Mary Oliver (Maple Heights, 10 settembre 1935 – Hobe Sound, 17 gennaio 2019) è stata una poetessa statunitense. Ha vinto il National Book Award e il Premio Pulitzer. Il New York Times l’ha descritta come “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Poesia fredda
Freddo ora.
Vicino al bordo. Quasi
insopportabile. Nubi
si ammucchiano in alto e ribollono
dal nord dell’orso bianco.
In questo mattino che spacca gli alberi
sogno le sue tracce grasse,
lo strutto salvavita.
Penso all’estate dai frutti luminosi,
boccioli che si arrotondano in bacche, foglie
manciate di granaglie.
Forse ciò che il freddo è, è il momento
in cui misuriamo l’amore che abbiamo sempre avuto, segreto
per le nostre stesse ossa, il duro amore affilato
per il caldo fiume dell’io, oltre ogni cosa; forse
è questo che significa la bellezza
dello squalo blu che incrocia verso le foche che cadono.
Nella stagione della neve
nel freddo incommensurabile
cresciamo crudeli ma onesti, ci manteniamo
vivi
se possiamo, prendendo uno dopo l’altro
i corpi necessari degli altri, i molti
fiori rossi schiacciati.
LONG BEACH, CA – OCTOBER 26: Poet Mary Oliver speaks during California first lady Maria Shriver’s annual Women’s Conference 2010 on October 26, 2010 at the Long Beach Convention Center in Long Beach, California. Attendees to the conference include Gov. Arnold Schwarzenegger and candidates for California Governor Republican Meg Whitman and Democrat Jerry Brown. (Photo by Kevork Djansezian/Getty Images)
GIORNO D’ESTATE
Chi ha fatto il mondo?
Chi ha fatto il cigno e l’orso bruno?
Chi ha fatto la cavalletta?
Questa cavalletta, intendo, quella che è saltata fuori
dall’erba,
che sta mangiandomi lo zucchero in mano,
che muove le mandibole avanti e indietro invece che in su e in giù
e si guarda attorno con i suoi occhi enormi e complicati.
Ora solleva le zampine chiare e si pulisce il muso, con cura.
Ora apre le ali di scatto e vola via.
Non so esattamente che cosa sia una preghiera;
so prestare attenzione, so cadere nell’erba,
inginocchiarmi nell’erba,
so starmene beatamente in ozio, so andare a zonzo nei prati,
è quel che oggi ho fatto tutto il giorno.
Dimmi, che altro avrei dovuto fare?
Non è vero che tutto muore prima o poi, fin troppo presto?
Dimmi, che cosa pensi di fare
della tua unica vita, selvaggia e preziosa?
La prossima volta
Quello che farei la prossima volta è guardare
la terra prima di dire qualunque cosa. Mi fermerei
subito prima di entrare in una casa
per un minuto sarei un imperatore
e ascolterei meglio il vento
o l’aria stando immobile.
Quando qualcuno mi parlasse, per
biasimo o lode, o solo passatempo,
guarderei la faccia, come la bocca
deve funzionare, e vedrei ogni tensione, ogni
segno di cosa ha alzato la voce.
E nonostante tutto, saprei di più – la terra
che si rinforza e si libra, l’aria
che trova ogni foglia e piuma al di sopra
di foresta e acqua, e per ogni persona
il corpo che risplende dentro gli abiti
come una luce.
IL VIAGGIO
Un giorno, finalmente, hai capito
quel che dovevi fare, e hai cominciato,
anche se le voci intorno a te
continuavano a gridare
i loro cattivi consigli-
anche se la casa intera
si era messa a tremare
e sentissi le vecchie catene
tirarti le caviglie.
“Sistema la mia vita!”,
gridava ogni voce.
Ma non ti fermasti.
Sapevi quel che andava fatto,
anche se il vento frugava
con le sue dita rigide
giù fino alle fondamenta, anche se la loro malinconia
era terribile.
Era già piuttosto tardi,
una notte tempestosa,
la strada era piena di sassi e rami spezzati.
Ma poco a poco,
mentre ti lasciavi alle spalle le loro voci,
le stelle si sono messe a brillare
attraverso gli strati di nubi
e poi c’era una nuova voce
che pian piano
hai riconosciuto come la tua,
che ti teneva compagnia
mentre procedevi a grandi passi,
sempre più nel mondo,
determinata a fare
l’unica cosa che potevi fare-
determinata a salvare
l’unica vita che potevi salvare.
LE OCHE SELVATICHE
Non devi essere buono.
Non devi camminare sulle ginocchia
Per centinaia di miglia nel deserto, per espiare.
Devi solo lasciare che il delicato animale del tuo corpo
ami ciò che ama.
Parlami della disperazione, la tua, e io ti parlerò della mia.
Intanto il mondo va avanti.
Intanto il sole e le luminose perle di pioggia
Si stanno spostando attraverso il paesaggio,
sopra le praterie e gli alberi profondi,
le montagne e i fiumi.
Intanto le oche selvatiche, alte nella pulita aria blu,
di nuovo si stanno dirigendo verso casa.
Chiunque tu sia, non importa quanto solo ti senta,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti chiama come le oche selvatiche, stridenti ed eccitanti –
annunciando ripetutamente il tuo posto
nella famiglia delle cose.
Gufi bianchi volano dentro e fuori i campi
Venendo giù
dal cielo gelido
con le sue profondità di luce,
come un angelo, o un Buddha con le ali,
era bello e preciso,
battendo le neve e qualsiasi cosa fosse là
con una forza che lascia l’impronta
della punta delle sue ali – distanti un metro e mezzo –
e l’impeto predatore delle sue zampe,
e il segno di ciò che stava rincorrendo
attraverso le bianche valli della neve –
e allora si è levato, graziosamente,
ed è volato via nuovamente verso le paludi ghiacciate,
per appostarsi là, come un piccolo faro,
nelle ombre blu –
così pensai:
forse morte
non è oscurità, dopo tutto,
ma così tanta luce che si avvolge attorno a noi –
soffice come piume.
Noi, istantaneamente stanchi di guardare, e guardare,
chiudiamo i nostri occhi, non senza meraviglia,
e ci lasciamo trasportare,
come attraverso la translucenza della mica,
al fiume che è senza la ben che minima ombra o macchia –
che è nulla se non luce – bruciante e aortica luce –
in cui siamo lavati e lavati
dalle nostre ossa.
DICHIARA PACE
Dichiara pace con il tuo respiro.
Inspira uomini d’arme e d’attrito, espira edifici interi e stormi di merli dalle ali rosse.
Inspira terroristi ed espira bambini che dormono e campi appena falciati.
Inspira confusione ed espira alberi di acero.
Inspira quanto è caduto ed espira amicizie di tutta una vita ancora intatte.
Dichiara pace con il tuo ascolto: quando senti sirene, prega ad alta voce.
Ricorda quali sono i tuoi strumenti: semi di fiori, spilli da vestiti, fiumi puliti.
Prepara una minestra.
Fai musica, impara come si dice grazie in tre lingue diverse.
Impara a fare la maglia, e fai un cappello.
Pensa al caos come mirtilli che danzano,
immagina il dolore come l’espirazione della bellezza o il gesto del pesce.
Nuota per andare dall’altra parte.
Dichiara pace.
Il mondo non è mai apparso così nuovo e prezioso.
Bevi una tazza di tè e rallegrati.
Agisci come se l’armistizio fosse già arrivato.
Non aspettare un altro minuto.
Mary Oliver
Solitari, bianchi campi
Ogni notte
il gufo
con la sua scimmiesca faccia selvaggia
lancia il suo richiamo di tra i rami neri,
e i topi hanno freddo
e i conigli rabbrividiscono
nei campi innevati –
e allora si apre la lunga, profonda valle del silenzio
quando egli smette il suo canto e si lancia
in aria.
Io non so
quale sia della morte lo scopo
ultimo, ma penso
questo: chiunque sogni di tenere la sua
vita in pugno
anno dopo anno per centinaia di anni
non ha mai considerato il gufo –
come egli viene, esausto,
attraverso la neve,
attraverso gli alberi ibernati,
superati tronchi e piante,
tirandosi fuori da stalle e campanili,
girando per questa e quella via
attraverso le maglie di qualunque ostacolo –
fermato da nulla –
riempiendosi momento dopo momento
di una gioia rossa e digeribile,
lanciandosi a falce dai campi solitari e bianchi –
e come al mattino,
come se ogni cosa fosse
come deve essere, i campi
si fanno intensi di luce rosa,
il gufo scompare
dietro tra i rami,
la neve va a cadere
fiocco dopo perfetto fiocco.
Mary Oliver
Mary Oliver was an “indefatigable guide to the natural world,” wrote Maxine Kumin in the Women’s Review of Books, “particularly to its lesser-known aspects.” Oliver’s poetry focused on the quiet of occurrences of nature: industrious hummingbirds, egrets, motionless ponds, “lean owls / hunkering with their lamp-eyes.” Kumin also noted that Oliver “stands quite comfortably on the margins of things, on the line between earth and sky, the thin membrane that separates human from what we loosely call animal.” Oliver’s poetry won numerous awards, including the Pulitzer Prize, the National Book Award and a Lannan Literary Award for lifetime achievement. Reviewing Dream Work (1986) for the Nation, critic Alicia Ostriker numbered Oliver among America’s finest poets, as “visionary as [Ralph Waldo] Emerson.”
Mary Oliver was born and raised in Maple Hills Heights, a suburb of Cleveland, Ohio. She would retreat from a difficult home to the nearby woods, where she would build huts of sticks and grass and write poems. She attended both Ohio State University and Vassar College, but did not receive a degree from either institution. As a young poet, Oliver was deeply influenced by Edna St. Vincent Millay and briefly lived in Millay’s home, helping Norma Millay organize her sister’s papers. Oliver is notoriously reticent about her private life, but it was during this period that she met her long-time partner, Molly Malone Cook. The couple moved to Provincetown, Massachusetts, and the surrounding Cape Cod landscape has had a marked influence on Oliver’s work. Known for its clear and poignant observations and evocative use of the natural world, Oliver’s poetry is firmly rooted in place and the Romantic nature tradition. Her work received early critical attention; American Primitive (1983), her fifth book, won the Pulitzer Prize. According to Bruce Bennetin the New York Times Book Review, American Primitive, “insists on the primacy of the physical.” Bennet commended Oliver’s “distinctive voice and vision” and asserted that the “collection contains a number of powerful, substantial works.” Holly Prado of the Los Angeles Times Book Review also applauded Oliver’s original voice, writing that American Primitive “touches a vitality in the familiar that invests it with a fresh intensity.”
Dream Work (1986) continues Oliver’s search to “understand both the wonder and pain of nature” according to Prado in a later review for the Los Angeles Times Book Review. Ostriker considered Oliver “among the few American poets who can describe and transmit ecstasy, while retaining a practical awareness of the world as one of predators and prey.” For Ostriker, Dream Work is ultimately a volume in which Oliver moves “from the natural world and its desires, the ‘heaven of appetite’ … into the world of historical and personal suffering. … She confronts as well, steadily,” Ostriker continued, “what she cannot change.”
The transition from engaging the natural world to engaging more personal realms was also evident in New and Selected Poems (1992), which won the National Book Award. The volume contains poems from eight of Oliver’s previous volumes as well as previously unpublished, newer work. Susan Salter Reynolds, in the Los Angeles Times Book Review, noticed that Oliver’s earliest poems were almost always oriented toward nature, but they seldom examined the self and were almost never personal. In contrast, Oliver appeared constantly in her later works. But as Reynolds noted “this self-consciousness is a rich and graceful addition.” Just as the contributor for Publishers Weekly called particular attention to the pervasive tone of amazement with regard to things seen in Oliver’s work, Reynolds found Oliver’s writings to have a “Blake-eyed revelatory quality.” Oliver summed up her desire for amazement in her poem “When Death Comes” from New and Selected Poems: “When it’s over, I want to say: all my life / I was a bride married to amazement. / I was the bridegroom, taking the world into my arms.”
Oliver continued her celebration of the natural world in her next collections, including Winter Hours: Prose, Prose Poems, and Poems (1999), Why I Wake Early (2004), New and Selected Poems, Volume 2 (2004), and Swan: Poems and Prose Poems (2010). Critics have compared Oliver to other great American lyric poets and celebrators of nature, including Marianne Moore, Elizabeth Bishop, Edna St. Vincent Millay, and Walt Whitman. “Oliver’s poetry,” wrote Poetry magazine contributor Richard Tillinghast in a review of White Pine (1994) “floats above and around the schools and controversies of contemporary American poetry. Her familiarity with the natural world has an uncomplicated, nineteenth-century feeling.”
A prolific writer of both poetry and prose, Oliver routinely published a new book every year or two. Her main themes continue to be the intersection between the human and the natural world, as well as the limits of human consciousness and language in articulating such a meeting. Jeanette McNew in Contemporary Literature described “Oliver’s visionary goal,” as “constructing a subjectivity that does not depend on separation from a world of objects. Instead, she respectfully conferred subjecthood on nature, thereby modeling a kind of identity that does not depend on opposition for definition. … At its most intense, her poetry aims to peer beneath the constructions of culture and reason that burden us with an alienated consciousness to celebrate the primitive, mystical visions that reveal ‘a mossy darkness – / a dream that would never breathe air / and was hinged to your wildest joy / like a shadow.’” Her last books included A Thousand Mornings (2012), Dog Songs (2013), Blue Horses (2014), Felicity (2015), Upstream: Selected Essays (2016), and Devotions: The Selected Poems of Mary Oliver (2017).
Mary Oliver held the Catharine Osgood Foster Chair for Distinguished Teaching at Bennington College until 2001. In addition to such major awards as the Pulitzer and National Book Award, Oliver received fellowships from the Guggenheim Foundation and the National Endowment for the Arts. She also won the American Academy of Arts & Letters Award, the Poetry Society of America’s Shelley Memorial Prize and Alice Fay di Castagnola Award.
Oliver lived in Provincetown, Massachusetts, and Hobe Sound, Florida, until her death in early 2019. She was 83.
Cenni biografici di Mary Oliver
Mary Oliver (Maple Heights, 10 settembre 1935 – Hobe Sound, 17 gennaio 2019) è stata una poetessa statunitense. Ha vinto il National Book Award e il Premio Pulitzer. Il New York Times l’ha descritta come “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Il fascino della fotografa Vivian Maier è dovuto al mistero che circonda la sua vita e il suo lavoro. La vicenda di Vivian Maier, la misteriosa bambinaia fotografa diventata un caso mediatico poco dopo la sua morte, è nota solo a grandi linee, così come nota è solo una piccola selezione delle sue immagini e una manciata di informazioni sulla sua vita“Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è la raccolta più completa delle sue fotografie, in bianco e nero e a colori. Grazie al testo introduttivo di Marvin Heiferman, scrittore e curatore, il volume esplora e celebra la vita e l’opera di Vivian Maier in una prospettiva precisa e attuale, analizzando il suo lavoro nel contesto della Street photography americana contemporanea. Basato anche su una serie di interviste a persone che la conobbero, il testo getta una nuova luce sulla vita e sulla sorprendente opera di Vivian Maier. Con 240 fotografie in gran parte inedite, questa raccolta include anche le immagini degli effetti personali della fotografa, così come gli oggetti collezionati nella sua vita e mai prima d’ora visti.
La vita di Vivian Maier è stata ricostruita in particolare da John Maloof che ha cercato testimonianze della sua vita negli Stati Uniti, specialmente tra le famiglie presso le quali ha vissuto. La parte francese della sua biografia è stata ricostruita grazie al lavoro dell’associazione Vivian Maier et le Champsaur[1] che ha cercato testimoni nel Champsaur, la valle d’origine della sua famiglia materna nelle Alte Alpi.
Vivian Maier nacque a New York, il 1º febbraio 1926. Suo padre, Charles Maier, era statunitense, nato da una famiglia di emigranti austriaca, mentre sua madre, Maria Jaussaud, era nata in Francia, nel maggio 1897, a Saint-Julien-en-Champsaur in cui visse fino alla sua partenza in America, dove un ramo della famiglia Jaussaud era già emigrata. A New York, Maria conobbe Charles Maier, impiegato in una drogheria, che sposò nel maggio 1919 ottenendo, attraverso il matrimonio, la cittadinanza degli Stati Uniti. Da questa unione nacquero due figli: prima un maschio, William Charles, nel 1920, e poi, nel 1926, una figlia, Vivian.
Vivian Maier
Separatisi i genitori nel 1929, il ragazzo fu affidato ai nonni paterni e Vivian rimase con la madre, che trovò poi rifugio presso un’amica francese che viveva nel Bronx, di nome Jeanne Bertrand, nata nel 1880 non lontano dalla valle di Champsaur. Jeanne Bertrand era già una fotografa professionista, tanto che ebbe gli onori della prima pagina del 23 agosto 1902 del Boston Globe, il principale giornale di Boston, che pubblicò una sua foto e due ritratti fatti da lei, insieme ad un articolo elogiativo sul suo giovane talento fotografico. Fu lei che trasmise a Maria e a sua figlia la passione per la fotografia.
Vivian Maier
Grazie alle testimonianze raccolte dai residenti in Champsaur, il sito dell’associazione locale riporta che tra il 1932 e il 1933, le due donne e Vivian tornarono in Francia e si stabilirono prima a Saint-Julien, poi a Saint-Bonnet-en-Champsaur. Parte dell’infanzia di Vivian si svolse quindi in Francia, dai sei-sette anni fino ai dodici. In quel periodo, Vivian parla francese e gioca con i bambini della sua età mentre Maria, sua madre, scatta alcune fotografie che testimoniano del loro soggiorno.
Vivian Maier
Il 1º agosto 1938 Maria Maier e sua figlia ripartirono per gli Stati Uniti a bordo del transatlantico Normandie, che collegava Le Havre a New York, dove di nuovo si stabilirono. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1950-1951, Vivian Maier, all’età di 24-25 anni, tornò a Champsaur per mettere all’asta una proprietà che le era stata lasciata in eredità. In attesa della vendita, Vivian, con due apparecchi fotografici a tracolla, percorse la regione, facendo visita ai membri della sua famiglia e riprendendo molte immagini.
Vivian Maier
La giovane donna ripartì nell’aprile del 1951 per New York. Con il ricavato della vendita della casa, comprò una fotocamera eccellente, una Rolleiflex professionale, e viaggiò nel Nordamerica. In seguito lavorò come bambinaia al servizio di una famiglia di Southampton, prima di stabilirsi definitivamente nel 1956 a Chicago, dove continuò a fare la governante per bambini.
Vivian Maier
Vivian Maier aveva 30 anni al suo arrivo a Chicago, dove fu assunta dai coniugi Nancy e Avron Gensburg per prendersi cura dei loro tre ragazzi: John, Lane e Matthew. Secondo Nancy Gensburg, Vivian non prediligeva fare la bambinaia, ma, non sapendo che altro fare, quello fu il mestiere che esercitò per quarant’anni. I bambini, peraltro, l’adoravano: per Lane Gensburg, Vivian “era come Mary Poppins“.
Vivian Maier
Presso i Gensburg Maier aveva un bagno privato, che le servì anche come camera oscura, avendola lei attrezzata per sviluppare i negativi e i suoi film. La fotografa diede libero sfogo alla sua passione per la fotografia allorché, ad ogni occasione, poté immortalare la vita quotidiana nelle strade con i suoi abitanti, bambini, lavoratori, persone di buona società e personaggi famosi come pure miserabili, mendicanti ed emarginati. Mentre era ancora al servizio dei Gensburg, che ricorsero ad una temporanea sostituita, Vivian intraprese, da sola, per 6 mesi, tra il 1959 e il 1960, un viaggio intorno al mondo, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia dove sostò a Genova e a Torino e infine la Francia con un ultimo soggiorno a Champsaur girando in bicicletta per tutto il circondario e scattando molte foto. Non disse mai ai Gensburg dove fosse stata, benché fosse molto legata a questa famiglia che conobbe fin dal suo arrivo a Chicago e con cui visse per 17 anni. Diventati grandi John, Lane e Matthew, i Gensburg non ebbero più bisogno di una tata e Vivian Maier li lasciò per continuare la sua attività presso altre famiglie con bambini piccoli. Da quel momento smise di sviluppare e di elaborare i suoi negativi e decise di passare alla fotografia a colori con diverse fotocamere, tra cui una Kodak e una Leica.
Vivian Maier
Nel 1975 morì la madre Maria, con la quale non aveva più rapporti da anni. Vivian, sempre animata dalla sua grande passione per la fotografia, continuò a guadagnarsi da vivere come bambinaia. Non si conoscono tutte le famiglie presso le quali prese servizio, ma si sa che nel 1987 si presentò ai coniugi Usiskin, suoi nuovi datori di lavoro, portando con sé 200 casse di cartone contenenti il suo archivio personale, che furono immagazzinate in un box.
Vivian Maier
Dal 1989 al 1993 Vivian si prese cura con grande umanità di Chiara Bayleander, un’adolescente con disabilità mentale. In questo periodo le sue casse furono sistemate in un mezzanino del suo datore di lavoro.
Vivian Maier
Mentre l’età avanzava, Vivian si trovò ad attraversare gravi difficoltà finanziarie. Le sue casse, da ultimo, andarono a finire nel box di un magazzino preso in affitto. Alla fine degli anni novanta i fratelli Gensburg, con i quali Vivian aveva per molto tempo mantenuto un legame andando a visitarli in occasione di matrimoni, lauree e nascite, la rintracciarono in un piccolo alloggio economico di Cicero e la trasferirono in un grazioso appartamento a Rogers Park vegliando su di lei.[2]
Vivian Maier
Sul finire del 2008, Vivian ebbe un incidente cadendo sul ghiaccio e battendo la testa, per cui fu ricoverata in ospedale. I Gensburg per garantirsi che avesse le migliori cure la fecero trasferire in una casa di cura a Highland Park. Nonostante queste affettuose attenzioni, Vivian Maier morì dopo poco tempo, il 21 aprile 2009, senza che né lei né i Gensburg sapessero che due anni prima, a causa degli affitti non pagati, il suo box era stato messo all’asta, e prima che John Maloof, che cercava sue notizie e voleva valorizzare la sua opera, potesse trovarla e incontrarla.
Maier e, soprattutto, la sua vasta quantità di negativi[3] è stata scoperta nel 2007, grazie alla tenacia di John Maloof, anche lui statunitense, giovane figlio di un rigattiere. Nel 2007 il ragazzo, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago e avendo poco materiale iconografico a disposizione, decise di comprare in blocco per 380 dollari, ad un’asta, il contenuto di un box zeppo degli oggetti più disparati, espropriati per legge ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi), Maloof reperì una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare.
Dopo aver stampato alcune foto, Maloof le pubblicò su Flickr, ottenendo un interesse entusiastico e virale e l’incoraggiamento della community ad approfondire la sua ricerca. Pertanto fece delle indagini sulla donna che aveva scattato quelle fotografie: venne a sapere che Vivian non aveva famiglia e aveva lavorato per tutta la vita come bambinaia soprattutto nella città di Chicago; durante le giornate libere e i periodi di vacanza era solita scattare foto della vita quotidiana di città come New York, Chicago e Los Angeles. La maggior parte delle sue foto sono street photosante litteram e dunque Maier può essere considerata una antesignana di questo genere fotografico. Inoltre, Maier scattò molti autoritratti, caratterizzati dal fatto che non guardava mai direttamente verso l’obiettivo, utilizzando spesso specchi o vetrine di negozi come superfici riflettenti.
La sua vita può essere paragonata a quella della poetessa statunitense Emily Dickinson, che scrisse le sue riflessioni e le sue poesie senza mai pubblicarle e, anzi, a volte, nascondendole in posti impensati, dove furono ritrovate solamente dopo la sua morte. Dal momento della sua scoperta, Maloof ha svolto una grande attività di divulgazione della sua opera fotografica, organizzando mostre itineranti in tutto il mondo.[4] Vivian Maier utilizzava per scattare le sue immagini una macchina fotografica Rolleiflex e un apparecchio Leica IIIc. La sua vita e il suo lavoro sono stati oggetto di libri e documentari.
Affermazione di Joan Fontcuberta
Nel 2017 il fotografo spagnolo Joan Fontcuberta affermò, durante una conferenza tenutasi a Bologna, di aver inventato lui il personaggio di Vivian Maier insieme a John Maloof e che per quanto la donna delle foto sia realmente esistita e le foto sono autentiche, tutta la storia che ruota attorno a lei è stata inventata[5]. In seguito non si hanno notizie di prove fornite da Fontcuberta, noto per le sue provocazioni, né che abbia reiterato l’affermazione; nessun organo di stampa l’ha avallata.[6]
Mostre
Vivian Maier Anthology, settembre 2023-gennaio 2024, Palazzo Pallavicini (Bologna) organizzata da Deborah Petroni, Chiara Campagnoli e Rubens Fogacci, a cura di Anne Morin
Summer in the City, giugno–agosto 2013, Chicago; Russell Bowman Art Advisory.[23]
Vivian Maier, giugno–agosto 2013, Shanghai, Cina; Kunst.Licht Photo Art Gallery.[24]
Vivian Maier: Out of the Shadows, luglio–settembre 2013, Toronto, Ontario; Stephen Bulger Gallery.[25]
Vivian Maier: Out of the Shadows – The Unknown Nanny Photographer, agosto–ottobre 2013, Durango, Colorado; Open Shutter Gallery.[26]
Загадка Вивьен Майер (The Riddle of Vivian Maier), settembre–ottobre 2013, Mosca, Russia; Центр фотографии имени братьев Люмьер (The Lumiere Brothers Center for Photography).[8]
Vivian Maier: Picturing Chicago, ottobre 2013, Chicago; Union League Club.[27]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–febbraio 2014, Cleveland, Ohio; Cleveland Print Room.[30]
Certificates of Presence: Vivian Maier, Livija Patikne, J. Lindemann, 17 gennaio – 8 marzo 2014, Milwaukee; Portrait Society Gallery.[31]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–marzo 2014, Minneapolis; MPLS Photo Center.[32]
Vivian Maier: Out of the Shadows, febbraio–giugno 2014, San Francisco; Scott Nichols Gallery.[33]
See All About It: Vivian Maier’s Newspaper Portraits, marzo–maggio 2014, Berkeley; The Reva and David Logan Gallery at UC Berkeley’s Graduate School of Journalism.[34]
Vivian Maier, Photographer, marzo–maggio 2014, Fribourg, Svizzera; Cantonal and University Library.[35]
Vivian Maier: Out of The Shadows, marzo–settembre 2014, Chicago, Illinois; Harold Washington Library.[36]
Vivian Maier – A Photographic Journey, maggio–luglio 2014, Highland Park; The Art Center Highland Park.[37]
Chiara Migliucci, l’Autrice è nata a Napoli nel 1998,è una studentessa universitaria alla facoltà di chimica presso la Federico II. Si è avvicinata alla poesia intorno ai vent’anni. Ha pubblicato una sua Poesia sulla rivista cartacea “Mosse di Seppia” poiché tra i vincitori del concorso poetico “Caffè vol. VI”, sulla rivista “MomentiDiVersi” edita dall’associazione Poesie Metropolitane in occasione di un concorso letterario; è membro della stessa associazione e da un anno fa anche parte della redazione della rivista autogestita, per cui scrive sporadicamente. Ha preso parte alla rubrica social “Anteprima Poetica” redatta da Achille Pignatelli, edita dalla casa editrice “Homo Scrivens”. Ha pubblicato nell’ultimo periodo poesie sulla rivista cartacea Ellin Selae, la rivista Kairos, e una sua poesia è stata anche pubblicata sul giornale La Repubblica di Napoli (in data 10 agosto 2024). Nel 2024 ha formato con un ristretto gruppo di amici, un circolo letterario dal nome “La Penna di Calliope”, il cui obiettivo è unire gli abitanti di Napoli e provincia nel nome della poesia, organizzando eventi dal vivo. Grazie “La Gazzetta Letteraria”, ha preso parte ad una mostra in cui sono stati esposti al pubblico dei suoi testi.
Chiara Migliucci
Per te era pronta la regia del vento il soffio dei polmoni che comanda le vele, le sere di Luglio e un’elegia d’amore.
Volevano tenessi per scettro la circoscrizione dello spaziotempo, ma t’hanno trovato scevro d’anima spogliato d’ogni lacrima sul ciglio del cuore.
Ti hanno dato in dono un distico di dolore e di rimpianti, e io non districo cataclismi dai prismi dove ti scomponi ti perdi e non ti perdoni dall’essere spettro.
Ti confessi all’ombra degli squarci del destino questo guardarci ci è nemico, è antico il rumore di vele che porti nel petto sognando il mare aperto vuoto di miseria.
Ti hanno donato musei d’anime sacrificali una giostra di miracoli finiti per luci artificiali, è crudele questa vita, prega istinti ai tabernacoli, e obbliga i vinti a rivivere i propri ostacoli;
è una Babele di incroci che non sanno capirsi ma io ti sento tra le mille voci e vivrò anche un po’ per i tuoi occhi vivi di stenti.
Marechiaro
Madonna veglia dallo strapiombo piange sul fruscio caldo dello scafo prega lì, dove àncora, e giace la baia di sabbia e tombe – massi tra le onde –
Madonna veglia sul sole genuflesso a sua volta al peso del giorno che fu e che sarà: si inchina all’ora sacra del vespro.
Scogli come corpi ansimanti a galla cercano àncore di carità nel mare che cede alla sovranità della roccia.
Le acacie vegliano su di una Madonna di pietra rigogliose ricordano al cielo che solo tremando si è vivi, e Madonna è rigorosa di gelo e di sabbia
Ti avverto nelle vertebre nel riverbero delle parole che saltano le corse, le corde vocali pur di arrivare a te, mia musa a sibilare feroci e sicure parole che a dire io inciampo che forse capirai domani tremando.
Dalle ringhiere del costato sbandiero libertà dal tuo respiro.
Sei poesia ora e nient’altro; forse in vita mia sono stata solo conseguenza.
Solo conseguenza sequenza di tempo che vive si esprime reprime le primule.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Dalila e Daniela, le fondatrici.
Per informazioni: laltrovepoet@outlook.it
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Il nostro motore è la passione vera verso questa parte di Roma e della SABINA Reatina e Romana , questo specifico territorio. C’è un’infinità da lavorare, sempre ricordando che partiamo da sottozero e non da un podio illuminato; la passione non basta. La passione vera e profonda e instancabile è già qualcosa, ma deve essere supportata e confermata da genio e conoscenza, essendo tutti e tre gli elementi necessari assieme. C’è un’infinità da lavorare: ABC DEA SABINA è un titolo ambizioso e tale nostra ambizione va sicuramente colmata di contenuti, altrimenti diverrebbe banale presunzione. Il nostro progetto è infinito. Non vogliamo raggiungere un obiettivo preordinato, preso il quale il nostro lavoro sarebbe concluso. Ogni mèta toccata sarà la ripartenza per la successiva, senza mai esaurita la carica propulsiva nella vanagloria. Il progetto ABC DEA SABINAè appassionato. L’unica tassa di partecipazione al progetto è la PASSIONE vera e profonda e instancabile. C’è da dire, in chiusura, che tutti gli scritti, pubblicati su ABC DEA SABINA, dovranno essere, almeno provare, perfetti come dei testi sui quali scrivere musica. E che musica! Musica piena di PASSIONE. E che la Sinfonia di ABC DEA SABINA abbia inizio.
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In occasione dei 110 anni dalla nascita di Robert Capa (22 ottobre 1913) rendiamo omaggio al grande fotografo ungherese con una mostra personale che ripercorre i principali reportage di guerra e di viaggio che Capa realizzò durante vent’anni di carriera, anni che coincisero con i momenti cruciali della storia del Novecento.
Realizzata grazie alla collaborazione con l’agenzia Magnum Photos, la mostra riunisce un eccezionale corpus di fotografie: oltre 80 stampe originali, alcune delle quali mai esposte prima in una mostra italiana, accompagnate da una rara intervista rilasciata dal fotoreporter a una radio americana nel 1947 e da alcuni documenti d’epoca provenienti dalla collezione di Magnum.
Attraverso sette sezioni e con un percorso diacronico vengono raccontati i più importanti reportage in bianco e nero realizzati da Robert Capa, dagli esordi a Berlino e Parigi (1932-1936) alla guerra civile spagnola (1936-1939); dall’invasione giapponese in Cina (1938) alla seconda guerra mondiale (1941-1945); dal reportage di viaggio in Unione Sovietica (1947) a quello sulla nascita di Israele (1948-1950), fino all’ultimo incarico come fotografo di guerra in Indocina (1954).
Nei suoi vent’anni di carriera ha raccontato la storia restando sempre fedele al suo celebre aforisma: “se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”.
L’azione – con tutta la sua dinamicità e forza propulsiva – spicca tra gli scatti come un fil rouge, che si dipana anche nei ritratti presenti in mostra, volutamente pochi e scelti per ricordare al pubblico i volti della Storia – come quello di Trockij ardente oratore – o della sua storia personale, come quello di Picasso, fotografato nel suo studio di Parigi dove era rimasto anche durante l’occupazione, e dell’amico Steinbeck con cui intraprese il viaggio oltre la cortina di ferro, nel ’47.
Ad Avellaneda, il padre lavorava come cuentenik, mestiere tipico ebreo: vendita porta a porta, a volte di gioielli, a volte di elettrodomestici[1].
L’infanzia fu complicata dagli echi della seconda guerra mondiale, soprattutto per il massacro di Rivne, di cui parte dei suoi parenti lontani rimase vittima. Ebbe inolte diversi problemi di salute, come asma, acne e tendenza ad aumentare di peso; questi fattori influenzarono la sua autopercezione fisica e la sua autostima, e, congiuntamente alle pressanti aspettative ”borghesi” dei suoi genitori, sono ritenute il punto di partenza dei suoi tormenti e dei suoi disturbi degli anni a seguire[2].
Nel 1954, dopo molti dubbi, entrò nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires, cambiando spesso indirizzo (dapprima Filosofia, poi Giornalismo poi Lettere). In seguito, si dedicò anche alla pittura col surrealista Juan Batlle Planas, per poi abbandonare definitivamente l’accademia e dedicarsi a pieno alla scrittura. Un incontro che la segnò in questo periodo fu con Juan Jacobo Bajarlia, detentore della cattedra di Lettere moderne, che fu un punto di riferimento e un aiuto per le prime pubblicazioni, sia per le correzioni delle bozze sia perché la introdusse personalmente ad editori (Antonio Cuadrado) e poeti (Oliverio Girondo).
I suoi primi maestri furono dunque esponenti del surrealismo, sebbene tra le sue letture e i suoi primi scritti figuri una fascinazione notevole per l’esistenzialismo e la psicoanalisi. Legge con fervore Sartre, Faulkner, Joyce ma anche Mallarmé, Artaud, Kierkegaard, incontrando in essi non solo temi e ispirazione ma anche “tracce della sua stessa identità”[2]. Ebbe diverse sessioni di psicoanalisi con León Ostrov (a cui poi dedicò la poesia “El despertar”) attraverso cui riuscì sia a lenire i suoi problemi sia ad innovare la sua poetica, unendovi l’esplorazione dell’inconscio e della soggettività[2].
Nel 1962 conobbe la poetessa italiana Cristina Campo, per cui provò una profonda attrazione e con cui scambiò per alcuni anni poesie e lettere. Dagli scritti emerge una la pulsione erotica di Alejandra che avvolge la “casta” Cristina, la quale ne resta sopraffatta ma distante[3]. Nonostante l’apparente inconciliabilità tra loro, le due donne accomunate dall’amore per il mistero della poesia[3] mantennero questa relazione epistolare forse fino all’ultima lettera mai spedita della poetessa argentina datata 1970, in cui accetta parzialmente la distanza e la divergenza tra i loro mondi. A Cristina Campo Alejandra Pizarnik dedicò la poesia Anelli di cenere.
Tornata a Buenos Aires scrisse alcuni dei lavori più conosciuti ed apprezzati, come I lavori e le notti, Estrazione della pietra della pazzia e L’inferno musicale.
I suoi diari personali, per molti anni tenuti nascosti da lei e successivamente dai suoi eredi testamentari, lasciano intendere la bisessualità o l’omosessualità della scrittrice.
Nel 1967 il padre morì di infarto; questo avvenimento viene descritto nei suoi diari come una “Morte interminabile, oblio del linguaggio e perdita di immagini. Come mi piacerebbe stare lontano dalla follia e la morte (…) La morte di mio padre rese la mia morte più reale” e segna l’inizio di un progressivo incupimento dei suoi scritti. In alcune lettere successive dichiara apertamente di provare una fatica nel riuscire a dire per davvero ciò che vorrebbe dire, di percepire una “abissale distanza tra desiderio e atto”. Sembra quasi che il linguaggio poetico che prima era stato il suo nutrimento ed il suo vestito si stesse dissolvendo, perdendo “la materica consistenza in grado di renderla corpo, vita, donna”[4].
Successivamente, andò ad abitare con la sua compagna fotografa, Martha Isabel Moia, mentre il suo stile di vita divenne decisamente più irregolare, acuendosi la sua dipendenza da farmaci.
Nel 1969 esce La contessa crudele (o sanguinaria), testo in prosa. Lo stesso anno va a New York per ricevere la borsa di studi Guggenheim,[5] e ne viene frastornata, percependo a pieno la “ferocia insostenibile” della città. Dopo due anni vince anche la borsa di studio Fulbright.
Compie un ritorno in Francia cercando un approdo verso ciò che credeva rimasto del suo precedente periodo parigino. Disillusa fa ritorno in Argentina, iniziando un processo di chiusura e disgregazione che culminerà in due tentativi di suicidio e un internamento in clinica psichiatrica.
Muore a 36 anni, il 25 settembre 1972, dopo aver ingerito cinquanta pastiglie di seconal, mentre era in permesso dalla clinica.
Sul suo letto di morte i suoi ultimi versi “non voglio andare / nulla più / che fino al fondo”
Dopo la sua morte, lo scrittore argentino Julio Cortázar le dedicò la poesia Aquí Alejandra.
Fu sepolta nel cimitero ebreo di La Tablada, ad est di Buenos Aires; ogni due o tre mesi scompare la sua foto dalla tomba[1].
La notte
Della notte so poco
ma di me la notte sembra sapere,
e più ancora, mi assiste come se mi amasse,
mi ammanta di stelle la coscienza.
Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è nulla
e nulla le nostre congetture
e nulla gli esseri che la vivono.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nel vuoto enorme dei secoli
che ci graffiano l’anima coi ricordi.
Ma la notte conosce la miseria
che succhia il sangue e le idee.
Scaglia l’odio, la notte, sui nostri sguardi
che sa pieni di interessi, di incontri mancati.
Ma accade che la notte, ne senta il pianto nelle ossa.
Delira la sua lacrima immensa
e grida che qualcosa è partito per sempre.
Un giorno torneremo a esistere.
Flora Alejandra Pizarnik
Poesia
Tu scegli il luogo della ferita
dove dicemmo il nostro silenzio.
Tu fai della mia vita
questa cerimonia troppo pura.
Anelli di cenere
a Cristina Campo
Stanno le mie voci al canto
perché non cantino loro,
i grigiamente imbavagliati nell’alba,
i camuffati da uccello desolato nella pioggia.
C’è, nell’attesa,
una voce di lillà che si spezza.
E c’è, quando si fa giorno,
una scissione del sole in piccoli soli neri.
E quando è notte, sempre,
una tribù di parole mutilate
cerca asilo nella mia gola,
perché non cantino loro,
i funesti, i padroni del silenzio.
Flora Alejandra Pizarnik
Presenza
la tua voce
in questo non potersene uscire le cose
dal mio sguardo
mi spossessano
fanno di me un vascello in un fiume di pietre
se non è la tua voce
pioggia sola nel mio silenzio di febbri
tu mi liberi gli occhi
e per favore
parlami
sempre.
Gli occhi aperti
Qualcuno misura singhiozzando
l’estensione dell’alba.
Qualcuno pugnala il cuscino
in cerca del suo impossibile
spazio di quiete.
Flora Alejandra Pizarnik
Questa notte, in questo mondo
a Martha Isabel Moya
questa notte in questo mondo
le parole del sogno dell’infanzia della morte
non è mai questo che si vuol dire
la lingua materna castra
la lingua è un organo di conoscenza
del fallimento di ogni poesia
castrata dalla sua stessa lingua
che è l’organo della ri-creazione
del ri-conoscimento
ma non della resurrezione
di qualcosa in forma di negazione
del mio orizzonte di maldoror col suo cane
e niente è promessa
tra il dicibile
che equivale a mentire
(tutto ciò che si può dire è menzogna)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l’amore
fanno l’assenza
se dico acqua berrò?
se dico pane mangerò?
questa notte in questo mondo
straordinario il silenzio di questa notte
con l’anima succede che non si vede
con la mente succede che non si vede
con lo spirito succede che non si vede
da dove viene questa cospirazione d’invisibilità?
nessuna parola è visibile
ombre
spazi viscosi dove si occulta
la pietra della follia
neri corridoi
li ho percorsi tutti
oh fermati un altro po’ tra di noi!
la mia persona è ferita
la mia prima persona singolare
scrivo come chi alza un coltello nel buio
scrivo come dico
la sincerità assoluta sarebbe sempre
l’impossibile
oh fermati un altro po’ tra di noi!
lo sfacelo delle parole
che sloggiano il palazzo del linguaggio
la conoscenza tra le gambe
che cosa hai fatto del dono del sesso?
oh miei morti
li ho mangiati mi sono strozzata
non ne posso più di non poterne più
parole camuffate
tutto scivola
verso la nera liquefazione
e il cane di maldoror
questa notte in questo mondo
dove tutto è possibile
tranne
la poesia
parlo
sapendo che non si tratta di ciò
sempre non si tratta di ciò
oh aiutami a scrivere la poesia più prescindibile
quella che non serva nemmeno
a essere inservibile
aiutami a scrivere parole
in questa notte in questo mondo
Flora Alejandra Pizarnik
***
La poesia che non dico,
quella che non merito.
Paura di essere due
sulla via dello specchio:
qualcuno che dorme in me
mi mangia e mi beve.
***
no, la verità non è la musica
io, triste attesa di una parola
qual è il nome che cerco
e che cosa cerco?
non il nome della deità
non il nome dei nomi
ma i nomi precisi e preziosi
dei miei desideri nascosti
qualcosa in me mi punisce
da tutte le mie vite:
– Ti abbiamo dato tutto il necessario perché comprendessi
e hai preferito l’attesa,
come se tutto ti annunciasse la poesia
(quella che non scriverai mai perché è un giardino inaccessibile
sono solo venuta a vedere il giardino –)
BIOGRAFIA
Flora Alejandra Pizarnik
-FONTE- Rivista «Avamposto»
Le Poesie sono pubblicate dalla Rivista di Poesia «Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Contatti
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
Testi selezionati da Il barbagianni. L’ignorante (trad. di F. Pusterla, Einaudi, 1992)
Breve biografia di Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera francese, ed è morto a Grignan nel 2021.Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie, cui sono seguite Poesie (1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (1994), E tuttavia (2001). La sua attività di prosatore e saggista trova l’espressione più alta nei taccuini di Appunti per una semina (1984), seguiti da La seconda semina (1996) e dal saggio La parola Russia (2002).
Philippe Jaccottet
Portovenere
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questi «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Interno
Cerco da tempo di vivere qui,
in questa stanza che fingo d’amare,
tavolo, oggetti quieti, la finestra
che in fondo ad ogni notte apre altri verdi,
e il cuore del merlo che batte nell’edera scura,
punti di luce sulle macchie d’ombra.
Anch’io cerco di dirmi: «L’aria è dolce,
sono a casa, la giornata sarà buona».
C’è solo, in fondo al letto, questo ragno
(si sa, è il giardino), che non ho abbastanza
ucciso, sembra stia tessendo ancora
la trappola al mio fragile fantasma…
Philippe Jaccottet
***
Di notte, nella città dove vivo in immagine,
la nebbia trasforma le strade in passaggi e voragini,
in cui vanno i fantasmi, come portando altrove
quel lieve vapore che sale dal fondo del cuore.
Eppure insisto, per quanto sia incapace il solitario,
e osservo le figure della luce. E se poi fosse
appunto per la pietra che vacilla, o perché il vento
di fronte ai bar impazza come un cane, o perché squassa
foglie, finestre malchiuse, che finalmente
stavo per incrociarvi, distrutta la forza,
estrema fragilità sempre sfuggente: e se poi avessi
acciuffato il vostro mantello di cuoio… Ora sapendo
che i muri più alti non sono che leghe di polvere,
che chiasso e arditi specchi dei caffè improvvisamente
s’incrinano ai primi suoni del mattino, e che salendo
ai belvedere di periferia la città appare
povero mucchio di braci fumanti,
più non accoglierò queste figure terrificanti,
e ancora camminerò, benché sia inverno, e gli ultimi
ricordi di ieri il fiume abbia travolto…
Vivrò meno tremante in queste fortezze di sabbia,
poiché desidero solo una cosa che sfugge, vaga,
questa parola detta in un soffio alla bocca in attesa,
sull’astro degli occhi brucianti questo passaggio di nebbia.
Philippe Jaccottet
L’ignorante
Più invecchio e più io cresco in ignoranza,
meno possiedo e regno più ho vissuto.
Quello che ho è uno spazio volta a volta
innevato o lucente, mai abitato. E il donatore
dov’è, la guida od il guardiano? Io rimango
nella mia stanza, e taccio (entra il silenzio
come un servo che venga a riordinare),
e attendo che a una a una le menzogne
scompaiano: cosa resta? cosa rimane a questo moribondo
che gli impedisce ancora di morire? Quale forza
lo fa ancora parlare tra i suoi muri?
Potrei saperlo, io, l’ignaro e l’inquieto? Ma la sento
parlare veramente, e ciò che dice
penetra con il giorno, anche se è vago:
«Come il fuoco, l’amore splende solo
sulla mancanza, e sopra la beltà dei boschi in cenere…»
Il lavoro del poeta
Compito dello sguardo che s’offusca
non è sognare o piangere, è vegliare
come un pastore il gregge, e richiamare
ciò che rischia di perdersi nel sonno.
*
Così, sul muro acceso dall’estate
(ma non sarà piuttosto dal ricordo)
vi guardo dentro la pace del giorno,
voi che andate lontano, che fuggite,
vi chiamo, luminosi dentro l’erba
più scura, come un tempo nel giardino, voci o luci
(chi sa) che legano i defunti con l’infanzia…
(È morta, la signora sotto il bosso,
spento il suo lume, al vento il suo corredo?
O un giorno tornerà da sotto terra
e potrò dirle, io, andandole incontro: «Che ne è stato
di tutto questo tempo, in cui tacevano
il riso e i vostri passi per la via? E non si poteva
che andarsene così, senza avvisare?
O signora! tornate ora fra noi…»)
Nell’ombra ed ora d’oggi sta in silenzio,
nascosta, l’ombra di ieri. E questo è il mondo.
Non lo vediamo a lungo, quel che basta
a trattenerne quello che scintilla, e a poco a poco
si spegne, a chiamare ancora e poi ancora, e a tremare
di non vedere più. Così si sforza
il misero, come chi, inginocchiato, contro vento,
tenta di radunare un magro fuoco…
***
Adesso so che non possiedo nulla,
neppure l’oro delle foglie fradicie,
né questi giorni che a gran colpi d’ala
vanno da ieri a domani, rimpatriano.
Lei fu con loro, pallida emigrante,
tenue beltà coi suoi segreti vani,
brumosa. E ora condotta certamente
via, tra i boschi piovosi. Come prima
eccomi in faccia a un irreale inverno,
ricanta il ciuffolotto, unica voce
che insiste, come l’edera. Ma il senso
chi lo può dire? E la salute scema,
simile oltre la nebbia al fuoco breve
che un vento glaciale smorza… Ed è già tardi.
Philippe Jaccottet
Il barbagianni
La notte è una grande città addormentata
battuta dal vento… È venuto fin qui da lontano,
all’asilo del letto. È mezzanotte di giugno.
Tu dormi, mi hanno portato a questi bordi infiniti,
freme al vento il nocciolo. Ecco il richiamo
che viene e si ritrae, sembra davvero
una luce in fuga nei boschi, o quel che dicono
il vorticare d’ombre giù negli inferi.
(Questa voce nella notte estiva, quante cose
potrei dirne, e dei tuoi occhi…) Ma è soltanto
il grido del barbagianni che ci invita
nel folto di questi boschi suburbani.
E subito il nostro odore
è quello del marciume al far dell’alba,
subito sbuca l’osso
sotto la nostra pelle così calda,
e intanto le stelle svaniscono in fondo alle strade.
Philippe Jaccottet
Breve biografia di Philippe Jaccottet è nato nel 1925 a Moudon, nella Svizzera francese, ed è morto a Grignan nel 2021.Dal 1953 ha vissuto in Francia. Ha tradotto Hölderlin, Musil, Rilke (cui ha dedicato una monografia critica) e poeti italiani, tra cui Ungaretti, Montale, Bertolucci, Sereni. Nel 1953 ha pubblicato Il barbagianni e altre poesie, cui sono seguite Poesie (1971), con prefazione di J. Starobinski, Alla luce d’inverno (1994), E tuttavia (2001). La sua attività di prosatore e saggista trova l’espressione più alta nei taccuini di Appunti per una semina (1984), seguiti da La seconda semina (1996) e dal saggio La parola Russia (2002).
-Avvenire- Giornale della CEI-
Philippe Jaccottet
Addio a Philippe Jaccottet, poeta in ascolto della presenza e della natura
Articolo di Alberto Fraccacreta -giovedì 25 febbraio 2021
Aveva 95 anni, è tra i massimi poeti in lingua francese. Nato in Svizzera, viveva da tempo nell’Alta Provenza, “ambiente” delle sue poesie, in cui si sposano leggerezza e profondità.
Ho telefonato a casa di Philippe Jaccottet qualche tempo fa. «Jaccottet… Oui?», la subitanea risposta. Ho cominciato a biascicare qualche parola in un francese da arresto. Desideravo chiedere al poeta, scomparso ieri a 95 anni, la sua disponibilità per un’intervista. L’energica seppur pacata voce che era all’altro capo del telefono, sembrava sorridere alla richiesta e adduceva alcune ragioni per un diniego che in verità non ho compreso del tutto. Certo è che, alla fine, in perfetto italiano Jaccottet ha chiosato: «Sono vecchissimo… ormai…». La mia attenzione, una volta chiuso l’ancora tremolante telefono, s’indirizzò più all’“ormai” che al “vecchissimo”. “Ormai” significava l’essere entrato in una dimensione che osservava l’esteriorità del mondo con uno sguardo indulgente ma distaccato.
Il Philippe che aveva ribattuto così cortesemente era lo stesso io lirico di E, tuttavia (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006): un io povero, capiente. Più sganciato dalle cose. Attento alla loro lucentezza. Già Starobinski lo aveva sottolineato nel memorabile saggio Parlare con la voce della luce, presente in forma di postfazione in Il Barbagianni. L’ignorante (a cura di Fabio Pusterla, Einaudi, 1992): «È forse questo l’aspetto più ammirevole dell’opera di Philippe Jaccottet: […] il soggetto cui essa rinvia è il più discreto che esista, desideroso unicamente di alleggerire la propria presenza, di renderla quasi invisibile». Insomma, la poesia di Jaccottet è umile, discreta, come ha evidenziato lo stesso Pusterla, uno dei massimi esperti mondiali del poeta svizzero, autore della prefazione delle Œuvres nella prestigiosa edizione Gallimard (“Bibliothèque de la Pléiade”, 2014).
Avevo inviato persino una lettera, alcuni mesi prima, alla quale rispose declinando sempre la sospirata intervista ma esultando del «beau souvenir» che arrivava da Urbino: qual era il souvenir? La lettera stessa, scritta anche in quell’occasione in un francese spericolato. La lettera era Urbino. Questa, in fondo, è la poesia: il mezzo è la traccia inderogabile del messaggio. E Urbino era Raffaello, Piero della Francesca, la Madonna di Senigallia (di cui Jaccottet parlò raffrontandola curiosamente ai quadri di Morandi in La ciotola del pellegrino (traduzione di Fabio Pusterla, Casagrande, 2007).
Nato a Moudon nel 1925, dopo gli studi a Losanna, Jaccottet andò a vivere a Parigi. Il frenetico ambiente letterario della capitale non gli era familiare, al punto che decise di trasferirsi nell’ottobre del ’53 con la moglie e pittrice Anne-Marie Haesler a Grignan, paese medievale in Alta Provenza non lontano dal Rodano. Nella solitudine essenziale del suo studiolo intraprende la strada della traduzione, lavorando a Omero, ai classici tedeschi e alla poesia italiana (Ungaretti su tutti, ma anche Montale, Bigongiari e molti altri). In un’intervista televisiva (reperibile su Vimeo) Jaccottet ha confessato che la sua vita cambiò quando, durante una passeggiata dal sapore esiodeo, vide «un albero di mele cotogne sul ciglio della strada»: «Un albero abbastanza raro che io non avevo mai visto in fiore. Allora è successo qualcosa che mi ha a dir poco influenzato».
Lì nella Drôme provenzale costruisce la mitologia delle sue ambientazioni poetiche: il nido dell’anemone, le carote selvatiche come «piccole galassie in sospensione», il pettirosso «porta-lanterna», i colori diafani del tramonto simili a «lame vetrificate», l’usignolo in un «ruscello nascosto nella notte». Questi soggetti – a prima vista “insignificanti” – sono latori di uno spazio intermedio (entre-deux) che non si oppone né alla terra né al cielo, ma tenta di cogliere “rasoterra” una trascendenza dentro il reale, uno scorcio di ulteriorità nell’atto della presenza. Il punto di vista dello scrittore è quello di un ignorant («Più invecchio e più io cresco in ignoranza,/ meno possiedo e regno più ho vissuto»), capace di annotare la limpidezza sorgiva di una immacolata percezione.
La poesia di Jaccottet nasce sotto gli auspici di questa levità e di un classicismo disarmante. Pian piano, però, sin dagli anni Settanta e Ottanta con Alla luce d’inverno e Pensieri sotto le nuvole (poi tradotte ancora da Pusterla per Marcos y Marcos, 1997) si sviluppa la predilezione per una lirica larvale che slaccia la cerniera del verso e apre la scrittura a un grembo di osservazioni, bozzetti, sequenze estremamente moderne. Una scrittura legata in maniera indissolubile all’occhio purificato («Che cos’è lo sguardo?/ Una freccia più aguzza della lingua/ la corsa da un estremo all’altro/ dal più profondo al più lontano/ dal più scuro al più chiaro// un rapace», da Arie, traduzione di Albino Crovetto, Marcos y Marcos, 2001), con uno stile paesaggistico e impressionistico che coinvolge l’amato Cézanne e Morandi nel contemplare l’«immemoriale respiro divino», come accade in Paesaggi con figure assenti (a cura di Fabio Pusterla, Armando Dadò, 2009).
Dagli inizi degli anni Novanta a oggi – lasso di tempo in cui fioccano premi importanti, tra cui il Goncourt per la poesia (2005) e il Premio Mondiale Cino-del-Duca (2018), oltre alla sempiterna candidatura al Nobel – la svolta del poème en prose cambia definitivamente i connotati all’opera jaccottetiana: saggi, riflessioni, pezzi narrativi confluiscono nell’unico genere lirico che acquista la forza di un’epica slabbrata, di una totalizzante ossessione elegiaca. Assieme al diario di viaggio (in Russia, Austria, Libano, Siria e Israele) e agli immarcescibili carnets, viene fuori un’idea di silloge destinata a mutare per sempre la percezione fisionomica della poesia: versi e non versi nel medesimo calderone, lirismo e saggismo coagulati, appunti e riquadri romanzeschi (non dimentichiamo la pubblicazione di Appunti per una semina, a cura di Antonella Anedda, Fondazione Piazzolla, 1994; e il romanzo L’oscurità, a cura di Gianluca Manzi, Fazi, 1998), fino alle prose di Passeggiata sotto gli alberi (prefazione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos), in uscita il 17 marzo prossimo: tutto, davvero tutto è poesia.
Sulla scorta di tale slargo espressivo nasce il capolavoro assoluto di Jaccottet, il già citato E, tuttavia con le paroles à la limite de l’ouïe, «parole al limite dell’udito, a nessuno attribuibili, raccolte nella conca dell’orecchio proprio come la rugiada da una foglia». Il gesuita Hopkins, Juan de la Cruz, Claudel e persino Gesù si affacciano al testo nelle vesti sfolgoranti dell’intuizione poetica effigiata dall’azzurro e dall’arancio del martin pescatore, passando sotto lo schiocco di viole che sgombrano la vista, convolvoli rosa che richiamano il poeta a «una sorta d’origine». Qui, nell’infimo e nel consueto, s’infrange ogni resistenza, ogni inchiodatura di scetticismo – pure segnalato dall’esperienza del dolore e della morte nelle coeve Note dal botro – per dar luogo a una forma di immacolatezza, di mariologia della letteratura che offre speranza e consolazione: «Ripenso al verso di Nerval che accosta la santa e la fata: potrei assistere qui, nel mio giardino, alla trasfigurazione della fata ancora rosa, ancora incarnata, nella sua propria anima purissima e priva di peso? Sarebbe troppo bello, troppo conforme ai miei sogni. Credo ci sia piuttosto in questa scena qualcosa come un’acqua molto pura».
La recente monografia di Maurizio Nascimbene, Philippe Jaccottet, un poeta “qui creuse dans la brume” (Nulla Die, 2020) registra come tale «valore attribuito all’innocenza» appaia strettamente connesso a un’«attività poetica volta a indagare il Tutto». E proprio in questi giorni Crocetti ha tradotto un libro che prosegue e celebra il senso di ospitalità lirica, Quegli ultimi rumori… (a cura di Ida Merello e Albino Crovetto).
Con vera commozione rivolgiamo oggi il nostro pensiero alla scomparsa di un autore che ha associato, se non sovrapposto del tutto, la sua esperienza di poeta alla sua esperienza di uomo. Un uomo e un poeta la cui opera, lungi dal digradare a evento moralizzatore, ha in sé una radice di ethos insradicabile, una passione originale per la verità e la bellezza, una volontà di bene come raramente si è potuto osservare a queste altezze, con questo vigore e impeccabilità stilistica, nella storia della letteratura occidentale. Se è possibile utilizzare un’espressione di Amelia Rosselli, “tutto il mondo è vedovo” se Philippe Jaccottet non cammina ancora per le strade di Grignan.
Fonte delle Poesie riprodotte- Avamposto-Rivista di Poesia
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto-Rivista di Poesia
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Rita Pacilio-Poesie e Recensione “Così l’anima invoca un soffio di poesia”
dalla Rivista L’Altrove-
Recensione di Rosa Pacillo-La cifra poetica di Rita Pacilio contiene una collezione privata e suggestiva dell’essenzialità sensibile, consolida la capacità di decantare la qualità introspettiva dei versi nella sorgente creativa di un linguaggio spontaneo, colto nell’immediatezza emblematica dell’indirizzo intuitivo dell’anima. Rita Pacilio orienta la direzione dell’intensità nel sublime itinerario intorno al riflesso umano, concentrando in accordo con il silenzioso contatto con la caducità, la disposizione interiore dei pensieri, la vocazione a fronteggiare la provvisorietà attraverso la percezione consolatoria della natura, nell’innata emozione dell’arrendevole sguardo verso una realtà che elargisce il dono di distinguere l’infinito, oltre il confine delimitato della ricerca umana. Amplia il registro scrupoloso e inesorabile dell’inclinazione generatrice delle cose, riconosce la predisposizione contrastante delle persone catalogando la motivazione del paradosso umano nell’evoluzione speculativa tra le tendenze incompatibili di indifferenza e desiderio, nella determinazione ponderata di dipendenza emotiva e libertà, nella volontà di razionalità e impulso affettivo, nell’interpretazione di spirito e materia.
Rita Pacillo
La poesia di Rita Pacilio è in divenire, nel flusso perenne della sostanza poetica, esposta alla vulnerabilità del tempo e alle sue suscettibili trasformazioni, ammette la scrittura elegiaca come confessione lirica nel valore universale dell’urgenza espressiva in grado di illuminare la vita e gli azzardi del mondo. Le poesie scelte racchiudono la consistenza di una coscienza sconfinata, rinnovata in una vertiginosa catarsi tra l’incessante avvertimento delle assenze e l’autenticità compassionevole della memoria, custodiscono la profonda attrazione sovrumana nella trascendenza delle intonazioni significanti, nel legame strutturale ed evocativo tra segno linguistico ed elemento concettuale, esplorano la regione segreta e contemplativa dell’inconoscibile. Sperimentano l’estensione della poesia come intesa corrispondente alla selezione stilistica e letteraria, annotano la responsabilità delle inquietudini morali lacerate, illustrano l’inaugurazione sensibile alla meraviglia della bellezza, il filamento impercettibile e inafferrabile della spiritualità. Il soffio della poesia muove il passaggio esistenziale di una voce impalpabile ed esitante che sussurra il tremolio appassionante delle parole e modella i versi nella corrente dell’invisibile, nell’alito di vento sfiorato dalla purificazione del vissuto.
Rita Pacilio pone l’accento sull’accuratezza del dolore e sulla rivelazione confortante delle confidenze, annota la gravità dell’abisso nei dettagli obliqui della contemporaneità, supplica la presenza fedele dei ricordi, codifica la cadenza visionaria del linguaggio, la sua inattesa possibilità di mutamento, consacra forma e contenuto nella funzione esegetica dell’immaginazione, adottando una comunicazione elegante e saggia, nell’identificazione di un’appartenenza, nel discernimento dal varco impenetrabile di ogni orizzonte.
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Alcuni testi selezionati per voi dalla raccolta:
Io l’ho amata ogni mattina nell’eternità celeste questa terra travestita a festa e silenzio. L’ho amata di felicità sull’isola come fossi io stessa stesa sull’acqua nel canto libero di chi crede ancora che amarsi è tutto questo coprirsi di baci.
Benedirò con ogni benedizione le betulle di mio padre i cristallini riflessi sulla pioggia soleggiata la speranza in continua trasformazione tra il bianco latte del tronco e la libertà. Benedirò le voci che passano nelle nuvole per ricordare che non potrai tornare indietro nemmeno nei legni intagliati, saperti a piedi uniti e con le spalle appoggiate.
Così hai imparato la misura dello spazio hai aperto la cerniera del vento come fa l’abisso baciato la pupilla osando il perdono di te stesso davanti a tutte le finestre che danno sul retro lì hai sentito la magnificenza nello stesso momento in cui metti a confronto le lettere maiuscole e minuscole.
Hai mai pensato di svegliarti presto passeggiare l’occhio fresco e la guancia nella neve nuova frugare a lungo con il naso gli invisibili segreti voci profetiche sospese intorno ai lampioni, alla fontana padrona della piazza. La luce fa così quando scuote il fuoco di dicembre e si sparge sopra i tetti, sugli specchi impolverati, sul monte. Un rito silenzioso e astuto testimone di chi scrive da lontano e aspetta il giorno crescere lievito o anima.
L’assenza ha una forma quieta dischiusa, indecifrabile, bianchissima un tumulto di cellule nella gravità delle spalle fino a riaprire un rumore spezzettato
fermato nell’ansietà del chiarore tra due costole nello stesso istante piegate alla redenzione mansueta. Sembra possibile la partecipazione la prima appartenenza fuori da queste cose
in cui metto le mani, un bicchiere, un rosario, un libro, tante voci e mai la tua.
Mille volte i canti delle magnolie ritornano nell’imbrunire al mio respiro. Non temono l’intreccio dei venti né linee curve nel seno delle nuvole. Indugiano solo quando l’eco disperata le insegue.
L’AUTRICE –Rita Pacilio è poeta, scrittrice, collaboratore editoriale, Sociologo e Mediatore familiare, nata a Benevento nel 1963. Si occupa di poesia, di critica letteraria, di metateatro e di vocal jazz.
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Poesie inedite per Roberto Volponi – edito da Interlinea–
La storia della toccante amicizia amorosa fra Alda Merini e Roberto Volponi, figlio dello scrittore Paolo, nata nelle serate trascorse al bar milanese Chimera, rifugio di poeti e sognatori come Tondelli, Busi, Raboni e Lamarque.
Poesie che parlano di amore e morte, amicizia e dolore, che rivivono grazie a un lavoro di interpretazione dei dattiloscritti dell’autrice, composti su una macchina per scrivere dai tasti e nastro rovinati.
Un’inedita Alda Merini riemerge nei testi ritrovati di “Di parlarti non ho coraggio”, curati da Ambrogio Borsani ed editi da Interlinea, in libreria dal 28 ottobre, con anteprima al festival internazionale di poesia civile di Vercelli sabato 9 novembre alla libreria Mondadori di Vercelli alle ore 12.
Le poesie inedite della raccolta celebrano la storia di un’amicizia insolita tra la poetessa dei Navigli e il giovane Roberto Volponi, figlio dello scrittore Paolo, nata nelle serate trascorse fino alle due a conversare nel bar libreria Chimera di Milano, rifugio di poeti e sognatori, da Tondelli a Busi, da Raboni a Lamarque.
«Lui era affascinato dalla vicenda umana e letteraria della poetessa e soprattutto dalla sua libertà lessicale nel raccontarla» ricorda nella premessa il curatore Borsani, amico della Merini ed egli stesso frequentatore del Chimera: «mentre lei vedeva in lui un ragazzo appassionato, curioso, tenero, con una fede ostinata nelle utopie e una sorprendente partecipazione agli abissi delle umane vicende».
Dopo la morte improvvisa del giovane Volponi in un incidente aereo nel 1989, Merini donò alla famiglia il gruppo di poesie di straordinaria intensità rimaste ignote fino a oggi anche per problemi filologici oggi risolti, ricordo della stima e dell’affetto profondo tra i due: «Purissima ambizione la mia / che tocco le tue vesti / colme di ingegno e poi / ti lasciarono andare le mie mani / come avessero avuto la maggiore / folgorazione. In vita eri sì bello / che ogni profilo tuo pieno di vento / diventava commiato di parola».
I testi sono stati dattiloscritti dall’autrice con una macchina per scrivere con tasti dissestati e nastro scarico di inchiostro (tanto che in sostituzione del nastro spesso usava anche fogli di carta carbone) e pertanto la trascrizione ha dovuto interpretare le molte lettere digitate erroneamente.
Di parlarti non ho coraggio. Poesie inedite per Roberto Volponi «Io di parlarti non ho coraggio, / né nominarti come solo amore»: un inedito sorprendente che la poetessa dei navigli ha composto su una macchina per scrivere dai tasti e nastro rovinati per ricordare l’amico Roberto Volponi, il figlio dello scrittore Paolo morto giovane in un incidente aereo. Sono testi che parlano di amore e morte, amicizia e dolore, con le illuminazioni di Alda Merini tanto amate dai suoi lettori. Come ricorda Ambrogio Borsani, amico di entrambi, frequentati al bar milanese Chimera con Tondelli, Busi, Consolo, Raboni e molti altri, è la testimonianza di una stagione unica da cui sono nate queste poesie che meritano di trovare «un posto nella vasta e variegata geografia poetica della Merini: la storia di un’amicizia insolita vissuta in un luogo rifugio di poeti e sognatori». Scrive lei: «Eri sì puro come una medaglia, / ed io medaglia che mi sono sfatta / brillo appena di luce sul tuo cuore».
Biografi di Alda Merini è nata a Milano nel 1931. Ha avuto riconoscimenti importanti alle sue prime raccolte, tra La presenza di Orfeo (1953) e Tu sei Pietro (1961). Sono seguiti vent’anni di silenzio per la drammatica esperienza dell’ospedale psichiatrico. Il suo capolavoro, La Terra Santa, uscì nel 1983 accolto da una sostanziale indifferenza. Nel 1986 raccontò l’esperienza del manicomio in L’altra verità. Diario di una diversa. Grazie a Giovanni Raboni riemerse all’attenzione del pubblico con Delirio amoroso, prose liriche del 1989. Nel 1993 vinse il premio Librex-Montale. Con Ballate non pagate (1995) vinse il premio Viareggio. La prima antologia, Fiore di poesia, curata da Maria Corti, uscì per Einaudi nel 1998 creando un caso editoriale. Iniziò una vasta produzione di plaquette e libri sparsi tra decine di editori. Nell’ultimo periodo scrisse diversi libri segnati da una vena di misticismo, come Francesco. Canto di una creatura (2007), e tra le ultime raccolte per Einaudi troviamo Superba è la notte (2000). Si spense all’Ospedale San Paolo di Milano il primo novembre del 2009. Il suono dell’ombra (2018) è la più ampia raccolta della sua produzione in prosa e poesia negli “Oscar” Mondadori. Interlinea ha già pubblicato di lei Più della poesia, due conversazioni con Paolo Taggi, che per primo la portò in tv, un libro-verità con dvd in cui lei si racconta come mai aveva fatto prima (link alla scheda del libro).
Di parlarti non ho coraggio- di Alda Merini, a cura di Ambrogio Borsani ed edito da Interlinea, sarà presentato in anteprima sabato 9 novembre al festival di poesia civile di Vercelli
A cura di Ambrogio Borsani, pp. 64, 12 euro
In libreria dal 28 novembre
Ordinabile sul nostro sito senza spese di spedizione fino al 31 ottobre.
Bettina Hoffmann-La viola da gamba-Editore Ut Orpheus-
Descrizione del libro di Bettina Hoffmann -La viola da gamba-Un’indagine ampia – su forme, taglie, terminologia, iconografia, repertorio, fonti teoriche e pratiche, implicazioni estetiche e musicali – che delinea il ritratto a tutto tondo di uno dei principali strumenti del Rinascimento e del Barocco.Unico per ricchezza e dettagli documentari, esposti con lievità divulgativa, questo volume si pone come il manuale di riferimento per chi studia, suona, ascolta e ama la viola da gamba.
Bettina Hoffmann è docente di viola da gamba
Bettina Hoffmann è tedesca e vive a Firenze dove svolge una vivace attività come violista da gamba, violoncellista e musicologa. Diplomata in violoncello con Daniel Grosgurin alla Musikhochschule di Mannheim, si è perfezionata in viola da gamba sotto la guida di Wieland Kuijken. Si è laureata al Dipartimento Arte Musica Spettacolo dell’Università di Firenze.
Come solista e con il suo ensemble Modo Antiquo ha dato concerti nei maggiori festival e teatri europei e americani (Theater an der Wien, Concertgebouw Amsterdam, Festival d‘Ambronay, Opera Rara Cracovia, International Music Week Izmir, Holland Festival Oude Muziek Utrecht, Tage Alter Musik Herne, Maggio Musicale Fiorentino, Amici della Musica di Firenze, Società del Quartetto di Milano, Festival van Vlaanderen, Ambraser Schloßkonzerte Innsbruck, Europäische Festwochen Passau, Regensburger Tage Alter Musik, Teatro Municipal Santiago de Chile, Festival di Beaune, Festival Cervantino Messico etc.).
Bettina Hoffmann è docente di viola da gamba
Tra la vasta produzione discografica (più di settanta CD per Deutsche Grammophon, Naïve, CPO, Amadeus, Opus 111, Dynamic, Brilliant Classic, Tactus e altri) sono da ricordare in particolare la silloge «Idées grotesques» dedicata a Marin Marais, pubblicato nel 2010 da Amadeus, l’incisione delle opere di Ortiz e Ganassi, il CD di suites per viola da gamba e basso continuo dagli Scherzi Musicali op. VI di Johann Schenck, e l’incisione completa delle opere per violoncello di Domenico Gabrielli. Ha diretto l’incisione integrale dei madrigali e delle arie di Girolamo Frescobaldi per la Frescobaldi edition di Brilliant classic. Nel 1997 e nel 2000, con due CD di Modo Antiquo, ha avuto la nomination ai Grammy Awards.
È autrice del volume «La viola da gamba» (L’Epos, Palermo, 2010; Ortus Verlag, Berlin, 2014; Routledge, 2018) e del «Catalogo della musica solistica e cameristica per viola da gamba», uscito nel 2001 presso LIM. Ha scoperto ed edito l’unico trattato tedesco per viola da gamba conosciuto, la «Instruction oder eine anweisung auff der Violadigamba». Per il Bärenreiter-Verlag, l’Istituto Italiano Antonio Vivaldi e l’editore S.P.E.S. ha curato edizioni critiche e in facsimile delle opere per violoncello e per viola da gamba di Antonio Vivaldi e di Domenico Gabrielli. Ha edito e tradotto inoltre il trattato «Regulae Concentuum Partiturae» di Georg Muffat e ha pubblicato contributi in Recercare, RIdM, Studi Vivaldiani e altre riviste specializzate. Attualmente sta preprando un volume sugli strumenti ad arco bassi nella musica di Antonio Vivaldi che uscirà presso Olschki.
Bettina Hoffmann è docente di viola da gamba e musica d’insieme antica al Conservatorio «Giovanni Battista Martini» di Bologna e alla Scuola di Musica di Fiesole. Dall’esperienza didattica nasce il suo metodo «L’arte di suonare la viola da gamba», pubblicato nel 2010 da Carisch. Nel 2011 ha ideato la biennale «Giornata Italiana della Viola da Gamba», insignita con una medaglia dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Bettina Hoffmann-La viola da gamba-Editore: Ut Orpheus
I.1 Cos’è la viola da gamba?
La domanda è legittima e, all’apparenza, tanto banale da poter essere liquidata con una rapida risposta: la viola da gamba è un cordofono ad arco, munito di sei corde accordate negli intervalli quarta-quarta-terza-quarta-quarta; il manico è provvisto di tasti. Il suo aspetto esteriore si distingue da quello della famiglia del violino per le spalle spioventi, i fori armonici a forma di C, gli spigoli degli incavi laterali meno acuti, il fondo piatto che termina in alto con una piega a tettuccio; tavola e fondo combaciano con le fasce senza sporgenze. Lo strumento viene suonato in posizione verticale, tenuto sulle gambe. L’arco è impugnato con il palmo della mano rivolto verso l’alto. Ecco soddisfatto chi ama le definizioni concise e nette, le certezze indubitabili.
Raramente però i prodotti dell’ingegno umano si lasciano inquadrare da definizioni semplici e la viola da gamba sembra volersene sottrarre con zelo particolare. E così, non senza rammarico, dobbiamo ammettere che poche delle suelencate affermazioni siano sempre, dovunque e comunque vere. Innanzitutto, osserviamo meglio la forma della cassa. Nel periodo barocco, è vero, si stabilizza un aspetto esteriore tipico e inconfondibile, ma prima d’arrivarci, quante forme diverse, quante bizzarrie, quante sperimentazioni! La pittura rinascimentale ci offre sì immagini con viole dalle spalle spioventi, ma anche ad angolo retto come il violino, o perfino rientranti. Ci sono viole con fasce senza rientri laterali pronunciati ma stondati, a forma di chitarra; talvolta hanno un solo spigolo in basso e sono stondati in alto, oppure viceversa; altre viole seguono linee del tutto fantasiose, oppure, anzi, presentano proprio gli spigoli acuti tipici del violino (fig. 1). Non sempre il fondo è piatto, e non di rado tavola e fondo sporgono sopra le fasce. I fori armonici possono essere a C, rivolti verso l’interno o l’esterno, talvolta con un taglietto a metà che li fa assomigliare ai baffi, ma anche a F o in altre fogge fantasiose, a goccia, fiamma o a forma di delfino; molte viole hanno inoltre una rosa vicino alla tastiera. Le nostre categorie vanno definitivamente in crisi quando vediamo viole che strutturalmente hanno tutte le caratteristiche del violino, e le riscontriamo non solo in quadri del fluttuante periodo rinascimentale (fig. 1) e non solo in opere di pittori avulsi da ogni interesse organologico, ma perfino nell’autorevole metodo di Christopher Simpson del 1659 in un’immagine che analizzeremo nel prossimo capitolo (fig. 5). Dove sta allora il limite tra le due
10 La viola da gamba famiglie? Quali sono i segni particolari che identificano la viola da gamba? La
domanda ci accompagnerà per tutta questa trattazione; per ora resti aperta.
Fig. 1. Aurelio Luini e Carlo Urbino, Assunzione della Vergine, 1576, particolare, Verbania-Pallanza, Chiesa della Madonna di Campagna. Viola da gamba con sei corde, tasti e impugnatura supina dell’arco, ma cassa da violoncello.
Né c’è unanimità neanche sul numero delle corde: abbiamo periodi e paesi in cui erano normali viole a 5 o a 7 corde; seppur rarissimamente leggiamo perfino di quelle a 8 o 9 corde, mentre, viceversa, nella Francia del tardo Settecento un pardessus a 4 corde venne accettato nella famiglia delle viole da gamba. Anche l’accordatura è lungi dall’essere standardizzata. La successione quarta-quarta-terza-quarta-quarta è senza dubbio la norma. Ma non mancano le soluzioni diverse, a sole quarte, a quarte e quinte, o con la terza spostata rispetto al centro. Senza parlare delle innumerevoli scordature in uso in particolare nell’Inghilterra del Seicento.
Sulla posizione esecutiva invece abbiamo almeno una certezza: la viola da gamba viene suonata, lapalissianamente, nella posizione a gamba. Ma la
Per fare conoscenza 11
vediamo appoggiata in terra, su uno sgabello (talvolta col suonatore in piedi), tenuta di traverso sulle gambe, perfino legata a tracolla con una corda che passa dietro le spalle del suonatore. Sono, certo, eccezioni, talvolta dettate più da motivazioni pittoriche che musicali, ma fanno pur parte del percorso della viola. L’arco può essere tenuto da sotto, quindi con la mano supina, ma anche con la mano che impugna il tallone da dietro; rarissimi invece gli esempi dell’impugnatura dall’alto tipica del violino. Però attenzione: né la posizione dello strumento né l’impugnatura dell’arco sono caratteristiche esclusive della viola da gamba ed entrambe vengono talvolta condivise dagli strumenti bassi della famiglia degli strumenti da braccio.
Un elemento piccolo, effimero, spesso trascurato dai pittori, eppure è determinante però imprescindibile in tutte le viole: la presenza dei tasti, o legacci, sul manico. Questa presenza accomuna le viole con gli strumenti a pizzico: in entrambi i tasti servono a facilitare l’esecuzione di accordi e bicordi. Sulle viole i tasti sono ordinariamente limitati a sette, per coprire sette semitoni ovvero una quinta. Su uno strumento ad arco l’esecuzione di accordi ancora più acuti sembrava giustamente un nonsense idiomatico. Eppure ci fu chi volle sfidare anche questo limite: Christopher Simpson, ad esempio, aggiunse un ottavo tasto alla distanza d’ottava per facilitare le sue virtuosistiche improvvisazioni.
Riassumendo, restano poche caratteristiche da cui le viole da gamba di tutti i tempi non derogano mai: oltre alla banale presenza delle corde e dell’arco, la posizione a gamba e i tasti. Per definire uno strumento è poco. Eppure, la viola da gamba non fu per i suoi contemporanei, così sfuggente e imprendibile come appare dal nostro elenco di variabili, anzi fu per musicisti e pubblico una presenza forte e ben definita. Non perdiamoci dunque nella ricerca di una definizione universalmente valida e prendiamo atto che il nostro fu uno strumento in vivace evoluzione, capace di adattarsi con prontezza alle innovazioni musicali di tre secoli. Un elemento è però da aggiungere al quadro, sebbene trascenda il campo del tangibile e strutturale, ossia la sua posizione sociale: la viola da gamba fu, durante tutta la sua esistenza storica, lo strumento nobile per eccellenza. «Noi chiamiamo viole da gamba quelle con cui i gentiluomini, i mercanti e altre persone virtuose passano il loro tempo»:1 questa è per Philibert Jambe de Fer nel 1556 una definizione del tutto sufficiente, cui nient’altro aggiungere. Per Benedetto Varchi è la per- fetta metafora del genere eroico, opposto alla leggerezza del genere lirico: «Io per me vorrei d’essere anzi buono eroico che ottimo lirico. E chi non eleggerebbe di toccare più tosto mezzanamente un violone che perfettamente
1 Jambe de Fer 1556, p. 62: «Nous appellons violes celles desquelles le gentilz hommes, marchant, & autres gens de vertuz passent leur temps».
12 La viola da gamba
scarabillare ?»2 E ancora nel 1789 il musicologo Charles Burney osserva che «nel secolo passato in tutta Europa [la viola da gamba] era un orpello indispensabile nella famiglia di un nobile o di un uomo di rango».3 All’estremo opposto si colloca, nella coscienza collettiva dell’epoca, il «violino, poco dianzi cavato dal concerto ignorante di quei triviali sonatori che per le più vili bettole vanno suonando».4
I.2 Come si chiama la viola da gamba?
Il Novecento, secolo normativo, nel promuovere la rinascita della viola da gamba ha voluto dare, allo strumento, nomi pacificamente biunivoci: oggi usiamo senza timore di fraintendimento «viola da gamba» in italiano, «viola» in inglese, «viole» in francese, «Gambe» in tedesco e via viaggiando di paese in paese. Risalendo invece a ritroso il corso dei secoli le acque si confondono vieppiù e chi ama le certezze e le definizioni di matematica esattezza dovrà constatare che il nostro strumento non possedeva neanche un nome suo proprio. Ancora una volta il periodo di maggiore oscillazione è il Rinascimento, il periodo giovanile e irrequieto della viola da gamba, che le darà nomi sempre diversi e spesso condivisi con altri strumenti. Per districarci tra termini e significati vediamo rapidamente come si coniuga «viola da gamba» nei vari tempi e nelle varie lingue.
In italiano5
Viola da gamba. Il termine appare per la prima volta già nel 1511 nell’inventario di Ippolito d’Este.6 Ma è tutt’altro che un battesimo ufficiale: dopo quella prima apparizione, lo s’incontrerà poi raramente negli anni successivi. Jambe de Fer nel 1556 non ha però dubbi sul fatto che «Gli italiani le chiamano viole da gambe».7 Solo negli ultimi decenni del secolo l’espressione viene impiegata con maggiore frequenza e in sistematica contrapposizione alla viola da braccio da trattatisti e cronisti come Vincenzo Galilei nel Dialogo della
2 Varchi, L’Ercolano, Firenze, Giunti, 1570, p. 846.
3 Burney 1789, vol. IV, p. 679: «during the last century was a necessary appendage to a
nobleman or a gentlemans family throughout Europe».
4 T. Boccalini, Ragguagli di Parnaso, Venezia, Farri, 1612-15. Citato da Lorenzetti 2003, pp. 174-176.
5 Cfr. per maggiori dettagli ed esempi Hoffmann 2007, pp. 10-29.
6 Modena, Archivio di Stato, Registro d’amministrazione del Cardinal Ippolito d’Este, 1511, c. 245r. Citato da Prizer 1982, p. 110.
7 Jambe de Fer 1556, p. 62: «Les Italiens les appel viole da gambe».
Per fare conoscenza 13
musica antica et della moderna, Girolamo Dalla Casa e Lodovico Zacconi.8 Francesco Rognoni attesta l’espressione «violino da gamba» per il soprano della famiglia.9 Anche nel periodo di decadenza in Italia, cioè dopo la metà del Seicento, il termine rimane in auge per le rare volte in cui lo strumento viene ancora nominato. L’espressione è di agevole univocità, turbata però da qualche raro caso in cui viene applicata agli strumenti bassi della famiglia del violino. Nella collezione medicea a palazzo Pitti, nella metà del Seicento si registra ad esempio uno strumento a quattro corde, quindi della famiglia da braccio, col nome «Basso di Viola Grande da Gamba».10 Dobbiamo aver comprensione per chi associa la posizione esecutiva dello strumento con il suo nome e si domanda perché mai chiamare ‘d’abbraccio’ uno strumento che ha visto suonare sopra o tra le gambe.
Viola: È un termine quanto mai vago e multiforme che serve non solo a tutti gli strumenti ad arco – vielle, lire da braccio, viole da braccio, viole da gamba, nonché la ghironda – ma perfino a quelli a pizzico.11 Inoltre viene usato come nome di genere, per indicare l’insieme degli strumenti ad arco: «quattro sonatori di viola (a braccio ò gamba poco rivela)» chiede ad esempio Marco da Gagliano per l’esecuzione di un’aria della sua Dafne del 1608;12 per Lorenzo Allegri nel 1618 gli strumenti si dividono nelle categorie strumenti armonici, strumenti a fiato e «viole», con cui comprende gli strumenti ad arco.13 Coll’avanzar del Seicento il termine si specializza diventando comune per tutti gli strumenti della famiglia da braccio; anche il violoncello può essere allora chiamato ‘viola’. Boni, nel suo Gabinetto Armonico, ce ne fornisce una prova illustrata (fig. 2). Quest’uso era invalso in particolare a Venezia e vi si conservava tenacemente: ancora intorno alla metà del Settecento i liutai veneziani Selle chiamano ‘viola’ il violoncello.14
Viola d’arco o viola ad arco. L’ambivalenza del termine ‘viola’ imponeva una specifica per distinguere la viola suonata coll’arco da quella a pizzico, detta anche ‘viola di mano’. Certamente però una ‘viola d’arco’ poteva essere tanto uno strumento a braccio quanto a gamba. Se Tintori contrappone la «viola sine arco» (usata in Spagna e Italia)
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Galilei 1581, p. 147; Dalla Casa 1584, secondo libro, passim; Zacconi 1592, p. 217 e passim. F. Rognoni 1620, parte seconda, p. [2].
Trascritto da Hammond 1975, pp. 210 e 213. Cfr. Lorenzetti 1996, con alcune mie integrazioni in Hoffmann 2004, p. 45, nota 50. M. da Gagliano, prefazione a La Dafne, Firenze, Marescotti, 1608. L. Allegri, Il primo libro delle musiche, Venezia, Gardano, Magni, 1618: «Hò voluto
situare le Sinfonie spartite per commodità dell’Instrumenti perfetti come Liuto, Organo, e in particulare dell’Arpa doppia. Si possono sonare co’l primo Soprano, e con dua Soprani, e’l Basso continuato, immanchanza dell’altre parti; oltre con Viole, e Instrumenti di fiato».
14 Comunicazione personale di M. White.
14 La viola da gamba
Fig. 2. Filippo Bonanni, Gabinetto Armonico, Roma, 1722, tavola LVI Viola. Lo strumento raffigurato è indubbiamente un violoncello.
arculo» (usata in tutto il mondo per accompagnare la recitazione),15 non si riferisce certo alla viola da gamba che intorno al 1487 era lungi dall’essere diffusa in tutto il mondo. Anche Lanfranco conosce le «violette da arco», da suonare a braccio.16 Ganassi deve specificare nel titolo del suo trattato Regola Rubertina che vuole parlare della «viola darcho Tastada», evidentemente per evitare l’equivoco con la viola senza tasti, vale a dire uno strumento da brac-
15 Tinctoris s. d., p. 45.
16 Lanfranco 1533, p. 137.
Per fare conoscenza 15
cio. Altrove il termine ‘viola d’arco’ si riferisce invece pacificamente alla viola da gamba, ad esempio nei trattati di Nicola Vicentino17 e di Scipione Cerreto che scrive «la Viola da gamba, da altri detta Viola d’Arco».18 Per l’ultima volta, a mia conoscenza, il termine viene usato in opposizione al violino nel 1615 da Trabaci: «Canzon Francesa à Quattro per concerto de Violini, ò Viole ad Arco».19 In un’anonima poesia fiorentina del primo Seicento, ‘viola d’arco’ significa ormai solo la viola da braccio.20
VIolone: Punto di riferimento e di partenza della famiglia delle viole da gamba è lo strumento basso; ce lo insegna il suo nome ‘violone’, in uso per tutto il Rinascimento, significativamente anche per le taglie piccole della famiglia. Già allora però era tutt’altro che univoco. Sia Lanfranco che Ganassi sentirono infatti il bisogno di descrivere lo strumento come «violone d’arco da tasti», per distinguerlo sia dagli strumenti a pizzico, sia dagli strumenti ad arco senza tasti, cioè da braccio.21 È bene ricordare, infatti, che anche il violino, fin dalle prime sue apparizioni, aveva formato una famiglia completa di una taglia bassa che con uguale diritto si chiamava ‘violone’.22 Ma il termine sembrava per certo sufficientemente univoco a Ortiz, Zarlino e a molti altri che lo usavano senz’altre specifiche per la sola viola da gamba.23 La trasparenza etimologica di quest’aumentativo comporta però facili slittamenti semantici, tanto che all’inizio del Seicento il termine ‘violone’ intende comunemente lo strumento basso della famiglia del violino, ossia il proto-violoncello.24 Una prima certa prova ci viene da Giovanni Ghizzolo, che in un mottetto del 1624 chiede che il canto sia accompagnato «con due violini et chitarrone o violone da brazzo»;25 più tardi abbiamo una seconda attestazione nella Musurgia di Athanasius Kircher che descrive la «Chelys […] major dicitur vulgo Violone», strumento dalle inequivocabili fattezze e caratteristiche della famiglia da braccio e contrapposto a una viola da gamba a sei corde (fig. 3).26
17 Vicentino 1555, libro quinto, ultima pagina.
18 Cerreto 1601, p. 329.
19 M. Trabaci, Il Secondo libro de Ricercate […], Napoli, Giovanni Giacomo Carlino,
20 Firenze, I-Fn cod.II.I.92, cc. 122r-125v (vecchia numerazione).
21 Lanfranco 1533, parte IV, cap. Dei Violoni da tasti: & da Arco; Ganassi 1543.
22 Baroncini ha rintracciato quest’uso in particolare nelle confraternite veneziane. Baroncini
1994. 23 Ortiz 1553, Zarlino 1588, Prandi s. d. 24 S. Bonta, From Violone to Violoncello: A Question of Strings?, «Journal of the American
Musical Instrument Society», 3, 1977, pp. 64-99; e dello stesso autore, Terminology for the Bass Violin in Seventeenth-Century Italy, «Journal of the American Musical Instrument Society», 4, 1978, pp. 5-42.
25 G. Ghizzolo, Quem terra pontus in Seconda raccolta de’ sacri canti […] fatta da Don Lorenzo Calvi, musico nella cathedrale di Pavia, Venezia, A. Vincenti, 1624.
26 Kircher 1650, pp. 486-487.
16 La viola da gamba
Ovviamente, ‘violone’ sta inoltre per lo strumento contrabbasso ad arco, ed è bene tenere presente che la scelta tra i termini ‘violone’ e ‘contrabbasso’ non connota mai l’appartenenza dello strumento alla famiglia da gamba o da brac- cio, ben diversamente dall’uso invalso oggi. Riassumendo, il versatile termine ‘violone’ designava nel Rinascimento solitamente ma non esclusivamente la viola da gamba; dal Seicento in poi principalmente lo strumento a 8 piedi della famiglia del violino ma anche lo strumento a 16 piedi, indipendentemente dalla sua più o meno stretta parentela con la famiglia da braccio o quella da gamba.
Fig. 3. Athanasius Kircher, Musurgia Universalis, Roma, 1650, da p. 487.
Per fare conoscenza 17
Basso dI vIola. L’espressione affiora verso la fine del Cinquecento e diventa comune nel Seicento. La sua funzione è quella di distinguere lo strumento grande dagli altri membri della famiglia, mai quella di distinguere la viola da gamba dal violoncello. Non bisogna infatti farsi ingannare da un insidioso ‘falso amico’ linguistico: nella Francia barocca basse de viole indica inequivocabilmente lo strumento basso della famiglia delle viole da gamba, e l’espressione ha una netta funzione distintiva rispetto al basse de violon. In italiano non esiste una coppia paragonabile, non c’è traccia di un ‘basso di violino’. Al ‘basso di viola’ manca la sua controparte, cosicché l’espressione può essere usata tranquillamente per il basso tanto della famiglia da braccio che da gamba. Ne troviamo abbondanti prove negli inventari medicei, in cui il termine viene usato indifferentemente per strumenti a 4 come a 6 corde;27 e l’interpretazione è tanto più pacifica se ricordiamo che a Firenze il neologi- smo ‘violoncello’ fa la sua prima apparizione solo nel 1700.
LIra e lIrone. Sono i nomi di due strumenti organologicamente ben definiti, la lira da braccio e la lira da gamba, ma il trascorso mitologico del termine è troppo ingombrante per limitarne il campo semantico. L’italiano aulico se ne adorna volentieri e in contesti in cui si mira non alla precisione organologica ma all’eleganza ed efficacia poetica, anche ‘lira’ può essere un nome per la viola da gamba. Nella poetica descrizione del ritratto di Leonora Baroni leggiamo che ella «s’attiene con la sinistra ad vna Lira, e con la destra sostenta l’arco di essa».28 Fortuna vuole che conosciamo il ritratto (fig. 66) il quale ci rivela che questa metaforica «Lira» altro non è che la nostra viola da gamba. Ma anche i ben più prosaici documenti delle cinquecentesche scuole grandi di Venezia mescolano disinvoltamente termini come ‘violino’, ‘lira’, ‘violone’ e ‘lirone’ senza apparenti distinzioni organologiche.29
VIola bastarda. Nell’Italia degli anni 1580-1630 circa il termine designa sia la pratica virtuosistica di fiorire sulla viola da gamba un madrigale senza attenersi a una singola voce, ma spaziando liberamente fra le parti; sia lo strumento stesso che può essere di taglia più piccola delle viole da gamba usuali. Ma le suggestioni dell’epiteto ‘bastardo’ sono tante, e se a Roma nel 1661 suonò il «S[igno]r Bucalino con la viola bastarda»,30 si trattava con ogni probabilità di un qualche altro strumento difforme dalla norma.
27 passim Fabbri 1983; Hammond 1975; Ferrari 1990.
28 Ronconi, prefazione a AA.VV., Applausi poetici alle glorie della Signora Leonora Baroni
[…], Bracciano, a cura di F. Ronconi, 1639, pp. 11-12.
29 Baroncini 1994, pp. 78-91. Pur accogliendo in toto le sue argomentazioni sull’intercam- biabilità dei termini in quest’ambito, mi preme però ricordare che «violino» e «violone» certamente si riferivano a taglie diverse, padroneggiate dallo stesso gruppo di suonatori.
30 Citato da H. Wesseley-Kropik, Lelio Colista. Un maestro romano prima di Corelli. Con il catalogo tematico delle Sonate a tre a cura di Antonella D’Ovidio, Roma, IBIMUS, 2002, p. 47.
18 La viola da gamba
VIola all’Inglese. Anche questo è uno dei molti nomi della viola da gamba, almeno nella Venezia di Antonio Vivaldi. Se però sia un sinonimo perfetto, o se la viola all’inglese avesse qualche particolarità che la distingueva dall’ordinaria viola da gamba, è questione tutta da indagare; la sviscereremo nel capitolo dedicato all’Italia in età barocca.
Infine una parola sul principale antagonista della viola da gamba, il violon- cello, a cui spesso dovremo fare riferimento. Come la famiglia delle viole da gamba, anche quella delle viole da braccio conosceva durante tutto il Cin- quecento solo nomi generici, validi indistintamente per tutti i suoi membri, e la prassi sopravvive per buona parte del Seicento. Non esistevano termini specializzati per distinguere le taglie tenore e basso dal soprano, niente di paragonabile al termine tardo secentesco ‘violoncello’. Se quindi leggiamo in documenti di quell’epoca di gruppi di «violini» o «viole da braccio» sono sottintese tutte le taglie della famiglia, in italiano come nelle altre lingue. Ancora nella seconda metà del Seicento l’orchestra di Re Sole è chiamata Vingt-quatre Violons du Roy («ventiquattro violini del Re») senza pericolo di fraintendimento e senza suggerire lontanamente che fosse composta di soli strumenti soprani. Lo sviluppo di una terminologia distinta per ogni taglia avviene durante il Seicento; come abbiamo visto, lo strumento basso della famiglia può allora chiamarsi, nei vari luoghi e tempi, ‘viola’, ‘violone’, ‘basso di viola’, nomi che deve condividere con la viola da gamba. Solo nel 1641 leggiamo per la prima volta di un «violoncino»; nel 1665 appare finalmente il «violoncello». Prima però che il termine s’imponga universalmente passerà quasi un secolo; solo nel 1760 anche i liutai veneziani abbandonano la tra- dizionale espressione ‘viola’ per chiamare lo strumento più modernamente ‘violoncello’.
In spagnolo
La vihuela è per noi oggi lo strumento a pizzico d’origine spagnola, a forma di chitarra e accordato come un liuto. Teniamo però presente che nello spagnolo antico significava semplicemente ‘viola’. E come tale segue tutta l’ambiva- lenza del corrispettivo italiano: come ‘viola’ può essere circostanziato con più precisi attributi (vihuela de arco, vihuela grande) e può essere impiegato per le due famiglie di strumenti d’arco.
In francese
Il termine medievale viole già nel 1556 aveva compiuto perfettamente il suo spostamento semantico e significava pacificamente ‘viola da gamba’: Jambe de Fer lo usa senza necessità di ulteriori specifiche e in inequivocabile con- trapposizione al violon, il violino. Per fugare ogni nostro eventuale dubbio, egli, come già sappiamo, fornisce perfino la traduzione coll’italiano «viole
Per fare conoscenza 19
da gambe». Da allora, la mappa dei termini si presenta con una chiarezza davvero eccezionale. Il basse de viole si riferisce nel Sei e Settecento alla viola da gamba bassa, in sicura contrapposizione al basse de violon; gli strumenti acuti sono il dessus de viole e il pardessus de viole.
In tedesco
Anche nella Germania rinascimentale il nuovo strumento deve dividere ini- zialmente il suo nome con tutti gli altri strumenti ad arco. Nelle istruzioni iconografiche dell’imperatore Massimiliano I, intorno al 1510, è chiamato «rybebe», ribeca;31 altrove è detto Geige, termine che verrà poi monopoliz- zato dal violino. La viola da gamba si caratterizza fin dall’inizio per la sua grandezza, guadagnandosi così la specifica Gross Geyge, ‘grande viola’. Con questo attributo Virdung, Agricola, Gerle e Judenkünig la distinguono dalle piccole ribeche e violini. Agricola vi aggiunge l’aggettivo «welsch», che può significare ‘romanzo’, in particolare ‘italiano’ o ‘francese’, o genericamente ‘straniero’.32 Alla fine del Cinquecento si introduce invece l’italianismo ‘viola da gamba’, storpiandolo secondo le imperscrutabili leggi della giungla orto- grafica dell’epoca: gustosa la «phyola de gamba» del 1582,33 mentre «Viol di gamba» diventa perfino la norma nella Germania barocca. Talvolta il termine viene germanizzato in Kniegeige, Beingeige o Beinviole, non senza velata polemica contro ‘l’imbarbarimento’ del tedesco.
Praetorius ci alletta con una chiarezza terminologica secondo cui l’ab- breviazione ‘viola’, fra i professionisti, denota esclusivamente la viola da gamba: «Queste due specie vengono distinti dai pifferi comunali chiamando le viole da gamba Violen, le viole da braccio invece Geigen oppure Geigen polacche».34 Ma la situazione è in realtà ben più complessa e il semplice ‘viola’ sta facilmente anche per gli strumenti da braccio, spesso come controparte della viola da gamba. Solo un’attenta contestualizzazione può allora decidere a quali delle due famiglie si riferisce la parola o se ha funzione generica; e talvolta anche quest’esame non basta. La sempre maggiore diffusione della famiglia del violino inverte anzi la regola di Praetorius: il semplice ‘Violen’ designa il più comune gruppo di vari strumenti da braccio, mentre la viola da
31 Nelle miniature del suo Triumphzug. Vedi H. Myers, The Musical Miniatures of the Triumphzug of Maximilian I, «The Galpin Society Journal», LX, aprile 2007, pp. 3-28: 10.
32 J. e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, Leipzig, Hirzel, 1854-1960, voce «welsch». Le altre ricorrenze del termine raccolte Woodfield 1984, p. 100, potrebbero riferirsi a una provenienza fisica dall’Italia, senza funzione come indicazione di genere.
33 Inventario della Hofkapelle Baden-Baden del 1582; citato da Woodfield 1984, p. 192.
34 Praetorius 1619, cap. XX, II: «Diese beyde Arten werden von den Kunstpfeiffern in Städten also unterschieden / daß sie die Violn de gamba mit dem Namen Violen: Die Violen de bracio aber / Geigen oder Polnische Geigeln nennen».
20 La viola da gamba
gamba richiede la specifica.35 La bizzarra ma univoca abbreviazione Gambe è invece raramente usata nel Seicento, e si impone solo verso la metà del Sette- cento quando la viola da gamba è ormai in via d’estinzione; così, però, viene traghettata fino ai tempi nostri.
Dall’italiano si adotta inoltre la Viol Bastarda o Bastardviol; passando attraverso le Alpi il termine conosce però un forte allargamento semantico e in particolare comprende nel tedesco secentesco anche quel che in Inghilterra si chiama lyra viol, termine del tutto assente in Germania.
In inglese
Che cosa fosse, per un inglese della prima metà del Cinquecento, una viol (con le sue innumerevoli varianti grafiche vyol, vyalle e via dicendo) è molto difficile dire. Non abbiamo fonti letterarie dirette che ci permettano di stabilire quando questo termine passò dagli strumenti medievali e i loro successori a braccio allo strumento a gamba. In un inventario del 1557 leg- giamo però di «vii vyalles & vyolans»;36 è probabilmente la prima volta che si accostano i termini ‘viola’ e ‘violino’, e vi potremmo leggere un’intenzione contrappositrice tra due famiglie di strumenti, o almeno tra due diverse taglie. In simili indicazioni della fine del secolo, ad esempio nelle danze di Holborne per «Viole, Violini o altri strumenti musicali da fiato»,37 il termine ‘Viol’ designa ormai univocamente la viola da gamba. Ciononostante viol nel Seicento può stare ancora genericamente per ogni tipo di strumenti ad arco.38 Solo negli ultimissimi anni del Cinquecento appare l’univoco termine ‘viola da gamba’,39 anglicizzato variamente in «vyoll di gamba», «vyoldegambo», «gambo violl» etc.; lo impiegano poi, ad esempio, William Shakespeare nel 160140 e il trattatista Thomas Robinson nel 1603.41 Al tempo stesso viol si era imposto con vasto consenso come nome comune dello strumento. La famiglia è formata da treble (o descant) viol, tenor viol e bass viol. Non sempre però il
35 Lo stesso Praetorius infatti non si atteneva alla sua definizione: già nel 1611 aveva opposto le «Violen de Gamba» alle «gemeinen Violen oder Geygen» (comuni viole o violini). M. Prae- torius, Megalynodia Sionia, Wolfenbüttel, s. n., 1611, Nota ad Lectorem Musicum.
36 Holman 1993, p. 124.
37 Anthony Holborne, Pavans, Galliards, Almains, and Other Short Æirs both Grave, and
Light, in Five Parts, for Viols, Violins, or Other Musicall Winde Instruments, Londra, Barley, 1599.
38 Holman 1993, pp. 73-74 e 124.
39 Così ad esempio nel 1598-99 nei libri contabili della contessa Eleanor of Rutland; v. Fleming 1999, p. 236.
40 Shakespeare, Twelfth night, or what you will, atto I, scena III. V. Cfr. cap. V-2.
41 Hume, nello stesso titolo della First Part of Ayres […], Londra, Windet, 1605, usa sia il
termine «Viole de Gambo» che «Base Viol».
Per fare conoscenza 21
termine bass viol è nettamente opposto al bass violin,42 e nei primi decenni del Settecento, compiuto il declino del viol consort a cui sopravvive il solo basso, bass viol finisce per ridursi a livello vernacolare e per designare dei bassi a quattro corde non meglio specificati, un uso che negli Stati Uniti si conser- verà fino all’Ottocento.43 Un’enciclopedia inglese del 1728 definisce bass viol come «strumento musicale di forma simile al violino ma più grande. Ha lo stesso numero di corde».44 Per lo strumento solista a sei corde si specializza nel Settecento invece l’italianismo ‘viola da gamba’.
In greco e latino
Maggiore ancora, se possibile, è la confusione lessicale di chi si esprime nelle lingue classiche, perché greci e romani antichi non conoscevano nessuno stru- mento ad arco. Fin dal X secolo, da quando cioè iniziò la diffusione dell’arco in Europa, i dotti si dovettero quindi ingegnare ad adattare termini latini e greci ai nuovi strumenti. Di solito questi neologismi servirono indistintamente sia per tutti gli strumenti ad arco, sia per quelli a pizzico. Si rimette in uso allora lyra («lyrae, & quae vulgò Violae vocantur» scrive Salinas nel 157745) e chelys, accanto ovviamente alla facile latinizzazione del volgare ‘viola’. Severo Bonini vi aggiunge cithara o cethera, forminx e testudo, dichiarando che questi nomi «tutti poi alfine significano il medesimo».46 Giuseppe Antonio Bernabei chiama la viola da gamba «Pentachordo (vulgò Viola da Gamba)»;47 «Chelys hexachordae» abbiamo letto sull’illustrazione di Kircher; Marin Mersenne usa il grecismo barbiton; la viola da gamba è allora la barbiton decumana, la viola maggiore.48
42 B. Neece, The Cello in Britain: A Technical and Social History, «Galpin Society Journal», 56, 2003, pp. 77-89; Sadie 1985, p. 15; L. Lindgren, Italian Violoncellists and some Violoncello Solos Published in Eighteenth-Century Britain, in Music in Eighteenth-Century Britain, a cura di D.W. Jones, Aldershot, 2000, pp. 121-157; Holman 2010, pp. 54-56.
43 Neece, The Cello, cit., pp. 87-88; Holman 2007, p. 22; Holman 2008, pp. 61-62; Holman 2010, pp. 54-56.
44 E. Chambers, Cyclopaedia: or, An Universal Dictionary of Arts and Sciences […], s. n., 1728, vol. I, voce «Bass-Viol»: «Bass-Viol, a Musical Instrument, of the same Form with that of the Violin, except that ’tis much larger».
45 Salinas 1577, liber III, p. 141.
46 Bonini s. d, pp. 27-28.
47 A. Bernabei, Orpheus ecclesiasticus. Symphonias varias commentus […], Augsburg,
Koppmayer, 1698. 48 Mersenne 1648, Liber Primus, Propositiones XXVII-XXX, pp. 44-49.
Indice
Per fare conoscenza ……………………………………………………………………………… 7 I.1 Cos’è la viola da gamba?………………………………………………………………………. 9 I.2 Come si chiama la viola da gamba? …………………………………………………….. 12
In italiano…………………………………………………………………………………………….. 12 In spagnolo ………………………………………………………………………………………….. 18 In francese……………………………………………………………………………………………. 18 In tedesco…………………………………………………………………………………………….. 19 In inglese……………………………………………………………………………………………… 20 In greco e latino …………………………………………………………………………………… 21
3 Come si compone la sua famiglia?………………………………………………………. 22
4 Come è accordata? …………………………………………………………………………….. 24
5 E come suona?…………………………………………………………………………………… 26
AnatomIa dI una vIola da gamba ……………………………………………………….. 35
1 La cassa ……………………………………………………………………………………………. 38
2 Il manico e la tastiera ………………………………………………………………………… 45
3 Il ponticello ……………………………………………………………………………………… 47
4 Decorazioni………………………………………………………………………………………49
5 L’arco……………………………………………………………………………………………….50
6 Le corde …………………………………………………………………………………………… 57
7 Tasti e temperamenti: questioni di compatibilità ………………………………… 64
III. GlI antenatI ………………………………………………………………………………………. 77
6 Contesto musicale e sociale ……………………………………………………………… 88
7 Le novità del tardo Quattrocento …………………………………………………….. 91
Iv. RInascImento ……………………………………………………………………………………… 99 Iv.1 Italia, intorno al 1500 ……………………………………………………………………… 101 Le fonti iconografiche ………………………………………………………………………… 101 Le fonti d’archivio ……………………………………………………………………………… 108 Un disegno tecnico …………………………………………………………………………….. 112 Risultati……………………………………………………………………………………………… 113
4 La viola da gamba
Iv.2 Un nuovo strumento si diffonde in Europa (circa 1510-1550) ………….. 114 Germania …………………………………………………………………………………………… 115 Italia ………………………………………………………………………………………………….. 122 Altri centri europei …………………………………………………………………………….. 127
Iv.3 Repertorio………………………………………………………………………………………133 «Per cantare et sonare d’ogni sorte di stromenti»…………………………………. 133 Che cosa? …………………………………………………………………………………………… 133 Con chi?…………………………………………………………………………………………….. 137 Come? ……………………………………………………………………………………………….. 142 Idiomatizzazione e solismo. La viola bastarda …………………………………….. 146
Iv.4 Accordature……………………………………………………………………………………151 Diapason e trasporti …………………………………………………………………………… 151 Le accordature delle viole da gamba nei trattati cinquecenteschi…………… 153 Risultati……………………………………………………………………………………………… 179 L’accordatura della viola bastarda ……………………………………………………….. 184
Iv.5 Tecnica……………………………………………………………………………………………188 Iv.6 Struttura…………………………………………………………………………………………198 Falsi testimoni? ………………………………………………………………………………….. 198 Dettagli ……………………………………………………………………………………………… 203 Verso la standardizzazione………………………………………………………………….. 211
Barocco e classIcIsmo ………………………………………………………………………. 215 v.1 Italia………………………………………………………………………………………………..217 Il primo Seicento, fino al 1640 circa …………………………………………………….. 217 Dopo il 1640: tracce ……………………………………………………………………………. 226 Strumenti …………………………………………………………………………………………… 226 Musica italiana in Italia……………………………………………………………………….. 234 Alcune pagine trattatistiche ………………………………………………………………… 241 Stranieri in Italia, italiani all’estero………………………………………………………. 243 Risultati……………………………………………………………………………………………… 247 v.2 L’Inghilterra…………………………………………………………………………………….249 L’età dell’oro………………………………………………………………………………………. 249 Gli strumenti ……………………………………………………………………………………… 258 Accordature e scordature ……………………………………………………………………. 263 Le corde di risonanza …………………………………………………………………………. 268 «The Trinitie of Musicke» …………………………………………………………………… 273 La musica per consort viol ……………………………………………………………….. 273 La musica per lyra viol ……………………………………………………………………. 276 La musica per division viol ……………………………………………………………… 279
Indice 5
La tecnica …………………………………………………………………………………………… 281
Nuova linfa nel Settecento …………………………………………………………………. 285 v.3 Francia…………………………………………………………………………………………….291 Da 5 a 6 corde…………………………………………………………………………………….. 291 Da 6 a 7 corde…………………………………………………………………………………….. 296 In famiglia………………………………………………………………………………………….. 299 La querelle …………………………………………………………………………………………. 302 L’apogeo……………………………………………………………………………………………..304 La tecnica …………………………………………………………………………………………… 312 Avec la basse? …………………………………………………………………………………….. 325 In compagnia ……………………………………………………………………………………… 326 La liuteria…………………………………………………………………………………………… 330 Dalla basse al pardessus de viole ………………………………………………………….. 333 v.4 L’Impero e i Paesi Bassi …………………………………………………………………… 338 Germania monstro simile ……………………………………………………………………. 338 Il primo Seicento: «Con viole da gamba, o, in mancanza, da braccio» …… 338 Strumenti, taglie e misure……………………………………………………………………. 343 La seconda metà del Seicento: l’idioma violistico …………………………………. 350 Il Settecento ……………………………………………………………………………………….. 363 Funzioni musicali e repertorio …………………………………………………………… 368 Strumenti e liuteria tra Sei e Settecento………………………………………………… 377 Gli ultimi decenni ………………………………………………………………………………. 382
vI. VIta nuova…………………………………………………………………………………………. 389 Italia, seconda metà del Settecento ……………………………………………………… 391 La prima metà dell’Ottocento …………………………………………………………….. 392 Gli ultimi decenni dell’Ottocento ……………………………………………………….. 396 Il Novecento………………………………………………………………………………………. 404 Oggi ………………………………………………………………………………………………….. 409
vII. GlossarIo ………………………………………………………………………………………… 411
Oggi ricorrere anche l’anniversario della scomparsa di un altro grande poeta del ‘900.
Attilio Bertolucci-Poeta italiano (San Lazzaro, Parma, 1911 – e morto a Roma il 14 giugno 2000). Allievo di R. Longhi, le sue opere poetiche (Sirio, 1929; Capanna indiana, 1951; Viaggio d’inverno, 1971) sono il risultato di una felice contaminazione tra eredità ermetica e capacità di tradurre ogni astratta eleganza in un discorso poetico naturale. Tra le sue opere principali occorre segnalare anche il romanzo in versi La camera da letto (I, 1984; II, 1988).
Attilio Bertolucci
Vita e opere
Ha insegnato storia dell’arte e poi ha svolto una intensa attività pubblicistica e di consulente editoriale. Ha diretto Nuovi argomenti. La sua produzione poetica è quasi tutta compresa nei due libri Capanna indiana e Viaggio d’inverno, pure preceduti da un esordio dall’accento inconfondibile come Sirio. L’elemento elegiaco ritorna nel già citato romanzo in versi La camera da letto: frutto di una lunga elaborazione, questo “romanzo famigliare” in versi è stato uno degli esiti più significativi della ricerca letteraria di Bertolucci. Il libro, svolgendo in forma poetica una materia squisitamente narrativa (la storia della famiglia B. e delle sue origini appenninico-padane), conferma non solo la sostanziale estraneità di B. alla tradizione della lirica pura, ma anche l’assoluta rilevanza del suo autonomo percorso nel panorama della poesia novecentesca. Dopo aver raccolto la sua produzione in un volume (Le poesie, 1990; 2ª ed. ampliata 1998), B. ha pubblicato, riunendo testi recenti e liriche di antica data, due nuovi libri di poesia, Verso le sorgenti del Cinghio (1993) e La lucertola di Casarola (1997), dai titoli suggestivamente evocativi di luoghi e paesaggi dell’infanzia. Non meno significativi, a illuminare la figura umana e intellettuale di B., altri volumi pubblicati nel corso degli anni Novanta: la raccolta di scritti saggistici Aritmie (1991); il carteggio con V. Sereni, Una lunga amicizia: lettere 1938-1982 (a cura di G. Palli Baroni, 1994); e All’improvviso ricordando (1997), un libro di “conversazioni” con P. Lagazzi. A cura dello stesso Lagazzi e di G. Palli Baroni è quindi apparso un volume di Opere (1997), comprendente poesie, traduzioni e saggi. La raccolta saggistica Ho rubato due versi a Baudelaire: prose e divagazioni (a cura di G. Palli Baroni, 2000), è apparsa poco prima della sua morte, mentre sono state pubblicate postume la raccolta di scritti La consolazione della pittura. Scritti sull’arte (a cura di S. Trasi, 2011), compiuta attestazione di un’apertura intellettuale scevra da ogni provincialismo, e l’antologia di testi e versi inediti Il fuoco e la cenere. Versi e prose dal tempo perduto (2014).
Fonte- Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani –
Attilio Bertolucci
Attilio Bertolucci
18 Novembre 1911 – 14 Giugno 2000
Oggi ricorrere anche l’anniversario della scomparsa di un altro grande poeta del ‘900.
Uccelli di passo
****
Le belle giornate se ne vanno rapide,
viene l’autunno.
Ma di questa dolcezza che riempie
l’aria del mezzogiorno ventilata
sull’ultimo sudore del volto,
di questo riposo dell’anno
ti ricorderai
e del suo quieto affanno?
Oh, fuggir via quando nel rosa eterno
della sera imminente
s’allontanano uccelli di passo
e portano sulle ali cangianti
l’estrema luce del giorno,
oh, fuggire ai paesi distanti
dove quiete finestre si chiudono
sui relitti del cielo.
****
La rosa bianca
Coglierò per te
l’ultima rosa del giardino,
la rosa bianca che fiorisce
nelle prime nebbie.
Le avide api l’hanno visitata
sino a ieri,
ma è ancora così dolce
che fa tremare.
E’ un ritratto di te a trent’anni,
un po’ smemorata, come tu sarai allora.
Attilio Bertolucci
Vento
Come un lupo è il vento
che cala dai monti al piano
corica nei campi il grano
ovunque passa è sgomento.
Fischia nei mattini chiari
illuminando case e orizzonti
sconvolge l’acqua nelle fonti
caccia gli uomini ai ripari.
Poi, stanco s’addormenta e uno stupore
prende le cose, come dopo l’amore.
Neve
Come pesa la neve su questi rami
come pesano gli anni sulle spalle che ami.
L’inverno è la stagione più cara,
nelle sue luci mi sei venuta incontro
da un sonno pomeridiano, un’amara
ciocca di capelli sugli occhi.
Gli anni della giovinezza sono anni lontani.
****
Le belle giornate se ne vanno rapide,
viene l’autunno.
Ma di questa dolcezza che riempie
l’aria del mezzogiorno ventilata
sull’ultimo sudore del volto,
di questo riposo dell’anno
ti ricorderai
e del suo quieto affanno?
Oh, fuggir via quando nel rosa eterno
della sera imminente
s’allontanano uccelli di passo
e portano sulle ali cangianti
l’estrema luce del giorno,
oh, fuggire ai paesi distanti
dove quiete finestre si chiudono
sui relitti del cielo.
****
Attilio Bertolucci
Assenza,
più acuta presenza.
Vago pensiero di te
vaghi ricordi
turbano l’ora calma
e il dolce sole.
Dolente il petto
ti porta,
come una pietra
“Ottobre”
Sporge dal muro di un giardino
La chioma gialla di un albero.
Ogni tanto lascia cadere una foglia
Sul marciapiede grigio e bagnato.
Estasi, un sole bianco fra le nubi
Appare, caldo e lontano, come un santo.
Muto è il giorno, muta sarà la notte
Simile ad un pesce nell’acqua.
leggera.
Nessuno:
Io sono solo Il fiume è grande e canta Chi c’è di là? Pesto gramigne bruciacchiate.
Tutte le ore sono uguali Per chi cammina Senza perché Presso l’acqua che canta.
Non una barca Solca i flutti grigi Che come giganti placati Passano davanti ai miei occhi Cantando. Nessuno.
Settembre
Chiaro cielo di settembre
illuminato e paziente
sugli alberi frondosi
sulle tegole rosse
fresca erba
su cui volano farfalle
come i pensieri d’amore
nei tuoi occhi
giorno che scorri
senza nostalgie
canoro giorno di settembre
che ti specchi nel mio calmo cuore.
Attilio Bertolucci
Gli anni
Le mattine dei nostri anni perduti,
i tavolini nell’ombra soleggiata dell’autunno,
i compagni che andavano e tornavano, i compagni
che non tornarono più, ho pensato ad essi lietamente.
Perchè questo giorno di settembre splende
così incantevole nelle vetrine in ore
simili a quelle d’allora, quelle d’allora
scorrono ormai in un pacifico tempo,
la folla è uguale sui marciapiedi dorati,
solo il grigio e il lilla
si mutano in verde e rosso per la moda,
il passo è quello lent Convalescente
Ancora vita il tuo dolce rumore
dopo giorni bui e muti riprende.
Porta il vento di maggio l’odore
del fieno, il cielo immobile splende.
Gli occhi stanchi colpisce di lontano
il rosso papavero in mezzo al tenero grano
o e gaio della provincia.
Attilio Bertolucci Poesie Fuochi in Novembre –
Sei stata la mia compagna di scuola
Sei stata mia compagna di scuola
ma hai un anno meno di me
abbiamo un bambino che va a scuola mi
sono innamorato di te…
Fingerò d’essere una tua scolara
che s’è innamorata di te
mi sono fatta una frangetta
per cenare fuori con te…
Cerchiamo una locanda piccina
nella città ma non c’è
inventiamola affacciata sul fiume
che allevò me e te…
Di acqua nel fiume che è nostro
ce n’è e non ce n’è…
Inventerò un nuovo mese
ricco d’acqua per te…
Che si rifletta in me
nei miei occhi
china dalla veranda inverdita
sull’acqua che somiglia la vita
rubandomi e restituendomi a te
Agosto, anno imprecisato
Sereno d’autunno
Non ricordavo un ottobre
così a lungo sereno,
la terra arata
pronta per la semina,
spartita da viti rossastre
molli come ghirlande.
Attilio Bertolucci
L’AMORE CONIUGALE
Ma se la pioggia cade
la camera s’oscura…
L’amore ancora dura
che le gocce più rade
la finestra più chiara
i tuoi occhi più neri
e oggi come ieri
come domani. Amara
sui tetti umidi brilla
la giornata nel sole
che si volge sulle viole
risorte stilla a stilla.
Questa lirica è tratta dalla sua raccolta “In un tempo incerto” pubblicata nel 1955 da Garzanti; ora in: Attilio Bertolucci, “Opere” a cura di Paolo Lagazzi, Mondadori 1997. Strofa unica di12 versi, 11 settenari e il penultimo ottonario. Perfetta la disposizione delle rime, incrociate: abba, cddc, effe.
“L’amore coniugale” è anche la raccolta di lettere che si sono scambiati il poeta Bertolucci e la moglie Ninetta, quando lei studiava lettere all’ università di Bologna e il poeta era a Parma. Il loro è stato un amore grandissimo, a cui il poeta fa riferimento in questi versi. La pioggia cade portando via il sole, è la bellissima metafora di un litigio, una incomprensione che ha generato il pianto dell’ amata “la pioggia cade la camera s’oscura”. Il chiarimento fa diradare le gocce/ lacrime di pioggia e ritorna la luce nella stanza, nulla ha oscurato l’amore che li lega, che durerà per sempre. La nuvola “amara” ha lasciato uno strato umido sui tetti, che stranamente “brilla” illuminato dal sole e le viole traggono beneficio, per la loro sete, dalla gocce che scendono dal tetto “stilla a stilla” sulle loro corolle. L’ amore vero resiste alla distanza, alle incomprensioni e alle intrusioni di terzi. Delicato e tenero il poeta, nel trasformare “un’ombra” in luce e colore . . . sole/ viole.
Vincenza Cerbone
Bruciano della gramigna nei campi,
un’allegra fiamma suscitano
e un fumo brontolone.
La bianca nebbia si rifugia
fra le gaggie,
ma il fumo lento si avvicina
non la lascia stare.
I ragazzi corrono corrono
al fuoco
con le mani nelle mani,
smemorati,
come se avessero bevuto
del vino.
Per lungo tempo si ricorderanno
con gioia
dei fuochi accesi in novembre
al limitare del campo.
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