolante. Non è una promessa. Si può sempre tornare indietro, tanto l’ho solo detto. Siamo abituati a poter dire tutto ciò che vogliamo senza temere alcuna conseguenza e infatti diciamo tutto, siamo circondati di parole e produciamo in continuazione fiumi di parole, parliamo senza fine, senza pensare, scriviamo, leggiamo, pensiamo, le parole non ci lasciano mai in pace ( e nemmeno noi a loro concediamo un attimo di tregua), ci girano sempre intorno, le sentiamo, ma non le ascoltiamo e se le ascoltassimo, scopriremmo che il più delle volte non significano nulla. Tutto è possibile, tutte le parole sono permesse e in questo fiume traboccante le parole non si distinguono più.
Nell’arco di un’ora, si afferma tutto e il contrario di tutto, si parla, si mente, si dimentica ciò che si è appena detto ( e ciò che hanno detto gli altri ), tanto, dire non è fare, la parola non costa nulla e come tutto ciò che non ha un costo, vale poco. Mentre lentamente stiamo soffocando in quel mare di parole senza senso, prive di contenuto che produciamo in ogni istante, le nostre amate chiacchiere, in altre parti del mondo – e in altri tempi – per una parola sola, si può finire in carcere o addirittura perdere la propria vita. Lo so che questa non è una novità. Non è un’ affermazione originale, anzi, lo sanno tutti. Sto facendo del moralismo? E’ come quando si osa dire che noi mangiamo fino al vomito mentre altrove ogni trenta secondi si muore per mancanza di cibo? Non si può dire questo, perché tanto si sa? Perché tanto non cambia nulla. Perché tanto…
Ma non parlo della fame nel mondo. Parlo di chi ha perso la vita per aver detto la sua parola. Perché una parola non è solo una parola, ma è già un atto. Dire è fare. Ogni parola crea una nuova realtà. Dipende da noi.
(Questo non è un bel testo, non è scritto bene e non dice nulla di nuovo. Eppure non intendo limarlo. Non ho in questo momento alcuna voglia di scrivere un bel testo molto originale e very sophisticated, perché la mia stessa abilità di manovrare le parole, come di volta in volta conviene, mi spaventa. Mi è sospetta. Io, donna di lettere che ha condotto tutta la sua vita nella o con la parola, talvolta non mi fido più di me stessa.
Alaide Foppa : Tre poesie
Alaide Foppa (*1914) fu rapita il 19.12.1980 in Guatemala. Da allora non si ha più notizie di lei.
Nata in Italia da madre guatemalteca e padre argentino, trascorse la sua infanzia e gioventù in Italia e Belgio. Sposa Alonso Solórzano, un giurista che, negli anni ’50 fu membro di due governi in Guatemala. Nei tempi della dittatura, la famiglia chiede asilo politico in Messico.
Alaide Foppa fu una donna emancipata che, oltre ad occuparsi dei suoi 5 figli, fu poetessa, professoressa universitaria per italianistica, nonché traduttrice dei sonetti di Michelangelo, fondatrice della rivista “ Fem” e fondatrice di una cattedra per sociologia femminile all’università di città del Messico.
Nonostante la sua appartenenza alla borghesia, Foppa, una convinta femminista e al contempo una donna elegante dei gusti raffinati, si schiarò per la sinistra. Tre dei suoi figli appartenevano alla Guerillia guatemalteca. Poco tempo dopo che fu ucciso il suo figlio Juan Pablo, Foppa sparì insieme al suo autista.
Si presume che in Guatemala sono spariti durante gli anni delle vari guerre civili più di 45.000 persone.
Señor, estamos solos,
Señor, estamos solos,
Yo, frente a Ti:
Diálogo imposible.
Grave es tu presencia
Para mi solitario amor.
Escucho tu llamada
Y no sé responderte.
Vive sin eco y sin destino
El amor que sembraste:
Sepultada semilla
Que no encuentra el camino
Hacia la luz del día.
En mi pecho encendiste
Una llama sombría
¿Por qué señor,
no me consumes entera,
si no hay para tu amor
otra respuesta
que mi callada espera?
Signore, siamo soli
Signore, siamo soli
di fronte a Te :
Dialogo impossibile.
Grave è la tua presenza
per il mio amore solitario.
Ascolto la tua chiamata
e non so risponderti.
Vive senza eco e senza destino
l’amore che tu hai seminato:
seme sepolto
che non trova la via
verso la luce del giorno.
Nel mio petto hai acceso
una fosca fiamma.
Perché, Signore
non mi consumi tutta
se al tuo amore non c’è
altra risposta
che la mia silenziosa speranza?
Oraciòn
Dame, señor
un silencio profund
y un denso velo
sobre la mirada.
Así seré un mundo
cerrado:
una isla oscura;
cavaré en mí misma dolorosamente
como en tierra dura
Y cuando me haya desangrado
ágil y clara será mi vida
Entonces, como río sonoro y transparente,
fluirá libremente
el canto encarcelado.
Preghiera
Dammi, oh Signore,
un silenzio profondo
e un denso velo
sugli occhi.
E un mondo si chiuderebbe:
un isola oscura;
scaverò dentro me stessa dolorosamente
come nella terra dura.
E quando sarò dissanguata,
agile e chiara sarà la mia vita.
E come un fiume sonoro e trasparente
scorrerà liberamente
il canto imprigionato.
Ella se siente a veces
como cosa olvidada
en el rincón oscuro de la casa
como fruto devorado adentro
por los pájaros rapaces,
como sombra sin rostro y sin peso.
Su presencia es apenas
vibración leve
en el aire inmóvil.
Siente que la traspasan las miradas
y que se vuelve niebla
entre los torpes brazos
que intentan circundarla.
Quisiera ser siquiera
una naranja jugosa
en la mano de un niño
-no corteza vacía-
una imagen que brilla en el espejo
-no sombra que se esfuma-
y una voz clara
-no pesado silencio-
alguna vez escuchada.
Talvolta si sente
come una cosa dimenticata
nell’ angolo oscuro della casa
come frutto divorato di dentro
da uccelli rapaci,
come ombra senza faccia né peso.
La sua presenza è appena
una lieve vibrazione
nell’aria immobile.
Si sente trapassare dagli sguardi
e diventare nebbia
tra le goffe braccia
che la cingono.
Può darsi che voglia essere qualcosa,
un’arancia succosa
nella mano di un bambino
– non una buccia vuota –
un’immagine che brilla nello specchio
– non un’ ombra che svanisce –
e una voce chiara
– non il pesante silenzio –
qualche volta ascoltata.
( dallo Spagnolo di Susanne Detering)
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
libertà per Alaide Foppa
La pubblicazione in questa pagina di un articolo di Alaide Foppa “Quello che scrivono le donne” apparso su Fem n. 10 vuole essere un atto di solidarietà contro la violenza di cui la scrittrice guatemalteca è stata vittima.
Molti testimoni hanno assistito il 19 dicembre scorso al suo rapimento in Guatemala; hanno visto la sua macchina circondata, hanno visto Alaide trascinata via. Il governo guatemalteco si è limitato a “deplorare”, senza rispondere agli appelli lanciati dai parenti, dal Presidente del Messico, da “Amnesty International”, dai comitati sorti in Messico, in Francia e altrove per salvare Alaide. In Italia molti giornali democratici e il GR1 hanno denunciato questo rapimento; il Comitato italiano di solidarietà con le famiglie dei prigionieri politici e degli scomparsi in America Latina sta raccogliendo adesioni per un appello alla Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite. Ma ancora, a più di un mese di distanza, si ignora la sorte di Alaide.
Il Guatemala offre un quadro di violenza sistematica contro tutti i movimenti democratici e rivoluzionari, che appare tragicamente simile a quello, più conosciuto e documentato, del Salvador e di altri Paesi latino-americani. Negli ultimi anni il numero degli “scomparsi” è andato sempre crescendo e ormai spariscono dalle 20 alle 30 persone al giorno. Alaide è stata l’ennesima vittima di un regime che dà carta bianca alle più spietate formazioni di estrema destra.
Eppure Alaide non è iscrìtta a nessun partito, aon svolge -attività rivoluzionaria. E’ stata per lunghi anni innanzi tutto una poetessa, come testimoniano le sue traduzioni, le sue raccolte di liriche: “Poesias” del 1945, “Aunque es de noche” che ottenne un premio di poesia nel 1954, “La sin ventura” nel 1955 e infine “Los dedos de mi mano” del 1958, dedicato ai suoi cinque figli. Si tratta di poesie assai belle, in cui si può forse trovare l’eco della poesia italiana moderna (di Ungaretti specialmente) e dei mistici spagnoli; ma è certamente una poesia originale, frutto di un’esperienza unica, assai ricca e varia: la vita l’ha portata da un Paese all’altro. Alaide è nata a Barcellona da padre argentino, giornalista e scrittore di teatro e da madre guatemalteca. Dopo qualche anno in Argentina, Alaide trascorse in Italia l’adolescenza e la giovinezza: a Roma terminò gli studi universitari dedicati soprattutto alle letterature straniere e alla storia dell’arte italiana, che sono rimasti elementi basilari della sua raffinatissima cultura.
Lasciò l’Italia nel 1942 e dopo un periodo trascorso in Spagna, a Cadice, raggiunse il Guatemala, il paese della madre, dove Alaide ritrovava le sue radici più profonde. Era il tempo in cui il Guatemala usciva dalla lunga dittatura di Ubico e sembrava avviarsi, sia pure faticosamente e con gravi contraddizioni, verso un’evoluzione democratica. Il contatto con i problemi reali e scottanti di un Paese povero e sfruttato determinò una svolta negli interessi di Alaide, così umana e ricca di pietà: si dedicò all’alfabetizzazione, ai problemi dell’infanzia e delle donne. Nel 1945 sposò Alfonso Solorzano, fondatore dell’Istituto Gautemalteco della Sicurezza Sociale, e con lui, dopo qualche anno all’Avana e a Parigi, ritornò in Guatemala e vi rimase fino al 1954, anno in cui si trasferì in Messico con i figli per seguire il marito, che aveva dovuto abbandonare il Paese per la caduta del governo di Arbenz Gusmàn, di cui era stato collaboratore.
In Messico Alaide ha continuato la sua attività come insegnante all’Università autonoma del Messico (UNAM), come responsabile di un programma per la donna a Radio Universitaria e come condirettrice della rivista Fem. Nel 1975, in occasione dell’anno internazionale della donna a Città del Messico, è stato pubblicato un suo saggio intitolato “Feminismo y liberación”; recentemente infine ha pubblicato un libro sul pittore José Ruiz Cuevas. Qualche mese fa Alaide ha perduto, in un incidente stradale rimasto senza spiegazioni, il marito; precedentemente aveva perduto il più giovane dei suoi figli, forse assassinato in Guatemala. Priva di notizie di altri due dei suoi figli, il 18 dicembre scorso, si è recata in Guatemala consapevole dei rischi a cui andava incontro, per portar via — a quanto si dice — da quel paese così pericoloso, una nipotina di pochi mesi.
E’ atroce pensare quali saranno state le sue sofferenze, è difficile credere nella sua salvezza; solo si può sperare che questa donna straordinaria, che tante vicende ha superato con coraggio e con fede, riesca ad uscirne e sia restituita a tutti quelli che l’apprezzano e le vogliono bene.
Nel corso degli ultimi quindici anni, le donne hanno scritto più che in tutta la storia dell’umanità. Hanno pubblicato molti libri, ma hanno anche fondato un gran numero di riviste scritte da donne (alcune di breve durata, ma molte ancora viventi da 4, 5, 6 anni), e sono state più presenti che mai nel giornalismo quotidiano; il personaggio della reporter è diventato frequente e la carriera di Scienze di Comunicazioni è tra quelle maggiormente scelte dalle donne. Non è un fatto casuale, dato che si verifica parallelamente il crescente accesso delle donne agli studi — in particolare agli studi superiori — e la sua maggiore influenza in tutti i campi della vita sociale; però, poiché la parola è il mezzo per eccellenza per “esprimersi”, vale la pena di vedere ciò che le donne esprimono in questo campo. Siamo ancora lontane dalla famosa uguaglianza (non abbiamo bisogno di dire in che cosa e con ohi), ma se in qualcosa si nota il cambiamento è del fatto che la donna che -scrive è vista ogni giorno meno come un’eccezione. Da ciò non è più abitudine dire in suo elogio che una buona giornalista “scrive come un uomo”.
D’altra parte, per la scarsa partecipazione della donna agli affari del mondo, è proprio attraverso la scrittura che alcune cominciarono ad esprimersi da epoche lontane. Quella famosa “stanza tutta per sé” della quale parla Virginia Woolf -— condizione indispensabile per scrivere, negata all’immaginaria sorella di Shakespeare — la ebbero alcune privilegiate da prima del Rinascimento {e penso che anche Saffo l’aveva quando piangeva la sua solitudine); e il privilegio, vincolato ad una educazione eccezionale, offrì la maniera di riempire ozii aristocratici senza uscire dal nucleo domestico.
Le prime cose che scrissero le donne furono poemi d’amore e soprattutto poemi di solitudine e di nostalgia. Quella stanza tutta per sé, senza avere con chi dividerla, neanche la sentirono come un privilegio le poetesse dolenti: Marie de France, Beatrice de Die, piangono assenze, come le piangerà, due secoli più tardi, Cristina Pisano, e un po’ dopo la sfortunata Maria Stuarda, che scrisse in francese secondo i modelli di Ronsard e Du Bellay. Anche le italiane del Rinascimento scrissero poesie amorose e dolenti: Gaspara Stampa sogna con quella “notte più chiara del più chiaro giorno” vissuta con l’amato, e la severa Vittoria Colonna non smette di agognare il marchese che la lasciò vedova, sorda al platonico amore di Michelangelo. E’ un’eccezione tra le poetesse aristocratiche. Margherita, regina di Navarra e sorella di Francesco I di Francia, che non si limitò alla poesia amorosa, ma scrisse anche un libro di racconti ispirati dal modello di Boccaccio, il Decamerone {pubblicato recentemente anche in spagnolo), una commedia e varie opere di carattere religioso che, in quella prima metà del secolo XVI quando c’era la drammatica contrapposizione tra cattolicesimo e riforma, parlano di Uberi sentimenti religiosi. Non farò, ovviamente, “una galleria di scrittrici celebri attraverso i secoli”; solo desidero, nel ricordare qualche nome, segnalare perché scrivono quelle donne, perché quelle e non altre, e che cosa scrivono. La più immediata ed ovvia spiegazione alla prima sarebbe: scrivevano perché sapevano scrivere. Chi era in condizioni di scrivere alla fine del Medio Evo e durante il Rinascimento non era che il venti per cento delle donne (l’analfabetismo c’era anche tra gli uomini ma in misura molto minore). La formazione scientifica, filosofica, umanista, era, naturalmente, ancora più limitata; di modo che le poche che scrivevano e volevano dire qualcosa, erano le sue pene e i suoi abbandoni che potevano esprimere.
In ambienti aristocratici e chiusi incominciarono a scrivere anche le francesi del colto secolo XVII. E non è già poesia; e per lo meno, non solo poesia: molte lettere, pulite, eleganti, ingegnose, piene di succosi pettegolezzi e di tenere effusioni, come-quelle di Madame de Sévigné. (Daltronde, il genere epistolare sembra convenire specialmente alle donne, che salgono essere più immediate ed agili, meno convenzionali degli uomini nel dialogo scritto). E le donne scrivono anche lunghe novelle sentimentali e avventurose: quelle di Mademoiselle de Scudéry, per esempio (Clelia, scritta tra il 1656 e il 1660, comprende dieci tomi) in quel contesto mondano intellettuale che vive intorno alle “preziose”, le pedanti, le sapute, tanto acutamente criticate da Molière, non senza ingiustizia. Ciò che sembrava ridicolo al grande commediografo — e in qualche modo lo era — non era che il risveglio di un gruppo di donne che preferivano le lettere ai lavori domestici e avevano il coraggio di considerare il matrimonio come qualcosa di molto noioso e prosaico a paragone con le avventure letterarie. -La vita di salotto, incentrata sulla conversazione brillante, ingegnosa, intelligente e alimentata dalla presenza di donne che hanno queste qualità, nasce all’Hotel de Rambouillet e il suo eco giunge sino all’opera di Proust. Sottolineo che le donne scrivono, leggono, conversano spiritualmente, con maggior o minor ingegno, solo nei ceti privilegiati, e pertanto nelle società maggiormente sviluppate. Che qualcuna scriva singolarmente bene non cessa d’ essere un mistero, se si tratti di donne o di uomini.
Suor Juana, nel Messico coloniale e barocco, conferma la regola di una stanza tutta per sé, che nel suo caso fu più isolata di altre, ma meno suo: la cella. E nello stesso periodo non c’è in Spagna donna che possa compararsi a lei. Anche se basta alla Spagna avere avuto un secolo prima Teresa d’Avila. Il confronto fra le due suore mette in evidenza più differenze che somiglianze (Suor Jana così colta e… e Santa Teresa così immediata e ispirata); le unisce, invece, un elemento comune: tutt’e due dovettero lottare contro la burocrazia ecclesiastica. D’altronde, esse, come suore, si integrano anche al coro delle solitarie che cantano per amore.
Cosa succede nella nostra America spagnola dopo Suor Juana? Abbiamo, certamente, poetesse romantiche: alcune conosciute e riconosciute; molte anonime. La poesia, nel secolo XIX, è per le donne — come la pittura e l’acquarello e i fiori ricamati e “petit point”
— un amabile intrattenimento e uno sfogo permesso. Anche sono poetesse le prime donne che si mettono in evidenza nel nostro secolo: Delmira Agustini, Alfonsina Storni, Juana de Ibarbourou, Gabriela Mistral… (E’, tra loro, la prima donna che riceve un premio Nobel). Donne, segnate, in maggiore o minore misura per la solitudine; e in un caso
— Alfonsina Storni — per il suicidio; in altre — Delmira Agustini — per essere vittima di un omicidio passionale (il marito si suicidò dopo averla uccisa). Romanticismo tardivo portato sino alle ultime conseguenze.
Sto facendo riferimento alla storia — e storie — solamente di ieri: Juana de Ibarbouru, è appena morta, e le altre, potevano vivere ancora gli ultimi anni di una lunga vita, se la propria non fosse stata così intensamente breve e mutilata. Quello che risulta evidente e che tra questo ieri così prossimo e l’oggi che è incominciato appena quindici anni fa, il cambiamento è radicale. Troppo presto ancora per fare il bilancio di quello che hanno scritto le donne, ovunque, in questo breve periodo; la critica o la semplice rassegna di novelle, poesie, saggi sociologici e antropologici, critiche letterarie, reportages che hanno scritto le donne riempirebbero parecchi libri. Ma, indipendentemente dalla quantità, forse è più importante segnalare qualcosa di nuovo: per la prima volta, le donne parlano di se stesse non soltanto per piangere solitudini e abbandoni, non soltanto per lamentare le ingiustizie sofferte (nel passato e nel presente), non soltanto per analizzare le leggi, i costumi, i pregiudizi vigenti nel mondo degli uomini, se non per affermarsi, per valorizzarsi in quanto donne. Mai più: “siamo uguali, vogliamo essere uguali” se non: “siamo diverse e ci piace essere diverse”. E non soltanto si rifiuta il supposto elogio di “scrivere come un uomo”, ma si pretende “scrivere come donna”.
Su tutta la gamma di uguaglianze e differenze, molto si è detto e forse manca ancora molto da dire. Precisamente il tema della scrittura femminile come tale è uno dei più discussi attualmente (di questo si parla in questo numero, rispetto a scrittrici francesi e italiane). E anche si è parlato di un’arte femminile, di una pittura femminista, etc. Rivendicazione del femminile che, come quasi tutte le rivendicazioni può portare ad eccessi, ma che ha le sue ragioni. Credo che il pensiero e la creatività artistica siano attitudini essenzialmente umane, che non ammettono la differenziazione del sesso. Ma questo non esclude che la donna, come qualcuno che viene da un altro continente — quello della oscurità e della dimenticanza — possa avere qualcosa da dire.
Molti pensano anche che le donne già stanno dicendo troppo, o scrivendo, o parlando troppo. E’ un vecchio rimprovero, tra l’altro, che si applicava agli innocui “chiacchiere di donne”, ma che in questi ultimi anni potrebbe anche essere giustificato… Deve intendersi, invece, che è spiegabile il desiderio di parlare, e anche l’eccesso delle parole, in chi ha mantenuto — salvo brevi intermittenze — un silenzio millenario.
(Da FEM – Publicación feminista tri-mestral – Voi. Ili – N. 10)
Alaide Foppa traduzione dì Maria Stella Conte
Alaíde Foppa, la heroína desaparecida-Poeta, editora, traductora, feminista
Alaíde Foppa, la malograda escritora
El 21 de diciembre de 1980, se conocía del secuestro de la escritora Alaíde Foppa, junto a su chofer en un céntrico sector de la ciudad hoy conocido como Plaza Barrios de la zona 1.
El 8 de julio de 1954 la Junta de Gobierno ordenó al Ministerio de Hacienda intervenir los bienes de ex funcionarios de los regímenes de los ex presidentes Juan José Arévalo y Jacobo Árbenz Guzmán, entre quienes figuraba la escritora Alaíde Foppa de Solórzano.
Foppa dijo entonces que ocasionalmente había servido en forma gratuita en temas culturales al gobierno de Árbenz, por lo cual creía que su inclusión en la lista de congelamientos era injusta, pues algunos bienes los había heredado de su abuelo, Salvador Foppa.
El 23 de julio de 1954, Foppa de Solórzano solicitó la revisión de la lista de bienes congelados por la Junta de Gobierno. Explicó que los bienes congelados eran un centenar de libros, unos cuantos cuadros y un automóvil que le fue obsequiado por su madre valorado en Q600, y que los objetos hogareños los había adquirido en los primeros años de su matrimonio con el Alfonso Solórzano.
El secuestro
Foppa arribó a Guatemala procedente de México, donde residía desde hacía muchos años, luego de haber buscado asilo político junto a su esposo, el escritor Alfonso Solórzano. Alaíde llegó al país para celebrar la Navidad con su madre.
Los familiares indicaron que la escritora había salido de compras la mañana del 21 de diciembre de 1980 acompañada de su chofer, Leocadio Astún Chiroy, pero luego ya no se supo más de ellos.
Ambos fueron interceptados por desconocidos que se los llevaron con rumbo no establecido. Esa vez se asumió que había sido el gobierno de Fernando Romeo Lucas García había ordenado su desaparición, ya que la escritora era de ideología izquierdista.
Testigos informaron que Foppa de Solórzano caminaba por una céntrica calle de la ciudad, cuando repentinamente hombres armados le interceptaron el paso y fue obligada a subir al automóvil en el cual la esperaba su chofer y posteriormente ambos fueron llevados con rumbo ignorado.
Los que vieron lo ocurrido dijeron que escucharon cómo la escritora pedía auxilio, así como el momento en que los hechores la golpearon con sus armas y luego la introdujeron a la fuerza al carro.
Foppa gozaba de prestigio internacional, por lo cual el gobierno de México y otras organizaciones internacionales exigieron a Lucas García que investigara.
Estaba casada con el intelectual Alfonso Solórzano, un estrecho colaborador de Arévalo y Árbenz Guzmán.
Era madre del periodista Mario Solórzano Foppa, fundador del desaparecido telenoticiero Estudio Abierto, quien se vio obligado a salir del país debido a su ideología de izquierda.
La escritora realizaba periódicamente visitas a Guatemala invitada para dar conferencias en el Instituto Italiano de Cultura.
Hasta el 24 de diciembre de 1980, día de Nochebuena, el Juzgado Décimo de Paz a cargo del caso mantenían fuerte hermetismo del plagio.
30 de diciembre de 1980 el gobierno informó que se hacían todos los esfuerzo para dar con el paradero de los secuestrados y que los responsables eran elementos subversivos quienes trataban de agenciarse de dinero para financiar sus actividades pro comunistas.
El 2 de enero de 1981, luego de 12 días del secuestro, el paradero de Foppa aún continuaba en el misterio. A ese secuestro se sumaban el del gerente de Ginsa, Clifford Bevens, el de Héctor Aragón Malher, hijo del dirigente político del partido Movimiento de Liberación nacional Héctor Aragón Quiñonez; el de Estela Molina viuda de Luna y el del médico norteamericano Long Cumminings. El caso de Foppa nunca fue cerrado.
El 17 de junio de 2009, Julio Solórzano Foppa, de la Fundación de Antropología Forense de Guatemala e hijo de Alaíde, fue sometido a una prueba de ADN para identificar los restos de su hermano Juan Pablo, quien murió en un enfrentamiento en Nebaj, Quiché, y que habían sido enterrados como XX en el Cementerio La Verbena, zona 7.
El de 21 de julio 2012 Julio dijo que denunciaría ante la Comisión Interamericana de Derechos Humanos el secuestro de Alaíde. “Nosotros necesitamos saber qué paso con nuestra madre”, dijo, y que podría culpar a Donaldo Alvarez Ruiz, ministro de Gobernación de Lucas García.
Luego de la desaparición se corrió el rumor de que cuerpos paramilitares que operaban dentro del gobierno de Lucas García habían sido los responsables del hecho.
Hasta el momento se desconoce en dónde están sus restos, ya que las investigaciones nunca avanzaron.
Alaíde Foppa ,Poetessa guatemalteca.
Biografía
Alaíde Foppa nació el 3 de diciembre de 1914 en Barcelona España; era hija de Tito Livio Foppa, un periodista Argentino, y de la señora Julia Falla, una guatemalteca de familia acaudalada.
Vino a Guatemala a finales de la dictadura de Jorge Ubico. Cuando apenas tenía 19 años toma la ciudadanía guatemalteca y participa activamente en la la Revolución de 1944 como voluntaria en un hospital y en campañas de alfabetización.
Al ser derrocado Jacobo Árbenz se exilia en México junto con su esposo, Alfonso Solórzano. En el exilio nace Julio, uno de sus cinco hijos.
Durante el conflicto armado interno, Juan Pablo, otro de sus hijos, milita en el Ejército Guerrillero de los Pobres (EGP), pero muere en Nebaj, Quiché, durante un enfrentamiento armado.
Al enterarse de la noticia, su padre, Alfonso Solórzano, quien se encontraba en Ciudad de México, sale a la calle y muere arrollado en la Avenida Insurgentes.
La obra de Alaíde
. La palabra y el tiempo
. La sin ventura
. Elogios de mi cuerpo
. Guiralda de primavera
. Ave Fénix, entre otras obras conocidas a nivel internacional
Articolo di Paola Rocco-Fonte Blog Pane e Scorpioni-Sellerio Editore
Si può parlare di un libro partendo dalla copertina? Quella de La mala erba, l’ultimo romanzo di Antonio Manzini ,come sempre edito da Sellerio Editore , raffigura una ragazza seduta in una stanza, il caschetto di capelli neri che sembra dipinto sul cranio spigoloso, le occhiaie fonde, le labbra strette in una smorfia di malcontento, o di lucido e concentrato rancore. Indosso ha un camiciotto di tela bianca; accanto, una pianta grassa con un unico fiore, rosso, che si allunga di lato, perpendicolare al gambo verdastro e carnoso. Intorno, una stanza nitidamente geometrica, assediata dal buio. Dame in Weiß (Fräulein Sokal), signora in bianco, è il titolo del quadro di Sergius Pauser.Anche Samantha, protagonista de La mala erba, è fin dall’inizio una ragazza chiusa in una stanza incalzata dal buio; sua la storia raccontata in questo libro, che nelle parole dell’autore è però anche e forse soprattutto “la storia di un paese, un piccolo paese di trecento abitanti nascosto tra le montagne dell’Appennino (fra Lazio e Abruzzo, più o meno). È la storia dei suoi abitanti, che non vivono ma sopravvivono; non hanno molte speranze di futuro, soprattutto Samantha De Santis, la ragazza di diciassette anni che è un po’ la protagonista del racconto. Ho voluto raccontare la storia di questo paese per raccontare la storia di un paese più grande, il mio paese, l’Italia. È un microcosmo che somiglia tanto al macrocosmo che lo comprende”(intervista all’autore).
Antonio Manzini
Forse la stanza di Samantha non ha in realtà molto in comune con quella, nitida e scabra, dell’imbronciata e bellissima Dame in bianco. Con un padre disoccupato e una mamma casalinga, quella di Samantha è inevitabilmente una casa triste e spoglia, goffamente ingentilita dalle incongrue fioriere di cemento volute da mamma Marinella in ossequio a un decoro piccolo borghese che papà Enzo sta ora pagando carissimo: con quelle rate dell’affitto scadute, e quei lavori in muratura pur tanto modesti che il padrone di casa – il ricchissimo Cicci Bellè, che possiede in pratica tutto il paese e con il quale tutto il paese è in varia misura indebitato – non mancherà di rinfacciargli (“Uno non chiede prestiti, non compra legna e soprattutto non fa dei lavori in muratura in casa se non ha una lira. Nespà?”).
Antonio Manzini
L’ingrugnato castelletto di Cicci Bellè, con le sue quattro torrette appollaiate sul tetto, è il palazzo incantato e maligno che domina il borgo; una costruzione antica, affacciata su una piazza proibita ai bambini (“grida o pallonate sul muro disturbavano”): “Tutto quello che il suo sguardo assonnato abbracciava, era roba sua… Da sempre la famiglia Bellè possedeva Colle San Martino. A parte la casetta di Ida e Primo e l’ex stalla di Fulvio Ceracchi, non c’era paesano che non versasse l’affitto ogni mese che mandava Iddio. Delle case come dei campi”. E Oreste Capone è il tuttofare di Bellè, la spia, il condorchesopravvive sui cadaveri dei compaesani e che verrà appunto mandato in missione da Enzo, il padre di Samantha, per chiedere all’uomo soldi che non ha: l’inizio dell’inevitabile tragedia che vedrà però anche il riscatto finale della diciassettenne.
Protagonista di una mutazione genetica che la trasformerà in una versione per così dire contemporanea della temibile donna lupo dipinta sul poster appeso in camera sua, Samantha si renderà infatti artefice di una macroscopica rivincita (su Bellè, sul paese, sul destino stesso): una rivincita che, pur declinandosi attraverso la parziale accettazione di quella stessa logica del più forte che ha consumato e consuma l’esistenza del padre e degli altri compaesani, la consegnerà infine al futuro che s’è scelto. E che nella sua apparente, facile normalità – studiar veterinaria a Perugia – dà con icastica precisione la misura di quanto la normalità stia diventando o sia già diventata per molti un sogno irraggiungibile.
Ma al di là del riscatto di Samantha: un riscatto, ripetiamo, che in parte è una sconfitta, una trasformazione che di fatto è un’assimilazione, una resa – volontaria e lucida, sì, ma pur sempre una resa – alla logica incarnata da Bellè, con i cui metodi l’identificazione è a tratti totale (si veda la scena del bar, con la richiesta dell’ultimo Quattroruote per verificare la quotazione di mercato dell’automobile offerta in garanzia dall’ennesimo debitore in difficoltà); al di là della rivincita della ragazza, dicevamo, in questo libro a prender campo davvero è la disperata, solitaria quotidianità del nostro vivere.
Stretti l’uno all’altro, sepolti sotto un grumo di tetti gravati da un cielo incombente, i trecento abitanti di Colle San Martino (pur sapendo facilmente tutto gli uni degli altri, la prossimità fisica sostituendo l’intimità psicologica, il pettegolezzo vacuo e in fondo prudente subentrando a comprensione e compassione) non si toccano realmente mai. Come i chicchi di mercurio dei vecchi termometri, pur raccolti e imprigionati in uno spazio angusto si sfuggono, rimbalzando via l’uno dall’altro al pari di magneti dello stesso segno; nessuno scambio può dirsi reale, nulla accade tra queste anime smarrite, sradicate senza aver mai fatto un passo fuori dal paese; niente al di là, appunto, della diceria superficiale, della chiacchiera monotamente condivisa (“Aria fritta, spifferi, colpi di vento inutile” pensa Primo, uno dei protagonisti, sdraiandosi tra i teschi accatastati nella cripta sotto l’abside della vecchia chiesa).
Nell’apparente serenità del paesotto sui monti intanto si consuma la disperazione altrui: una disperazione fatta di soldi, naturalmente. La disperazione dei trecento abitanti di Colle San Martino (provincia di Rieti, Lazio, Italia, mondo, universo) è fatta di debiti, disoccupazione, trecento euro sul conto, fra un po’ ci tagliano luce e telefono, carne una volta al mese, maglioni rosa così lisi che avrebbero dovuto riposare da anni tra gli stracci per spolverare, cinghiali cui dar la caccia per poi venderne la carne al macellaio della frazione vicina, vecchie macchine da offrire in garanzia, poveri cristi da minacciare, case da perdere, affitti da onorare, straniere da sfrattare, padri di cui vergognarsi, misere fioriere di cui inorgoglirsi (un po’, appena un po’), gravidanze da cui fuggire (perché si è troppo giovani, certo, e prima ci sarebbero tante altre cose, ma anche perché a un’altra bocca da sfamare non si può nemmeno pensare).
A Colle San Martino, paese d’invenzione – dove a lavorare in un ufficio a stipendio fisso erano in tre, gli altri dovevano campare sulle proprie forze – chi da tempo non lavora e quindi non ha soldi da spendere è di fatto un uomo morto, e meglio sarebbe se la facesse finita con le proprie mani perché il resto del mondo lo strangolerà, inesorabile e tenace come la mala erba del titolo (che però attenzione, a forza di soffocare tutto e tutti resterà da sola e a sua volta morirà, come Marinella urlerà in lacrime a Bellè). A Colle San Martino, paese immaginario che, come l’ambiguo e reazionario padre Graziano tuonerà dall’altare in una delle consuete, vacue omelie, prende il nome dal ricco che divise il mantello col povero, preferendo patire un po’ di freddo piuttosto che girar le spalle alla miseria altrui…
Antonio Manzini
A Colle San Martino sono i soldi a far sparare una fucilata in pieno viso, quasi a cancellare quel viso dalla faccia dalla terra; i soldi, o meglio ovviamente la loro assenza, dovuta all’assenza del lavoro, a spegnere le speranze, cancellare la dignità, polverizzare esistenze e legami.
“Io avevo il mio solco, e ne sono uscito” spiegherà anche il piccolo impiegato Leonard Bast, ridotto alla fame da una scelta improvvida che ne ha causato il licenziamento, alle compassionevoli e generose – ma inevitabilmente miopi e un po’ viziate – sorelle Schlegel, le facoltose protagoniste di CasaHoward, apologo dei primi del secolo scorso firmato da E. M. Forster. Chi non ha soldi deve morire, e Leonard morirà; morire o cambiare, subire cioè quella stessa mutazione che trasformerà la disordinata e vulnerabile Samantha de La mala erba in una spietata e lungimirante donna lupo (“C’era stato un mutamento ineluttabile. L’involucro di Samantha De Santis era sempre quello, ma il suo cuore, il suo cervello, avevano subito un cambiamento rapidissimo e frenetico”).
La mancanza di soldi stigmatizza e contiene il morto di fame, il poveraccio, il fallito: “Sono una morta di fame” urla la De Santis a Stefano, il bello e ricco di turno, che ne è un po’ innamorato ma non abbastanza da vederla davvero (e che fugge a gambe levate non appena uno scampolo della reale quotidianità della ragazza gli si svela per dir così di rimbalzo). E i poveracci finiscono a vivere a Colle San Martino: “Bè, c’è una pace lì, no?”, commenta incoraggiante Alfredo, l’amico cui Enzo s’è rivolto per un lavoro (Enzo fece una smorfia. Alfredo lo guardò negli occhi).
Non è un caso che, alla fine, tra i pochi a poter dormire il tradizionale sonno tranquillo, per giunta tenendosi per mano, ci siano Ida e Primo, i due vecchi coniugi che ascoltano la pioggia cadere sul tetto della loro casa, che era loro e che nessuno avrebbe potuto togliergli, perché se l’erano sudata, anno dopo anno. E non c’era Bellè, preti o Stato che potesse bussare a quella porta e dire: fuori di qui! Questa non è più casa vostra! Loro due, Samantha e i lupi: che sono arrivati in paese ma in quest’ultima notte, fra il rumore della pioggia e del vento, nessuno li sente. “Erano in tre, nascosti fra gli alberi e i rovi, coi loro occhi gialli e i denti a sciabola, bianchi e taglienti vicino alla vecchia chiesa. Avevano fatto la tana proprio lì sotto, fra le macerie di una cripta piena di ossa”.
Paola Rocco
Articolo di Paola Rocco
Paola Rocco è nata e vive a Roma. Dopo gli studi classici si laurea in Lettere Moderne alla Sapienza (con una tesi su Giovan Battista Giraldi Cinthio, un drammaturgo del Cinquecento che prima scriveva le sue novelle e poi le trasformava in testi teatrali, un genere di cose che tuttora la appassiona) e inizia a scrivere articoli, collaborando con diverse testate e con l’agenzia di stampa Adnkronos e specializzandosi in critica teatrale, cinematografica e letteraria.Nel 2017 pubblica il romanzo giallo La carezza del ragno per Il Ciliegio Edizioni, che si svolge a Roma alla fine dell’estate 1956 e vede il commissario Giovanni Leoncavallo, pronipote del compositore, indagare sulla morte di una ragazza precipitata dall’abbaino di un palazzo disabitato a due passi dal Ghetto.Scrive di gialli ma non solo, occupandosi in particolare, per La Bottega del Giallo e Sherlock Magazine, dei romanzi di Agatha Christie e delle loro trasposizioni cinematografiche e teatrali.Che cose emozionanti accadono in campagna! per Echos Edizioni è il suo ultimo libro, un saggio dedicato alla Christie (e a chi altri?)
Roma- Il Premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse riceve la Lupa Capitolina,dal Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri-
Il Sindaco di Roma Capitale Roberto Gualtieri conferirà allo scrittore norvegese Premio Nobel Jon Fosse il più importante riconoscimento della Città di Roma, la Lupa Capitolina. La cerimonia si svolgerà in Campidoglio, dove al termine di un colloquio privato, alla presenza dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, Massimiliano Smeriglio, Jon Fosse sarà accompagnato a firmare il “Libro d’Oro Capitolino” nella Sala delle Bandiere per poi ricevere la Lupa.
Nello stesso giorno, alle ore 21, avrà luogo, con i saluti dell’Assessore alla Cultura di Roma Capitale, un incontro aperto al pubblico e gratuito all’Auditorium Parco della Musica – Ennio Morricone in cui Jon Fosse dialogherà con la scrittrice Claudia Durastanti e il traduttore, Andrea Romanzi.
Si tratta del primo incontro delle Anteprime di Letterature Festival Internazionale di Roma, storica manifestazione letteraria promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, curata dal Dipartimento Attività Culturali con il coordinamento organizzativo di Zètema Progetto Cultura. Questo primo incontro è organizzato in collaborazione con l’Ambasciata di Norvegia.
Jon Fosse, nato a Strandebarm nel 1959, è scrittore e drammaturgo ed è universalmente considerato uno dei più importanti autori contemporanei. Attualmente vive nella residenza onoraria di Grotten, a Oslo, concessagli dal Re per i suoi meriti letterari. Fosse è uno scrittore incredibilmente prolifico. Ha esordito nel 1983 e da allora ha pubblicato romanzi, raccolte di poesie, saggi e libri per bambini. Le sue opere – per cui è stato insignito di numerosi premi internazionali ed è stato più volte candidato al Premio Nobel – sono state tradotte in oltre 40 lingue. I suoi testi teatrali sono stati messi in scena in tutto il mondo. Presso La Nave di Teseo ha pubblicato Mattino e sera (2019), L’altro nome. Settologia I-II (2021), Io è un altro. Settologia III-V (2023) e Melancholia I-II (2023), Un bagliore (2024) e Un nuovo nome. Settologia VI-VII (2024). Settologia I-II – libro dell’anno per “The New Yorker” e scelto tra i 100 libri del secolo da “The New York Times” – è stato finalista nel 2022 all’International Booker Prize, al National Book Award e al National Book Critics Circle Award. Crocetti editore ha pubblicato nel 2024 l’opera poetica Ascolterò gli angeli arrivare.
Autore in lingua nynorsk, ottenne notorietà nel suo paese nel 1983, con la pubblicazione del romanzo Raudt, Svart (Rosso, Nero), il cui titolo è ispirato al romanzo Le rouge et le noir, dell’autore francese Stendhal. Nel 1993 ottenne anche notorietà internazionale, grazie alla sua prima opera teatrale, Nokom kjem til å kome (Qualcuno arriverà). Nel 2007 fu nominato cavaliere dell’Ordre national du Mérite in Francia, è considerato dal Daily Telegraph uno dei 100 geni viventi.[2] Il governo norvegese gli ha concesso, per meriti letterari, di risiedere nella residenza di Grotten, edificio risalente al XIX secolo situata nel cortile del Palazzo reale.[3]
Il 5 ottobre 2023 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura “per le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile”.[4] Con Sant’Agostino ritiene che l’indicibilità sia la principale caratteristica con cui si esprime Dio e ciò che “la letteratura potente dice, o mostra”.[5]
Il 5 marzo 2024 al Teatro Carignano di Torino, in prima nazionale, diretto e interpretato da Valerio Binasco, ha debuttato “La ragazza sul divano”, affascinante opera introspettiva tra presente e passato di una donna di mezza età, intenta a dipingere il ritratto di una ragazza seduta su un divano.
Nel 2012 si è convertito dal luteranesimo al cattolicesimo.[6]
Opere
Prosa
Raudt, svart (1983).
Stengd gitar (1985).
Blod. Steinen er (1987).
Naustet (1989).
Flaskesamlaren (1991).
Bly og vatn (1992).
Dyrehagen Hardanger (1993).
To forteljingar (1993).
Prosa frå ein oppvekst (1994).
Melancholia I (1995).
Melancholia II (1996).
Melancholia, Postfazione e traduzione di Cristina Falcinella, Collana Mine vaganti, Roma, Fandango, 2009, ISBN978-88-604-4132-4. – Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2023, ISBN 978-88-346-1690-1.
L’altro nome. Settologia I-II (Det andre namnet – Septologien I-II, 2019), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2021, ISBN978-88-346-0457-1.
Io è un altro. Settologia III-V (Eg er ein annan – Septologien III-V, 2020), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2023, ISBN978-88-346-1512-6.
Un bagliore, traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2024, ISBN978-8834617687.
Un nuovo nome. Settologia VI-VII (Eit nytt namn – Septologien VI-VII, 2021), traduzione di Margherita Podestà Heir, Collana Oceani, Milano, La nave di Teseo, 2024, ISBN978-88-346-1869-1.
Teatro
Qualcuno verrà (Nokon kjem til å komme, scritto nel 1992–93, rappresentato nel 1996).
E non ci separeremo mai (Og aldri skal vi skiljast, 1994).
Teatro. E non ci separeremo mai, Qualcuno verrà, Il nome, a cura di Vanda Monaco Westerståhl, Collana I Testi, Imola, CUE Press, 2023, ISBN 978-88-551-0308-4.
Teatro, a cura di Rodolfo Di Giammarco, trad. di G. Perin e F. Ferrari, Collana Scritture, Roma, Editoria & Spettacolo, 2006, ISBN 978-88-890-3664-8. [contiene: Il nome, Qualcuno arriverà, E la notte canta, Sogno d’autunno, Inverno, La ragazza sul divano]
Tre drammi. Variazioni di morte, Sonno, Io sono il vento, trad. e cura di Vanda Monaco Westersthåhl, Collana Lo spirito del teatro, Siena, Titivillus, 2012, ISBN 978-88-721-8342-7.
Altiero Spinelli e l’Europa-MANIFESTO di VENTOTENE-
Il 23 maggio 1986 moriva a Roma Altiero Spinelli, tra i padri dell’Unione Europea. Nato a Roma nel 1907, militante comunista, viene arrestato dalla polizia fascista e condannato a 16 anni di reclusione. Durante la detenzione matura il suo distacco dal Pci e dopo il carcere, confinato a Ventotene, scrive, fra il 1941 e il 1942, in collaborazione con Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, il Manifesto per un’Europa libera e unita.
Noto come il Manifesto di Ventotene, considerato il documento di base del federalismo europeo.
Caduto il fascismo, liberato il 19 agosto 1943, dieci giorni dopo Spinelli fonda a Milano, insieme a una trentina di reduci dal confino, dal carcere e dall’esilio, il Movimento Federalista Europeo. Nel luglio del 1980 promuove l’iniziativa che porterà al trattato di Unione Europea, approvato a larghissima maggioranza dal Parlamento Europeo il 14 febbraio 1984.
Altiero Spinelli è stato un politico anomalo, ricorda in Altiero Spinelli, lo storico Pietro Graglia: «prima giovane militante comunista, poi, durante la Resistenza e dopo la guerra, profeta dell’unità federale dell’Europa. Combattente indomito, quasi sempre controcorrente, oggi egli appare sempre più una delle figure di rilievo assoluto del Novecento europeo. Della sua vita privata e pubblica Spinelli ha lasciato testimonianze numerose: le memorie, i diari (tutti pubblicati dal Mulino), un ricchissimo archivio».
Sulla base di questi documenti e grazie a una paziente ricerca condotta in archivi europei e americani, Graglia con questo volume ha tracciato per la prima volta un profilo completo della vita e dell’azione politica di Spinelli, soffermandosi in maniera speciale sui decenni dell’impegno federalista e del lavoro nelle istituzioni europee. Minuziosa e appassionata, questa biografia ci porta a contatto diretto con una vicenda umana e politica fuori dal comune e ne conferma a un tempo l’importanza e il fascino.
Un altro libro dopo oltre un settantennio dalla fine della Seconda guerra mondiale e dall’avvio della storia repubblicana: L’Italia e l’Europa di un pessimista attivo – Stati Uniti d’Europa e altri scritti sparsi (1930-1976), edito da Il Mulino, è «il pensiero di uomini e donne del nostro antifascismo, come i valori e le battaglie di quelle generazioni, che costituiscono un patrimonio comune della nostra recente storia democratica ed europea», una fonte d’ispirazione per riflettere sulla condizione presente.
Sono gli scritti di Mario Alberto Rollier raccolti in questo volume, redatti fra gli anni Trenta e Settanta del secolo scorso e affrontano con sorprendente attualità alcune questioni centrali del Novecento che ancora oggi si pongono alla nostra attenzione: l’ecumenismo cristiano e il desiderio di rinnovamento evangelico, l’antifascismo e la Resistenza, la difesa della laicità dello Stato e l’esperienza costituente, il federalismo interno e sovranazionale, il sogno degli Stati Uniti d’Europa, fino alle problematiche di carattere scientifico sull’impiego civile dell’energia nucleare.
La vita di Rollier traccia, con una prospettiva inedita, il quadro di un’epoca della storia europea caratterizzata dalla profonda crisi dei valori cristiani, sopraffatta dagli egoismi nazionali e dalla ferocia dei totalitarismi, ma anche carica di forti tensioni morali, di attese, di entusiasmi e di impegno civile e politico.
Mario Alberto Rollier (1909-1980) nasce a Milano in una famiglia valdese aperta alla cultura liberale europea. Influenzato da Karl Barth e dal movimento ecumenico, partecipa alla stagione di rinnovamento dell’evangelismo italiano. Antifascista, azionista ed europeista è tra i fondatori del Movimento federalista europeo con Ernesto Rossi e Altiero Spinelli e tra gli estensori della Carta di Chivasso insieme a Émile Chanoux. Chimico di fama nazionale, è stato direttore del Centro sperimentale Lena di Pavia che ha ospitato il primo reattore nucleare italiano.
FONTE-Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Altiero Spinelli
Biografia di Altiero SPINELLI-Uomo politico italiano, nato a Roma il 31 agosto 1907, morto ivi il 23 maggio 1986. È stato il massimo sostenitore dell’ideale europeista nell’Italia del secondo dopoguerra. Aderì giovanissimo al Partito comunista e partecipò all’attività clandestina antifascista. Nel 1927 fu arrestato a Milano e condannato a sedici anni di carcere. Nella primavera del 1937 fu inviato al confino di Ponza e, nel luglio 1939, a quello di Ventotene. Nel frattempo, nel 1937, a causa degli orrori della politica staliniana, aveva abbandonato il partito. A Ventotene si convertì al federalismo e scrisse, insieme a E. Rossi, Per una Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (1941), noto anche come Manifesto di Ventotene, da cui emergeva come la migliore organizzazione politica per l’Europa democratica che stava per nascere dalla guerra fosse l’unità federale dei suoi popoli liberi. Liberato nell’agosto 1943, fondò a Milano il Movimento federalista europeo, di cui fu segretario generale dal 1947 al 1963. Nel 1945-46 entrò nella segreteria politica del Partito d’Azione, che lasciò nel febbraio 1946 quando, insieme a U. La Malfa e a F. Parri, costituì il Movimento della Democrazia Repubblicana (MDR). Abbandonato anche questo raggruppamento politico, si dedicò esclusivamente all’impegno del Movimento federalista, e dopo la mancata ratifica, da parte dell’Assemblea nazionale francese, della CED (Comunità Europea di Difesa) che avrebbe costretto gli stati nazionali ad avere un esercito comune e quindi, in prospettiva, una politica comune (1954), si convinse che non si sarebbe mai raggiunto l’obiettivo di un’Europa federale se non si fosse passati da una politica di vertice a un’azione di mobilitazione popolare. Nel 1965 fondò a Roma l’Istituto di affari internazionali, un centro che doveva favorire, attraverso la conoscenza dei problemi della politica internazionale, un’evoluzione di tutti i paesi del mondo verso forme di organizzazione sovranazionale. Dal 1970 al 1976 fu nominato membro della Commissione esecutiva della Comunità europea, e nel giugno 1976 fu eletto deputato come indipendente nelle liste del PCI. Nello stesso anno divenne deputato europeo, poi confermato nelle elezioni del 1979 e del 1983. Nel 1983 scrisse il ”Trattato di Unione europea”, poi fatto proprio dal Parlamento europeo.
Tra i suoi scritti citiamo: L’avventura europea (1972); Come ho tentato di diventare saggio. 1. Io, Ulisse; 2. La goccia e la roccia (1984); Il progetto europeo (1985); Discorsi al Parlamento europeo 1976-1978 (1986); Diario europeo (1989).
Bibl.: E. Paolini, Altiero Spinelli. Appunti per una biografia, Bologna 1987; Altiero Spinelli and federalism in Europe and in the world, a cura di L. Levi, Milano 1990.
FONTE-Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani-
Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo.
Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina.
Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzi ed Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura.
La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini.
Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Fonte-Nuova Rivista Letteraria
ANTONIA POZZI-PoetessaANTONIA POZZI-PoetessaANTONIA POZZI-Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIAAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaAntonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
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