Iulita Iliopulu-Il mosaico della notte- tradotta da Paola Maria Minucci-
-Donzelli Editore-Roma
Cinque poesie in anteprima da “Il mosaico della notte” di Iulita Iliopulu, da poco uscito per Donzelli, a cura di Paola Maria Minucci, che comprende la raccolta “Il mosaico della notte” tradotta da Paola Maria Minucci e la raccolta “La casa” tradotta da Chiara Catapano.
Da “Il mosaico della notte”(traduzione di Paola Maria Minucci)
STELLE
Tanto piccole che appena tira vento
Rotolano giù
Dal cielo le stelle quasi a precipizio
Riportando di nascosto, in notti simili,
L’oro spento delle statue
Insieme a tracce violette di baci
Negli incavi, nell’ondeggiare leggero dei tessuti
Nelle sillabe di parole rimaste soffocate in bocca
In fretta nello splendore di un attimo
Perché nessuno le veda e si svegli
Spaventato per quella strana luce.
SEGNO
Nessun segno del tempo
Terreno intatto la memoria
A volte l’attraversa, come acqua, un bacio
Torna rinnovato
Affonda – passo nella sabbia –
Pensieri, immagini, sentimenti
E poi con più forza
Riporta
Il desiderio del mio sguardo
Che ti trovò nella folla
«Domani, domani»
Come la prima volta
Senza nessun segno del tempo
Il nostro vecchio amore
Più nuovo
«Domani. Nelle mie braccia. Di nuovo».
MOSAICO DELLA NOTTE
Si offusca l’aria, è scuro dentro la stanza
o fuori?
Immagini lontane, si odono appena
Il viola dei sospiri e il bianco – come di statue –
Che un tempo erano di un azzurro e rosso accesi
Segni, carezze, tagli che sulla pelle lasciano
Gioie vere e veri dolori
La bufera di un mare sempre estivo
Vuole distendere il suo lungo blu
Sui tetti, dentro i sogni
Rendere il vecchio più nuovo
L’amore più appassionato
Aprendo con timore i suoi petali
Nella prigione del piccolo vaso
Il tempo, come un vento
Si rinforza
Sotto i dirupi verticali del sonno
Un cielo con le sue stelle eufoniche
Cantilene, risatine, gemiti, brusii, baci
Frammenti di luce di un dio clemente, un’enorme sala da ballo
Come memoria illumina
Immagini lontane, si odono appena:
Bambini che saltano con la corda
E altre senza peso nelle pieghe dell’amaca
Altre ancora che prima di nascere promettono
– Con la fame di un abbraccio materno –
Voti d’argento, d’oro e di cera
Fiammelle che accendono altre fiammelle
Nel grande mosaico della notte
Con respiro sempre più affannoso
Per poco, solo per poco vive.
Si fa giorno?
Da “La Casa”
(traduzione di Chiara Catapano)
PRENDE QUALCOSA. Cose da niente. Un bicchiere, un
golf fatto a maglia. «Il bricco, prendi il bricco», le
grida la madre. E lei lo prende e dentro ci nasconde
una bambola di pezza, piegata in quattro. E la croce
d’osso di sua nonna. Poi avvolge la coperta, la sua
casa. Tutta la casa. E iniziano tre giorni di marcia
fino al mare. Di notte, passando sotto il filo spinato
la coperta s’impiglia, rimane agganciata. E resta per
sempre indietro la casa. Ora sale con gli altri sulla
barca, reggendo tra le mani solo la sua sorte. Ignota.
Biografia di Iulita Iliopulu, poetessa greca nata nel 1965,ha studiato letteratura bizantina e neogreca all’Università di Atene e teatro alla Scuola d’arte drammatica dell’Accademia di Atene. Scrive poesie, saggi e fiabe per bambini. Suoi componimenti sono tradotti in inglese, francese, spagnolo, italiano in antologie e riviste letterarie. Autrice di otto raccolte poetiche, ha tradotto In difesa della poesia di Percy B. Shelley e ha scritto diversi saggi e uno studio critico sulla poesia del Premio Nobel Odisseas Elitis. Si è occupata dell’opera del poeta anche con numerose conferenze e letture di suoi versi in Grecia e all’estero, oltre a curare l’edizione di molti suoi libri.
Donzelli Editore Srl
Via Mentana 2b
00185 Roma
tel. +39 06.444.06.00
e-mail info@donzelli.it
Ed è dunque tornato ancora il tempo di ritrovare le cose perdute di risentire con le fitte a un braccio il tuo umore, Novembre. Dalla mia terra bruciata di sale ho risalito tutte le contrade qui ho chiesto nebbia e pane. So cosa dite, so le querele che mi fate, amici. Voi non sapete cosa voglia dire nascere a Novembre; voi non sapete cosa voglia dire riconquistare le cose perdute.
Le due rive
Attorno ai globi rossi sulle due rive era ogni sera uno sciamare astioso di zanzare che saliva dagli argini e ronzava sopra le nostre teste.
Così cresceva il segno dell’estate, il rifiorire d’erbe e canne sul fiume la mia ansia d’intendere il fluttuare delle maree ad ogni nuova luna.
Rifugio della notte
Su questi alberi, queste siepi sempreverdi di pitosfori si è allungato il tuo oblio, e il mare tigrato là davanti è specchio fangoso, obliquo rifugio della notte.
In teoria tutto dovrebbe
In teoria tutto dovrebbe andare benissimo.
Egli è seduto a un tavolo. Sta scrivendo un libro, sta leggendo il giornale, sta guardando fuori dalla finestra.
Egli è seduto al tavolo, sta facendo parole incrociate. Una parola due parole molte parole difficili.
Quanto di me è rimasto
Quanto di me è rimasto – di quel poco che ero, di ciò che avevo – ha solo senso nel tuo ricordo, nascosto nel cuore del mio cuore, che pace per sé non chiede al Dio in cui hai creduto fino all’ultimo istante, quando dicevi, gli occhi a me rivolti: “Non ho paura, non ho più paura.”
L’AUTORE
Basilio Reale è nato a Capo d’Orlando il 22 novembre 1934-È morto a Milano il 6 febbraio 2011.
Nel 1953 si trasferisce a Milano per frequentarvi la facoltà di giurisprudenza. I suoi primi componimenti, risalgono al ’50.
Ha pubblicato: Forse il mare, Schwarz Editore, Milano 1956. Le quotidiane abitudini, Rebellato Editore, Padova 1959. La vita attiva, “Il Menabò” n. 6, Einaudi, Torino 1963. I ricambi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968. L’esistenza amorosa, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989. Travasare il miele, All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1996. La balena dighiaccio, Nino Aragno Editore, Torino 2000. Da un ricordo di Daniele. Pulcinoelefante, Ed.788 Osnago 1994. Dove è verde l’ombra. Poesie inedite e sparse (1956-2000), L’arcolaio, Forlimpopoli 2019. Ha pubblicato anche diverse pubblicazioni di saggi.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Margaret Atwood Brevi scene di lupi. Poesie scelte (1966-2020)
a cura di Renata Morresi- Editore Ponte alle Grazie
Breve premessa-Per la prima volta Ponte alle Grazie offre al pubblico italiano una scelta delle poesie della grande scrittrice canadese, che abbraccia tutta la sua produzione, dal 1966 al 2020, ed è curata da Renata Morresi, una fra le più apprezzate poetesse italiane. «Essere accesa da dentro vena per vena essere il sole».
È pericoloso leggere i giornali
Mentre costruivo accurati castelli nel recintino di sabbia le fosse scavate alla svelta si riempivano di cadaveri spinti dai bulldozer e mentre andavo a scuola pettinata e linda, i miei piedi sulle crepe dell’asfalto detonavano bombe vermiglie.
Ora sono adulta e alfabetizzata, e siedo sulla mia sedia placida come un fuso
e si incendiano le giungle, il sotto- bosco si fa pesante di soldati, i nomi sulle mappe complicate salgono in fumo.
Sono io la causa, sono una massa di giocattoli chimici, il mio corpo è un congegno mortale, mi protendo con amore, le mie mani diventano pistole, le mie buone intenzioni sono del tutto letali.
Persino i miei occhi passivi trasmutano tutto ciò che guardo in una foto di guerra in bianco e nero come posso fermarmi?
È pericoloso leggere i giornali.
Ogni volta che batto un tasto su questa macchina elettrica per parlare di un placido albero
esplode un altro villaggio.
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Questa è una mia fotografia
È stata scattata qualche tempo fa. A prima vista sembra una copia sciupata: contorni sfocati e chiazze grigie fuse nella carta:
poi se la esamini, vedi nell’angolo a sinistra qualcosa come un ramo: parte di un albero (balsamina o abete) che affiora e a destra, a metà di quello che appare un dolce declivio, una piccola casa di legno.
Sullo sfondo vi è un lago, e oltre questo, basse colline.
(la foto è stata scattata il giorno dopo che annegai.
Io sono nel lago, al centro dell’immagine, appena sotto la superficie.
È difficile dire dove con precisione, o dire quanto grande o piccola io sia: l’effetto dell’acqua sulla luce inganna
ma se guardi abbastanza a lungo, alla fine riuscirai a vedermi).
Da Brevi scene di lupi (Ponte alle Grazie, 2020)
Moltissimo
È na parola antica, che va sbiadendo. Moltissimo volli. Moltissimo pregai. Io lo amai moltissimo.
Mi faccio strada camminando con attenzione, per via delle ginocchia malandate di cui mi frega assai meno di quanto possiate immaginare visto che esistono altre cose un pelino più importanti (aspetta e vedrai).
Ho in mano un mezzo caffè in una tazza di carta con – me ne rammarico moltissimo – un coperchio di plastica, cerco di ricordare cos’erano quelle parole un tempo.
Moltissimo. Com’era usata? Moltissimo amati. Moltissimo amati, siamo riuniti. Moltissimo amati, siamo oggi qui riuniti in questo album di foto dimenticate che ho ritrovato di recente.
Sbiadite ormai, color seppia, in bianco e nero, stampate a colori, ognuno di noi così tanto più giovane. Le Polaroid. Cos’è una Polaroid? Chiede il neonato. Neonato da un decennio.
Come spiegarlo? Tu scatti e la foto esce dalla parte rialzata. Alzata sopra cosa? Con quello sguardo perplesso che vedo di continuo. Così difficile da descrivere i dettagli più minuti di come – tutti questi moltissimo amati qui riuniti – di come vivevamo un tempo. Si incartava l’immondizia con la carta del quotidiano legata con un filo. Cos’è un quotidiano? Voi capite cosa intendo.
Il filo però, di filo ne abbiamo ancora. Lega le cose insieme. Un filo di perle. Ecco cosa ti dicono. Come tenere traccia dei giorni?
Ognuno splendido, ognuno separato, ognuno unico e finito. Li ho tenuti sulla carta in un cassetto, quei giorni, adesso svaniti. Le perle possono essere usate per contare. Come nei rosari. Ma non mi piace avere pietre intorno al collo.
Lungo questa strada ci sono molti fiori,
sbiaditi adesso ché è agosto, polverosi e diretti verso l’autunno. Presto i crisantemi fioriranno, i fiori dei morti, in Francia. Non pensare che questo sia morboso. Sono le cose come stanno.
Così difficile descrivere i dettagli più minuti dei fiori. Ecco gli stami, niente a che fare con gli umani. Ecco i pistilli, niente a che fare con le pistole. Sono i dettagli più minuti a ostacolare i traduttori e anche me, quando provo a descrivere. Capite cosa intendo dire. Tu puoi deviare. Tu puoi perderti. Lo stesso accade alle parole. Moltissimo amate, riunite qui insieme in questo cassetto chiuso, ormai sbiadite, mi mancate. Mi manca chi è mancato, chi è partito troppo presto. Mi mancano anche quelli che sono ancora qui. Mi mancate tutti moltissimo. Moltissimo rimpianto ho di voi.
Rimpianto: ecco un’altra parola che non senti più tanto spesso. Io rimpiango moltissimo.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Poesie tarde
Queste sono le poesie tarde. Quasi tutte le poesie sono in ritardo, ovvio: troppo tardi, come una lettera spedita da un marinaio che arriva dopo che è annegato.
Troppo tardi per essere di aiuto, certe lettere, e le poesie tarde non sono diverse. Arrivano come via mare.
Di qualsiasi cosa si tratti è già accaduta: la battaglia, il giorno di sole felice, il chiaro di luna che diventa voglia, il bacio d’addio. La poesia si arena sulla riva come un detrito.
Oppure tardi e la cucina è chiusa: tutte mangiate o fredde le parole. Galeotto, sorte e disfatto, o sospesi, attese e un poco, pensoso, dolente, desolata. Persino amore e gioia: vecchi canti pluri-masticati. Sortilegi arrugginiti. Ritornelli consunti.
È tardi, è molto tardi; troppo tardi per ballare. Allora, canta quel che puoi. Accendi la luce: canta ancora, canta: Ora.
Da Moltissimo (Ponte alle Grazie, 2021)
Biografia di Margaret Atwoodè una delle voci più importanti della narrativa e della poesia canadesi. Laureata a Harvard, ha esordito a diciannove anni. Ha pubblicato romanzi, racconti, raccolte di poesia, libri per bambini e saggi. Più volte candidata al Premio Nobel perla Letteratura, ha vinto il Booker Prize nel 2000 per L’assassino cieco. Fra i suoi titoli più importanti ricordiamo: L’altra Grace (2008), Il racconto dell’Ancella (2017), Il canto di Penelope (2018), I testamenti (vincitore del Booker Prize 2019), La donna da mangiare (2020), Lesioni personali (2021), e le raccolte di poesie Brevi scene di lupi (2020)e Moltissimo (2021), tutti usciti per Ponte alle Grazie. L’autrice vive a Toronto, in Canada.
Antonia Pozzi –Poesia “Indugiano” da Brughiera del 1937
Indugiano
carezze non date
fra le dita dei peschi
e gli sguardi
d’amore che mai non avemmo
s’appendono alle glicini sui ponti –
Ma il fiume
è densa furia d’acque senza creste, nel grembo
porta profondi visi di montagne:
e all’immenso
svolto dei boschi trova lieve il vento,
tocca le fresche nuvole
d’aprile.
(da Brughiera – Antonia Pozzi – 28 aprile 1937)
Per troppa vita che ho nel sangue
tremo nel vasto inverno.
(Antonia Pozzi)-Foto: Antonia, Casorate 1937
Biografia di ANTONIA POZZI (Milano 1912-1938)-Quando Antonia Pozzi nasce è martedì 13 febbraio 1912: bionda, minuta, delicatissima, tanto da rischiare di non farcela a durare sulla scena del mondo; ma la vita ha le sue rivincite e … … Antonia cresce: è una bella bambina, come la ritraggono molte fotografie, dalle quali sembra trasudare tutto l’amore e la gioia dei genitori, l’avvocato Roberto Pozzi, originario di Laveno, e la contessa Lina, figlia del conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana e di Maria Gramignola, proprietari di una vasta tenuta terriera, detta La Zelata, a, Bereguardo. Il 3 marzo la piccola viene battezzata in San Babila ed eredita il nome del nonno, primo di una serie di nomi parentali (Rosa, Elisa, Maria,Giovanna, Emma), che indicherà per sempre la sua identità. Antonia cresce, dunque, in un ambiente colto e raffinato: il padre avvocato, già noto a Milano; la madre, educata nel Collegio Bianconi di Monza, conosce bene il francese e l’inglese e legge molto, soprattutto autori stranieri, suona il pianoforte e ama la musica classica, frequenta la Scala, dove poi la seguirà anche Antonia; ha mani particolarmente abili al disegno e al ricamo. Il nonno Antonio è persona coltissima, storico noto e apprezzato del Pavese, amante dell’arte, versato nel disegno e nell’acquerello. La nonna, Maria, vivacissima e sensibilissima, figlia di Elisa Grossi, a sua volta figlia del più famoso Tommaso, che Antonia chiamerà “Nena” e con la quale avrà fin da bambina un rapporto di tenerissimo affetto e di profonda intesa. Bisogna, poi, aggiungere la zia Ida, sorella del padre, maestra, che sarà la compagna di Antonia in molti suoi viaggi; le tre zie materne, presso le quali Antonia trascorrerà brevi periodi di vacanza tra l’infanzia e la prima adolescenza; la nonna paterna, Rosa, anch’essa maestra, che muore però quando Antonia è ancora bambina. Nel 1917 inizia per Antonia l’esperienza scolastica: l’assenza, tra i documenti, della pagella della prima elementare, fa supporre che la bimba frequenti come uditrice, non avendo ancora compiuto i sei anni, la scuola delle Suore Marcelline, di Piazzale Tommaseo, o venga preparata privatamente per essere poi ammessa alla seconda classe nella stessa scuola, come attesta la pagella; dalla terza elementare, invece, fino alla quinta frequenta una scuola statale di Via Ruffini. Si trova, così, nel 1922, non ancora undicenne, ad affrontare il ginnasio, presso il Liceo-ginnasio “Manzoni”, da dove, nel 1930, esce diplomata per avventurarsi negli studi universitari, alla Statale di Milano.
Gli anni del liceo segnano per sempre la vita di Antonia: in questi anni stringe intense e profonde relazioni amicali con Lucia Bozzied Elvira Gandini, le sorelle elettive, già in terza liceo quando lei si affaccia alla prima; incomincia a dedicarsi con assiduità alla poesia, ma, soprattutto, fa l’esperienza esaltante e al tempo stesso dolorosa dell’amore. È il 1927: Antonia frequenta la prima liceo ed è subito affascinata dal professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi; non dal suo aspetto fisico, ché nulla ha di appariscente, ma dalla cultura eccezionale, dalla passione con cui insegna, dalla moralità che traspare dalle sue parole e dai suoi atti, dalla dedizione con cui segue i suoi allievi, per i quali non risparmia tempo ed ai quali elargisce libri perché possano ampliare e approfondire la loro cultura. La giovanissima allieva non fatica a scoprire dietro l’ardore e la serietà, nonché la severità del docente, molte affinità: l’amore per il sapere, per l’arte, per la cultura, per la poesia, per il bello, per il bene, è il suo stesso ideale; inoltre il professore, ha qualcosa negli occhi che parla di dolore profondo, anche se cerca di nasconderlo, e Antonia ha un animo troppo sensibile per non coglierlo: il fascino diventa ben presto amore e sarà un amore tanto intenso quanto tragico, perché ostacolato con tutti i mezzi dal padre e che vedrà la rinuncia alla “vita sognata” nel 1933, “non secondo il cuore, ma secondo il bene”, scriverà Antonia, riferendosi ad essa. In realtà questo amore resterà incancellabile dalla sua anima anche quando, forse per colmare il terribile vuoto, si illuderà di altri amori, di altri progetti , nella sua breve e tormentata vita.
Nel 1930 Antonia entra all’Università nella facoltà di lettere e filosofia; vi trova maestri illustri e nuove grandi amicizie: Vittorio Sereni, Remo Cantoni, Dino Formaggio, per citarne alcune; frequentando il Corso di Estetica, tenuto da Antonio Banfi, decide di laurearsi con lui e prepara la tesi sulla formazione letteraria di Flaubert, laureandosi con lode il 19 novembre 1935. In tutti questi anni di liceo e di università Antonia sembra condurre una vita normalissima, almeno per una giovane come lei, di rango alto-borghese, colta, piena di curiosità intelligente, desta ad ogni emozione che il bello o il tragico o l’umile suscitano nel suo spirito: l’amore per la montagna, coltivato fin dal 1918, quando ha incominciato a trascorrere le vacanze a Pasturo, paesino ai piedi della Grigna, la conduce spesso sulle rocce alpine, dove si avventura in molte passeggiate e anche in qualche scalata, vivendo esperienze intensissime, che si traducono in poesia o in pagine di prosa che mettono i brividi, per lo splendore della narrazione e delle immagini; nel 1931 è in Inghilterra, ufficialmente per apprendere bene l’inglese, mentre, vi è stata quasi costretta dal padre, che intendeva così allontanarla da Cervi; nel 1934 compie una crociera, visitando la Sicilia, la Grecia, l’Africa mediterranea e scoprendo, così, da vicino, quel mondo di civiltà tanto amato e studiato dal suo professore e il mondo ancora non condizionato dalla civiltà europea, dove la primitività fa rima, per lei, con umanità; fra il 1935 e il 1937 è in Austria e in Germania, per approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura tedesca, che ha imparato ad amare all’Università, seguendo le lezioni di Vincenzo Errante, lingua che tanto l’affascina e che la porta a tradurre in italiano alcuni capitoli di “Lampioon”, di M. Hausmann. Intanto è divenuta “maestra” in fotografia: non tanto per un desiderio di apprenderne la tecnica, aridamente, quanto perché le cose, le persone, la natura hanno un loro sentimento nascosto che l’obiettivo deve cercare di cogliere, per dar loro quell’eternità che la realtà effimera del tempo non lascia neppure intravedere. Si vanno così componendo i suoi album, vere pagine di poesia in immagini. Questa normalità, si diceva, è, però, solamente parvenza. In realtà Antonia Pozzi vive dentro di sé un incessante dramma esistenziale, che nessuna attività riesce a placare: né l’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, iniziato nel ‘37 e ripreso nel ’38; né l’impegno sociale a favore dei poveri, in compagnia dell’amica Lucia; né il progetto di un romanzo sulla storia della Lombardia a partire dalla seconda metà dell’Ottocento; né la poesia, che rimane, con la fotografia, il luogo più vero della sua vocazione artistica. La mancanza di una fede, rispetto alla quale Antonia, pur avendo uno spirito profondamente religioso, rimase sempre sulla soglia, contribuisce all’epilogo: è il 3 dicembre del 1938.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito, per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola.
Onorina Dino
Biografia tratta da Antonia Pozzi. Nelle immagini l’anima: antologia fotografica, a cura di Ludovica Pellegatta e Onorina Dino, Ancora, Milano 2007
L’estate ormai s’abbassava a cerchi, S’inumidiva, riluceva il crepuscolo. Tu hai detto, aggiustando la cravatta: – Nell’eternità siamo già morti.
– Ma se è così – ho detto tristemente, Pestando l’estate con una scarpa verso l’alto – Viviamo in essa, e un peccato meschino Si protende eternamente dietro di noi.
Oh beatitudine – la prima notte di giugno, Quando il crepuscolo s’è addensato, Agitare un ramo e pensare a lungo Che siamo già morti, morti.
Elena Andreevna Švarc
(Traduzione di Paolo Galvagni)
da “La nuova poesia russa”, Crocetti Editore, 2003
«Лето уже спускалось кругами»
Лето уже спускалось кругами, Влажнели, блестели сумерки. Ты сказал, поправляя галстук: — В вечности мы уже умерли.
— Но если так, — я сказала печально, Подбивая лето ботинком вверх, — Мы в ней и живем, и вечно тянется За нами мелкий какой-нибудь грех. —
О блаженство — в первую ночь июня, Когда загустели сумерки, Веткой махать и долго думать, Что мы уже умерли, умерли.
Елена Шварц
1986
da “Стихотворения и поэмы Елены Шварц” Инапресс, 1999
Il ciliegio e Thomas Mann
Aspettami ed io tornerò,
ma aspettami con tutte le tue forze.
Aspettami quando le gialle piogge
ti ispirano tristezza,
aspettami quando infuria la tormenta,
aspettami quando c’è caldo,
quando più non si aspettano gli altri,
obliando tutto ciò che accadde ieri.
Aspettami quando da luoghi lontani
non giungeranno mie lettere,
aspettami
la vita è una buia scucitura
La vita è una buia scucitura,
E solo da un filo dorato
Sono segnati i moti dell’anima.
Ora balza attraverso il baratro,
Ora precipita direttamente nell’abisso.
Di tutto il ricco destino purpureo
Di broccato rimane
Il solo risvolto sospeso nel buio
Sopra di noi – con piccoli nodi
Insensati d’oro.
Elena Andreevna Švarc-L’11 marzo 2010 muore, a soli 52 anni, la scrittrice e poetessa russa Elena Andreevna Svarc, certamente una delle personalità più interessanti del panorama letterario contemporaneo.
Le sue opere si caratterizzano per le influenze gitane, tatare, slave e giudaiche. Frequente è l’uso del simbolismo, le sue rime spesso sono spesso imperfette, le metafore chiare e semplici. Elena intende il poeta come un santo e un martire, scelto per una vita solitaria e profetica.
Tutta la mia vita è un caso miracoloso e un sogno misterioso. Ma più misteriosi di tutto il miracoloso sono i versi. Da chi sono ispirati, da chi sono gonfiati – extra intellettuali in una mente assennata – lo sa Dio. Ma non si tratta di questo, voglio soloraccontare alcuni casi della mia vita, nei quali chiaramente attraverso l’involucro di Maya, attraverso il velo della quotidianità si sono manifestate altre forze – quali che potessero essere. Da “Casi miracolosi e sogni misteriosi”. Elena Andreevna Schwartz è nata nel 1948 a Leningrado, dove è scomparsa l’11 marzo del 2010. E’considerata tra le poetesse più innovative e piene di talento degli ultimi decenni. La sua poesia satirica e provocatoria, si concentra su aspetti universali dell’esperienza femminile; è stata molto lodata dalla critica e molte poetesse, incluse Bella Achatovna Achmadulina e Ol’ga Aleksandrovna Sedakova, le hanno dedicato poesie. Nel 1971 si laurea presso l’Istituto leningradese di Teatro, Musica e Cinematografia. Esordisce nel 1972 con due poesie apparse sul giornale dell’università di Tartu. Negli anni Settanta frequenta gli ambienti letterari clandestini e a partire dalla metà degli anni Ottanta pubblica versi in Occidente: nelle riviste dell’emigrazione russa come «Grani» nei volumi: Tancujuščij David [Davide danzante] (New York 1985), Stichi [Versi] (Parigi 1987), Trudy i dni monachini Lavinii [Le opere e i giorni della monaca Lavinia] (New York 1988). Dal 1989 ha potuto pubblicare anche in patria. I suoi versi sono apparsi su molte riviste russe: le sue raccolte poetiche: Pesnja pticy na dne morskom [Canto di un uccello sul fondo marino] (1995), Mundus imaginalis (1996), Zapadnovostočnyjveter [Vento da occidente e oriente] (1997), Solo na raskalennoj trube [Assolo con una tromba arroventata] (1998). Agli ultimi anni risalgono i volumi antologici Stichotvorenija i poemy [Poesie e poemi] (1999) e Sočinenija [Opere] (2002).
Titos Patrikios-Le parole nude-Antologia con testo greco a fronte-
Editore Interlinea-Novara
Testi di Giovanni Conte-Traduttore Katerina Papatheu
DESCRIZIONE –
Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti europei attuali, nato ad Atene nel 1928, ha partecipato alla resistenza, durante l’occupazione nazifascista, rischiando l’esecuzione, e alla guerra civile. Mandato al confino durante i regimi di destra che si sono avvicendati fino al 1974, è sopravvissuto alla brutalità delle due guerre e della polizia e alle torture, grazie a una scrittura assidua, febbrile, incessante. È un poeta che s’interroga, e il suo verso è un sentiero ritmico che protrae quasi all’infinito il suo sentire, è un percorso della memoria che può riempire i vuoti della vita. “Nessun verso oggi può rovesciare i regimi /[…]/ se non per sollevare un angolo di verità”. A questo servono appunto i poeti, perché “a un certo momento scelgono, denunciano, sperano, / chiedono /[…]/ passando in rassegna le cose già accadute / la poesia cerca risposte / a domande non ancora fatte”. Edizione, con inediti, a cura di Katerina Papatheu, con una nota di Giuseppe Conte.
Biografia di Titos Patrikios
Titos Patrikios, figlio di due noti attori del teatro greco, è nato ad Atene nel 1928. Durante l’occupazione nazifascista ha partecipato alla Resistenza e nel 1944 ha rischiato l’esecuzione. Dal 1951 al 1954 è stato confinato nelle isole di Makrònissos e di àghiostratis, e dal 1954 al 1959 ha vissuto ad Atene come «confinato in congedo». Laureato in Giurisprudenza all’Università di Atene, è diventato avvocato, lavorando anche come giornalista. Molto attivo nel campo culturale, è stato, nel 1954, fra i fondatori dell’importante rivista letteraria “Epitheòrisi Technis”. Dal 1959 al 1964 è stato a Parigi dove ha studiato Sociologia e Filosofia a l’école des Hautes études e ha lavorato come ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique. Nel 1967, all’avvento della dittatura dei colonnelli, sfuggendo all’arresto, lascia la Grecia e vive a Parigi, dove lavora come consulente all’Unesco, e a Roma, dove lavora alla FAO. Dal 1976 vive ad Atene.
Dopo l’esordio come poeta nel 1943 sulla rivista studentesca “Xekìnima tis Niòtis”, la sua prima raccolta di versi, Strada sterrata, risale al 1954. Seguirono le raccolte Apprendistato (1963), Fermata a richiesta (1975), Poesie, I (1976), Mare promesso (1977), Controversie (1981), Specchi a fronte (1988), Deformazioni (1989), Apprendistato, ancora (1991), Il piacere delle dilazioni (1992), Poesie I, II, III (1988), La resistenza dei fatti (2000), La Porta dei Leoni (2002), Il nuovo tracciato (2007), Poesie, IV (2007), Brama d’amore che scioglie le membra (2008), La casa (2009), Convivenza col presente (2011), La poesia ti trova (2012). Ha pubblicato anche quattro volumi di racconti e numerosi saggi letterari, sociologici e giuridici. Due suoi libri di sociologia, scritti in francese e tradotti in inglese, spagnolo e russo, sono pubblicati dall’Unesco (1972, 1976) e due altri scritti in inglese e francese sono pubblicati dalla FAO (1970, 1974). Ha tradotto in greco, tra gli altri, testi di Spinoza, Lukàcs, Hannah Arendt, Walt Whitman, Majakowskij, Neruda, Saint-John Perse, éluard, Aragon, Brecht, Balzac, Stendhal, Valéry. Sue poesie sono state pubblicate in tutti i paesi europei e in Messico, Cile, Brasile, Egitto, Marocco, Cina. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia (Altérations, Parigi 1991; Apprentissage, Parigi 1996); due in Germania (Spiegelbilder, Colonia 1993; Das Hans, Berlino 2010). Un’antologia di suoi versi è pubblicata negli Stati Uniti (The Lions’ Gate, 2006). Un’ampia antologia delle sue poesie tradotte in italiano da Nicola Crocetti, La resistenza dei fatti, è uscita nel 2007 in Italia da Crocetti Editore. Interlinea ha pubblicato le due antologie con testo greco a fronte La casa e altre poesie (tradotto dallo stesso Crocetti, nel 2009) e Le parole nude nel 2013.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios in Italia si ricorda il Premio Brancati, Zafferana Etnea 2007, Premio Letterario Internazionale l’Aquila-Carispac 2009, Premio internazionale di Poesia Civile di Vercelli 2009, Premio Feronia Città di Fiano 2011. Nel 2004 il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
da Tutte le poesie Mondadori-scelte dalla Rivista Avamposto
Mi chiedi cosa vuol dire
Mi chiedi cosa vuol dire
la parola alienazione:
da quando nasci è morire
per vivere in un padrone
che ti vende – è consegnare
ciò che porti – forza, amore,
odio intero – per trovare
sesso, vino, crepacuore.
Vuol dire fuori di te
già essere mentre credi
in te abitare perché
ti scalza il vento a cui cedi.
Puoi resistere, ma un giorno
è un secolo a consumarti:
ciò che dài non fa ritorno
al te stesso da cui parte.
È un’altra vita aspettare,
ma un altro tempo non c’è:
il tempo che sei scompare,
ciò che resta non sei te.
Il benessere
Quanti hanno avuto ciò che non avevano:
un lavoro, una casa – ma poi
che l’ebbero ottenuto vi si chiusero.
Ancora per poco sarò tra voi.
Dal cuore del miracolo
Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.
La vita in versi
Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.
Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.
Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettano occhiate
d’accordi. E gli istanti s’affacciano
al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
del sublime – l’infame, l’illustre.
Inoltre metti in versi che morire
è possibile a tutti più che nascere
e in ogni caso l’essere è più del dire.
Quando piega al termine
Quando piega al termine l’età,
la nostra età, l’età del mondo, quando
aspettare il nulla che accadrà
è chiaramente un inganno – si mette al bando
volontario colui che il sorriso rifiuta
e non sopporta di essere vile
più, non chiede più complici e muta
persona diventa, facile preda ostile.
Ciao, Sublime
Tu, cosa della cosa
o Sublime.
Al di là della fine
e senza fine.
Senza principio
al di qua del principio.
Sublime – esser per essere.
Sublime – divenire.
Crisma dell’immanenza.
Sublime – stella fissa del durare.
Superfluità della coscienza.
Ciao, Sublime.
Ciao, Sublime.
Sublime che non si volta.
Sublime che non si ascolta.
Sublime senza prima
né ultima volta.
Io no – che sempre aspetto
il cominciare, l’apertura.
Io no – per poca fede.
Per poca paura.
Io – senza occhi per contemplarti.
Io che non ho ginocchi per adorarti.
Cosa della cosa.
Rosa della rosa.
Tu – rosa e cosa
ma senza le parole cosa e rosa.
Tu – non foglia che cresce
ma crescersi di foglia.
Tu – non mare che splende
ma splendersi del mare.
Tu – amore nell’amare.
Ciao, Sublime.
Ciao, Essere Umano semplicemente.
E io che passeggio con te.
Io che posso prenderti per mano.
Io che mi brucio di te
nel corpo, nella mente.
Maria de las angustias
Un massimo di impostura è inevitabile
Considerato quanto futile è il cuore:
Anche dalla finzione tuttavia il vero può nascere
Smascherata maschera all’incerto amore.
Egli fabbrica e notturno arzigògola
La via donde buscar el Levante:
A te sale e ti osa, Maria de las angustias,
Ti chiama presenza/assenza, essenza miracolante.
Ma tu per mano a angoli d’acque lo guidavi,
Che in ombre marezzavano le arcate discrete:
E lui con te così tortuosamente naturale
Nell’estraneità di quella quiete.
***
Maestra di enigmi
Affermate che basta una parola
E quella sola che nessuno ha –
Lei che trasvola via dalla memoria
Lucciola albale e falena
È nera spina di pena
Brùscolo a un occhio di storia –
Venisse al mio parlare
Èffeta e poi per sempre bocca muta
Al servo vostro stretto
Frugando sul sentiero
Dove non scende lume di pietà –
Se la felicità sia il nostro vero
O il nostro vero la felicità
L’amore dei vecchi
In una gloria di sole occidente
Vaneggi, mente stanca:
Inseguito prodigio non si adempie
Nell’aldiquà del fiore che s’imbianca
Ma tu, distanza, torna a ricolmarti
Tu a farti terra in questa ferma fuga
Mare di nuda promessa
Ai nostri balbettati passi tardi
E tu, voce, rimani
Persuàdici – un poco, un poco ancora
Nostro non più domani,
Usignolo dell’aurora.
Il mio delitto
Se scrivere era vivere
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un’isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto
Breve biografia di Giovanni Giudici nasce il 26 giugno 1924 a Le Grazie (La Spezia). Vive per molti anni a Roma, dove si laurea in Lettere.Giornalista professionista dal 1° gennaio 1948, nel 1956 viene assunto alla Olivetti di Ivrea con l’incarico formale di bibliotecario, ma in realtà per dirigere, secondo la volontà di Adriano Olivetti, il settimanale «Comunità di fabbrica». Dopo un breve periodo trascorso a Torino, nel 1958 è nella sede Olivetti di Milano, dove lavora come copywriter nella Direzione pubblicità e stampa. Nel 1953 pubblica la prima raccolta di versi, Fiorì d’improvviso. La vita in versi, uscito nel 1965, lo impone definitivamente all’attenzione di lettori e critici. Negli anni successivi dà alle stampe Autobiologia (1969, Premio Viareggio), O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984), Salutz (1986, Premio Librex-Guggenheim Montale), Prove del teatro (1953-1988) (1989), Fortezza (1990), Poesie (1953-1990) (1991), Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresie della sera (1999). Nel 2000 la sua opera poetica è raccolta nel Meridiano I versi della vita. Nel 2004 esce l’ultima raccolta, Da una soglia infinita. Prove e poesie 1983-2002. Muore a La Spezia il 24 maggio 2011.
Testi selezionati da Tutte le poesie (Mondadori, 2014) dalla RIVISTA «Avamposto»
«Avamposto»è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
CONTATTI- RIVISTA «Avamposto»
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” a cura di Simonetta Losi
Betti Editrice
DESCRIZIONE
Dall’Introduzione :«Il mio incontro con Vittoria Gazzei Barbetti, nata a Siena il 25 ottobre 1892 e morta il 30 marzo 1934, ha quella non casuale casualità che ha contraddistinto spesso le mie scoperte in biblioteca e negli archivi. Sembra che a un certo punto dalle carte si levi un fumo sottile, azzurrino, che ricompone i pensieri che hanno mosso la scrittura, la calligrafia, il manoscritto. Ogni inedito è un una sorta di messaggio in bottiglia nel mare dell’oblio, che cerca la terraferma di una rivisitazione, di una riscoperta, di un affettuoso entusiasmo. È così che si inizia a dialogare con l’autore, è così che si ascolta la sua storia o, come in questo caso, la storia che ci ha voluto narrare. L’dea di pubblicare il romanzo inedito di Vittoria Gazzei Barbetti “La Città innamorata” nasce dall’interesse per questa sfortunata figura di donna che ha origine da un articolo pubblicato sulla rivista “Il Carroccio”. Studi successivi hanno portato alla pubblicazione di un contributo sulla rivista dell’Accademia dei Rozzi. In occasione di queste ricerche è avvenuta la scoperta, all’interno del Fondo Barbetti custodito dalla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, del romanzo dattiloscritto che oggi, dopo quasi un secolo, vede la luce».
A cura di Simonetta Losi
Simonetta Losi è nata a Siena il 18 febbraio 1963.E’ laureata in Lettere e lavora come collaboratore ed esperto linguistico all’Università per Stranieri di Siena. All’attività di insegnamento accompagna quella di aggiornamento e formazione professionale per docenti di italiano all’estero. E’ giornalista pubblicista e collabora a varie testate.
Betti Editrice
La Betti Editrice nasce nel 1992 con un taglio prevalentemente locale con una particolare attenzione alla storia, cultura e turismo a Siena. Negli anni ha allargato il suo raggio d’azione a generi diversi (narrativa, edizioni per bambini,..) con uno sguardo che spazia all’intero territorio Toscano e a tematiche di interesse nazionale. Una produzione differenziata per argomenti e generi è elemento distintivo della Betti Editrice che opera nel mondo editoriale cercando di far convivere e tenere in equilibrio il rispetto della storia e delle tradizioni con la curiosità per l’innovazione e i linguaggi contemporanei. Dal 2017 organizza il premio di narrativa dedicato alle storie di viaggio lungo la Via Francigena.
-Articolo di Daniela Musini per Vanilla Magazine Club-
ANTONIO LIGABUE -“El matt”,lo chiamavano quelli della Bassa, quando lo vedevano vagare tra le nebbie del Po, parlare da solo, fare smorfie terrifiche ed emettere suoni animaleschi.
«Dam un bès» (dammi un bacio) chiedeva ossessivamente, un grido lacerante come una tela tagliata.
Ma a lui, vagabondo dall’aspetto sgraziato e grottesco, quel bacio non lo dava mai nessuno, tanto meno le donne che, vedendolo, tiravano via velocemente o si scansavano spaventate e disgustate.
E allora lui se l’inventava una compagna, indossando abiti femminili, in una struggente e patetica farsa.
E agli sghignazzi della gente del posto, lì a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, rispondeva con un sorriso sgangherato, ma più spesso con scatti di furore.
“El matt”, ma anche “El tedesch”, perché era nato a Zurigo il 18 Dicembre 1899 da Elisabetta Costa, ragazza madre del bellunese emigrata in Svizzera (lui non saprà mai chi fosse suo padre); quando aveva due anni sua madre si sposò con Bonfiglio Laccabue che lo adottò dandogli il suo cognome.
Era un uomo violento e tirannico, Bonfiglio, a dispetto del nome, e Antonio lo detestava e, preda di un rancore livoroso e mai sopito, lo accuserà fino alla morte di aver ucciso la madre e i 3 fratellini che da quell’unione erano nati, avvelenandoli (e invero morirono tutti e quattro per una esiziale intossicazione alimentare).
E fu per questo che si firmerà sempre Ligabue e non Laccabue: per odio.
Quella tragedia ebbe conseguenze devastanti per il suo equilibrio psichico ed emotivo già da sempre fragilissimo, e per la sua esistenza: dato in adozione ad una coppia zurighese, iscritto in una scuola per bambini minorati mentali, sottoposto a privazioni e vessazioni, iniziò già a 18 anni quella drammatica teoria di ospedali psichiatrici e ricoveri di fortuna, quella straziante odissea che lo fa approdare a Gualtieri, dove vivrà fino alla morte.
Appena arrivato, solo, senza parlare e capire una parola d’italiano, dal carattere ruvido e e aspro, dai modi selvatici e bruschi, dagli scatti umorali incontrollati e dal famelico bisogno d’affetto, guardato con sospetto dalla comunità locale, cominciò a vivere ai margini della società, un reietto vagabondo che si riparava nelle stalle e che aveva più dimestichezza con gli animali (di cui imitava versi e posture) che con gli esseri umani.
E cominciò a dipingere, “el matt”, dovunque gli capitasse, su fogli e con colori prestati da anime buone: un universo primitivo e onirico, fatto di aquile rapaci e tigri dalle fauci spalancate, di animali in lotta tra di loro e serpenti e “vedove nere” infide e letali.
La violenza repressa del suo animo angosciato, le vertigini e gli abissi della sua mente, la sopraffazione dei più forti, il soccombere dei più deboli: tutto c’era in quei dipinti dai colori lussureggianti, tra quelle foreste, anzi, giungle folte e pregne di simboli nascosti, che farebbero pensare alla pittura naïf del Doganiere Rousseau, se non fosse che nel segno spesso e contorto di Ligabue, in quei colori accesi e aggressivi, c’è un che di inquietante, ancestrale, ferino.
Se ne accorse, con stupore, il pittore Renato Marino Mazzacurati, mica uno qualunque, uno che faceva parte della Scuola Romana e aveva dimestichezza con il Cubismo e l’Espressionismo, e che gli insegnò l’uso dei colori ad olio.
La pittura si fece allora ancora più vivida con i colori che sembravano spremuti direttamente dai tubetti, come nei dipinti dei Fauves (“Belve”, appunto) di primo Novecento che rispondevano ai nomi di Matisse, Van Gogh, Derain, de Vlaminck, ma con un’aura più nevrotica, più feroce e disperata che anticipava i furori espressionistici di Schiele.
E poi quegli autoritratti che dipinse ossessivamente (ben 300) in cui lui ha sempre quell’espressione guardinga e strabuzzata, quel ghigno ostile che gli serra le labbra, e la vedi la sua anima tormentata, percepisci i suoi incubi, i suoi drammi, le violenze subite.
Durante la seconda guerra mondiale “el matt” divenne utile ai suoi compaesani perché conosceva il tedesco e faceva da interprete agli occupanti in cambio di un pasto caldo e di un giaciglio riparato.
Ma poi una bottigliata in testa ad un soldato tedesco lo fa precipitare di nuovo nel gorgo dei ricoveri in manicomi, da cui esce ogni volta sempre più squilibrato, furibondo, disperato. E la pittura si fa ancora più gridata e ringhiosa.
Poi la svolta, improvvisa, inaspettata, nel 1948 quando critici e mercanti d’arte si accorsero finalmente di lui e furono interviste e articoli stupefatti e ammirati.
Divenne anche ricco, proprio lui, “el matt”, “el tedesch”.
E allora realizzò il sogno di una Vita: comprarsi una motocicletta, una Guzzi rossa fiammante, con cui sfrecciare tra le strade di Gualtieri, così glielo faceva vedere ai suoi compaesani, a quelli che l’avevano deriso ed emarginato.
E persino un’auto con tanto di autista in divisa che doveva togliersi il cappello (così s’era impuntato) ogni volta che lui entrava e si sedeva sui sedili posteriori, come facevano i signori.
Perché se non aveva potuto avere l’amore e l’amicizia, almeno il rispetto glielo dovevano tutti ora, perdinci!
La passione per la motocicletta gli fu fatale.
Un brutto incidente lo ammaccò nel fisico e nell’anima cui fece seguito una maligna paresi.
La Vita, ancora una volta, lo aveva sferzato con unghiate crudeli.
In una radiosa giornata di maggio del 1965, chiese al Curato di essere battezzato e cresimato.
Tre giorni dopo, il 27, Antonio Ligabue, uno dei più geniali artisti del Novecento spirò.
Ma la sua leggenda continua.
-Articolo di Daniela Musini per Vanilla Magazine Club-
Fra i tuoi capelli è qualche filo bianco. E i giovani ormai più quando tu passi d’improvviso non soffoca il respiro. Ma qualche vecchio forse mormorando ti benedice, ché una tua preghiera l’ha scampato sul letto della morte. Per te che sai del cuore ogni tormento e ogni tormento hai inflitto all’altrui cuore, di gracile fanciulla germogliando la tua bellezza grave – per te sola il cielo ha cancellato la sentenza, tanta parte gli serbi in quella pace, se cammini soltanto in una stanza.
La tua bellezza può tra noi lasciare solo ricordi, pallidi ricordi. E un giorno a un vecchio un giovane dirà: “Diteci dunque di quella signora che un poeta ostinato ci esaltava quando l’età gli ebbe gelato il cuore.”
Vaghi ricordi, pallidi ricordi che nella tomba tutti rivivranno. La certezza che un giorno la signora vedrò giacere o ritta o camminare nella bellezza sua prima di donna col fervore degli occhi giovanili m’ha fatto come folle delirare.
E tu sei bella più d’ogni altra donna, ma una macchia offuscava il tuo bel corpo: non erano le tue piccole mani belle, e temo che tu forse non corra e remi fino al polso in quell’arcano lago sempre ricolmo dove quelli che hanno adempito alle divine leggi remano e sono ormai perfetti. Lascia immutate le mani ch’io baciavo per amore di un’amicizia antica.
L’ultimo tocco della mezzanotte muore; l’intero giorno ho allineato di sogno in sogno e poi di verso in verso divagando con un fantasma d’aria: solo ricordi, pallidi ricordi.
Trad. di Leone Traverso
Quando sarai vecchia
Quando tu sarai vecchia e grigia, col capo tentennante ed accanto al fuoco starai assonnata, prenderai questo libro. E lentamente lo leggerai, ricorderai sognando dello sguardo che i tuoi occhi ebbero allora, delle loro profonde ombre. Di quanti amarono la grazia felice di quei tuoi momenti e, d’amore falso o a volte sincero, amarono la tua bellezza. Ma uno solo di te amò l’anima irrequieta, uno solo allora amò le pene del volto tuo che muta. E tu, chinandoti verso le braci, sarai un poco triste, in un mormorio d’Amore dirai, di come se ne volò via… passò volando oltre il confine di questi alti monti e per sempre poi il suo volto nascose in una folla di stelle.
Innisfree, l’isola sul lago Mi leverò e andrò, ora, andrò a Innisfree, E costruirò una capanna laggiu, fatta d’argilla e canne, Nove filari a fave avrò laggiu, un’arnia 1 per le api da miele, E solo starò nella radura ronzante d’api. E avrò un po’ di pace laggiu, ché la pace discende goccia a goccia , Discende dai velami del mattino fin dove canta il grillo; La mezzanotte laggiu è tutto un luccichio, il meriggio purpurea incandescenza , La sera è piena d’ali di fanello. Mi leverò e andrò, ora, ché sempre notte e giorno Odo l’acqua del lago lambire con lievi suoni la sponda; Stando in mezzo alla strada, sui marciapiedi grigi, La sento nella fonda intimità del cuore.
Il gatto e la luna
Il gatto andava qui e là E la luna girava come trottola, E il parente più stretto della luna, Il gatto strisciante, guardò in su. Il nero Minrialoushe fissava la luna, Perché, per quanto vagasse e gemesse, La luce fredda e limpida nel cielo Turbava il suo sangue animale. Minnaloushe corre fra l’erba Alzando le sue zampe delicate. Vuoi ballare, Minnaloushe, vuoi ballare? Quando s’incontrano due parenti stretti Che c’è di meglio che mettersi a ballare? Forse la luna imparerà, Stanca delle mode di corte, Un nuovo passo di danza. Minnaloushe striscia fra l’erba Di luogo in luogo illuminato dalla luna, La sacra luna sul suo capo È entrata in una nuova fase. Lo sa Minnaloushe che le sue pupille Passeranno di mutamento in mutamento, Che vanno dalla tonda alla lunata, Dalla lunata alla tonda? Minnaloushe striscia, fra l’erba Solo, importante e saggio, E leva alla luna mutevole I suoi occhi mutevoli.
La maschera
Togli quella maschera d’oro ardente Con gli occhi di smeraldo.
“Oh no, mio caro, tu vuoi permetterti Di scoprire se i cuori sian selvaggi o saggi, Benché non freddi.”
“Volevo solo scoprire quel che c’è da scoprire, Amore o inganno.”
“Fu la maschera ad attrarre tua mente E poi a farti battere il cuore, Non quel che c’è dietro.”
“Ma io debbo indagare per sapere Se tu mi sia nemica.”
“Oh no, mio caro, lascia andar tutto questo; Che importa, purché ci sia fuoco In te, in me?”.
Alla memoria di Eva Gore-Booth
La luce della sera, Lissadell, Grandi finestre aperte verso sud, Due ragazze in kimono di seta, Entrambe belle, e una una gazzella.
Ma un delirante autunno strappa i fiori Alla ghirlanda dell’estate; la più grande È condannata a morte, perdonata, E trascina i suoi anni solitari A cospirare fra gli ignoranti.
Io non so cosa sogni la più giovane – Forse una vaga Utopia – e sembra, Ormai avvizzita e scarna come scheletro, Proprio un’immagine di quella politica.
Talvolta penso di andare a cercare L’una o l’altra, e parlare Di quella vecchia casa georgiana, fondere Le immagini della memoria, ricordare Quel tavolo e i discorsi della giovinezza, Due ragazze in kimono di seta, Entrambe belle, e una una gazzella.
Care ombre, ora sapete tutto, Conosco tutta la follia di una lotta Con un torto comune, o una comune ragione.
Per chi è innocente e bello Soltanto il tempo è nemico; Levatevi, e ditemi d’accendere un fiammifero E di accenderne un altro, finché non arda il tempo; E se l’incendio dilaga Correte pure a dirlo a tutti i saggi.
Noi costruimmo il gran gazebo, ed essi Ci riconobbero colpevoli; ditemi D’accendere un fiammifero e soffiare.
Canzone dell’amante
L’uccello sospira per desiderio d’aria, Il pensiero per non so qual luogo, Per il grembo il seme sospira. Ora scende un medesimo riposo Sulla mente, sul nido, Sulle cosce sforzate.
Pena d’amore
Il clamore d’un passero sulle grondaie, La luna brillante e tutto il latteo cielo, E tutta quella famosa armonia di foglie, Avean cancellato l’immagine dell’uomo ed il suo grido.
Una fanciulla sorse che aveva labbra rosse e dolenti E sembrava la grandezza del mondo in lacrime, Condannata come Odisseo e le navi travagliate E orgogliosa come Priamo assassinato con i suoi pari.
Sorse, e sull’istante le grondaie piene di clamore, Una luna che si arrampicava su un vuoto cielo, E tutto quel lamento delle foglie, Potevano soltanto comporre l’immagine dell’uomo e il suo grido.
I due alberi
Adorato, fissa lo sguardo nel tuo proprio cuore, L’albero santo sta crescendo là; Originano dalla gioia i sacri rami, E i tremuli fiori tutti che ne vengono.
I cangianti colori del suo frutto Han dotato le stelle d’un’armonica luce; La certezza della sua occulta radice Ha impiantato quiete nella notte;
L’agitarsi della sua chioma frondosa Ha donato alle onde melodia, E sposato le mie labbra con la musica, Per te mormorando una canzone di mago.
Là i figli di Giove compongono un cerchio, L’ardente cerchio dei giorni che ci appartengono, Rotando, ergendosi su e giù In quelle grandi vie frondose inconsapevoli;
Ricordando la chioma tutta scossa E degli alati sandali il guizzare, I tuoi occhi crescono pieni di tenera cura: Adorato, fissa lo sguardo nel tuo proprio cuore.
Non volger più l’occhio nello specchio amaro Che i demoni, con la loro astuzia sottile. Innalzano di fronte a noi quando essi passano, O solamente per poco tempo fissalo;
Giacché vi cresce un’immagine fatale Che la notte tempestosa accoglie in sé, E radici mezzo nascoste dalle nevi, E rami rotti ed annerite foglie.
Poiché cose malate portano a sterilità Nel fioco specchio che recano i demoni, Specchio della stanchezza esteriore, Fatto allorché Dio dormì nei tempi antichi.
Là, attraverso i rami rotti, vanno I corvi del pensiero senza riposo; Volando, gridando, su e giù, Artiglio crudele e famelica gola,
Oppur si fermano ed annusano il vento, E scuotono le logore ali; ahimè! I tuoi occhi gentili divengono del tutto scortesi: Non volger più l’occhio nello specchio amaro.
Gli amici le portano un albero di Natale
Perdona grande nemica, Senza pensiero irato Abbiam portato l’albero, E qui e lì comprato Per adornare ogni ramo, E lei dal letto rimiri Cose graziose che rallegrino Una fantasiosa mente. Un po’ di grazia donale Anche se un occhio ridente Ha spiato il tuo volto Che muore.
Un campo d’erba
Quadro e libro rimangono, Un campo d’erba verde Per prendere un po’ d’aria, Ora che le forze del corpo se ne vanno; Mezzanotte, una vecchia casa In cui solo un topo si muove.
La mia tentazione è la quiete. Qui al termine della vita Né la sbrigliata immaginazione, Né la macina della mente Che ne consuma cenci e ossa, Riescono a render nota la verità.
Mi sia concessa la frenesia di un vecchio, Devo rifare me stesso Fino ad essere Timone o Lear O quel William Blake Che bussò sul muro Tanto che la Verità rispose al suo richiamo;
Una mente quale la conobbe Michelangelo Tale da penetrare le nuvole, O ispirata dalla frenesia Da scuotere i morti nei sudari; Del resto dimenticata dal genere umano: La mente d’aquila di un vecchio.
Gli uccelli bianchi
Fossimo noi bianchi uccelli, mia amata, sulla spuma del mare! La fiamma della meteora ci stanca prima di appassire e la fiamma dell’azzurra stella bassa nel cielo crepuscolare ci ha ridesta, mia amata, nel cuore una tristezza che non può morire.
Stanchezza esalano questi sognatori grevi di rugiade, la rosa e il giglio; ah non sognare fiamma di meteora vagante, né la fiamma dell’azzurra stella ch’esita mentre la rugiada cade: ma ci muti la sorte in uccelli bianchi a galla sulla spuma errante!
Nostalgia d’isole innumerevoli mi tormenta e di danae prode, dove ci dimentichi il Tempo e l’Affanno non osi calare; lontani saremmo dal giglio e la rosa e la fiamma che rode, solo fossimo noi bianchi uccelli, mia amata, sulla spuma del mare!
Il secondo Avvento Ruotando e roteando nella spirale che sempre più si allarga, Il falco non può udire il falconiere; Le cose si dissociano; il centro non può reggere; E la pura anarchia si rovescia sul mondo, La torbida marea del sangue dilaga, e in ogni dove Annega il rito dell’innocenza; I migliori hanno perso ogni fede, e i peggiori Si gonfiano d’ardore appassionato.
Certo qualche rivelazione è vicina; Certo s’approssima il Secondo Avvento. Il Secondo Avvento! E le parole sono appena dette Che un’immagine immensa sorta dallo Spiritus Mundi Mi turba la vista; in qualche luogo nelle sabbie del deserto Una forma dal corpo di leone e dalla testa d’uomo Con gli occhi vuoti e impietosi come il sole avanza Con le sue lente cosce, mentre attorno Ruotano l’ombre degli sdegnati uccelli del deserto.
Nuovamente la tenebra cade; ma ora so Che venti secoli di un sonno di pietra Furono trasformati in incubo da una culla che dondola. E quale rozza bestia, finalmente giunto al suo tempo avanza Verso Betlemme per esservi incarnata?
Lo Sprone
Ti sembra orribile che lussuria e furia Mi faccian scorta nella mia vecchiaia; Non erano tanto assillanti quand’ero giovane; Che altro mi resta per spronarmi a cantare?
Egli desidera il tessuto del cielo
Se avessi il drappo ricamato del cielo,
intessuto dell’oro e dell’argento e della luce,
i drappi dai colori chiari e scuri
del giorno e della notte
dai mezzi colori dell’alba e del tramonto,
stenderei quei drappi sotto i tuoi piedi:
invece, essendo povero, ho soltanto sogni;
e i miei sogni ho steso sotto i tuoi piedi;
cammina leggera perché
cammini sopra i miei sogni.
Biografia
William Butler Yeats- Poeta irlandese (Sandymount, Dublino, 1865 – Roquebrune-Cap Martin 1939), fratello di Jack Butler. È stato uno dei grandi protagonisti della poesia tra Ottocento e Novecento. Attratto dalle leggende irlandesi (Thewanderings of Oisin and other poems,1889) e dalle scienze occulte (Countess Cathleen, 1892), Y. elaborò un complesso simbolismo, misto di elementi celtici e teosofici. La sua produzione teatrale e quella poetica volsero, nella fase più matura, verso accenti maggiormente legati alla realtà. Fu insignito del premio Nobel per la letteratura (1923).
Vita e opere
Il paese d’origine della madre, Sligo, dove si recava da Londra per le vacanze, esercitò grande fascino sul giovane Yeats. Stabilitosi in Irlanda con la famiglia (1880), frequentò per tre anni la scuola d’arte, influenzato dalle idee del padre pittore. Conosciuto G. W. Russell, iniziò con lui gli studi di occultismo e fondò nel 1885 una Hermetic Society. In questi stessi anni si avvicinò al movimento nazionalistico irlandese. Nel 1886 iniziò il poema basato su antiche leggende irlandesi, The wanderings of Oisin and other poems; nel 1887, trasferitosi a Londra, entrò in contatto con gli estetisti decadenti e con i circoli teosofici. Sono di quegli anni Fairy folk tales of the Irish peasantry (1888) e Representative Irish tales (1890). Nel 1891 fondò la Irish literary society a Londra e nel 1892 la National literary society a Dublino. Nello stesso anno pubblicò Countess Cathleen, dramma in cui abbondano preziosismi preraffaelliti ed è palese l’interesse per le scienze occulte. Questo è testimoniato anche dall’edizione delle opere di Blake (1893, in collab. con F. J. Ellis) e dal dramma The land of heart’s desire (1894). L’incontro con Lady Gregory nel 1896 accentuò gli interessi politici di Y. che divenne una delle figure più importanti del rinascimento celtico: nel 1899 inaugurò l’Irish Literary Theatre. In quegli anni attraverso la frequentazione di circoli rosacrociani e la lettura dei simbolisti francesi venne formando il suo complesso simbolismo, misto di elementi celtici e teosofici. Nel 1895 ristampò rivedute le liriche di Oisin e Cathleen col titolo Poems; nel 1899 una nuova raccolta, The wind among the reeds. Intanto la sua produzione teatrale, dopo The shadowy waters (1900) e Cathleen in Houlihan (1902), subì una svolta radicale con i drammi sul mitico eroe irlandese Cuchulain (On Baile’s strand, 1903; Deidre, 1907; The unicorn from the stars, 1908; The green helmet, 1910); Y. appare distaccato dall’esperienza preraffaellita e intento a ricercare un linguaggio più misurato e aderente alla realtà. Lo stesso mutamento si avverte nelle poesie (In the seven woods, 1903). L’amicizia con E. Pound (di cui fu segretario dal 1913 al 1916), l’insurrezione irlandese del 1916, lo scoppio della prima guerra mondiale e il matrimonio sono esperienze che si riflettono nelle opere dell’ultimo periodo. Responsibilities (1914) e la seconda ed. di The wild swans at Coole (1919) segnano tappe importanti nella sua opera. Nel 1922, proclamato lo Stato libero d’Irlanda, fu eletto senatore; nel 1923 l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura lo consacrò tra le grandi voci della poesia del Novecento. Tra gli ultimi scritti si ricordano: Michel Robartes and the dancer (1920); Plays for dancers (1921); Autobiographies (1926); e i due volumi di versi The tower (1928) e The winding stair (1933).
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.