Bianca Bianchi, storia di una costituente- di Giulia Vassallo
Biblion edizioni
Descrizione-La costituente Bianca Bianchi (1914-2000), protagonista di questa narrazione, fu una donna eccezionale. Perché fu antifascista coraggiosa, tanto da preferire l’esilio in Bulgaria alla soggezione intellettuale al diktat del regime; perché fu militante attiva nella Resistenza toscana, ma anche per la sua esperienza di parlamentare eletta nella prima legislatura repubblicana, con oltre 20 mila preferenze. Volitiva e naturalmente incline a battaglie scomode e scelte impopolari, tra cui quella di appartenere a un partito variamente screditato dai rivoluzionari, si allontanò presto e non senza amarezza dai riflettori di Montecitorio, scegliendo di dedicarsi alla «cura dei più bisognosi» e alla promozione di una cultura laica, socialista e soprattutto europea.
L’instancabile e variegata biografia, le carte d’archivio e le lettere alla grande socialista russa Angelica Balabanoff, come pure le testimonianze rese da colleghi e collaboratori, ovvero gli elementi che compongono il presente volume, contribuiscono a restituire per la prima volta il profilo di Bianca Bianchi in tutta la sua complessità. Emerge così dall’oblio storiografico una personalità versatile e non certo aristocratica; una scrittrice, un’insegnante e la promotrice della prima legge contro la discriminazione dei figli illegittimi; una figura femminile di indiscutibile caratura personale, ma soprattutto con una dimensione pubblica di grande spessore, che merita di essere conosciuta.
Giulia Vassallo (Roma, 3 febbraio 1977) è assegnista di ricerca presso la “Sapienza”, Università di Roma. Dal 2006 ad oggi è redattore editoriale della rivista online «EuroStudium3w», di proprietà dell’Ateneo “Sapienza” di Roma. È inoltre autrice del volume Lilliput o Gulliver? Il contributo olandese all’unificazione europea (1945-1966), Bulzoni 2020. Su Bianca Bianchi, sempre per i tipi di Bulzoni, ha precedentemente pubblicato, con Davide Di Poce e Elisiana Fratocchi, il libro Il pane e le rose. Scritture femminili della Resistenza.
Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”
Francesca Gori
A cento anni dalla nascita il ricordo del percorso etico-politico della “ragazza di campagna” da Vicchio alla Costituente.
Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.
Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.
Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata. nizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.
Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.
È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.
Bianca Bianchi
Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.
Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.
Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.
Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.
Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.
Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.
Si è infine spenta il 9 luglio 2000.
Fonte-ToscanaNovecento – (Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea)
Resistenza va scomparendo- Articolo di Alba Sasso-
Partigiano
Resistenza va scomparendo- articolo di Alba Sasso .Lentamente, la Resistenza antifascista va scomparendo. Un’azione di demolizione metodica, inesorabile, che negli ultimi anni ha raggiunto livelli mai immaginati prima, sta recidendo le radici che legano la nostra storia all’oggi e al domani, un progetto portato avanti nel tempo, che oggi mette sotto gli occhi di tutti i suoi risultati .La proposta della Gelmini tendente ad eliminare anche il nome della Resistenza- resta solo un più generico “percorso verso l’Italia repubblicana”- dai libri di testo è più che una provocazione, o una boutade. È il perfezionamento di un progetto di egemonia culturale portato avanti da un berlusconismo che, ben lungi dall’essere quella macchietta che troppo spesso abbiamo dipinto, si è rivelato una vera costruzione ideologica, portatrice di valori diversi ed alternativi rispetto a quelli in cui è cresciuta la Repubblica nel dopoguerra. La pochezza di personaggi come l’attuale ministro non deve trarci in inganno. La cancellazione della Resistenza è stata portata avanti nei fatti, prima ancora che nei libri di testo. L’assenza sistematica del premier da tutte le cerimonie non solo del 25 aprile, ma da qualunque cosa sapesse di Resistenza, è stata una goccia che ha scavato un solco, che rischia di diventare una voragine, distruggendo la memoria storica di un paese, la sua identità. Troppo spesso il berlusconismo è stato scambiato per folklore. Ne abbiamo sottovalutato le conseguenze.Oggi la Gelmini può permettersi gesti di questo tipo senza che vi sia ancora una reazione forte e generalizzata di protesta. Non si tratta di difendere le cerimonie rituali e spesso stanche, che pure sono un mezzo per la conservazione della memoria. Si tratta di lanciare una grande campagna culturale nel paese, riprendendo il tema della Resistenza come identità di una nazione. Oggi paghiamo le concessioni ideologiche, prima ancora che culturali, ad un indistinto buonismo che accomunava i morti di tutte le parti, i “ragazzi di Salò” ai partigiani. Un equivoco storico alimentato anche a sinistra, pensiamo ai recenti film di smaccato revisionismo, senza giustificazioni che non fossero un basso politicismo, che in nome di tattiche di corto respiro sacrificava principi ed ideali. Rilanciare i valori della Resistenza vuol dire oggi riprendere una lunga marcia nel cuore delle giovani generazioni, in primo luogo per far conoscere loro quelle radici.È questo il primo dato drammatico: i ragazzi, oggi, nella loro grande maggioranza, rischiano di vivere sempre più in un presente vuoto di storia e di futuro.E la diffusione dei disvalori berlusconiani ha seminato il diserbante delle ideologie, sollecitato il rifugio negli egoismi rassicuranti delle identità minime, il locale e le appartenenze di gruppo.La battaglia cui dobbiamo impegnarci non è solo quella dei libri di testo, da cui la Resistenza non può e non deve essere espulsa, come in una sorta di “damnatio memoriae”. È una battaglia culturale che non si può esaurire nel breve periodo. C’è bisogno di far vivere i valori di quella stagione, in un paese che non cessa di mandare segnali in questo senso.La voglia di pulizia e di cambiamento, la sete di moralità e di giustizia, sempre liquidate con la sprezzante definizione di giustizialismo, sono la testimonianza che quei valori esistono ancora, quelle radici non sono state recise. Dovremo innaffiarle e curarle con l’amore per la storia, per la cultura, per il bello. Con il rilancio della Resistenza come epopea di un popolo alla ricerca di libertà e giustizia, riproponendo perfino i modelli di vita di quella generazione, i padri della patria con la loro sobrietà del vivere la politica, con lo spirito di servizio che caratterizzava il loro impegno, con l’inflessibilità sui grandi principi. La grandezza della Resistenza non può essere messa in discussione dalla pochezza di questi figuri. Ma a noi tocca l’impegno di impedire che ci provino comunque.
Articolo di Alba Sasso
PartigianoPartigiano25 aprile 1945 MILANOl’UnitàIL NUOVO CORRIEREIl Partigiano 1945Ribelle Cichero-N1 del1945l’Unità
Manuela Consonni insegna alla Hebrew University of Jerusalem al Dipartimento di storia ebraica.Si occupa di storia contemporanea europea ed ebraica, di studi della Shoah, di memoria e testimonianza, e di studi di genere. Tra le sue pubblicazioni va ricordato il libro apparso in ebraico nel 2010 per la Magnes University Press,Resistenza or Shoah: The History of the Memory of the Deportations and Extermination in Italy, 1945-1985.
Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989-Prefazione di Anna Foa-Editori Laterza
Epilogo-La distanza che vi è tra voi e il vicino che non vi è amico è in verità più grande di quella che è tra voi e la persona che amate e che vive al di là delle sette terre e dei sette mari. Giacché nel ricordo non vi sono lontananze; e nell’oblio vi è un abisso che né la voce né l’occhio potranno mai accorciare.
Kahlil Gibran-Il giardino del profeta, 1933
DESCRIZIONE
Manuela Consonni- L’eclisse dell’antifascismo
L’eclisse dell’antifascismoracconta l’intreccio tra storia italiana, paradigma antifascista e memoria della Resistenza e della Shoah. È in questo contesto che il mondo ebraico del dopoguerra ha assunto un ruolo di protagonista della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia. I percorsi che questo volume segue sono tre: la storia politica del nostro Paese, la memoria della Resistenza e del fascismo e la memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato contribuendo a forgiare l’Italia democratica. Un paradigma quello antifascista – e il suo uso politico – non privo di conseguenze anche nell’oggi.
Pilastro della narrazione de L’eclisse dell’antifascismo è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.
AUTORE
Manuela Consonni insegna alla Hebrew University of Jerusalem al Dipartimento di storia ebraica.Si occupa di storia contemporanea europea ed ebraica, di studi della Shoah, di memoria e testimonianza, e di studi di genere. Tra le sue pubblicazioni va ricordato il libro apparso in ebraico nel 2010 per la Magnes University Press,Resistenza or Shoah: The History of the Memory of the Deportations and Extermination in Italy, 1945-1985.
Prefazione di Anna Foa
È un libro, questo di Manuela Consonni, che farà probabilmente discutere. Perché tocca temi tuttora scottanti del nostro dibattito storiografico e politico, e lo fa senza aderire a nessuno degli schieramenti esistenti.
L’autrice, storica dell’Università di Gerusalemme, propone un’interpretazione originale del modo con cui il nostro Paese ha costruito, fin dalla liberazione, il paradigma interpretativo della sua storia, quello antifascista. Un paradigma che, pur senza mai essere completamente rigettato e nemmeno rimesso formalmente in discussione dalla politica, si è trasformato in un paradigma essenzialmente culturale. A sostegno della sua tesi, Consonni analizza minuziosamente la memorialistica resistenziale e della deportazione, sottolineando il ruolo della memoria e della questione ebraica nella costruzione di quella che potremmo chiamare “l’ideologia della Repubblica”.
Per Consonni, fin dai primi anni i partiti della Repubblica hanno preferito non fare un serio bilancio del passato, rimuovendo le responsabilità del fascismo e del regime di Salò, e affrettandosi a gettare esclusivamente sui nazisti le colpe di quanto era accaduto. Con l’amnistia varata da Togliatti allo scopo di promuovere l’inserimento del Partito comunista nell’area della politica di governo, si posero tutte le premesse per la debolezza politica del paradigma antifascista, presto ridotto a pura retorica celebrativa e relegato nella sfera della cultura. La memorialistica ha sostanziato l’antifascismo culturale, il ricordo dei campi nazisti ha portato il mondo ebraico a partecipare dell’etica resistenziale, mentre sul piano politico la Guerra Fredda ha reso l’antifascismo sempre più un fenomeno di opposizione, appartenente esclusivamente alla sinistra. Con cambiamenti e cesure, naturalmente.
La nuova resistenza dei ragazzi degli anni Sessanta lo ha riportato in auge, insieme a quelle che apparivano come aperture del centro-sinistra, mentre successivamente il richiamo strumentale delle Brigate Rosse alla Resistenza ha posto le basi per il suo declino. Nel frattempo, la memorialistica ha ricostruito la questione ebraica isolandola rispetto alla Resistenza, e rompendo quel legame strettissimo tra ebrei e sinistre, tra ebrei e lotta contro il nazifascismo, che aveva caratterizzato i primi decenni dopo la liberazione. La Shoah, così come si è andata costruendo a livello memoriale dagli anni Settanta in poi, nella sua unicità e nella sua separazione dalla Resistenza, alienata – potremmo dire – dalla storia e dalla percezione degli ebrei italiani, ha contribuito forse anch’essa, in qualche misura, all’eclisse dell’antifascismo, o perlomeno alla sua monumentalizzazione. E anche la storiografia, fino ai primi anni Settanta ancora intenta a ricostruire il fascismo e la Resistenza all’interno di questo paradigma, ha cominciato a fornire interpretazioni diverse.
L’analisi che Manuela Consonni dedica all’intervista di Renzo De Felice sul fascismo si inserisce in questo quadro, ma sembra mettere tra parentesi gli aspetti maggiormente accolti in questo vivace dibattito: quelli sul consenso. In realtà, il rifiuto del consenso fa parte del paradigma antifascista e della sua volontà di dimostrare che la maggioranza degli italiani non aderì veramente al fascismo ed è quindi monda da colpe. Ne rappresenta però anche il punto debole: di lì vengono la rimozione delle leggi razziali, durata fin quasi agli anni Novanta nella società e nella cultura del nostro Paese, quella delle colpe di Salò, e il mito del buon italiano. Solo che fino ad un certo momento questa lettura storiografica è stata parte del paradigma antifascista, mentre una nuova interpretazione “revisionista” contribuisce a minarne la credibilità.
Manuela Consonni costruisce la sua argomentazione sul nesso tra la duplice elaborazione memoriale – quella della Resistenza e quella della deportazione ebraica – e la cultura politica italiana. Questo nesso fa emergere anche la singolarità del percorso italiano, naturalmente ancorata nella storia del nostro Paese, nel ventennio fascista, nell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nazista, nel complesso rapporto tra la liberazione ad opera degli angloamericani e la Resistenza armata.
Ma tale singolarità emerge anche nel tipo di bilancio storico e memoriale che in Italia viene fatto del periodo fascista e del periodo della deportazione, non solo degli ebrei, evidentemente, ma anche dei politici e dei militari (come quella assai meno nota dei carabinieri).
Un altro aspetto interessante del percorso tutto italiano è rappresentato dalla mole di libri, scritti, memorie, che dalla fine della guerra in poi, con modalità diverse ma pressoché ininterrottamente, continuano ad essere pubblicati, contrariamente all’immagine di un lungo silenzio affermatasi quasi unanimemente nella storiografia. Una messe di scritti che in queste pagine vengono riportati alla luce, ricostruiti, ricollocati nel loro contesto, in quel che rappresenta uno dei risultati più innovativi di questo volume.
Le ragioni del declino, della eclisse di questo paradigma fondante sono, come sempre accade, innumerevoli: il contesto internazionale, con la fine della Guerra Fredda e poi la caduta del comunismo, ne rappresenta probabilmente la ragione primaria, forse anche perché il paradigma antifascista ha rappresentato per molto tempo un fattore di impedimento, per la sinistra italiana non comunista, nel denunciare i misfatti del cosiddetto “comunismo reale”. Come ci si poteva schierare contro l’Unione Sovietica, che a Stalingrado aveva salvato il mondo dalla barbarie nazista, che aveva liberato Auschwitz? Rinunciando al comunismo non si finiva forse per approdare nelle braccia del fascismo? I pochi che lo hanno fatto sono assurti al ruolo di eretici a tutte le religioni, a tutte le politiche.
La strumentalizzazione del paradigma antifascista lo ha però svuotato del suo significato: rendendolo retorico e condivisibile da chiunque – sostiene Consonni –, ne ha determinato le debolezze e poi la caduta. Certo, c’erano in gioco esigenze anche importanti della politica, per esempio quella di fingere un’Italia tutta antifascista per potersi sedere al tavolo dei vincitori anziché a quello dei vinti. Ma c’erano anche, purtroppo, la continuità della macchina statale fascista, del potere giudiziario, la difficoltà di riparare alla vergogna delle leggi razziali, la strumentalità stessa con cui si sono usati gli ebrei e la questione ebraica, come dimostrano le lucide e premonitrici pagine di Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, qui analizzate con particolare finezza. Il rifiuto degli ebrei di separarsi, inizialmente, dalla Resistenza, la loro esigenza di presentarsi come italiani e combattenti (e tutti sappiamo quanti di loro hanno ingrossato le file della guerra di liberazione) ha una ragione di più in questa strumentalizzazione da parte di chi, dopo aver dato la caccia agli ebrei, era pronto ad usarli per sbiancarsi le mani.
Il libro di Manuela Consonni pone questi e molti altri problemi, lascia spazio al dibattito sulle questioni irrisolte, ne apre molte che pensavamo chiuse, invita ad affrontarle dal punto di vista storico e politico. A patto di non dimenticare ancora una volta che la rimozione e la cancellazione del passato sono tra le tendenze italiane più diffuse, quasi una sorta di caratteristica nazionale.
D’altronde le svolte, nel nostro Paese, comportano sempre la rimozione, come abbiamo visto e continuiamo a vedere anche nell’Italia di oggi. E questa è forse la ragione che le rende tanto fragili.
Dicembre 2014
Manuela Consonni- L’eclisse dell’antifascismo
Introduzione
L’eclisse dell’antifascismo intende percorrere la storia del “paradigma antifascista”, cioè dell’antifascismo eretto ad asse portante e idea fondante della Repubblica italiana, dalla sua nascita al suo declino. Il suo sottotitolo, Resistenza, questione ebraica e cultura politica in Italia dal 1943 al 1989, spiega la struttura non sistematica del testo che, sebbene organizzato in tre parti, dedicate ciascuna ad un periodo diverso di questa storia – il periodo dal 1943 al 1948, quello tra il 1948 e il 1967, quello infine che copre gli anni Settanta ed Ottanta fino alla dissoluzione del mondo comunista, iniziata dalla Perestrojka di Michail Gorbaëv nel 1987, ma iscritta nella memoria storica europea dalla caduta del Muro di Berlino nel 1989 – procede per biopsie storiche, che abbracciano dibattiti politici e storiografici, la stampa, specifiche riviste, molte recensioni, innumerevoli memorie. Le diverse fonti si alternano nella discussione accentuando ora alcuni aspetti ora altri, tutti però convergenti nel sottolineare come l’antifascismo, nella sua storia e nella sua cultura, sia stato il momento più alto, di maggiore tensione ideale e morale che l’Italia repubblicana abbia mai vissuto.
Il libro si sostanzia attraverso l’intreccio di tre percorsi: quello della storia politica del nostro Paese, quello della memoria della Resistenza e del fascismo e quello della memoria della deportazione politica e dello sterminio ebraico. Il fatto di trattare simultaneamente la politica e la cultura politica antifascista (includendo in quest’ultima il descritto dibattito memoriale) mette in una luce diversa, rispetto a quanto finora accettato, lo stretto legame tra l’antifascismo e la sua cultura e la deportazione politica e lo sterminio ebraico in Italia, fra italiani ed ebrei italiani, distinguendo il momento della scrittura da quello della sua recezione nel tempo. Nel volume, inoltre, si intende mostrare come il mondo ebraico del dopoguerra assuma sin dall’inizio un ruolo autonomo, di protagonista politico della vittoria sul nazismo e della costruzione di una democrazia in Italia.
Pilastro della narrazione è Primo Levi che, sempre presente nelle tre parti, ne rappresenta il filo ideale, come modello di momenti diversi di approccio all’antifascismo, alla deportazione e allo sterminio ma anche all’etica e alla politica. Da Se questo è un uomo a I sommersi e i salvati, le parole di Primo Levi accompagnano, scandendole, le pagine di questo libro.
L’antifascismo, con il suo paradigma di potente forza ermeneutica, ha inglobato il discorso politico, storiografico e memoriale del passato cha ha contribuito a forgiare l’Italia democratica. Esso è l’ideologia di quanti, nel 1945, si impegnarono a ricostruire l’Italia e a darle un posto accanto alle nazioni che avevano sconfitto il nazifascismo, consentendo, pur nelle forti differenze ideologiche, a partiti disparati e divisi di formare coalizioni di governo e di iniziare l’opera di ricostruzione di un Paese distrutto, materialmente e moralmente, dalla guerra fascista, dalla deportazione e da una terribile occupazione. Esso costruisce, in altre parole, le coordinate istituzionali e politiche su cui si regge la difficile e dolorosa transizione dal fascismo alla Repubblica. Una repubblica sorta sull’alleanza dei partiti usciti dalla lotta di liberazione, il cui schema interno riflette, in modo profondo, il carattere d’emergenza dell’ampia alleanza antifascista tra le due grandi potenze, gli Usa e l’Urss, che avevano cooperato alla sconfitta del nazismo e del fascismo. Tale alleanza era fondata su due concezioni diverse dell’antifascismo che esprimevano, a loro volta, visioni discordanti dell’interpretazione del passato: per gli americani e i loro alleati occidentali la lotta contro il fascismo era stata una lotta della democrazia contro le forze oscure che avevano violato la pace e perpetrato crimini di guerra e reati contro l’umanità; per i sovietici, invece, la chiave di lettura era costituita dall’opposizione del binomio fascismo/antifascismo: una questione di natura ideologica, quindi.
Il processo di Norimberga riassume perfettamente nella sua conduzione e nei suoi esiti la tensione tra questi due poli narrativi. In Italia, dove la narrazione storica non fece proprio il linguaggio giuridico dei processi – perché non ce ne furono, almeno non nella stessa misura della Francia o delle due Germanie –, e dove la guerra di liberazione e i suoi morti erano divenuti il passato su cui ricostruire il Paese, si generò più che nelle altre nazioni un racconto interamente declinato sull’antifascismo, ma privo del lessico processuale e di una rielaborazione critica del passato fascista.
Con la divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti e con la Guerra Fredda il paradigma antifascista si incrina, ma resta comunque al centro della cultura politica e storiografica italiana, pur perdendo efficacia sul terreno dell’alleanza politica allargata. L’antifascismo rimane forte e indiscusso soprattutto nei partiti di sinistra – comunisti e socialisti, ma anche nei partiti laici non marxisti – che lo ritengono centrale per la vita democratica del nostro Paese. Per gli uni e per gli altri esso rappresenta l’idea a cui aggrapparsi per proteggersi dagli attacchi della destra conservatrice. Viceversa, non è tanto l’antifascismo quanto l’anticomunismo a prevalere nell’ideologia politica dei partiti che vincono le elezioni nel 1948, emarginando le sinistre dal governo, mentre l’antifascismo e il suo paradigma interpretativo si spostano al centro della sfera culturale. Cultura e politica iniziano una separazione destinata a durare a lungo, il cui impatto e le cui contraddizioni si trascinano fino ad oggi. Alla radice di questa separazione ci sono anche le debolezze intrinseche alla nascita stessa del paradigma antifascista e al suo uso politico: si rimuovono le colpe del fascismo, privilegiando la continuità dello Stato rispetto alla necessità di fare i conti col passato.
Il paradigma antifascista resta tuttavia parte integrante dell’immagine del Paese che, mentre rifiuta il fascismo, trae dalla memoria della lotta di liberazione la spinta ad appellarsi alle masse contadine ed operaie perché partecipino alla vita democratica e dal ricordo della deportazione politica e dello sterminio ebraico – coltivato grazie ad una vasta memorialistica, senza dubbio la più grande in Europa – ricava la dolorosa consapevolezza di una battaglia ancora aperta, da proseguire perché eventi come quelli occorsi non abbiano a ripetersi.
In tale processo, il timore di un possibile rigurgito del fascismo sembra farsi concreto nel dibattito sia politico che culturale della sinistra, e uno sguardo retrospettivo mostra come questa possibilità fosse percepita come una realtà forte e pericolosa, tanto da far diventare l’antifascismo il cardine di ogni discorso politico-istituzionale e culturale sul passato. La destra democristiana e la destra fascista appaiono, in questo contesto, fenomeni quasi del tutto assimilabili, mentre l’anticomunismo sembra a volte stravolgere anche l’antifascismo, persino quando esso torna a farsi carne e sangue dell’Italia politica, soprattutto a sinistra. Il dibattito sul fascismo si fa, allora, vivace e attento, e la storiografia ne approfondisce gli aspetti sociali, politici, culturali. Il processo ad Adolf Eichmann, tenuto a Gerusalemme nel 1961, è un esempio paradigmatico di questa tensione: esso formalizza infatti, sul piano storico, la morte degli ebrei nei campi di concentramento come resistenza al fascismo, oltre a riempire di nuovi contenuti la memoria dello sterminio ebraico, grazie all’emergere della figura del testimone come suo depositario storico. Va precisato, per il nostro discorso, il cambiamento occorso a causa della guerra dei Sei giorni del 1967, il cui impatto e i cui esiti si protraggono fino ai nostri giorni. La guerra lampo israeliana provoca la rottura dell’alleanza fra una parte del mondo ebraico e la sinistra politica, mettendo in questione l’antifascismo ebraico, mentre si afferma una sinistra filoaraba e antisraeliana, e l’antisionismo si presenta, nella nuova lettura postcoloniale, come il riflesso di una società in cui l’odio verso gli ebrei non ha smesso di riprodursi, ma va in cerca di nuovi attributi su cui sfogarsi.
Successivamente il paradigma antifascista comincia a mostrare i primi segni di logoramento e ad apparire ‘sfalsato’ rispetto alla situazione politica e sociale del Paese. Ad isolarlo politicamente sono dapprima la strategia della tensione e poi il terrorismo con la sua pretesa di portare a compimento una Resistenza incompiuta. Sul piano storiografico è la revisione profonda del fascismo avviata in Italia dall’Intervista sul fascismo di Renzo De Felice e dal dibattito nato intorno al libro, dieci anni prima che esplodesse la Historikerstreit in Germania, a rendere fragile l’antifascismo ormai incapace di rappresentare ancora un sostegno ideologico efficace dello Stato. Contemporaneamente anche la memoria dello sterminio ebraico prende le distanze da quella della deportazione politica e della Resistenza, caratterizzandosi per un paradigma “vittimologico” che vedrà il suo maggiore sviluppo dopo la dissoluzione del mondo comunista, e che non comprenderà in sé la lotta contro il nazifascismo ma solo i suoi morti ebrei. L’eclisse del paradigma antifascista in Italia precede così il suo tramonto in tutta Europa con il 1989.
Malgrado sia venuto meno il conflitto ideologico tra i custodi dell’ortodossia marxista e i fautori del mondo libero, l’antifascismo rimane tuttavia il luogo privilegiato per reinterpretare e capire l’Italia repubblicana, quella di ieri ma forse e soprattutto quella di oggi, senza ambiguità ideologiche e senza equivoci. Sine ira et studio.
M.C.
Gerusalemme, dicembre 2014
Ringraziamenti
La mia gratitudine va a tutti coloro che mi hanno aiutata, sostenuta, sopportata, consigliata e accompagnata in questo lavoro.
In particolare ringrazio Sara Airoldi, Reuven Amitai, Michele Battini, Avi Bauman, Louise Bethlehem, Giovanni De Luna, Dan Diner, Bettina Foa, Luigi Goglia, Carina Grossman, Carola Hilfrich, Natalia Indrimi, Shulamit Laron, Eli Lederhendler, Manuela Leoni, Giovanni Levi, Stella Levi, Avishai Margalit, Andrea Marinucci, Dario Massimi, Maren Niehoff, Charlette Ottolenghi, Silvio Pons, Pier Paolo Portinaro, Yoav Rinon, Fegie Schwartz, Fiammetta Segrè, Moshe Shlukowski, Dimitri Shumski, Maurizio Tagliacozzo, Mario Toscano.
E poi grazie agli amici delle sere dello shabbat: Sharon e Zeev Tamuz, Ayelet Gross, Shai Zeltzer e Eytan Horowitz.
Un ringraziamento speciale ai miei genitori.
E un altro ancora ad Anna per la sua pazienza, affetto, per i consigli fondamentali e le parole importanti e decisive.
E, poi, ancora un ultimo grazie ad Abed per la costanza e per la saggezza.
I. Il paradigma politico e culturale
Nei primi anni del dopoguerra l’Italia del postfascismo fu dilaniata da una serie di contraddizioni fra le diverse forze che avevano combattuto insieme nella lotta di liberazione. Questa condizione segnò la fine delle speranze in un mutamento politico e sociale radicale, tale da costituire una chiara condanna dell’esperienza fascista, che aveva trascinato il Paese negli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, e l’instaurarsi di una complessa dialettica fra le varie forze in campo.
Possiamo riconoscere alle radici dell’ethos repubblicano e patriottico italiano cinque momenti fondamentali: il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo e l’avvento del governo provvisorio di Pietro Badoglio; l’8 settembre 1943, data dell’armistizio firmato a Cassibile; il 25 aprile 1945, il giorno della liberazione di Milano e quello in cui il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) proclamò ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) e la condanna a morte dei maggiori gerarchi fascisti (tra cui Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato a Dongo tre giorni dopo); il 2 giugno 1946, il referendum istituzionale che segnò il passaggio dalla monarchia alla repubblica; il 1° gennaio 1948, giorno in cui, dopo 18 mesi di lavoro, l’Assemblea Costituente approvò il nuovo testo costituzionale. Il fondamento dei valori che legò insieme queste cinque fasi storiche fu il paradigma antifascista, che legittimò la futura democrazia dall’interno, proponendo da subito la Resistenza come il punto di partenza per la riaffermazione dell’identità nazionale italiana ormai smarrita.
La ricostruzione, basata su questo paradigma, della vita politica e culturale della società italiana fu caratterizzata dalla tensione ideologica tra le diverse forze politiche che avevano sconfitto il fascismo e il nazismo, forze che erano tornate ad essere, dopo la breve e comune parentesi resistenziale, ideologicamente antagoniste e in lotta per il potere. L’alleanza che durante la guerra si era stabilita tra libertà e uguaglianza sociale, tra mondo cattolico e liberale e mondo socialista e comunista, era un’alleanza fra ideologie che si presentavano come interpretazioni universali del mondo, in particolare il cattolicesimo e il comunismo. La loro lotta comune contro il nazifascismo era stata una lotta contro un’ideologia altrettanto universale, che interpretava la storia umana in termini razziali, nel contesto di un biologismo politico e sociale. Finita la guerra, venne meno la necessità storica di tale coalizione e le forze in campo tornarono a confrontarsi nell’arena politica, opponendo il principio della libertà individuale a quello dell’eguaglianza sociale.
Da parte del mondo cattolico e liberale l’antifascismo veniva rivendicato soprattutto in quanto capitale simbolico da utilizzare per il controllo dei poteri politici e istituzionali. L’antifascismo socialista e comunista, da parte sua, si richiamava al modello sovietico e comportava la fedeltà al comunismo, entro cui collocava la sua stessa partecipazione alla Resistenza. Fu la tensione tra questi due poli d’attrazione a caratterizzare il paradigma antifascista. Esso, però, fu non solo il risultato dello scontro ideologico e politico contro il fascismo ma, soprattutto dopo la guerra, anche la forma istituzionale attraverso cui si tentò di risolvere il problema della continuità storica dello Stato dopo il crollo del regime fascista. Alla fine della guerra, si trattava non solo di modificare – all’interno di una sostanziale continuità dello Stato – la forma di governo, ma di rifondare l’unità nazionale e il fondamento dei valori su cui si sarebbe basata la legittimità del potere politico. Se il conflitto tra le forze della Resistenza e il fascismo aveva determinato la sconfitta dello Stato fascista, la marcata divisione fra i partiti vittoriosi rendeva necessario un paradigma comune molto forte.
Come osservò Antonio Baldassarre, il paradigma antifascista, nel suo essere universalmente riconosciuto, delimitò lo spazio all’interno del quale le forze sociali e politiche avrebbero potuto radicare la legittimità del nuovo potere democratico forte. Ma determinarne i confini non significava ugualmente stabilire i motivi della legittimazione stessa. Nella situazione storica dell’immediato dopoguerra, il paradigma antifascista funzionò come sostegno ideale e politico della nuova forma istituzionale. Esso ebbe però bisogno di costruire una sua memoria del passato, dal fascismo alla Resistenza, e di renderla politicamente attiva. In questo contesto, l’assunzione storica e morale di responsabilità collettiva verso il passato della guerra, della deportazione e dello sterminio, e la politicizzazione della memoria determinarono due alternative conflittuali e in competizione, caratterizzate durante il processo di transizione verso la democrazia, ma forse e ancora più nel corso della sua stabilizzazione, dalla permanente tensione tra l’idea di aver chiuso i conti con il passato fascista e la consapevolezza di non aver ancora iniziato a farli.
Visto sotto questo profilo il paradigma antifascista svolse quindi una duplice funzione: rappresentò il legame storico con il passato antifascista utilizzato per costruire il nuovo Stato democratico e il modello che pose le condizioni formali per la legittimazione del nuovo ordine, convalidando il riconoscimento reciproco delle forze politiche in campo. La democrazia avrebbe potuto così ricevere la propria giustificazione istituzionale. Al tempo stesso, fuori dalla politica istituzionale, il paradigma antifascista consentì la costruzione di un epos patriottico e antifascista ancorato, nello specifico contesto della memoria, alla tensione ideologica e di opposizione al fascismo che solo la Resistenza e la guerra partigiana potevano offrire. Questo intreccio fece sì che la memoria divenisse un elemento costitutivo del paradigma antifascista.
Dopo la liberazione di Roma nella primavera del 1944, nel Nord le formazioni partigiane rimasero sole a fronteggiare l’attacco nazifascista. La sollevazione, che si concluse con l’insurrezione armata del 24 aprile 1945, ebbe inizio con lo sciopero del 18 aprile a Torino, che si estese poi a tutte le regioni settentrionali, sicché al loro arrivo le autorità alleate trovarono un’Italia del Nord già in parte libera dai tedeschi. Il moto stesso dell’insurrezione antinazista e antifascista aveva determinato una situazione per molti aspetti ‘prerivoluzionaria’ in tutta l’Italia che si trovava a nord della Linea Gotica, la parte più importante del Paese, sotto l’aspetto industriale. Già dal settembre 1943, nel memoriale steso ad uso interno dell’esecutivo piemontese del Partito d’Azione, Giorgio Diena e Vittorio Foa avevano sottolineato questa condizione di fluidità politica, avevano cioè constatato la finis Italiae e la possibilità di un cambiamento in senso rivoluzionario: “In seguito all’armistizio e alla doppia invasione, l’Italia non esiste più come forza autonoma. Essa è oggi un semplice oggetto di destinazione militare, e se non interverrà un fatto nuovo, essa sarà in avvenire un semplice oggetto di destinazione politica”. Secondo la loro opinione, spettava alle formazioni partigiane la responsabilità di creare un nuovo progetto che, con la sua carica di rinnovamento e di rottura, avrebbe potuto estendersi all’intero Paese, permettendo di dare vita, in assenza di ogni carica istituzionale, a nuove autorità con iniziativa autonoma. Solo a queste condizioni l’Italia avrebbe cessato di essere, oltre che “passivo campo di battaglia”, una “semplice espressione geografica”.
In altri termini, Foa e Diena sostenevano che l’unico modo per impedire all’Italia postfascista di avviarsi verso soluzioni politiche reazionarie, e di diventare un agente passivo nelle mani di forze esterne, era un’iniziativa popolare sotto la guida del Comitato di Liberazione Nazionale: tale iniziativa non solo avrebbe dovuto avere un carattere rivoluzionario, di cambiamento radicale, ma doveva aver luogo in sede precostituente, per spostare i rapporti politici e sociali prima ancora della messa in funzione dei meccanismi costituzionali e legislativi, ed inserirsi nella situazione di assenza o di semicarenza dell’autorità che si sarebbe inevitabilmente ripresentata al momento della ritirata tedesca.
Se ciò non avvenne fu – come affermò Palmiro Togliatti nel discorso tenuto al Consiglio nazionale del Partito comunista il 7 aprile 1945, alla vigilia della liberazione del Nord e dell’ordine di insurrezione alle Brigate Garibaldi – grazie alla scelta politica fatta dal Pci con la svolta di Salerno: “Noi sapevamo benissimo che facendo una politica di unità nazionale entravamo in contatto ed anche in collaborazione con elementi che avremmo dovuto combattere (…), ma sapevamo anche benissimo che le condizioni del nostro Paese, dopo il crollo del fascismo come avvenne il 25 luglio e dopo il crollo di ogni resistenza italiana all’invasore tedesco come si sviluppò l’8 settembre, erano tali nelle regioni già liberate che non esisteva la possibilità di liberarsi da questo contatto. Vi era qualcuno più forte di noi e più forte anche di tutte le forze del blocco democratico che lo impediva”. Togliatti comprese, cioè, l’aspetto ‘esterno’, la collocazione internazionale dell’Italia: “Il quadro politico italiano nella sua lotta antifascista” era stato “assolutamente non rivoluzionario”, era stato quello “di un Paese che a causa del fondersi di elementi più avanzati del capitale finanziario con sopravvivenze feudali” aveva conservato “caratteristiche profondamente reazionarie”.
Nella primavera del 1945, con la liberazione e grazie alla presenza di dirigenti politici usciti dalla Resistenza, sembrò che gli ideali della lotta partigiana fossero finalmente giunti al potere, ma il fallimento immediato del primo governo postfascista, formatosi nel giugno di quell’anno sotto la guida di Ferruccio Parri – personaggio di spicco del Partito d’Azione e celebrato comandante partigiano nella guerra al nazifascismo – e comprendente tutte le forze confluite nel Comitato di Liberazione Nazionale, dimostrò che il contrasto tra apparenza e realtà non avrebbe potuto essere maggiore. La vecchia burocrazia e la grande industria, passate quasi indenni attraverso il fascismo e la guerra, continuavano a rappresentare il tessuto connettivo della società italiana. Conservatrici per formazione, l’una e l’altra erano amareggiate dalla riduzione del loro potere sociale ed economico, e ne attribuivano la colpa non alla guerra provocata dal fascismo bensì alla nuova realtà politica e a quei partiti che avevano assunto la direzione del Paese. Il fantasma dell’epurazione politica le spinse ancora più a destra, contrastando attivamente l’indirizzo preso all’interno del Movimento di Liberazione. Di ciò scrisse lo stesso Parri anni dopo, affermando che nonostante la liberazione l’Italia era rimasta in gran parte lo stesso Paese fascista dei vent’anni precedenti.
La spinosa questione dell’epurazione politica dominava la scena nazionale, con la conseguente necessità di punire i colpevoli dei delitti fascisti, insieme al costante pericolo di un ritorno offensivo del fascismo. Sebbene fosse stato lo stesso Badoglio, nel febbraio del 1944, a creare l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, l’epurazione politica venne accolta con timore e preoccupazione. Il suo fallimento non fece che riflettere il fallimento politico in atto, nonché la rinuncia a un più generale rinnovamento, che avrebbe dato origine a nuove realtà politiche e istituzionali. Un’epurazione di vasta portata avrebbe potuto realizzarsi solo se il fascismo fosse stato riconosciuto come un fenomeno politico e sociale profondamente radicato nella vita italiana e non fosse stato invece considerato, come sosteneva Benedetto Croce, un incidente di percorso, un’improvvisa e nefasta malattia di un corpo sociale per altro fondamentalmente sano. Dietro la rinuncia all’epurazione politica dello Stato stava il tipo di accordo raggiunto nell’aprile del 1944: il re, quello stesso re che aveva chiamato il fascismo al potere, era rimasto al suo posto anche se aveva ceduto le proprie funzioni; il principe ereditario era diventato luogotenente generale del Regno, e insieme a lui erano stati esclusi da ogni forma di indagine e di punizione il generale Badoglio e tutta una serie di alti ufficiali, anch’essi gravemente compromessi col regime.
L’epurazione così come venne realizzata rappresentò nella sostanza un insieme di provvedimenti che, sia pure del tutto giustificati singolarmente, finirono con l’apparire come il prodotto di procedimenti casuali se non addirittura dettati da desiderio di vendetta. Coloro che ne rimasero colpiti, sia pure in misura inefficace, o che temevano di essere colpiti in seguito, tesero a rialzare la testa, a criticare a voce sempre più alta le commissioni giudicanti e gli atteggiamenti dei partiti che ne erano responsabili. L’eliminazione, nel marzo del 1946, dei prefetti politici (giudici regionali) posti in carica dal Cln nelle zone che erano state liberate fu un altro riflesso di questa tendenza.
Il fallimento dell’epurazione è da considerarsi tutt’altro che un episodio marginale nella ricostruzione italiana del dopoguerra. La sua mancata realizzazione provocò un cambiamento nello stato d’animo di larghi settori dell’opinione pubblica, diventò il catalizzatore di un blocco sociale di orientamento conservatore o reazionario che si opponeva ai partiti che, in un modo o nell’altro, si presentavano come innovatori e progressisti. Difatti una incisiva politica di epurazione avrebbe potuto realizzarsi solo se fosse stata imposta dall’esterno, dalle forze alleate, dopo la sconfitta militare e l’armistizio: in questo modo, in quanto decisa dagli Alleati, non sarebbe apparsa luogo di arbitrio, e avrebbe aiutato la ricomposizione dell’unità nazionale, offrendo al Paese una via condivisa per affrontare il passato fascista. Ma questo avrebbe comportato, appunto, il riconoscimento della natura del fascismo da parte di tutte le forze politiche che lo avevano combattuto. Senza contare che gli Stati Uniti non erano interessati ad imporre una severa politica di epurazione, che avrebbe minato seriamente la loro strategia di opposizione al comunismo nell’area mediterranea.
La rinuncia ad attuare l’epurazione politica attraverso modalità processuali vere e proprie, come avvenne in Francia e in Germania, fu l’occasione persa definitivamente di ricostruire l’Italia democratica e liberale, la prima grande sconfitta politica e morale del mondo uscito dalla Resistenza, dalla deportazione e dallo sterminio. Ricorda puntualmente Pier Paolo Portinaro: “L’aver liquidato (…) il dittatore responsabile dell’instaurazione del regime finì non per favorire ma per ostacolare l’epurazione. In analogia a misure che sarebbero state adottate dagli Alleati in materia di denazificazione, anche la legge del 28 dicembre 1943, riguardante l’epurazione del personale della pubblica amministrazione, stabilì una tipologia degli epurati, che distingueva tra i fascisti di rango, su cui era chiamato a decidere il Consiglio dei ministri; squadristi e fascisti della prima ora, le cui situazioni sarebbero state decise nei ministeri; e iscritti al partito responsabili di atti liberticidi a livello locale, la cui sorte sarebbe stata decisa da Commissioni provinciali presiedute dai prefetti. Ma a differenza delle procedure di denazificazione, che avrebbero previsto un’ampia partecipazione dei partiti politici negli organi di epurazione, in questo caso l’epurazione era posta nelle mani degli organi che si sarebbero dovuti epurare, cioè dell’amministrazione pubblica. (…) Anche la più severa legge del 27 luglio 1944, che pure consentì la costituzione di circa 160 Commissioni d’epurazione che esaminarono migliaia di casi, non avrebbe conseguito esiti durevoli per effetto delle scelte politiche di reintegrazione degli indagati a opera dei maggiori partiti (Dc e Pci)”.
L’epurazione fu segnata da scelte istituzionali che furono il riflesso, la conseguenza, con la soppressione il 1° giugno 1946 dell’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, della rinuncia allo scontro politico con il governo guidato dal dicembre del 1945 dal leader democristiano Alcide De Gasperi, governo al quale parteciparono tutti i partiti del Cln a esclusione del Partito d’Azione (PdA), che si opponeva alla linea assunta da quel governo proprio sulla questione dell’epurazione politica. Questa scelta riguardava il senso stesso del legame tra Resistenza e continuità dello Stato. Togliatti e i comunisti preferirono guardare alla guerra di liberazione come ad una guerra patriottica combattuta contro l’invasore tedesco e, in tale lettura, i fascisti non esistevano come parte politica responsabile degli orrori della guerra, della deportazione e dello sterminio, diventando semplicemente dei traditori della patria, dei semplici collaborazionisti.
Viceversa per il PdA – come sosterrà molto più tardi Claudio Pavone e prima di lui Roberto Battaglia – la Resistenza era stata soprattutto una guerra civile; per cui sarebbe apparsa più coerente con un’idea di rottura con il passato che non si limitasse a considerare il fascismo ma che investisse anche la democrazia prefascista e potesse farsi portatrice di una rivoluzione democratica nel presente. Ma questa non era una lettura tale da poter creare un consenso politico su cui fondare la nuova democrazia. Nelle sue memorie, così Foa ricordava questa tensione: “L’obiettivo della ricostruzione di un’identità nazionale perduta conferma la tesi della Resistenza come guerra civile. (…) Noi dovevamo combattere il fascismo fra di noi, fra italiani, e poi anche dentro di noi. (…) La costruzione di una ‘vera’ democrazia chiedeva la messa in discussione del ‘nostro’ passato e non solo la sconfitta del nemico esterno”.
Con il governo De Gasperi il fronte politico si cristallizzò e vide schierate da un lato l’Italia conservatrice e dall’altro l’Italia della Resistenza e della lotta antifascista. La concessione di una grande amnistia fu decisa dal governo che aveva portato il paese alla Costituente e al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, l’ultimo governo basato sui criteri paritetici del periodo del Cln.
Dopo la sua ascesa al trono il 9 maggio del 1946, Umberto II aveva chiesto un provvedimento di perdono, in linea con la tradizione monarchica che prevedeva un atto di clemenza in occasione dell’insediamento del nuovo re. Il governo dapprima rifiutò. Ma lo stesso Togliatti, allora ministro della Giustizia, temette che respingere del tutto l’amnistia avrebbe significato consegnare nelle mani della monarchia un’efficace arma di propaganda alla vigilia del referendum istituzionale del 2 giugno. Su sua proposta si decise allora di dare al decreto un contenuto limitato, riproducendo esattamente ciò che Vittorio Emanuele III aveva emanato 46 anni prima, al momento della sua ascesa al trono (amnistia per le pene fino a sei mesi), promettendo però al tempo stesso che un’altra legge, molto più ampia, sarebbe stata approvata subito dopo il 2 giugno. E in effetti fu questo il primo impegno che il nuovo governo dovette assolvere. Non rappresentò un problema rispettarlo perché i ministri e l’intera classe politica sentivano il bisogno di un gesto che sarebbe servito a chiudere, seppure simbolicamente, una pagina difficile della vita nazionale. E poiché l’amnistia riguardava non soltanto i reati degli ex fascisti e dei collaborazionisti, ma anche quelli commessi nel periodo immediatamente successivo alla liberazione, il provvedimento fu accolto anche come il tentativo di impedire che i partigiani diventassero le vittime delle tendenze sempre più apertamente restauratrici di larga parte della magistratura.
Una preoccupazione, questa, presente nel pamphlet Triangoli della morte di Paolo Alatri, storico e giornalista comunista, pubblicato nel 1946. Nel testo, corredato da una breve storia sull’attività della Resistenza in Emilia Romagna, Alatri svolgeva un’inchiesta che partiva dai processi ai partigiani e ai comunisti accusati nel dopoguerra di aver commesso decine di delitti ai danni dei fascisti, per diventare un elogio della Resistenza e insieme un attacco politico alle scelte del governo in materia di epurazione e amnistia. Scriveva Alatri: “Un ‘triangolo della morte’ fra Bologna e Ravenna, un secondo ‘triangolo della morte’, fra Bologna e Modena; decine di delitti, uno più efferato dell’altro, e, in tutti, implicati comunisti, implicati partigiani, i mandanti, sempre figure di rilievo del movimento partigiano, i carabinieri, la polizia, la magistratura all’opera, finalmente, per svelare tutti i misteri, per scoprire e acciuffare i responsabili, questi biechi assassini; arresti a decine, a centinaia; istruttorie, processi: il trionfo, finalmente, della giustizia. (…) Dopo la liberazione, mentre la vita civile va man mano riprendendo in queste terre insanguinate dalla lotta armata e dalle rappresaglie, né la polizia giudiziaria, né la magistratura mostrano di voler aprire dei procedimenti per questi fatti. Poi, d’improvviso, l’atmosfera cambia: polizia e carabinieri si son dati una voce. Cominciano a frugare, a ripescare nel passato; e quando il 18 aprile i democristiani ritengono di aver ottenuto una vittoria tale che consente loro di avere un ‘nuovo corso’ alle direttive del governo, la scena cambia di colpo. Tutti quei fatti su cui pareva che fino ad ora non si sapesse nulla di preciso, diventano chiarissimi: sono tutti volgari delitti comuni, commessi dai partigiani per istigazione e sotto la direzione dei loro capi: ma la politica non c’entra. Grandi e leggendarie figure di combattenti della Resistenza, che hanno avuto il solo torto di non lasciarci la pelle come migliaia di loro compagni di lotta, diventano d’improvviso delinquenti comuni della peggiore specie, assassini, rapinatori. Decine d’arresti vengono a suggellare questa scoperta. Da un giorno all’altro polizia e carabinieri diventano attivissimi, ora non fanno che battere le campagne, arrestare partigiani, denunciarli alla magistratura per omicidio e rapina, dissotterrare cadaveri di giustiziati”.
A pochi mesi dalla sua approvazione l’amnistia, che in pratica portò alla scarcerazione di tutti i fascisti, anche di quelli responsabili dei crimini più abietti, divenne oggetto di polemiche. Soprattutto Togliatti, che in quanto ministro della Giustizia ne aveva studiato il progetto, fu accusato di aver assunto una volontaria linea morbida verso i fascisti per accrescere l’influenza del suo partito e così sottolineare ancora una volta l’aspirazione nazionale della politica del Pci, dando prova di moderazione. Certo Togliatti, nell’elaborare il testo dell’amnistia, tenne conto del fallimento dell’epurazione. I risultati catastrofici dell’amnistia furono la conseguenza, da un lato, di alcune formulazioni infelici – la più famosa fu quella delle “sevizie particolarmente efferate”, che portò alla scarcerazione di quasi tutti i torturatori della Repubblica di Salò – ma ancor più della mentalità con cui la magistratura interpretò l’amnistia. È evidente che i cambiamenti profondi non sono mai conseguenza della legge; piuttosto è la legge che a posteriori sancisce il mutamento dei rapporti di forza che si producono nella realtà. Ma i giudici dimostrarono la loro volontà di non cambiare nulla.
Quella dell’amnistia fu, da parte di Togliatti, una decisione certamente politica che rifletteva la scelta istituzionale fondata sull’incertezza del ruolo politico del Partito comunista, ma rappresentò una decisione che avrebbe segnato il destino dell’Italia postfascista negli anni a venire. Lo strumento dell’amnistia è sempre l’espressione di una forma di memoria rifiutata, poiché attribuisce all’oblio la funzione, istituzionalmente e giuridicamente formalizzata, di seppellire il passato ponendo fine alle reciproche accuse e ritorsioni. La sua scelta fu, nell’Italia del dopoguerra, il riflesso dell’“altra faccia della giustizia politica”, per usare le parole di Pier Paolo Portinaro, l’epitome del timore che una soluzione giudiziaria del passato potesse produrre solo processi politici. Perché l’amnistia rappresenta sempre il fallimento del diritto, la sua dichiarata impotenza a risolvere i grandi conflitti sociali e politici, l’atto con cui viene imposto “un reciproco oblio dei torti patiti” dalle parti in gioco, eludendo il problema della responsabilità. Una scelta che presuppone un vincitore incerto, consapevole della debolezza della sua posizione politica e istituzionale e conscio del fatto che uno scontro, attraverso i processi, può indebolire nella percezione della comunità il suo ruolo di vincitore. Così, alla fine della guerra, e alla fine della guerra civile, nella scelta dell’amnistia prevalsero tre motivi: la ragion di Stato, la neutralizzazione del conflitto interno, e la compromissione morale di una parte della comunità che nutriva “un evidente interesse a cancellare la memoria anche dei suoi crimini”.
Il referendum istituzionale del 2 giugno 1946 diede la maggioranza dei voti alla soluzione repubblicana. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica avvenne in un crescente clima di tensione politica e sociale. Era stato De Gasperi, già nel gennaio del 1946, a suggerire all’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, capo della Commissione alleata di controllo in Italia, che fossero i governi alleati, americano e inglese, a imporre al governo italiano un referendum istituzionale. De Gasperi cercava in questo modo di limitare e contenere i poteri dell’Assemblea Costituente, che era molto sensibile nei confronti di un clima politico in cui erano ancora forti gli ideali del 1943-1945.
Il rafforzamento della presenza alleata in Italia spostava ancora di più l’asse istituzionale verso il centro-destra; mentre sulla scena internazionale le due sfere di influenza antagoniste, il blocco occidentale e quello orientale, già delineatesi durante la guerra, si avviavano verso una fase di scontro radicale. Sicché l’anticomunismo si trasformò in una guerra silenziosa e fredda in cui l’Occidente combatteva contro l’Oriente per conquistare l’egemonia sull’intero continente europeo e far pendere a proprio vantaggio la bilancia del potere.
Ragioni ideologiche e geopolitiche, dunque, caratterizzarono l’intervento degli americani in Italia (come in Europa), inizialmente ispirato alla dottrina Truman (12 marzo 1947), la cui strategia era volta a controllare la crescente diffusione del comunismo nell’Europa occidentale. Nel discorso alla nazione, nella primavera dello stesso anno, il segretario di Stato George Marshall aveva espresso la sua preoccupazione nei confronti del continuo deterioramento della situazione politica ed economica dell’Italia: il potere della sinistra era cresciuto in modo esponenziale, mentre quello delle forze più moderate era diminuito. Nel suo messaggio a James Dunn, ambasciatore statunitense a Roma, Marshall scriveva: “Il Dipartimento di Stato le chiede di inviare una stima immediata del futuro dell’Italia alla luce di alcuni preoccupanti eventi accaduti recentemente, fra i quali vi è l’invasione socialcomunista in alcune città del paese (…), il rafforzarsi del comunismo negli enti professionali (…), il successo del comunismo in Sicilia”.
Benché Togliatti avesse accettato la collocazione internazionale, De Gasperi aprì la crisi di governo ricorrendo a un pretesto: un articolo del leader comunista apparso su l’Unità il 20 maggio 1947, intitolato “Ma come sono cretini”. Nell’articolo, violentemente critico contro gli americani per le dichiarazioni anticomuniste rese dall’ex sottosegretario di Stato Sumner Welles, Togliatti sottolineava l’incapacità degli americani di capire la situazione italiana e la politica del Pci: “Prima di tutto perché sono ancora, nell’animo, negrieri: un tempo commerciavano con gli schiavi, ora vorrebbero mettersi a commerciare con i Paesi e i popoli interi, come se fossero partite di cotone in ribasso. Ma in secondo luogo è anche perché sono poco intelligenti, perché mancano di preparazione culturale e storica, di finezza mentale e di capacità di comprensione umana (…). Quanto al signor Welles, egli non ha capito, e forse non capirà mai, che alle ingiurie da lui lanciate contro di me farà seguito senza dubbio un nuovo afflusso al nostro partito di buoni patrioti italiani. Noi non potremmo che rallegrarcene: ma non vi pare che questo tipo di americani anticomunisti siano proprio cretini assai?”.
L’inizio della Guerra Fredda provocò la ripresa febbrile dell’attività di riarmo e l’inasprimento della lotta politica interna nei Paesi che facevano parte della nuova alleanza militare, la Nato, che nacque nel 1949. In Italia le prime ripercussioni della Guerra Fredda si ebbero, all’inizio del 1947, con la scissione all’interno del Partito socialista, in cui un gruppo andò a formare il Partito socialdemocratico italiano, di orientamento anticomunista, e con l’esclusione dei socialisti e dei comunisti dal governo.
L’elaborazione della Costituzione fu comunque portata avanti con spirito unitario e si concluse con il raggiungimento di un accordo su alcuni principi fondamentali molto avanzati di democrazia: il 12 dicembre 1947 essa venne approvata dalla classe politica antifascista di ogni tendenza, reduce dall’esilio, dalla clandestinità e dalla lotta partigiana, ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
Le elezioni politiche, indette per il 18 aprile 1948, videro la vittoria della Democrazia cristiana, che ottenne il 48,5% dei voti contro il 35% del Fronte popolare formato da comunisti e socialisti. Con questa clamorosa vittoria elettorale la Dc si assunse la responsabilità del governo, presieduto da Alcide De Gasperi fino al 1953. Nella spartizione del potere del 1948, il blocco cattolico-conservatore ebbe in eredità lo Stato, nella continuità praticamente non scalfita dei suoi apparati e del blocco sociale (economico, istituzionale e politico) che attorno a De Gasperi si ricompattò: grande industria, finanza, burocrazia e ceti medi. Al mondo della Resistenza, che non volle o non poté spezzare la continuità dello Stato, toccò l’ethos della patria antifascista che si espresse nel controllo di vasti settori di consenso culturale e nella conseguente egemonia culturale all’interno della società civile. Una divisione tra Stato ed ethos patriottico che segnò non solo la storia istituzionale e politica italiana del postfascismo, ma influì soprattutto sulla memoria del passato fascista, della guerra, della deportazione e dello sterminio.
In altre parole, accanto all’antifascismo politico – schiacciato dalle scelte istituzionali e di potere – si sviluppò parallelamente una controcultura, una vera e propria forma di resistenza culturale, impegnata a mantenere vivo il ricordo e la memoria della lotta antifascista in generale, e della deportazione e dello sterminio in particolare. Essa rappresentò il fatto nuovo di cui avevano parlato gli azionisti Foa e Diena: una sorta di rivoluzione culturale, dopo gli anni del fascismo, che si espresse in una scrittura che cominciò sulle pagine dei giornali per estendersi all’elaborazione della memoria e che ebbe al suo centro l’esperienza concentrazionaria dei deportati politici e degli ebrei. Questa scrittura memoriale, nata durante la guerra di liberazione, si consolidò nel dopoguerra all’interno del paradigma antifascista, celebrando i sopravvissuti e i morti dei campi di concentramento e di sterminio accanto ai partigiani della lotta di liberazione.
II. Le parole per dirlo
1. Le notizie
Tra le prime notizie di stampa sui campi di deportazione e di sterminio nazisti ci furono quelle apparse sugli organi ebraici di informazione. L’Israel, che aveva appena ripreso le pubblicazioni dopo una interruzione di anni, presentava il 4 febbraio 1945, a p. 4, un articolo dal significativo titolo “I combattenti per la libertà: Gilberto Cohen, Angelo Finzi, Luciano Servi”, e il 25 aprile, sulle stesse colonne, Fabio Della Seta celebrava l’insurrezione del ghetto di Varsavia di due anni prima: “Sei milioni di ebrei sono stati scannati, come un gregge che s’affolla docile sotto il coltello del suo carnefice. Non esiste nella storia del mondo un tale esempio di resistenza passiva (…) Ma pur se umiliati, martoriati, stanchi e disillusi v’è ancora un nome che ci fa fremere e ci fa sperare: Varsavia. Le bandiere issate di Varsavia testimoniarono la fiducia degli ebrei nella causa del buon diritto. Morirono per dare un esempio a se stessi, al mondo democratico in armi e allo stesso furente nemico. Morirono per consacrare una volta di più la volontà di vivere del popolo ebraico (…): per il ricordo santo del ghetto di Varsavia, gli uomini dovranno vincere il male e incamminarsi verso la luce”.
In quel momento, mentre tutti venivano reclutati per la creazione di una nuova identità nazionale democratica e antifascista, il paradigma concentrazionario dei deportati ebrei fu assorbito integralmente nella narrazione resistenziale del mondo antifascista italiano. Gli ebrei, come del resto gli altri deportati, scelsero consapevolmente di aderire al modello eroico proposto dalla Resistenza e favorirono una memoria ebraica di combattenti per la libertà, di caduti in battaglia con le armi in pugno: questo fece di loro, da subito, un importante fattore di mediazione per la normalizzazione del passato e la ricostruzione del presente. Era certamente vero che la loro partecipazione attiva nelle file della Resistenza non solo aveva contato su un numero elevato, circa 2.000 tra uomini e donne, e tuttavia essa era stata condotta all’interno della Resistenza senza dare origine a organizzazioni separate. Questa condizione ebraica di resistenza antifascista è testimoniata da Leo Valiani: “Gli ebrei in quanto tali avevano particolari ragioni per militare nelle file partigiane, ma ciononostante avevano sempre – nella stragrande maggioranza – la sensazione di battersi per la libertà della patria italiana. (…) E perciò non vi fu un antifascismo specificamente ebraico, non vi fu una lotta partigiana specificamente ebraica. Tutti si battevano per l’avvenire della comune patria italiana, sapendo che il destino degli ebrei era inseparabile da quello dell’Italia libera e democratica”. In altri termini, soltanto una vittoria della Resistenza avrebbe creato le condizioni perché gli ebrei potessero non solo sopravvivere ma anche vivere come liberi cittadini: perciò ad essa gli ebrei rivendicarono la propria appartenenza come singoli e come gruppo. Espressione di questa sintesi fra appartenenza nazionale, antifascismo ed ebraismo è la figura di Franco Cesana, staffetta portaordini presso la formazione Scarabello della Divisione Garibaldi, il più giovane partigiano italiano caduto in combattimento all’età di 14 anni.
La stampa ebraica continuò a sottolineare la resistenza antifascista degli ebrei. Dante Lattes, direttore di Israel, concluse la sua nota al XXII Congresso sionista del 1946 con un riferimento di chiaro sapore antifascista: “Sei milioni di morti. È questo il nostro contributo alla lotta contro il fascismo”. Nel clima generale sorto attorno alla nuova repubblica emergeva l’ingiunzione alla memoria, insieme alla considerazione che l’oblio fosse una colpa perché avrebbe reso vano il sacrificio delle vittime.
Questi primi riferimenti ebraici si accompagnavano a un’informazione più diffusa anche sulle pagine dei giornali non ebraici. Uno dei primi articoli fu pubblicato l’8 dicembre 1944 su l’Unità. Era la traduzione di un breve testo del corrispondente di guerra e poeta sovietico Konstantin Simonov, “Un campo di sterminio degli ebrei”, che descrivendo il lager di Majdanek lo definiva come “il macello più grande al mondo”. Contemporaneamente, il 7 dicembre sulle pagine di Israel Carlo Alberto Viterbo lanciava lucide e accorate affermazioni intese a risvegliare la coscienza del mondo, e tali da risuonare con forza nuova sugli spiriti democratici e antifascisti: “La guerra dichiarata agli ebrei da Hitler e dai suoi seguaci fuori e dentro i confini della Germania non è infatti soltanto una lotta di uomini armati contro inermi, non è soltanto il procedere di una enorme macchina guidata da un folle, è intesa a stritolare spietatamente uomini e donne, vecchi e bambini, per raggiungere lo scopo di un totale annientamento e di una totale depravazione”.
Assorti a comprendere cosa fosse realmente accaduto e a valutare la portata dello sterminio del proprio popolo, gli ebrei cercavano di ritrovare con difficoltà il loro posto nel mondo, di riprendere il discorso interrotto così drammaticamente dalla persecuzione prima e dalla guerra dopo. Alla fine del 1944, quando ancora i nazisti occupavano una gran parte dell’Italia, nessuno poteva ancora valutare pienamente la portata dello sterminio; e anche se si pubblicavano notizie come quella del processo tenuto a Lublino, in Polonia, contro sei nazisti per i crimini commessi nel campo di Majdanek, le informazioni apparivano caratterizzate da un tono improvvisato ed occasionale.
L’attenzione si accentuò alla fine del gennaio 1945. Su l’Unità e su l’Avanti! vennero pubblicati articoli corredati da mappe sull’avanzata dell’Armata Rossa in Polonia che descrivevano la liberazione di alcune città, tra cui Auschwitz, indicata con il suo nome polacco, Oswiecim.
Perfino il battesimo di Israel Zolli, rabbino capo della comunità ebraica romana, fu letto da Dante Lattes nel contesto dello sterminio ebraico che aveva duramente messo alla prova la forza morale e lo spirito dei più deboli tra gli ebrei: “Nessuna fede, nessuna dottrina filosofica o politica è uscita con onore da questa catastrofe; nessuna si è infatti opposta al male, alla violenza, alla tirannide con quel coraggio da cui sorgono i martiri (…). Che cosa va a cercare fra i ruderi di questo mondo l’ebreo che è uscito sano e salvo, col suo corpo e colla sua idea, da tante spaventose tempeste? (…) Questo mondo al quale l’ebreo si vende, disertando il proprio, è in sostanza il mondo di cui egli ha paura”. Lattes utilizzava la conversione di Zolli per richiamare al suo dovere il mondo che era rimasto indifferente alla catastrofe, perché si salvaguardasse “quanto v’è di necessario, di legittimo e di giusto nell’aspirazione e nella volontà di dare pace e libertà agli ebrei, non solo come individui ma anche come collettività storica (…). È urgente che si dia massima importanza alla cura dei cuori e dei cervelli degli ebrei: altrimenti c’è il pericolo che la schiera degli apostati si accresca per generazione spontanea o per altrui propaganda”. Il discorso sulla propria identità riemergeva con forza all’interno del mondo ebraico, tanto che il settimanale Israel, il 24 maggio 1945, si fece promotore di un referendum, dal titolo: “Malgrado ciò che è accaduto nell’Europa e nel mondo intero, malgrado le stragi e le deportazioni, siete rimasto ebreo, perché?”.
L’8 marzo 1945, mentre in Palestina veniva proclamato il lutto nazionale per un’intera settimana, su Israel veniva pubblicato il primo articolo di timbro diverso, in cui non erano più l’antifascismo e la lotta armata ad essere al centro della recente storia ebraica bensì lo sterminio di inermi. Si trattò forse della prima riflessione su ciò che aveva e avrebbe significato l’Olocausto per la vita ebraica: “Nessun popolo nella storia ha fatto lutto per 5 milioni di caduti; nessun popolo mai nella storia si è trovato a constatare l’uccisione di un terzo dei propri componenti; nessun popolo ha mai perduto, non in combattimento con le armi in pugno ma per orrende carneficine contro inermi, insieme agli uomini validi, tante donne innocenti, tanti vecchi venerandi, tanti bambini sorridenti alla vita”. Nello stesso numero compariva il primo elenco degli ebrei deportati da Roma, accanto alla recensione, firmata da Carlo Albero Viterbo, all’anonimo fascicolo di 16 pagine intitolato Nove mesi di martirio. La tragedia degli ebrei sotto il terrore tedesco, in cui venivano presentati i fatti più salienti delle persecuzioni antisemite di Roma.
Da allora le pagine del giornale furono quasi interamente occupate dalle notizie sui campi di concentramento. Si parlava di Fossoli e di Auschwitz, ma con un linguaggio incredulo e dubbioso: non era nemmeno chiaro se chi scriveva sapesse dove era Auschwitz. Anche per l’uso del termine “campo di concentramento” bisognerà aspettare l’aprile del 1945. Cominciarono ad arrivare le prime informazioni sull’arrivo a Stoccolma di ebrei sopravvissuti ai lager di Bergen Belsen e di Birkenau, a quali si aggiunsero il 4 maggio 1945 quelli di altri sopravvissuti, forniti al ministero degli Affari esteri attraverso l’ambasciata italiana a Mosca. L’annuncio dell’arrivo a Bucarest di altri ebrei sopravvissuti di Oswiecim, scritto Oszviencim, riempiva la prima pagina del giornale. L’errore non casuale nella trascrizione dei nomi dei campi confermava il senso di estraneità, di distanza, di “ignota destinazione” che circondava la memoria dello sterminio nel suo iniziale tentativo di rielaborazione. L’articolo di Dante Lattes, “Dobbiamo ancora avere fiducia negli uomini?”, che riferiva quasi esattamente il numero e i dati dei 5.000.000 di morti ammazzati, sembra suggerire l’immagine di un mondo ebraico abbandonato a se stesso, separato dal resto, tutto compreso nella rielaborazione del proprio lutto. Si faceva martellante la pubblicazione dell’elenco in ordine alfabetico dei deportati da Roma che includeva, fatto rilevante, anche i nomi degli ebrei massacrati per rappresaglia alle Fosse Ardeatine. La confusione nella memoria segnava il ricordo: la lista, il cui scopo era di determinare il numero dei morti, si era trasformata in un lungo e grande necrologio. Una settimana dopo, fu pubblicato dallo stesso giornale il messaggio di saluto alle proprie famiglie inviato dal campo di Buchenwald da Michele Amati e Sabatino Finzi, deportati da Roma il 16 ottobre 1943.
L’organo del Partito socialista l’Avanti!, il 20 aprile 1945, diede la notizia della liberazione di Buchenwald e Bergen Belsen, avvenuta rispettivamente l’11 aprile e il 15 aprile del 1945; quella di Mauthausen il 5 maggio. Il 13 maggio 1945 Il Giornale del Mattino ruppe il silenzio sui campi di concentramento con un articolo di Paolo Alatri che parlava di Ohrdruf, Buchenwald, Bergen Belsen, Ravensbrück e Nordhausen: era il primo contributo, lungo e dettagliato, che non avesse semplice carattere informativo.
Si moltiplicarono gli articoli su Auschwitz quando cominciarono ad apparire – numerose – le interviste dei sopravvissuti. Mauro Scoccimarro, ministro per l’Italia occupata e responsabile della Commissione centrale per l’accertamento delle atrocità commesse dai tedeschi e dai fascisti ai danni degli ebrei, chiedeva a Israel, il 10 maggio 1945, di pubblicare un appello rivolto alla comunità ebraica di Roma e, attraverso questa, all’intera Unione delle Comunità, in cui si invitavano tutte le famiglie a raccogliere e documentare le notizie relative ai crimini subiti e a trasmettere il materiale raccolto alla Commissione centrale stessa. Si tratta della prima notizia pubblica che testimoni i rapporti tra il governo e la comunità ebraica. Nei mesi successivi gli articoli di Israel saranno sempre più attenti al ritorno dei deportati, alla “torturante attesa” dei familiari desiderosi di avere notizie dei loro parenti scomparsi: Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Oswiecim, Majdanek emergono tragicamente dalle nebbie, prendendo sempre più forma. Si vorrebbe sapere cosa è successo ai convogli che lasciarono l’Italia tra il 1943 e il 1944. Radio Mosca parlava di 11 milioni di assassinati, affermando che nel corso di tre anni nel solo campo di concentramento di Trablianca (Treblinka) erano stati trucidati 7 milioni di uomini, fra ebrei e non ebrei, più gli altri 4 milioni assassinati nei lager di Oswiecim e di Majdanek.
Vale la pena notare l’atteggiamento assunto dalla stampa cattolica, in linea col tono dell’appello rivolto da papa Pio XII ai fedeli nell’aprile del ’45 e che era stato un richiamo ad una pacificazione generale degli animi, definendo gli avvenimenti “crudeli: (…) atroce realtà” e “la guerra: (…) il frutto e il salario del peccato”. La tendenza fu quella di parlare di generici crimini contro l’umanità, senza mai pronunciare la parola “ebrei”. Come si leggeva sulle pagine dell’Osservatore Romano, il 29 giugno 1945: “Le informazioni ottenute da varie fonti danno un quadro impressionante sulle condizioni in cui generalmente si trova la massa degli internati composta da uomini e donne di ogni età, dall’infanzia fino alla decrepitezza. Una particolare compassione fanno coloro che si ritengono ormai senza patria, e sono molti assai (…). Molti altri, a causa della demoralizzazione subita in tanti anni di prigionia, stentano a riprendere la mentalità e le consuetudini del consorzio civile e cristiano…”. O su quelle della Civiltà Cattolica: “Di ritorno dalla Missione in favore dei prigionieri di guerra e degli internati in Germania, Mons. Carroll ha fornito alcuni ragguagli sull’opera di carità cristiana (…) per soccorrere tante vittime della guerra (…). La Missione pontificia si occupa di tutti, senza distinzione di nazionalità o di fede religiosa (…), 8.000 polacchi fra cui 450 sacerdoti”.
Il male della guerra e le sue terribili conseguenze venivano riduttivamente imputati alla semplice dimenticanza di Dio: “Invero la lotta contro la Chiesa si andava sempre più inasprendo: era la distruzione delle organizzazioni cattoliche; (…) era la separazione forzata della gioventù dalla famiglia e dalla Chiesa; (…) era la denigrazione sistematica della Chiesa, del clero, dei fedeli, delle sue istituzioni, della sua dottrina, della sua storia”. Al centro della persecuzione venivano indicati generici “detenuti politici”, insieme a “le falangi di coloro, sia del clero che del laicato, il cui unico delitto era stata la fedeltà a Cristo e alla fede dei Padri o la coraggiosa osservanza dei doveri sacerdotali”.
La definizione delle liste dei deportati tramite le commissioni nazionali e internazionali che le comunità ebraiche nominarono, e che furono attive subito dopo l’inizio della guerra, fu utile ai primi stadi del processo di costruzione della memoria. Chi faceva parte delle commissioni analizzò i documenti trovati negli uffici dei campi e controllò gli elenchi di deportati e sopravvissuti. Una delle liste fu portata in Italia tramite una spedizione di aiuti per i superstiti di Mauthausen e fu letta alla radio italiana il 26 maggio 1945: fu una delle prime testimonianze sulla deportazione di italiani che giunse al grande pubblico e che suscitò una certa impressione.
L’antifascismo ebraico veniva rappresentato come elemento di slancio verso il futuro, la volontà di riaffermare la propria esistenza, il desiderio di ricostruire una società migliore per gli ebrei e per l’Italia democratica. Così scriveva Carlo Alberto Viterbo su Israel il 31 maggio 1945: “Noi lavoreremo perché Israele torni completamente Israele. Riprendendo l’opera interrotta due anni fa con maggiore ardore (…) Ma noi vogliamo lavorare anche per questa Italia risorta, per questi italiani che ci accolsero nelle loro case quando eravamo braccati, che ci sfamarono”. Si riconsiderava il ruolo che gli ebrei dovevano avere nella nuova società civile e si faceva delle loro comunità il nucleo da cui doveva partire il processo di rinnovamento. Ancora una volta Carlo Alberto Viterbo, nel medesimo fascicolo di Israel: “La guerra in Europa è finita, l’Italia è liberata, gli ebrei sono stati restituiti ai loro sacrosanti diritti di uomini e di cittadini. Incomincia difficile e durissima la ricostruzione e incomincia difficile e durissima anche per noi, ebrei d’Italia (…). Noi ebrei abbiamo il compito particolare ed esclusivo di ricostruire le nostre comunità, di sanare le nostre ferite, di riprendere la nostra attività culturale e assistenziale, di svolgere una nostra politica, di riconsiderare le cause che ci hanno condotti sull’orlo del completo annientamento”.
Non senza contraddizione veniva però espressa un’altra posizione, non meno forte e non meno importante. Se ne faceva portavoce lo stesso Viterbo quando spiegava il volontario esilio degli ebrei, come gruppo sociale, dalla politica attiva e la conseguente estraneità alla vita nazionale, l’esclusivo interesse per la ripresa fisica e amministrativa delle comunità ebraiche, tutti aspetti che avevano attirato le critiche e la disapprovazione di una parte del mondo democratico antifascista italiano: “Più volte e in modo particolarmente insistente in questi ultimi tempi ci è stata espressa meraviglia e disappunto perché il nostro giornale non ha preso fino ad ora una posizione nell’accesa lotta dei partiti e delle correnti politiche che agitano l’Italia. E innanzi tutto è necessaria una fondamentale distinzione tra gli ebrei come singoli e come collettività. Gli ebrei come singoli e in quanto cittadini italiani hanno verso il Paese di cui sono parte costituente tutti i doveri e conseguentemente tutti i diritti (…) il diritto di voto, il diritto di iscriversi – come singoli – al partito che più sia conforme alle loro idee ed aspirazioni, di discutere pubblicamente gli affari della cosa pubblica (…) Come collettività gli ebrei non costituiscono un partito, mentre gli Enti e le Istituzioni ebraiche sono rivolti esclusivamente ai loro compiti particolari”.
Lentamente, durante la primavera e l’estate del 1945, lo sterminio ebraico catturò l’attenzione dei giornali. Il vettore essenziale dell’informazione sui campi divennero soprattutto le testimonianze: lettere di scampati, messaggi, racconti, elenchi di nomi che arrivavano alla comunità di Roma, con i nomi di ex internati che si trovavano a Bolzano e Merano già dal marzo 1945. La testimonianza di Leone Fiorentino, il primo ebreo romano tornato dall’inferno di Auschwitz, apparve sull’Italia Libera, Israel e l’Unità che la pubblicarono in prima pagina. Fiorentino, comunista, descriveva Auschwitz con i suoi cinque forni crematori, strumento di morte per i deportati.
Il 6 giugno 1945 l’Unità pubblicò il primo di una serie di articoli di Giuliano Pajetta, fratello di Giancarlo, dedicati al campo di concentramento di Mauthausen dove era stato deportato: rivisitati, essi diverranno il crudo racconto della sua prigionia nel 1946. Pajetta raccontava la sua storia di politico dentro al campo, il ruolo svolto dalla Resistenza clandestina, la grande solidarietà tra i compagni. Da parte sua, L’Italia Libera pubblicò la testimonianza di Gabriele Di Porto internato ad Auschwitz nel marzo del 1944; dalle sue parole scaturiva un’ingiunzione al ricordo e la speranza in un mondo migliore: “Ho solo desiderio di pace; la giustizia che mi hanno chiesto coloro che mi sono morti fra le braccia, la farà chi non ha visto tanto sangue”. Ancora su l’Unità, la storia di Gina Piazza, un’ebrea romana di 29 anni, che nell’articolo “Ritorno da Oswiecim” descriveva e raccontava la sua esperienza di donna nel campo, parlandone come di un luogo di “affamata” e “disumana brutalità”. Negli stessi giorni la Rai (Radio audizioni italiane) trasmetteva l’elenco di alcuni deportati italiani che erano stati liberati a Dachau e Mitterwald. Giungeva intanto agli uffici della Delasem (Delegazione per l’assistenza degli emigranti ebrei) una lista di 652 nomi di ebrei torinesi deportati in Polonia.
Attraverso le pagine del settimanale Israel le comunità ebraiche si mobilitarono per cercare i deportati, promuovendo un nuovo censimento che potesse stabilire con maggiore esattezza il numero degli ebrei italiani e non italiani che erano stati avviati ai campi di concentramento nazisti. Tutti gli ebrei vennero invitati a notificarsi a uno speciale ufficio. Bisognava però superare le difficoltà e i timori di quanti, dopo gli anni bui della persecuzione, non desideravano ufficialmente più fare parte della comunità; bisognava rifondere fiducia e sicurezza nelle loro menti. La richiesta veniva quindi spiegata con l’impellenza di ricostruire amministrativamente e spiritualmente il mondo ebraico; si sosteneva la necessità di rinnovare gli strumenti della vita ebraica: gli istituti religiosi, il collegio rabbinico, gli enti assistenziali ecc.
Nel contempo si chiedevano normative speciali che stabilissero un risarcimento economico per gli ebrei colpiti dalle leggi razziali e dalle persecuzioni. Trapelava dagli articoli del giornale una certa preoccupazione e delusione per l’atteggiamento assunto dal governo sul problema della riparazione economica. Una lettera in data 12 giugno 1945 fu fatta pervenire dal ministro delle Finanze a mezzo della segreteria particolare del presidente del Consiglio alla comunità ebraica di Roma: il governo sosteneva di non dovere in alcun modo ripagare i danni fisici, economici e morali subiti dagli ebrei, perché le sofferenze degli ebrei non erano state poi così dissimili da quelle del resto dei loro concittadini. Il settimanale Israel, che la pubblicò per intero il 5 luglio 1945, così commentava: “Questo ministero considera che vastissime categorie di contribuenti (perseguitati politici, patrioti, sfollati, ecc.) hanno sofferto a causa della guerra danni non meno gravi di quelli lamentati dagli ebrei. (…) Venute meno le discriminazioni razziali gli ebrei potranno beneficiare delle suddette disposizioni generali, senza che si renda necessaria l’adozione di particolari provvedimenti in loro favore”.
È vero che nel maggio del 1945 c’era stata l’iniziativa di Scoccimarro, ma né il governo né la società civile compresero il diritto dei superstiti a un risarcimento materiale e simbolico e non li appoggiarono, né riconobbero la deportazione e lo sterminio come eventi storici senza precedenti. Gli ebrei dovevano guardare al passato per capire l’urgenza di ridefinire il proprio ruolo all’interno della società italiana, che si percepiva, quasi nella sua generalità, non solo di non aver prestato mano alle persecuzioni, ma di essere stata d’aiuto e di aver protetto i perseguitati, “diversamente” – come scrisse Benedetto Croce – “da quel che accadde presso un altro popolo che di gran lunga assai più degli italiani si era giovato del contributo datogli dall’ingegno e dall’operosità ebraica, e della devozione degli ebrei al popolo germanico di cui erano cittadini”. L’insistenza sulla specificità della propria sofferenza e della propria diversità avrebbe solamente arrecato danno; bisognava, quindi, abbandonare l’idea di una elezione del popolo ebraico per giungere invece ad una fusione morale e spirituale con il resto del popolo italiano. Ancora Croce: “Molti danni e molte iniquità compiute dal fascismo non si possono ora riparare per essi come per gli altri italiani che le soffersero, né essi vorranno chiedere privilegi e preferenze”. Il filosofo auspicava che il loro “studio” fosse quello “di fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere che ne dia ancora in avvenire”.
Alla fine dell’estate del 1945, Raffaele Cantoni, eletto dal Clnai commissario straordinario della comunità ebraica di Milano con funzioni di coordinamento per gli ebrei dell’Alta Italia, arrivava a Roma per trattare insieme al nuovo governo tutti i problemi che erano rimasti sul tappeto dopo la liberazione completa dell’Italia e l’abrogazione delle leggi razziali. Ma non solo: Cantoni intendeva ridefinire con il governo il ruolo delle comunità ebraiche italiane e riaffermare l’importanza avuta nella lotta di liberazione da molti ebrei che avevano sofferto insieme ai loro concittadini non ebrei nelle carceri e sulle montagne. Cantoni, in sostanza, non voleva che gli ebrei fossero dimenticati dal governo di Roma.
I racconti delle stragi perpetrate dai tedeschi cominciarono a riempire le pagine dei giornali: l’Unità e l’Avanti! concessero grande spazio al racconto della strage di Marzabotto, il 5 e l’8 luglio 1945. Mentre Israel dava notizia di un altro campo di concentramento scoperto vicino ad Auschwitz, dove altri ebrei italiani avevano trovato la morte: Buna-Monowitz. Il Comitato Ricerche Deportati chiedeva al governo che fossero inviati in Polonia, attraverso il ministero degli Affari esteri, dei diplomatici italiani, insieme alla Croce Rossa e alle altre organizzazioni internazionali, per controllare se ci fossero sopravvissuti tra gli internati italiani. Nel settembre del 1945 solo Israel riportava la notizia del numero di ebrei romani deportati da Roma il 18 ottobre del 1943, due giorni dopo l’assalto al ghetto, con destinazione Auschwitz. Cerimonie di commemorazione e un digiuno vennero indetti dalla comunità di Roma per ricordare il rastrellamento del 16 ottobre e fu fatta coniare una medaglia in ricordo dei martiri.
La Rai continuava ad interessarsi al problema dei reduci e inseriva nella trasmissione “Sulla via del ritorno” uno stralcio delle notizie contenute nel bollettino del Comitato Ricerche Deportati. Il ritorno da Auschwitz di un altro sopravvissuto, Benedetto Di Segni, veniva dettagliatamente descritto sulle pagine di Israel, insieme ai processi contro i criminali nazisti. Il processo di Lüneburg, culminato con trenta condanne alle SS che avevano operato nel campo di concentramento di Bergen Belsen, sarà seguito con grande attenzione dal giornale, come anche quello a carico delle SS accusate di crimini contro ebrei e partigiani a Dachau, che si concluse con trentasei condanne a morte per impiccagione.
Con il processo di Norimberga le cose cambiarono: tutti i giornali se ne occuparono. Ma anche in questo caso la stampa italiana si limitò a utilizzare principalmente i servizi dei corrispondenti delle testate e agenzie estere per “coprire” la cronaca del processo. L’unico giornalista italiano accreditato a Norimberga fu Enrico Caprile, del Corriere d’Informazione: i suoi articoli furono pubblicati tra il 29 novembre e il 15 dicembre del 1945 sulle prime pagine del giornale. Un diverso tono fu assunto dalla stampa cattolica. L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica considerarono la questione dello sterminio, anche dopo le sconvolgenti rivelazioni che emersero al processo, da un punto di vista squisitamente giuridico. Nel primo articolo apparso sulla Civiltà Cattolica si parlava infatti di questioni legate al diritto, ci si interrogava sulla liceità della pena per i crimini commessi, in assenza di un precedente giuridico che avallasse la condanna: “Verissimo che la guerra è stata dura, e indubbiamente certe crudeltà dovrebbero essere proscritte, ogni necessità a giustificarle dovrebbe venire esclusa. (…) Ci si metta pure una buona volta d’accordo per l’avvenire; ma come si può punire per la trasgressione di una legge che ancora non esisteva quando l’azione fu compiuta? Valga l’esempio della bomba atomica: altro che proiettili antirazzo, rappresaglie, bombardamenti indiscriminati! Eppure nessuno pensa di punire gli aviatori, lo Stato Maggiore o gli industriali americani. Perché? Perché se anche oggi si vietasse l’uso di quegli esecrabili mezzi di strage e di distruzione, la legge varrebbe per domani, non per ieri. A pari, dunque”.
La guerra moderna e totalitaria era la chiave di spiegazione della morte e della distruzione causate dalla Germania nazista che, se responsabile sul terreno diplomatico perché la prima “a dar fuoco alle polveri”, vi era stata, sempre secondo La Civiltà Cattolica, storicamente costretta: “Quando si deve amaramente riconoscere che anche oggi, dopo i tremendi disastri della seconda guerra mondiale e nonostante l’organizzazione della società internazionale su nuove basi (O.N.U.), le grandi potenze che vi spadroneggiano non riescono ad assicurare ai popoli l’agognatissima pace, ma continuano a patteggiare provvisori compromessi a prezzo di flagrante ingiustizia contro i vinti e le potenze minori, viene fatto di domandarsi con quale coerenza, e soprattutto con quale diritto, siansi assise a Norimberga per condannare la Germania di un atto, che esse medesime non mancheranno di fare al momento opportuno, quando lo riterranno inevitabile pei loro interessi!”.
Disquisizioni giuridiche, considerazioni diplomatiche, spiegazioni scientifiche e relativizzazioni storiche: tutto serviva per non confrontarsi sul terreno della responsabilità con la propria storia. Così la rivista dei gesuiti parlava a proposito dei crimini contro l’umanità: “Ma anche in relazione ai delitti contro l’umanità e ai crimini di guerra troviamo avanzata ed ammissibile una eccezione della stessa natura ed efficacia. Il mondo è stato bensì inorridito dai molteplici crimini perpetrati dalle armate naziste; ma lo è stato anche da quelli commessi o comunque addebitati all’altra parte. Già, di delitti contro l’umanità in epoca moderna si è cominciato a parlare precisamente in seguito ai massacri, alle persecuzioni politiche e religiose, alle riduzioni in schiavitù di lavoro verificatesi in uno degli Stati, che ora fa da giudice in Norimberga. Ancora durante la guerra, maltrattamenti di prigionieri si sono avuti dappertutto. In Russia e in Algeria specialmente, la fame ha fatto stragi; e non solo la fame. In certi domini inglesi, l’onore dei prigionieri è stato vilipeso oltre ogni limite umano. E le fosse di Katin? Qui l’accusa era precisa e documentata. E gli stessi bombardamenti aerei angloamericani non hanno superato evidentemente ogni limite di rappresaglie? Si pensi alle innumeri città italiane semidistrutte in pretesa rappresaglia dei duecento in efficientissimi apparecchi, che avrebbero dovuto bombardare Londra. Si ricordino i mitragliamenti a bassa quota di civili e persino di fanciulli intenti a giochi innocenti (chi può dimenticare la ‘giostra’ di Grosseto?) e gli aviatori ubriachi e l’ignominia delittuosa di certe truppe di colore (marocchini), e le ruberie e le violenze dei singoli… Ma il colmo atroce dell’inumanità resta fissato nei secoli dalle bombe atomiche lanciate su città popolatissime e civili, quali Nagasaki e Hiroshima (secondo certa stampa, già dopo l’offerta di resa incondizionata e non solo per ragioni militari). Altro che ‘terra bruciata’, altro che ‘distruzioni indiscriminate’ (capi di accusa contro i tedeschi), altro che mezzi di offesa sproporzionati, non limitabili e perciò vietati dal diritto internazionale bellico e da quello naturale! Si parlerà di rappresaglie? Di necessità logistiche e militari? Noi non sappiamo se e come la Storia potrà accogliere questi argomenti, né come i posteri li giudicheranno. Sappiamo solo che a Norimberga gli imputati hanno assunto a difesa gli stessi principii e avanzato in tal senso analoghe eccezioni (diritto di rappresaglia, diritto di necessità oggettiva o determinata da analoga condotta dei nemici). Sappiamo che queste eccezioni pongono direttamente in stato di accusa le stesse potenze giudicanti tal che, secondo i principii generali del diritto, i giudici non sono più giudici ma parti in causa. In queste condizioni, essi non possono giudicare. Se taluno o tutti gli accusati rappresentano una minaccia per la pace futura, è lecito ai vincitori adottare contro di essi misure di sicurezza. Ma se si vogliono punire come delinquenti le parti lese (tutte e prima di tutte la Polonia) facciano magari da accusatori, non da giudici. Per il giudizio, ci si rivolga a un Tribunale di neutri, per esempio all’Alta Corte di Giustizia internazionale. Secondo giustizia, però, quelle quattro potenze non possono giudicare, non possono condannare”.
La realtà dei fatti è che nella sostanza neppure le vicende e la scoperta delle atrocità commesse durante la guerra riuscirono a modificare l’equilibrio di tali giudizi.
Norimberga aprì la strada a una nuova fase dell’informazione giornalistica. Da questo momento in poi si tentò faticosamente di colmare il ritardo nella diffusione delle notizie sulla deportazione. Come si è detto, però, le ragioni del divario non erano soltanto di natura tecnica, come la difficoltà di accesso alle informazioni o la carenza dei mezzi a disposizione, problema comune alla maggior parte delle testate; l’ostacolo principale era rappresentato dall’atteggiamento assunto verso il passato, verso la guerra, la deportazione e lo sterminio. Va ricordato che il Corriere della Sera, La Stampa e Il Messaggero – le tre grandi testate giornalistiche compromesse col regime fascista e con la Repubblica sociale – erano state chiuse. Il Corriere della Sera subì un’interruzione tra la fine di aprile e la fine di maggio del 1945: un mese dopo la sospensione, imposta dal Comitato di Liberazione Nazionale, il quotidiano tornò in edicola con la testata Il Corriere di Informazione (il 24 marzo del 1946 il giornale, al posto dei festeggiamenti per Mussolini, ricordò il massacro delle Fosse Ardeatine). L’anno successivo uscì come Nuovo Corriere della Sera. La Stampa, che era scomparsa dalle edicole il 25 aprile 1945 per riapparire il successivo 18 luglio grazie all’appoggio degli Alleati, col nome La Nuova Stampa, pubblicò il 26 settembre 1945 il primo articolo che affrontava il problema dello sterminio ebraico; e anche Il Messaggero fu costretto a sospendere le pubblicazioni nel 1944, alla liberazione di Roma, fino al 21 aprile 1946, quando riapparve col nome Il Messaggero di Roma.
Sulla stampa ebraica, intanto, venivano pubblicate le notizie sulla presenza di circa 15.000 profughi ebrei stranieri superstiti dai campi che avevano trovato rifugio in Italia. Il governo italiano si era in qualche modo piegato alle pressioni angloamericane affinché moltissimi sopravvissuti alla Shoah nell’Europa orientale potessero arrivare in Italia. In realtà la presenza dei profughi si trasformò rapidamente in un elemento identitario importante per le comunità ebraiche italiane: essi si organizzarono in un gruppo politico, il Comitato profughi, che faceva capo a Leo Garfunkel e che fondò il giornale Ba Derech (Lungo il cammino), che ne divenne l’organo ufficiale. Il settimanale era scritto in yiddish e voleva essere un foglio di informazione per gli ebrei stranieri in Italia scampati allo sterminio. Il Comitato ebbe intensi e importanti contatti con la leadership ebraica italiana, soprattutto con quella sionista, del quale fece poi parte. Nel convegno dell’Organizzazione sionista che si tenne a Roma tra il 26 e il 28 novembre 1945, il Comitato profughi chiese che fosse diramato un comunicato di ringraziamento a loro nome in cui venivano menzionate non solo le istituzioni ebraiche ma anche le autorità italiane e in cui si sottolineava il forte contrasto tra l’accoglienza fraterna nei riguardi dei profughi ebrei in Italia rispetto a quella ottenuta in Polonia, dove i pochi reduci dai campi versavano in condizioni di povertà e di paura.
Verso la fine del 1945 la Palestina e la questione ebraica divennero oggetto di interesse per parte della stampa. Su Israel le notizie di ciò che succedeva in Eretz Israel avevano trovato da sempre grande spazio; ma ora la novità era rappresentata dalla presenza di articoli e di lettere pubblicati nei quotidiani a tiratura nazionale, come anche in quelli a carattere regionale. Sul numero di Affari internazionali del 25 novembre 1945 un’intera pagina della rivista venne dedicata alla questione ebraica in generale e alla questione palestinese in particolare. L’articolo dal titolo “Gli Ebrei sono una nazione” riprendeva un testo di D.L. Lipson, politico inglese di origine ebraica, che era stato pubblicato dalla rivista The Spectator. Sul Giornale dell’Emilia, in un resoconto dal titolo “Aiutare gli ebrei”, Randolph Churchill, figlio dell’ex primo ministro britannico, si professava ardente sostenitore della nascita di uno Stato ebraico in Palestina. Ancora: un articolo su Risorgimento Liberale dal titolo “La Palestina due volte promessa”; Il Risveglio pubblicò anch’esso un articolo sui sionisti e sugli arabi in Palestina; La Città libera riportò un interessante contributo, “Le lotte per la sovranità in Palestina”, in cui si auspicava la costituzione di una federazione arabo-ebraica; mentre l’Unità e L’Italia Libera trattavano della crisi palestinese e della situazione diplomatica della Gran Bretagna tra ebrei e arabi.
Nel dicembre del 1945 venne pubblicato il libro Le Fosse Ardeatine di Attilio Ascarelli, il medico legale che si occupò dell’identificazione delle vittime della rappresaglia nazifascista, e che raccontava in modo dettagliato la strage avvenuta sull’Ardeatina a Roma. Carlo Alberto Viterbo ne fece la recensione. Nel primo anniversario dell’eccidio si tennero due cerimonie: la prima nel Tempio Maggiore di Roma e la seconda davanti al Campidoglio, in presenza dei rappresentanti delle forze alleate. Nel secondo anniversario della strage furono scoperte al Tempio Maggiore due lapidi al cospetto delle rappresentanze ebraiche, della comunità e delle autorità civili del comune di Roma: la prima in memoria degli ebrei uccisi alle Ardeatine, la seconda a ricordo degli ebrei uccisi in tutta Europa, con una menzione speciale per le vittime italiane. Il testo commemorativo così diceva: Del popolo d’Israele / Sei milioni le innocenti vittime in Europa / Del bieco odio razziale in tutta Italia dal fatale 16 ottobre 1943 / Oltre ottomila i deportati i martoriati e i trucidati / Da Roma / Duemilanovantuno i deportati. Dopo la funzione religiosa officiata dal rabbino capo David Prato, parlarono Ugo Della Seta, Leo Garfunkel, che espresse la solidarietà di tutti i profughi ebrei in Italia, e Raffaele Cantoni, che parlò a nome del Congresso mondiale ebraico.
Il 1946 fu l’anno che sancì la fine della speranza nel ritorno dei deportati. Gli ebrei italiani compresero che, nonostante si cercassero ancora sopravvissuti, e malgrado la febbrile attività del Comitato Ricerche Deportati e della Delasem, nessuno sarebbe mai più tornato. Ancora una volta fu Israel che si fece portavoce della rassegnazione: “Per gli ebrei di Roma il 16 ottobre di quest’anno è data di lutto profondo, perché ogni speranza sul ritorno dei deportati, poveri, innocenti, strappati bestialmente all’affetto dei loro cari, è ormai vana”. La frase è tratta dalla lettera inviata al giornale dall’avvocato Giulio Lombroso che rappresentava al processo contro Celeste Di Porto, detta Pantera nera, quindici famiglie di ebrei romani.
Quella di Celeste Di Porto è una storia drammatica, anomala, dolorosa, che insieme alla conversione di Israel Zolli lasciò un segno indelebile nell’animo degli ebrei, soprattutto romani. Giova ricordarla brevemente. Dopo l’armistizio e con l’occupazione di Roma da parte delle truppe tedesche, iniziarono i rastrellamenti di ebrei: per ogni ebreo consegnato dalla popolazione alla Gestapo era prevista una ricompensa di 5.000 lire (quasi lo stipendio annuo di un operaio). Dopo il 16 ottobre 1943, giorno della razzia nel ghetto di Roma, Celeste Di Porto, di umile famiglia, collaborò alla cattura di numerosi correligionari, al punto da guadagnarsi il soprannome di Pantera nera, essendo risaputo da ogni ebreo il “mestiere” di spia della ragazza, che all’epoca era poco più che diciottenne. L’arresto più noto fu quello del pugile romano Lazzaro Anticoli che, incarcerato in seguito alla delazione della Di Porto il 24 marzo 1944, incise con un chiodo sui muri della cella numero 306, del terzo raggio di Regina Coeli, la scritta: “Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mi è colpa de quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi”. Una tragica denuncia, espressa in poche righe. Nel pomeriggio di quel giorno il pugile venne ammazzato alle Fosse Ardeatine.
Le organizzazioni di soccorso ebraiche come la Delasem continuavano nel loro lavoro di ricerca per rintracciare i reduci e per aiutare i profughi che giungevano in Italia per imbarcarsi verso la Palestina. Nel mondo ebraico doveva serpeggiare una certa preoccupazione per questo loro continuo arrivo, aggiunto al timore di un rigurgito di antisemitismo anche in Italia, come traspare dalle colonne di Israel, che il 29 agosto 1946 riporta la seguente notizia: “Il Governo italiano sarebbe stato richiesto da quello americano di ammettere temporaneamente in Italia 25.000 profughi provenienti dalla Polonia, per i quali non c’è possibilità di accoglimento in Austria. Tali profughi sarebbero assistiti dalle organizzazioni alleate, principalmente dall’U.N.R.A., senza aggravio per l’Italia”.
Ancora più preoccupante si fece la situazione allorché l’Irgun Tzavai Leumi si assunse la responsabilità dell’attentato all’ambasciata inglese a Roma, questa volta ampiamente riportato anche dalla stampa non ebraica. I rappresentanti degli ebrei in Italia, la presidenza dell’Unione delle Comunità ebraiche con Raffaele Cantoni in testa, il Comitato profughi ebrei in Italia con Leo Garfunkel, la Federazione sionistica italiana con il suo presidente Carlo Alberto Viterbo reagirono immediatamente alla notizia smentendo qualsiasi legame con gli attentatori. Il presidente dell’Agenzia ebraica Umberto Nahon inviò una lettera al presidente del Consiglio De Gasperi esprimendo lo sdegno e i sentimenti di condanna per l’attentato. Il Congresso mondiale ebraico così si espresse sulle pagine di Israel del 28 novembre: “Le nostre autorità governative conoscono e apprezzano l’opera che anche in America i dirigenti del Congresso Mondiale Ebraico hanno svolto e vanno svolgendo per difendere il buon nome e gli interessi mondiali dell’Italia che risorge, nel mondo che la circonda. Infatti l’ospitalità che il governo italiano ha dato a decine di migliaia di profughi e continua a fornire loro, è stata molto apprezzata dal Consiglio Mondiale Ebraico e posta in rilievo presso tutti gli strati della popolazione americana e presso le autorità governative con le quali esso congresso in America è costantemente in contatto”.
Il governo italiano fu forse obbligato dalle autorità alleate ad accettare così tanti profughi? O forse voleva semplicemente essere identificato il meno possibile come Paese nemico che aveva perso la guerra? Se così fosse, anche i profughi ebrei vennero allora usati come fattore di mediazione, poiché anch’essi contribuirono a restituire all’Italia la dignità che aveva perduto con le leggi razziali, prima, e con la deportazione e lo sterminio dei suoi ebrei, dopo.
2. I codici testimoniali
La scrittura memoriale in Italia fu altrettanto frenetica; i libri sulla deportazione e sullo sterminio cominciarono a uscire quasi a ridosso degli avvenimenti, trentotto in tutto: due nel 1944, tredici nel 1945, diciassette nel 1946, tre nel 1947, due nel 1948 e uno nel 1950. Otto di essi furono scritti da ebrei.
In questo senso l’Italia rappresentò in Europa un caso unico. Come costituì un caso unico per i tre tipi di deportazione che incluse: quella politica, quella razziale e quella militare. Si calcola, per difetto, che furono almeno 32.820 i deportati politici, di cui soltanto il 10% sopravvisse, pari circa a 3.300; i morti furono quindi 29.500. Gli ebrei deportati raggiunsero il numero di 8.556 (dall’Italia e dal Dodecaneso), di essi 1.009 si salvarono, il numero dei morti fu quindi di 7.557, a cui vanno aggiunti i 303 ebrei uccisi nelle stragi razziali in Italia: il totale delle vittime sarebbe di 7.860, di cui 4.125 uomini e 3.735 donne. I militari italiani di ogni arma e grado deportati in Germania ammontano a circa 809.722 uomini, di cui 42.000 morirono nei lager; a queste vittime vanno aggiunti i 13.300 morti per l’affondamento nell’Egeo dei piroscafi che li avrebbero dovuti portare in Germania, i 6.300 militari uccisi su ordine di Hitler dall’Okw (Oberkommando der Wehrmacht) e i soldati – tra i 5.000 e gli 8.000 – morti o dispersi sul fronte orientale dove erano stati trasferiti: il totale in questo caso sarebbe di circa 69.700.
I libri di memorie che vennero pubblicati tra il 1944 e il 1950 ricostruiscono anche la mappa geografica della deportazione italiana nei campi di concentramento e di sterminio. I loro autori, ebrei e non ebrei, donne e uomini, giovani e meno giovani, ognuno con il proprio background sociale e culturale, catturati per delazione o più raramente durante rastrellamenti o come rappresaglia agli scioperi del gennaio e marzo 1944, furono incarcerati nella regione di cattura e dopo gli interrogatori e le torture furono trasferiti nei campi di concentramento e di transito italiani (Fossoli di Carpi, Bolzano-Gries, Risiera di San Sabba), e poi deportati nei campi di concentramento in Germania, Austria o Polonia, classificati come Politisch (prigioniero politico) o Schutzhäftling (prigioniero per motivi di sicurezza), talvolta nell’una o nell’altra categoria a seconda degli spostamenti da un lager all’altro. Per i deportati politici non era prevista l’eliminazione immediata, come per gli ebrei, ma lo sfruttamento fino alla morte. Venivano da molti campi di concentramento e di sterminio: Allach, Ascherleben, Auschwitz-Birkenau, Bad Gandersheim, Bergen Belsen, Buchenwald, Dachau, Dora, Ebensee, Floridsdorf, Flossenbürg, Gusen, Hersbruck, Innsbruck, Kamenz, Klessheim, Kotten, Linz, Malkow, Melk, Mauthausen, Monowitz, Natzweiler, Nordlingen, Punsen, Ravensbrück, Schönberg, Schwechat, Zwickau, Zwieberge.
Tra i libri sussistevano grandi somiglianze, ma anche rilevanti differenze, sotto ogni punto di vista. Se, infatti, le motivazioni che spingevano a scrivere erano solitamente comuni, l’esperienza era sempre individuale, rispecchiando i modi e le forme in cui la prospettiva personale guidava ogni racconto. Solo una piccola minoranza di superstiti riuscì a scrivere anche durante la prigionia: perché scr
Giuseppe Bartoli –Militare antifascista, Partigiano, Autore del libro il libro
-Edizioni Zero Lire-
25 aprile
. 25 APRILE
L’importante è non rompere lo stelo
della ginestra che protende
oltre la siepe dei giorni il suo fiore.
C’é un fremito antico in noi
che credemmo nella voce del cuore
piantando alberi della libertà
sulle pietre arse e sulle croci.
Oggi non osiamo alzare bandiere
alziamo solo stinti medaglieri
ricamati di timide stelle dorate
come il pudore delle primule:
noi che viviamo ancora di leggende
incise sulla pelle umiliata
dalla vigliaccheria degli immemori
Quando fummo nel sole
e la giovinezza fioriva
come il seme nella zolla
sfidammo cantando l’infinito
con un senso dell’Eterno
e con mani colme di storia
consapevoli del prezzo pagato
Sentivamo il domani sulle ferite
e un sogno impalpabile di pace
immenso come il profumo del pane
E sui monti che videro il nostro passo
colmo di lacrime e fatica
non resti dissecato
quel fiore che si nutrì di sangue
e di rugiada in un aprile stupendo
quando il mondo trattenne il respiro
davanti al vento della libertà
portato dai figli della Resistenza.
Giuseppe “Pino” Bartoli- “Il fiore della libertà”
AD UN PARTIGIANO CADUTO
E’ un fiume di ricordi ormai amico
la strada che conduce
a quei giorni lontani di smeraldo
dove sostammo come creduli ragazzi
a creare coi sogni nelle vene
fantasie di speranze e di parole
fra pugni di “canaglie in armi”
Forse potrei dimenticare il giogo
che mi lega all’arco dei rimpianti
se soltanto le voci dei compagni
tornassero a cantare
come quando la vita dilagava
e tu portavi alla gioia di tutti
il tuo sorriso di fanciullo
e la forza serena dei tuoi occhi
Ma anche se il tempo non ricama
che fili d’ombra sulla memoria
e il tormento di quell’assurdo giorno
quando attoniti restammo
davanti alla pietà della tua forca
è pur sempre l’ora della tua lotta
del tuo caldo vento di libertà
immenso come grembi di colombe
in volo fra fiori d’acquadiluna
Tu solo amico adesso
puoi scegliere i ritorni
e dirci ancora
col battito delle tue ali
le bellezze della vita
e le dolci innocenze della morte.
NOI CHE CADEMMO
Fummo una zolla qualunque
al taglio del vecchio aratro
che il nuovo trattore ferisce
inpianto, sudore e lavoro
Ora ascoltiamo i sospiri
di neri e snelli cipressi
dipinti da soffi di sole
in chicchi di riso azzurrino
che l’acre piovasco flagella
Viviamo in bellezze di morte
fra pioppi inclinati sul rio
E siamo la gialla pannocchia
che nutre la fame del povero
che accende la fede nell’uomo
Siamo promessa di pace
che tesse tovaglie d’altare
e bianchi lini di sposa
per alta promessa di vita
…………………………………….
noi che cademmo a vent’anni
nel sogno sublime dei liberi.
CA’ DI MALANCA
Se non sai leggere
negli occhi rossi
delle ginestre
nate dal sangue
della libertà
la muta preghiera
che scuote le catene
dei tiranni . . . .
Se non t’inginocchi
sulla brace
della carne accesa . . . .
Se non piangi
sui muri di corallo
delle case arse
e se non baci
la paglia insanguinata
dalle vene di tuo fratello
sei solo un fardello inutile
che non paga
il giusto prezzo ai Morti
Solo quando capirai
tutto questo . . . .
Solo quando ricorderai
come mordevi con dente di lupo
l’ultimo pane
nel cavo della mano contadina
potrai rivivere
quella primavera colma di rosso
per il primo fiore della Libertà
Giuseppe “Pino” Bartoli
I MORTI ASPETTANO UN RAGAZZO DAGLI OCCHI DI SOLE LA MÖRT ED CURBERA LA MORTE DI CORBARA I DISCORSI D’ALLORA A CRESPINO LA DISFATTA UN BARATTOLO DI LATTA UNA FARFALLA DI CENERE
INTRODUZIONE
Udimmo il tonfo delle rane
negli alti silenzi dei meriggi
e il respiro lieve dei cavalli
nelle estese vele delle notti
gonfie di lucciole e di fremiti
Sulle nostre tavole di fieno
abbiamo mangiato
lacrime e canti
fra grappoli di rondini
in giostra nel cielo
Udimmo la scure abbattersi
sui letti deserti dei boschi
mentre carri di ricordi
si trascinavano lenti
Poi arrivò l’alba
d’una rossa primavera
con brezze di mandorli avvolte
nell’immemore pianto della terra
Tornammo dalle nostre madri
dopo una lunga notte insonne
intonando canti senza dolore
Le culle delle foglie
che ci furono compagne
raccolsero il vagito
della rinata libertà
e sui crateri di sangue
– scavati –
dalla nostra lotta
mani nude di orfani
sfidarono il cielo
Dal buio delle fosse
vergini di croci
gli occhi spalancati
dei partigiani caduti
si chiuderanno solo
se la loro speranza
diventerà la nostra.
Sono tornato dove un ragazzo
dai grandi occhi di sole
ha maturato le sue radici
Sono tornato dove abbiamo
sepolto la nostra giovinezza
e dove il nome di battaglia
nasceva tra bagliori di fuoco
Ed ho ritrovato la mia estate
L’estate dei ramarri sui muri
la fionda dall’elastico rosso
i piedi scalzi color di terra
e tutta la luce del giorno
a tingerci d’ambra le mani
Qui “giocavamo” alla guerra
fra siepi di rovi e di more
dietro lo scudo delle foglie
povera “canaglia” della libertà
inerme come grembi di colombe
Raccogliemmo morte e mirtilli
e tra cappotti di lune rosse
rubammo l’oro alle lucciole
Quando tua madre ingobbita
come la collina che ti colse
soffocò l’urlo e i singhiozzi
nella “tana” d’uno scialle nero
per te cantarono le cicale
e si schiusero nidi di viole
C’era un profumo di ginestre
nel cielo della tua ultima estate
Ora ti guardo senza piangere
compagno dagli occhi di sole
e mi chiedo se non fu fortuna
quel tuo andartene allora
col freddo sudore di morte
sul tenerume delle labbra
ancora ebbre di latte materno
Te ne andasti e forse fu meglio
perchè adesso solo le pietre
urlano come monumenti nudi
e perchè ragazzo senza nome
siamo ormai pochi a ricordare
il “sorriso” delle tue tenere vene
che si svuotavano come calici
per l’ultimo brindisi alla vita.
I s’arbuteva coma spig’d grân Si rovesciavano come spighe di grano
cun del biastèm che pareva preghir con delle bestemmie che sembravano preghiere
e vers e’ zêl e verso il cielo
pal’d s-cióp spudedi fra i dént palle di schioppo sputate tra i denti
l’andeva e’nom’d Maria e chietar sént andava il nome di Maria e degli altri santi
E prèm a caschê e fo Curbera Il primo a cadere fu Corbari
e par la bòta e per il tonfo
o tremê la tëra e o fo sobit sera tremò la terra e fu subito sera
A lé stuglé, ribèl senza pio’ él Lì disteso, ribelle senza più ali
u raspeva da e’ mêl raspava dal male
cun cla manaza grânda e cuntadéna con quella manaccia grande e contadina
……. bôna l’era la tëra ……….. ……………… buona era la terra
grasa e féna ……………. grassa e fine
Raspa Curbera, raspa stvò truvé Raspa Corbari, raspa se vuoi trovare
l’eteran cunzem dla libartê: l’eterno concime della libertà:
e’ sangue rumagnöl il sangue romagnolo
cla imbariaghê ogni côr che ha ubriacato ogni cuore
Strèca, strèca la tëra Stringi, stringi la terra
l’è sèmpar cl’udôr è sempre quel profumo
l’è sèmpar l’amôr dla stesa mâma è sempre l’amore della stessa mamma
cut fa da lët pövar fiol’d Rumâgna che ti fa da letto povero figlio di Romagna
Strèca ed elza la tësta, so canàja! Stringi ed alza la testa, su “canaglia”!
L’as drèza la camisa sanguneda Si alza la camicia insanguinata
la pê ôn lôm a Mérz, lôm’d premavera sembra un lume a marzo, lume di primavera
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera è bello finire la vita per una bandiera
E cvànd che la prema sfója’d sôl E quando la prima sfoglia di sole
la spôrbia d’ôr tota la campagna spolvera d’oro tutta la campagna
e’partigiân e mör il partigiano muore
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén Vicino a lui un popolo di contadini
o prega e o biastèma a tësta basa prega e bestemmia a testa bassa
Sôra a lô na bânda d’asasén Sopra di lui una banda d’assassini
la rid cun la vargôgna in faza ride con la vergogna in faccia
E’ sôl c’nas e dà vita a la brèza Il sole che nasce da vita alla brezza
nud coma Crèst, inciudê tna trèza nudo come Cristo inchiodato in una treggia
e pasa per l’amiga campâgna passa per l’amica campagna
l’ultum re dla muntâgna l’ultimo re della montagna
Brigant dla libartê e preputént Brigante della libertà e prepotente
ma s-cét com l’è s-cét la su zént ma schietto come è schietta la sua gente
s-cét coma i nost dê pasê bsén el stël schietto come i nostri giorni passati vicini alle stelle
fra e’ piânt’d mâma e cvèl de parabël tra il pianto di mamma e quello del parabello
(1) Silvio Corbari, medaglia d’oro della Resistenza.
Parlavamo di noi
quando la sera maturava
la stanchezza del giorno
e le contadine velate di nero
raccontavano al cielo
i guasti della pioggia
del vento e della guerra
Parlavamo di noi
all’acqua vergine di fonte
mescolando al grattare del mitra
la ragione di crederci uomini
e il diritto di lasciare
alle bestie da soma
il vanto pesante del basto
Parlavamo d’idee
mescolando bestemmie
ai rosari di pietra
per lasciare lontano l’inverno
che marciva nei solchi
e la fame
che uccideva le ultime favole
negli occhi dei bambini
Parlavamo di noi
cercando nei boschi la vita
e nei sentieri di piombo
le nostre radici di uomo
Parlavamo di noi
quando albe di fuoco
scoprivano i nostri fantasmi
già stanchi al primo mattino
già vecchi a soli vent’anni
Parlavamo del nostro domani
davanti alla salma nuda
d’un compagno caduto
e ad un ventre di terra
– che ingoiava –
le noste tenere radici
lasciandoci in bocca
la voglia rabbiosa
d’un tempo migliore
in cui ancora sperare
Giuseppe “Pino” Bartoli
Vennero i giorni della primavera
La terra si coprì d’allegria
cantò tutti i colori del cielo
andò a piangere sui seminati
Nell’antica valle del Lamone
fiorì il natale sacro dei ciliegi
e le spighe in curva preghiera
baciarono il rosso dei papaveri
I campi non furono più tristi
quando sopra sbocciarono gentili
le rose selvatiche del maggio
Nessuno parlava di morte
fra le spine dei rossi lamponi
Ma la morte era in ogni pietra
nel filo dell’erbe e delle foglie
La morte vagava lungo il fiume
negli occhi delle bestie inquiete
nel taglio affilato della scure
E venne il giorno del martirio
sull’inerme cuore contadino
sulle mani rotte dal lavoro
sulla vanga ancora impastata
di buona terra e sacro sudore
Quando i barbari furono pronti
tacque il mormorio dell’acque
e una nube scura salì al cielo
a nascondere la rosa del sole
Le mani strinsero altre mani
Le parole e un pianto disperato
narraron sogni e favole smarrite
e negli occhi grandi delle madri
si posò il bacio dei figli
E l’ultimo pensiero andò lontano
ai fuochi spenti alla terra arata
all’oro reciso delle spighe
e ai giorni senza più domani
ai canti che si spegnevano
a loro che salivano il Calvario
e a noi, a noi, che siamo rimasti
a cogliere i frutti d’una stagione
nata da vittime innocenti
Era l’intera valle delle Scalelle
e dei castagni sacri a Campana
che consumava l’ultima ora
Non li chiamavano per nome
per non spaccare la cesta dell’odio
Un cenno, una spinta, un urlo
e la morte li coglieva sul petto
unendo il gemito di chi andava
all’angoscia di chi attendeva
Il campo diventò bara immensa
nel tiepido meriggio estivo
Noch ein! Noch ein! Noch ein!
Ancora uno! Ancora uno! Ancora uno!
E un colpo dopo l’altro
rompeva il grido della carne viva
e il sangue si fondeva in grumi
nel rosario dei ceppi delle mani
nella coppa umida della terra
Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido
– lontano –
oltre la malinconia dei roveti
un requiem di coralli accesi
si scaldava al lume delle case
e noi,, noi, quelli ancora vivi
attendevamo un “nuovo” mattino
P.S. Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Io non ho perso la guerra quando combattevo
nella nuda terra africana
seppellito come un pidocchio
dentro una gabbana
fatta di sabbia e di sete
mangiando cavallette
Io non ho sporcato
l’argento delle mie stellette
nella steppa russa
mordendo con dente di lupo
le ossa condite di ghiaccio
dei miei fratelli caduti
Io perdo ancora la guerra
tutte le volte che penso
a me e agli altri ragazzi
che col fucile in mano
tenevamo Anna Frank
sepolta in una soffitta
E fra l’occhio spento del cielo
e l’odio assassino della terra
l’ebrea costruiva col sangue
quel monumento di pace
che schiaccia ancora adesso
l’anima di tutti i boia
Quella si che fu la vera disfatta
il marchio d’una sconfitta
che mi urla sempre addosso
con una bocca larga
come una camera a gas
La stella dalla coda
aveva appena perso
l’ultimo filaccio
ancora pregno di sangue
Adesso il mondo
poteva piangere
rannicchiato
fra gli spigoli
delle case arse
Ma un bambino
aveva tanta
tanta voglia di vivere
di correre sulla rugiada
che non appassiva più
sulla terra dischiusa
Cercava un barattolo
per giocare a palla
per capire dal suono
di quel giocattolo
che rideva fra i sassi
che il macello era finito
Ma nessuna luna d’argento
– rotolava –
sul grembo della terra
e allora spense
i suoi piedi nudi
fra spine di pietra
e diventò subito un uomo
Sarà festa grande
al taglio del maggese
per coriandoli di farfalle innamorate
libere dalle culle
dell’amore agreste
Voleranno
verso la vela
tenera del cielo
tra grida pulite
di bambini
frammenti ansiosi
d’albe serene
nati dalla brace
della carne accesa
E tornerà puntuale
il ricordo
della bimba di Bologna
che sognava
una farfalla di fiordaliso
da chiudere
nella gabbia del cuore
Vedo la sua immagine
dibattersi prigioniera
fra i rovi delle schegge
come rosa di macchia
nella siepe
Ogni anno
– per non dimenticare –
un filo di calendule d’oro
illuminerà
il sentiero di cenere
grigio
come la dolcezza
d’un settembre
Angela
non rivedrà più
gronde di luna
né si scalderà
all’abbaino del sole
con occhi
di passero sperduto
Di lei resta solo
un volo immenso
di cenere
che si posò leggero
sui suoi capelli
“come solinga
lampada di tomba”
Giuseppe “Pino” Bartoli
Qualcuno di fronte a questa pubblicazione potrebbe intanto giustamente chiedersi a cosa serve la poesia. Rispondo con una frase dello scrittore americano William Carlos Williams laddove afferma che «niente di utile si trova nella poesia, ma l’umanità sta morendo miseramente ogni giorno per mancanza di ciò che si trova nella poesia». Pur ritenendo valido questo concetto si potrebbe pensare che la poesia possiede uno status specifico che la destina, lo si voglia o no, ad un pubblico di elite, a ristrette minoranze.
Ma così non è.
Abbiamo intanto un ricco patrimonio di versi dia-lettali che affonda le sue radici proprio nell’animo più popolare della nostra gente. E’ sufficiente ricorrere al lirismo di Aldo Spallicci o alla satira di Olindo Guerrini, alias Stecchetti, che esaltano la sensibilità più riposta e il diapason spirituale dei romagnoli, per capire l’importanza e il valore di immagini espressive che si richiamano alla fatica e al dolore dell’uomo, all’amore per la propria terra e le proprie tradizioni, concetti questi ancora profondamente radicati nell’animo più schietto del popolo.
La poesia è anche pensiero e fantasia, immagine e sentimento e lo sarà sempre fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Ed è proprio partendo dalla grande tragedia dell’ultima guerra che intendo dipanare il filo delle mie parole evidenziando, in particolare, l’olocausto di milioni di persone che assieme all’antifascismo, va visto come il substrato della Resistenza.
Ho avut o modo di leggere poesie scritte da bambini che hanno vissuto, prima di essere polverizzati nei lager tedeschi, momenti dilaganti di morte e disperazione. Si può cogliere in questi scritti una testi-monianza d’amore, un grido di condanna, un canto di speranza, un anelito di libertà che trascende la ricerca stessa della vendetta. Sono versi che diven-tano humus e linfa vitale offrendosi ad un’epoca in cui l’uomo barcolla alla ricerca di una luce che rischiari sentieri futuri per non morire per sempre.
Sentite cosa ha scritto, prima di entrare nei forni crematori, un ragazzo di quattordici anni: “Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza quando cammini tra la natura per intrecciare ghirlande con i tuoi ricordi e anche se le lacrime ti cadono lungo la strada vedrai che è bello vivere”
E non va dimenticato neanche il monito del piccolo ebreo Hanus “gasato” ad Auschwitz quando dice “che l’uomo non deve più lasciarsi riprendere dal sonno”. E il sonno in questo caso significa accettare supinamente le libertà perdute.
Ed Alena Synkova sogna orizzonti di pace, pur sapendo di dover morire, lasciandoci questi versi: “Vorrei andare sola dove c’è altra gente migliore in qualche posto sconosciuto dove nessuno uccide” Ho voluto di proposito far precedere alle mie poesie le stupende parole di alcuni dei tanti ragazzi che con il tappeto delle loro ceneri innocenti prepararono la Resistenza di tutta Europa. C’è una poesia che per il suo alto contenuto va inclusa in questa breve documentazione. Non è mia, ma del poeta siciliano Ottavio Profeta. “Se la mia voce morirà sulla croce di pietra cittadina portatela sulla cima del mio monte che s’alza nel vento e si corica nella nebbia Se la mia voce morirà nella mia pianura cercatela nel canneto nella conchiglie del mare e nell’acqua del fiume Se la mia voce morirà ridatemela viva fra gli alberi del bosco dove ogni sera canta un usignolo” –
Disegni di Terezin: l’Olocausto visto dai bambini
Tornando ai bambini di Terezin e degli altri campi di sterminio, è sorprendente constatare la consonanza della poesia con la natura del fanciullo, il gusto estetico essenzialmente contenutistico, che non disdegna l’aspetto formale, le continue trasfigurazioni in immagini semplici e profonde. L’età evolutiva rivaluta il suo copioso scrigno di sogni. di intuizioni, di amore. Nel caso dei ragazzi di Terezin, il realismo è esaltato dalla virtù della speranza. Di fronte al bivio del “day after”, la storia e la poesia ripropongono la missione millenaria dell’umanità che si può sintetizzare in pochi versi: “…..e la speranza libera dalla gabbia colorerà la nebbia delle ore”. Questa pubblicazione, voluta dalla Comunità Montana nell’ampio quadro delle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza, è indirizzata, in particolare, verso i ragazzi affinchè il ricordo dei loro coetanei che si aggiravano come passere bianche tra i fili spinati dei campi di prigionia, non sia dimenticato. Siamo di fronte alla tragedia di una adolescenza senza dimensione che va vista come un bozzolo di sole spento da uomini in delirio. L’olocausto dei ragazzi polverizzati nelle camere a gas, fu forse segno d’incantesimo, di cenere che s’innalzò come un vortice sulla notte di una civiltà calpestata. Ognuno di noi deve finalmente capire che l’innocente battito d’ali e il solco di terra che “annegava” tenerezza di ossa, appartiene all’umanità tutta come un monito tremendo.
«…..non è più tempo amico di trascinare uomini col giogo sui «Golgota» affamati di croci Non è più tempo delle gioie né di rimembranze serene se capisci che affondi i piedi sul sangue degli innocenti Resta coi bambini di Terezin e vedrai che dopo la lunga notte i licheni tenaci della libertà chiuderanno le crepe profonde delle nostre coscienze stanche» –
Giuseppe “Pino” Bartoli
Breve biografia di Giuseppe “Pino” Bartoli, nato a Brisighella il 18/07/1920 e deceduto il 20/06/2004. Ex Ufficiale di Stato Civile ed ufficiale della formazione partigiana “Silvio Corbari”, grado riconosciutogli dal Ministero della Difesa, ha ricoperto, nel comune di Brisighella, tutti gli incarichi pubblici: Sindaco, Presidente della Comunità Montana, della Pro Loco, delle Opere Pie e del Museo del Lavoro Contadino. Poeta in lingua e vernacolo nonché prosatore, si è affermato in oltre 500 concorsi letterari, molti dei quali di livello nazionale ed internazionale. Cavaliere della Comunità Poetica Europea e Commendatore dell’Ordine Militare di S.Andrea, socio di 10 Accademie di lettere, arti e scienze, ha conseguito per due volte l’Oscar di Letteratura “Romagna”.
In sua memoria, si tiene annualmente un concorso di poesia, elaborati, disegni, ceramiche, ecc. riservato agli
Giuseppe “Pino” Bartoli
quei giovani in cui Giuseppe riponeva la sua speranza per il futuro e che credeva fossero la gioia più bella del mondo.
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Piero Calamandrei
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
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L’autore
Piero Calamandrei
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
David Maria Turoldo- Poesie di un prete “ Resistente”
Biografia di David Maria Turoldo nasce il 22 novembre del 1916 a Coderno, in Friuli, nono di dieci fratelli. Nato come Giuseppe Turoldo, a tredici anni entra nel convento di Santa Maria al Cengio per far parte dei Servi di Maria, a Isola Vicentina, là dove si trova la sede del Triveneto della Casa di Formazione dell’Ordine Servita. È qui che trascorre l’anno di noviziato; dopo avere assunto il nome di fra’ David Maria, emette la professione religiosa il 2 agosto del 1935. Nell’ottobre del 1938 pronuncia i voti solenni a Vicenza.
David Maria Turoldo
Gli studi accademici
Intrapresi gli studi di teologia e di filosofia a Venezia, nell’estate del 1940 Turoldo viene ordinato presbitero nel santuario della Madonna di Monte Berico dall’arcivescovo di Vicenza ,monsignor Ferdinando Rodolfi. Nello stesso anno viene inviato a Milano, al convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo al Corso.
Per circa un decennio si occupa di tenere la predicazione della domenica in Duomo, su invito dell’arcivescovo Ildefonso Schuster, mentre insieme con il suo confratello Camillo de Piaz, compagno di studi nell’Ordine dei Servi, si iscrive all’Università Cattolica di Milano. Qui David Maria Turoldo si laurea l’11 novembre del 1946 in filosofia con una tesi intitolata “La fatica della ragione – Contributo per un’ontologia dell’uomo”, con il professor Gustavo Bontadini. Quest’ultimo successivamente gli propone di diventare suo assistente presso la cattedra di Filosofia Teoretica. Anche Carlo Bo gli offre un ruolo come assistente, ma per l’Università di Urbino, cattedra di Letteratura.
Dopo aver collaborato in modo attivo con la resistenza antifascista in occasione dell’occupazione nazista di Milano, David Maria Turoldo dà vita al centro culturale Corsia dei Servi e sostiene il progetto del villaggio Nomadelfia fondato nell’ex campo di concentramento di Fossoli da don Zeno Saltini.
David Maria Turoldo negli anni ’50
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta pubblica la raccolta di liriche “Io non ho mani”, con cui si aggiudica il Premio letterario Saint Vincent, e l’opera “Gli occhi miei lo vedranno”, proposta nella collana Lo Specchio di Mondadori.
Nel 1953 Turoldo è costretto a lasciare Milano, e si trasferisce prima in Austria e poi in Baviera, dove soggiorna presso i conventi dei Servi locali. Nel 1955 viene trasferito a Firenze, al convento della Santissima Annunziata, dove ha modo di conoscere il sindaco Giorgio La Pira e padre Ernesto Balducci.
Obbligato ad andare via anche dal capoluogo toscano, dopo un periodo di peregrinazioni lontano dall’Italia torna in patria e viene assegnato a Udine, al convento di Santa Maria delle Grazie. Nel frattempo si dedica alla realizzazione di un film, con la regia di Vito Pandolfi, intitolato “Gli ultimi” e tratto dal suo racconto Io non ero fanciullo. La pellicola, che rappresenta la povertà della vita rurale in Friuli, viene presentata nel 1963 ma non apprezzata dal pubblico locale, che la considera poco rispettosa.
Gli ultimi anni
In seguito Turoldo individua nell’antico Priorato cluniacense di Sant’Egidio in Fontanella un luogo in cui dare vita a un’esperienza religiosa comunitaria nuova, che coinvolga anche i laici: vi si insedia il 1° novembre del 1964, dopo aver ricevuto il consenso di Clemente Gaddi, il vescovo bergamasco.
Qui fa costruire una casa per l’ospitalità, che prende il nome di Casa di Emmaus in riferimento all’episodio biblico della cena di Emmaus, con Gesù che si manifesta ai discepoli dopo essere risorto.
Alla fine degli anni Ottanta David Maria Turoldo si ammala per un tumore al pancreas: muore all’età di 75 anni il 6 febbraio del 1992 a Milano, nella clinica San Pio X. I funerali vengono celebrati dal cardinale Carlo Maria Martini, che pochi mesi prima aveva assegnato a Turoldo il Premio Giuseppe Lazzati.
“Il caso Turoldo” di Davide Toffoli, (Ladolfi, 2021)
A cura di Gisella Blanco
Due occhi che puntavano come spade, così come fa la dolcezza più tagliente. David Maria Turoldo, il poeta prete “rosso”, è stato l’autore su cui è ricaduta la scelta del titolo della tesi di Davide Toffoli, laureando in Lettere a Roma con Biancamaria Frabotta. Con questa curiosa narrazione, una “anomala prefazione”, formata attraverso gli scambi su Whatsapp della stessa Frabotta con Toffoli, inizia il saggio “Il caso Turoldo – Liturgia e poesia di un uomo”, pubblicato per Ladolfi Editore nel 2021.
Scegliere ciò che poteva essere “altro da sé” in modo radicale era uno degli intenti di Toffoli che, di certo, al momento della decisione, non avrebbe immaginato la “comunione”, seppur laicissima, che si sarebbe venuta a creare tra lui e questo misterioso poeta del Novecento italiano. Con la vestitura, Turoldo scelse due nomi emblematici con i quali da quel momento in poi si sarebbe fatto chiamare: David, il giovane pastore vittorioso su Golia, e Maria, la madre di tutti da cui apprendere l’arte della parola, il “linguaggio dell’Amore”.
Turoldo era un frate antifascista che, però, vedeva nella vita un valore da tutelare in senso sovrapartitico, era un innovatore che desiderava cambiare l’inaccessibilità linguistica della funzione religiosa, era un frate per cui la fede è “entrare in conflitto”.
La sua poesia era un tutt’uno con la vita, le azioni, la resistenza, le iniziative filantropiche, il cinema, gli articoli di giornale, le omelie: “Nessuno creda che si possa staccare la poesia dalla vita; la poesia non è un esercizio letterario”. E, in effetti, come ha specificato Fernando Bandini, “parlare della poesia di padre David coi puri strumenti della critica letteraria, esaminare i suoi testi come mero discorso poetico separandoli dalla testimonianza della sua vita, non sarebbe un’operazione legittima”. Se interpretare i testi di un autore anche attraverso la sua biografia è atto di per sé insidioso, poiché può condurre a rintracciare nelle parole ciò che in effetti non vi risiede, in linea per altro con il pensiero strutturalista, nel caso di Turoldo non si potrebbe fare altrimenti, essendo la sua poetica legata a doppia mandata alle vicende e alle attività di un vissuto sorprendente ed estremamente ricco di esperienze.
“Il poeta è un crocefisso, è un profeta, un povero e grande uomo, molto raro. Così sarà la poesia a salvare il mondo, o meglio, anche la poesia”, e ancora: “Essere cristiani vuol dire essere uomo che resiste anche in funzione della società”, affermava Turoldo, fermamente convinto di come la fede cristiana, e Dio, potessero non risiedere sempre nei dettami della Chiesa. D’altronde, non gli interessavano la figura istituzionalizzata del prete, i giochi di potere istituzionalizzati, i ruoli stereotipati che non avessero una reale base sociale: Turoldo portava scompiglio, metteva in dubbio le piramidi ecclesiastiche e pungolava le coscienze a tutte le latitudini:
“Finalmente ho disturbato la quiete di questo convento altrove devo fuggire a rompere altre paci”.
Con l’amico, confidente e compagno di avventure Padre De Piaz, tra le varie imprese condivise, c’è la proposta della messa in italiano, affinché il sacerdote non fosse l’unica parte attiva della celebrazione. Pur non essendo un prete moderno, poiché era molto attaccato alla tradizione come necessaria sorgente di novità, le sue idee non avevano timore di andare in contrasto con dogmi, preconcetti e ingiuste disuguaglianze. Come specifica Frabotta, tra le voci poetiche per lui più incisive Toffoli individua un poeta come Giorgio Caproni, la sua patoteologia ultima, la sua ricerca dell’inesistenza di Dio per rintracciarne la radice più profonda – e per questo nascosta – nel dramma della condizione umana.
“Sia in Caproni sia in Turoldo si respira la necessità di perdersi, di smarrirsi, per cercare di trovarsi realmente e la consapevolezza che mai si può approdare a qualcosa di effettivamente definitivo. Anche il paesaggio, del resto, li accomuna: una sorta di non luogo che potrebbe essere ovunque (di sicuro lontano dal caos cittadino) e che mette l’uomo in ascolto e al cospetto di se stesso”, sostiene convintamente Toffoli.
Un esistenzialismo kierkegaardiano che non si limitava all’osservazione del disfacimento del reale ma provava a trovare non solo una chiave di lettura teologale ma anche fattiva, in quell’operosità concreta per la quale il suo insegnamento risulta sincero anche alle analisi più scettiche.
I suoi versi, la cui scrittura proteiforme si mostra incredibilmente coesa a livello formale, nonostante il lasso temporale ampio – gran parte della sua vita – che ha interessato la sua attività letteraria, è ricca di umanissime palinodie e continui, legittimi ripensamenti ideali su Dio, sul concetto di divinità, sull’uomo e sul rapporto tra dio e l’uomo.
Lungo l’asse – articolato e fin troppo eterogeneo, forse, per essere unificato – della poesia religiosa del Novecento, tra Rebora, Betocchi, Guidacci e Testori per fare solo alcuni dei nomi più rilevanti tra cui, di certo, c’è anche Turoldo, ma senza dimenticare lo stesso Caproni, e Ungaretti e Luzi, si possono indagare, nella poesia di Turoldo, grandi ascendenze da quell’ermetismo esistenziale che ha fatto emergere alcuni dei linguaggi più eleganti e più penetranti del Secolo Breve.
Eppure, è all’Infinito di Leopardi che Turoldo si riferisce per individuare nel suo contraddittorio e talvolta lugubre Nulla una specie d’eternità che atterrisce e incanta gli esseri viventi, protési in un continuo spasmo verso la speranza, che talvolta coincide con la bellezza, forma più compassionevole e gioiosa del sublime leopardiano. Ma per Turoldo, “se vuoi vedere Dio, devi guardare in faccia un uomo”.
Un uomo, non l’uomo bensì un singolo individuo qualunque, mostruoso e peccatore che sia. Un messaggio che, in favore di una misericordia profondamente fondata sulla realtà, propone un’immagine di dio che soffre e compartecipa delle fragilità del proprio creato. Tutti concetti che sono compatibili con l’altra linea stilistica che, pur non coincidendo pienamente con la scrittura di Turoldo, ne sanciva alcuni degli aspetti formali e, cioè, un “rarefatto realismo”, come ebbe a commentare Zanzotto.
Anche in base a ciò, non stupisce la grande amicizia con Pasolini, con cui condividevano molti topoi delle loro poetiche, seppur con svariate differenze di postura autoriale. Il tema della madre, per esempio, se per Pasolini era elaborato come dramma di non sentirsi mai del tutto uscito dall’utero materno, per Turoldo era la ricerca di una figura originativa, dalle sembianze marianiche e dal timbro non solo educativo ma anche rassicurante. Il Friuli, terra d’origine di entrambi i poeti, era un paesaggio idilliaco, insieme interiore ed esteriore, da cui ritrovare nuovi approdi luminosi.
Il profetismo engagé, pregnante in ambo le poetiche, era forse semplicemente una riflessione così imperniata nel presente da mettere in luce il probabile futuro di tutti. Il cinema era una passione comune, e la ricerca disperata di Dio non lasciava scampo né a Pasolini né a Turoldo, ciascuno con il proprio modo di intendere la divinità anche in base alla percezione del corpo personale e di quello sociale. Se la parola poetica di Pasolini, secondo lo stesso Zanzotto e Agosti, era “fuori di sé”, distorcente anche per via delle ibridazioni con la cronachistica, quella di Turoldo rimase “in sé”, seppur sempre mutevole ed eterodossa.
Le esperienze di Turoldo, dalla missione nei lager, assieme a Camillo De Piaz, in cui sperimentò di camminare sulla “sabbia dolente” degli intrasportabili, uomini bruciati sul posto e, soprattutto, durante la quale si rese conto non solo dell’ostruzionismo ma della corruzione delle autorità italiane, americane ed ecclesiastiche, fino all’avventura di Nomadelfia come vita comunitaria che non piacque al Vaticano per lo “scandalo della fratellanza”, furono molteplici e attivamente politiche, e, per questo, misero in luce gli aspetti più biechi dell’organizzazione della Chiesa, nonché i suoi rapporti non sempre lineari con lo Stato.
Anche l’incontro con Don Milani, altro prete tutt’altro che canonico, fu di grande rilievo, così come l’opinione di Turoldo sul caso Moro e, in generale, sulla possibilità che la cristianità non fosse monopartitica e non si identificasse in modo cieco e ben poco spirituale con una sola fazione politica. La sinistra cattolica, esperienza breve ma significativa cui Turoldo aderì con convinzione, fu l’emblema di come sia possibile, benché complicato, mantenere la propria integrità valoriale contro il pensiero imposto dai gruppi di potere, finanche quelli religiosi.
Nelle opere inerenti all’ultima parte della sua vita, in cui Turoldo fu colto da una grave malattia, il referente, il tu, è sempre più chiaro e, insieme, più dubitativo: dio o non dio?
È dio, ma è anche il sé annichilito – o esaltato – dai sovrumani silenzi leopardiani in cui l’infinito è sostituito da un nulla che atterrisce sia l’uomo che la divinità. Una “alterità che incombi dentro la parte più profonda di noi”. Il Nulla li inerisce entrambi, uomini e divinità, li spaura e ne fa emergere il valore reciproco. Il Grande Male, onnipresente, è anche il piccolo “mio male” di ogni giorno.
Il timore della inutilità del quotidiano fa da contraltare alla paura della morte, un calice amaro necessario, talvolta salvifico, che avvicina il poeta all’esperienza di Cristo (“un volto cercato da tutte le fedi”, ecco che Turoldo dà una soluzione al rapporto tra i non fedeli e Cristo), pur rimanendo uomo e vivendo il dubbio che ha attraversato tutta l’esistenza turoldiana e ne ha reso l’opera trasversale a credenze e fedi.
Il dubbio, d’altronde, “è gravido”, sprona non solo al dialogo con il dio ma anche e soprattutto al confronto. Un confronto violento, reso con l’audace metafora degli amanti (tema comune con Testori) che non trovano pace, e rintracciano nella tensione al tradimento e al peccato gli estremi gesti di richiesta d’amore:
“O forse il peccato è un gesto folle per cercarti? Pace non c’è per gli amanti,
lo sai!”.
E ancora:
“Almeno un poeta ci sia per ogni monastero: qualcuno che canti le follie di Dio”:
Così compare un dio che si strugge per l’infelicità e la malattia dei suoi uomini, insalvabili per il loro stesso agognato libero arbitrio. E il poeta è sempre più vicino alla figura cristica, terrena, carnale, disperata.
Turoldo torna all’idea tormentata della necessità di distruggere la divinità per riacquisirne la prossimità ontologica, in un percorso condiviso con il fratello ateo: ecco che Padre Turoldo, sul letto di morte, ha saputo parlare al proprio dolore, e a quello di tutte le donne e di tutti gli uomini, anche non credenti – compresa chi scrive – ma che condividono con lui, cercatore del Verbo tra le parole del creato, il difficile cammino nella coscienza, fideistica e non, in un moto di compassionevole empatia sovrareligiosa e profondamente spirituale da cui tutti dovremmo imparare.
“Dal dubbio germinano le mie radici
* * *
Le madri sono oggetti contundenti
la mano armata del dio
che vuole in pugno ogni bambino
e vuole romperlo in due – una metà
da stringere forte, l’altra da lasciare
all’abbandono –, sono le madri
un opaco paradiso una promessa
non mantenuta, sono la voce petulante
e cruda che risuona l’ora prima della morte.
Impara presto, bambina, che la crudeltà
è l’ultima salvezza, ricomponi la frattura,
vomita via ogni nome che non sia il tuo,
cercati due occhi nuovi, uccidi la madre
cattiva e poi rinnega quella buona:
non è mai esistita.
*
Il bianco coniglietto di Alice
si è ammalato, non ha più tempo
non ha più corse, la bambina lo guarda
preoccupata, lo pettina con una spazzola
cento e più volte, lo bagna in un’acqua
di sapone e di lacrime, lo accarezza piano
sulla testa, gli sfiora le zampe che si aprono
come piccoli ventagli quando l’aria calda
del fon gli smuove il mantello, bianco
cotone che sprigiona aroma di fieno,
adesso guarisci, gli dice contro il musetto
ingiallito, mentre pensa che dio non esiste,
altrimenti non potrebbe guardare morire
le anime candide, bambini che perdono i denti
da latte coniglietti affamati, le prede del mondo,
corri e nasconditi, gli sussurra, ma lui è già altrove,
nel paese senza meraviglie la Regina di Cuori
ha tagliato il cordone e la bambina precipita,
diventa sempre più piccola, le si apre un vortice
dentro la pancia, al posto dell’ombelico: ora
conosce il bianco orrore della perdita, o della nascita.
*
Occhi neri a precipizio
sempre paura sempre sola
bambina piccina cuore friabile
sbranato a morsi, cresce pane
nel tuo petto per il pettirosso
del libro delle fiabe, cresci obliqua
per non farti male, ferita dal vento in pieno
volto, volo d’ali spiumate, piccola scintilla
di fuoco brucia la città dei balocchi
il dio dei bambini rotti non ti ascolta:
e tu corri a nasconderti dalla fame,
nel luogo segreto dei bottoni
̶ mettili in fila, inghiottili ̶
prima che ti chiudano la bocca.
Va scomparendo
Va scomparendo perfino
l’intelligenza dei fanciulli,
e gli adulti non hanno più memoria:
anche la lingua va morendo,
né ci sarà la Neolingua a salvarci:
ci saranno solo dei segni
e dei grugniti…
se appena qualcuno mostrerà
di comprendere, si dirà:
“è intelligente”!
E continueremo
ad ingannarci:
illusi di aver capito.
*
David Maria Turoldo
“O sensi miei…”
Poesie 1948-1988
Biblioteca Universale Rizzoli (Milano, 2002)
Note introduttive di Andrea Zanzotto e Luciano Erba
Da: Mia Apocalisse
Tempo verrà
Tempo verrà che non avrete un metro
di spazio per ciascuno:
lo spazio di un metro
che sia per voi. Tutti
vi dovrete rannicchiare:
nemmeno coricati!
Se pure non sarete
accatastati uno sull’altro.
Allora uno resterà soffocato
dal ribrezzo dell’altro.
Non avrà spazio
neppure il pensiero
e tutto sarà nel Panottico:
pupilla di un
Polifemo
fissa al centro del cielo:
non ci sarà un solo angolo,
un remoto angolo
per il più segreto
dei pensieri.
Il cuore sarà cavo
come il buco nero
in mezzo alle galassie.
La mente di tutti
una lavagna nera…
Un groviglio di fili
senza corrente
i sentimenti
a terra.
*
David, è scaduto il tempo
David, è scaduto il tempo d’imbarco!
Ora il tuo posto
è la lista d’attesa.
Grazia rara è
se ancora qualcuno conservi
(con molte incertezze) memoria
del tuo nome, almeno
il sospetto
che tu sia esistito.
Premono formicai di anonimi
alle stazioni della metropolitana.
Moltitudini che urlano
invocando di salire,
a grappoli.
Tutti sconosciuti l’uno all’altro
ignoto il proprio volto
perfino a te stesso,
e il volto del proprio padre:
anche lui sbarcato
a forza dal predellino dell’ultimo tram
nella notte.
*
E non hanno
E non hanno neppure
la gioia di andare
come tu andavi (oh David)
imperioso alla conquista!
E non importava sapere di cosa,
bastava la fede
almeno nell’uomo!
Ora nessuno sa
in quale direzione andare,
e tutti cercano una maniglia
nel vuoto:
o appena si affacciano
alla linea gialla della strada
subito vengono
da forze misteriose.
ribattuti indietro.
e continuano a urlare
ma nessuno sa cosa.
Tutti dentro una luce sempre uguale,
al neon:
e sola
continuerà a brillare,
appena sorridente
la gigantografia
in fosforescenza
del GRANDE FRATELLO
onnivedente,
COME STA SCRITTO!
E anche in piccole foto,
o di varia grandezza,
ma sempre uguali, a miriadi
a ogni pulsante appese:
appese agli stipiti e agli archi delle vie,
appese, le più grandi ai frontali dei palazzi
e negli stadi
e dai rosoni delle chiese,
COME STA SCRITTO:
anche le chiese
saranno allora
la STESSA COSA.
Né alcuno che possa dire
che nome porta o chi sia!
E tutti nel feroce
invincibile sospetto
l’uno dell’altro…
Non due fedi
O papa, sorridi
(non ridano solo le tue labbra)
sorridi dentro
spera
confida.
Pace a te, o papa,
non temere!
Allora non affonderai
camminando sulle acque:
altri crederanno per te
nella cruciata ora della decisione.
Non sentirti solo, o papa,
nel giardino dei dubbi.
Credi, ti amiamo
e ti «compatiamo»
filialmente.
Da te stesso liberati, o papa,
uccidi la tua ombra che t’insegue:
il mondo non ti è nemico,
abbi fede in lui
e nel Dio che l’ama
fino alla fine,
e sia un’unica fede.
Non due fedi, o papa.
Credi all’unità
dei giorni e delle opere,
alla creazione che è unica.
Puoi essere voce di due infallibilità
che tutto, chiesa e fabbrica e studi
è inesauribile invenzione
di un medesimo Spirito:
uno è l’uomo,
uno e amorosamente operante
Iddio nell’uomo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
ALTRA SALMODIA ALLA PACE
a «Testimonianze» e a tutti i comitati di pace
La pace è l’Eden,
l’Armonia da sempre agognata,
giardino dell’Alleanza
che sta nel cuore della terra,
giardino da sempre rimpianto.
Anche le fiere dei campi ti piangono, o Pace,
anche il leone e la tigre ti piangono,
con ululati dalle selve piangono
l’orrendo disordine
non necessario.
La coesione della pietra è santa,
la massa compatta delle acque,
santa la coesione degli astri.
Uomini, non violate il Sacrario dell’atomo,
non entrate nel Santo dei santi
perché morirete: Scienziati,
non fate della sua casa
una spelonca di ladri.
La pace è l’Eden che deve inverarsi,
il Sogno reale e necessario
che attraversa l’intera creazione.
Creature tutte all’opera:
che deve venire la Pace
che deve farsi la Pace;
che si faccia la Pace su tutta la terra:
e l’uomo è la sola coscienza
a proclamare che Egli esiste.
Francesco, riprendi a cantare
per frate sole e sora luna
«et per aere et nubilo et sereno»,
perfino alla morte diciamo: o sorella!
Ma siano tutte le creature a cantare.
Uomini, tornate fanciulli,
rompete le spade e nessuno
continui a trafiggere il cuore alle cose
come han trafitto il costato di Cristo.
Questo è l’irreparabile Male
il Male che non ha nome:
l’incubo non della morte,
dell’«0ltre-morte»,
il Grande Nulla che incombe.
Abbiamo violato il Sacrario
profanato il Santo dei santi:
messe le mani sull’atomo,
rotta la diga sull’abisso,
ci siamo creduti «Despoti».
Abbiamo perduta l’Amicizia delle cose,
la Grande Comunione:
tornare indietro
sarà ancora possibile?
Questo è l’Eden che deve inverarsi
il giardino dell’Alleanza,
il Sogno dell’universo.
(da “O SENSI MIEI… POESIE 1948-1988” )
David Maria Turoldo
Il trattato dal titolo “David Maria Turoldo, il Resistente”, a cura di Guerino Dalola, in collaborazione con Donatella Rocco, Antonio Santini, Mino Facchetti, Pierino Massetti, Gian Franco Campodonico e di ANPI Franciacorta, consiste in un importante saggio autoprodotto con il patrocinio di vari enti e associazioni, tra cui la Città di Chiari, il Comune di Coccaglio, il Comune di Cologne, i Servi di Maria – provincia di Lombardia e Veneto e l’associazione Gervasio Pagani.
Padre David Maria Turoldo è un frate morto nel 1992. Su padre David Maria Turoldo, che fu poeta, filosofo, sacerdote, autore, traduttore, fondatore di riviste e giornali, sono stati pubblicati centinaia di libri e documenti, ma senza dare ampia notizia sulla sua partecipazione alla Resistenza del 1943-45 contro il nazifascismo. Padre David Maria Turoldo è stato un grande Resistente a Milano, ma era in contatto anche con la Resistenza bresciana, soprattutto nella zona della Franciacorta.
Secondo Turoldo la figura del Partigiano riveste certamente una eccezionale e fondamentale importanza, ma in uno specifico momento e in una determinata situazione. Invece, sempre secondo Turoldo, essere Resistente è una scelta di vita che non può verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. La Resistenza, i Resistenti attuano un impegno quotidiano, da realizzarsi nel percorso di ogni giorno, senza distrazioni, nel corso di una intera esistenza. La liberazione autentica dell’umanità, oltre che dal nazifascismo e dalle dittature, richiede una militanza, una acribia nel tempo, un impegno molto più profondo sul piano culturale, relazionale, politico, sociale, familiare. L’impegno del Resistente non ha fine e scadenze, perché la libertà non si rinnova da sola, ma deve essere sempre riconquistata con l’impegno di ognuno di noi. Infatti la Resistenza non è mai finita.
Turoldo non ha mai voluto schierarsi con nessun partito politico, perché, lui stesso spiegherà, la libertà, la costruzione di un mondo migliore, i diritti delle persone, la solidarietà, il progresso alternativo che non è tale se non è per tutti, il soccorso a chi vive nell’indigenza, a chi vive nelle difficoltà, a chi vive nel bisogno, il rispetto di tutte le fedi politiche e religiose, non sono istanze appartenenti all’uno o all’altro schieramento partitico, ma sono valori appartenenti alla nostra comune umanità.
Per il Resistente il vero campo di lotta è la normalità, la testimonianza, non solo con le parole, ma con esempi di vita. Il Resistente non è solo antifascista. La vera scelta del Resistente è un’alternativa totale, a favore di una società, di un contesto sociale, completamente diversi, per una nuova presente e futura umanità, perché la pace non è solo mancanza di guerra, ma è nonviolenza, è costruzione di convivenza solidale e fraterna.
Le esperienze di Turoldo furono molteplici come Partigiano in una delle vicende più importanti della sua vita: la Resistenza. Ma le fonti storiche non danno ricostruzione storiografica editata di ampio respiro di padre Turoldo per la sua attività nella lotta di Liberazione nazionale e per il contributo notevole che ha offerto nella ricostruzione morale e materiale del nostro Paese. “Una lacuna nella storia del pensiero democratico e antifascista di impronta cattolica alla quale bisognerebbe pensare di porre rimedio”, così scrive Aldo Aniasi, comandante partigiano, assessore e sindaco di Milano, deputato e ministro socialista e presidente della FIAP federazione italiana associazioni partigiane. Scrive sempre Aldo Aniasi, che come uomo della Resistenza padre Turoldo privilegiò sempre una scelta unitaria, lo spirito unitario della Resistenza, lo spirito dell’unità antifascista. Intrattenne rapporti con comunisti, socialisti, azionisti e incontrava personaggi come Eugenio Curiel, Rossana Rossanda e altri importanti dirigenti della sinistra.
Uno dei risultati più significativi dell’intero lavoro di confronto e dialogo realizzato nel convento di San Carlo a Milano per iniziativa di padre Turoldo e padre De Piaz è la nascita e la diffusione – soprattutto da parte di Teresio Olivelli, Claudio Sartori ed altri collaboratori bresciani – del giornale clandestino antifascista “Il ribelle”. Anche la predicazione in Duomo su incarico del Cardinale Schuster diventa espressione della Resistenza di padre Turoldo. Appena dopo la Liberazione del 25 Aprile 1945, saranno ventinove i Lager visitati da padre Turoldo alla ricerca di sopravvissuti e riuscirà a riportare in salvo a casa circa duecento prigionieri. Scrive Turoldo “Una sola possibilità affinché non si ripeta quanto è avvenuto: ricordare e capire, far ricordare e far capire… Così ho visto la sola Europa possibile, quella della solidarietà dei sopravvissuti”. Scrive Ernesto Balducci “Il grande dono di David è di essere nato povero, in mezzo ai poveri, agli ultimi… David è rimasto un povero. I poveri sono fuori del perimetro della storia”. In occasione degli appositi referendum, padre Turoldo vota contro l’abrogazione del divorzio e dell’aborto, perché i principi religiosi non possono essere imposti a chi non crede: la religione va spiegata e proposta, mai imposta con una legge. Nella primavera del 1978, padre Turoldo, insieme al confratello De Piaz, avvia una trattativa con le Brigate Rosse, per la liberazione di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. L’iniziativa a cui partecipa anche il vescovo di Ivrea monsignor Luigi Bettazzi, presidente di Pax Christi, viene bloccata dall’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
La Corsia dei Servi e Nomadelfia furono le iniziative più care sia a Turoldo sia a padre De Piaz, basate su concetti di primaria importanza: tanto la fede che le scelte politiche diventano operative e efficaci solo nell’ambito di una cultura che permetta di uscire dall’inerzia di una fede accolta solo per tradizione e pregiudizio, per tentare invece una rigenerazione dalla vera cultura con maggior impulso possibile.
Invitato a un congresso sul disarmo nel febbraio 1978, Turoldo ebbe l’occasione di incontrare Carlo Cassola, che lo invitò al convegno nazionale della LDU- Lega per il Disarmo Unilaterale. Gli aderenti attuali della Lega per il Disarmo Unilaterale sotto la sigla “Disarmisti Esigenti” stanno lavorando all’interno della campagna ICAN – International Campaign to Abolish Nuclear Weapons e con molte altre associazioni del panorama italiano affiliate a ICAN, tra cui anche PeaceLink- Telematica per la Pace, alla ratifica del trattato ONU, il TPAN, per la proibizione delle armi nucleari, varato a New York a palazzo di vetro nel luglio 2017 da 122 nazioni e dalla società civile organizzata in ICAN. ICAN grazie alla costituzione del trattato Onu per l’abolizione delle armi nucleari è stata insignita Premio Nobel per la Pace 2017. E poi ricordiamo la Salmodia della Speranza che attraversa la drammatica esperienza dell’Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale: il trionfo dei dittatori, il nazismo, il fascismo, il razzismo, i grandi massacri, i Lager, Hiroshima e Nagasaki, la Resistenza. Per una Chiesa che accoglie i diversi, gli emarginati, gli oppressi, gli ultimi, le vittime di cui tutti siamo parte nel contesto sociale, comunitario, culturale e nel mondo, nel terribile deserto della sopraffazione e della violenza dove tante voci chiedono libertà, giustizia e verità per tutti quegli innocenti che ancora nascono solo per morire.
Laura Tussi – PeaceLink, Campagna “Siamo tutti Premi Nobel per la Pace con ICAN” Fabrizio Cracolici – ANPI sezione Emilio Bacio Capuzzo Nova
LA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINO (1943-1944)
Libro di Enrico AMATORI-Editrice IL VELINO
LA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINO-I Partigiani della banda “GIODA”LA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINOLA RESISTENZA ANTIFASCISTA NEL REATINO
Roma al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG”la black comedy scritta e diretta da Massimo Odierna-
al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG”
Roma-Dal 29 aprile al 4 maggio, escluso il 1 maggio 2025, torna in scena al Teatro Lo Spazio di Roma, LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG, la black comedy scritta e diretta da Massimo Odierna, che indaga con leggerezza, nichilismo ed un linguaggio politically incorrect la follia e l’alienazione dei nostri tempi. Ambientata in presente alterato ed indefinito, la pièce è abitata da personaggi estremi, ridicoli e violenti, lo spazio scenico è svuotato di qualsiasi elemento e l’intera struttura dello spettacolo è affidata alla perfomance degli attori.
Thomas vive alla giornata conoscendo donne e bevendo fiumi di alcol. Una sera, durante uno dei suoi appuntamenti viene avvicinato da Libero, suo ex compagno d’ avventure ai tempi degli scout.
Libero implora Thomas di aiutarlo a ritrovare la dolce Noa, una ragazzina di sedici anni della quale si è invaghito ma di cui si sono perse le tracce. Noa è la figlia di Kioto Zhang, il temibile capo delle guardie imperiali. Inizialmente Thomas allontanerà Libero ritenendo assurda la richiesta d’ aiuto, successivamente sarà lo stesso Thomas a sfruttare questa vicenda per riconquistare Amèlie, sua ex fidanzata, una ragazza che ama praticare la gentilezza empatizzando con i più deboli e pronta a salvare il mondo. Le vite di questi tre protagonisti convergeranno alla ricerca della giovane ragazza scomparsa. Protagonisti di questa assurda pièce anche un padre pederasta, una madre devota, una maga scorbutica, e poi Jasmine, Sharon, Tinetta, Clotide, Brooke ed un maestro spirituale.
Lo spettacolo ha ricevuto la menzione speciale della giuria all’idea originale al Festival InDivenire 2023.
Roma al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG Con Irene Ciani, Enoch Marrella, Francesco Petruzzelli, Federica Quartana, Giovanni Serratore, Sofia Taglioni
Teatro Lo Spazio -Nel cuore storico della capitale, uno spazio suggestivo dove confluiscono realtà ed identità contemporanee, che trovano una residenza per esprimere la loro creatività. Due sale prove, diverse possibilità di utilizzo dello spazio scenico, fanno di questo luogo, dopo oltre 10 anni, una realtà off che sente oggi il bisogno di ampliare le proprie potenzialità.
al Teatro Lo Spazio torna in scena “LA FIGLIA DI KIOTO ZHANG”
Indirizzo
Via Locri, 42/44
Orari
Per gli orari e le modalità di accesso rivolgersi ai contatti indicati.
Giovanni Prati – Il Romanticismo italiano-Nuovi canti Poesie-
– Editore Stabilimento Tipografico Fontana di TORINO 1844 –
Giovanni Prati
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Giovanni PratiGiovanni PratiGiovanni Prati
Giovanni Prati – Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Giovanni Prati-Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Poesie di Giovanni Prati
Incantesimo
La maga entro l’arena
girò, cantando, l’orma:
con frasca di vermena
mi ha tocco in sull’occipite,
ed io mi veggio appena in questa forma.
Sì picciolo mi fei
per arte della maga,
che in verità potrei
nuotar sopra diafane
ale di scarabei per l’aura vaga.
O fili d’erba, io provo
un’allegria superba
d’esser altrui sì novo,
sì strano a me. Deh fatemi,
fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
Minuscola formica
o ruchetta d’argento
sarà mia dolce amica
nell’odoroso e picciolo
nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
E della curva luna
al freddo raggio, quando
nella selvetta bruna
le mille frasche armoniche
si vanno ad una ad una addormentando;
e dentro gli arboscelli
si smorza la confusa
canzon de’ filunguelli,
e sotto i muschi e l’eriche
l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
noi, cinta in bianca veste
la piccioletta fata
vedrem dalla foresta
venir nei verdi ombracoli,
di bianchi fior la testa incoronata.
E dormirem congiunti
sotto l’erbetta molle;
mentre alla luna i punti
toglie l’attento astrologo,
e danzano i defunti in cima al colle.
I magi d’Asia han detto
che quanto il corpo è meno,
più vasto è l’intelletto,
e il mondo degli spiriti
gli raggia più perfetto e più sereno.
Infatti, io sento l’onde
cantar di là dal mare,
odo stormir le fronde
di là dal bosco; e un transito
d’anime vagabonde il ciel mi pare.
Da un calamo di veccia
qua un satirin germoglia,
da un pruno, o mo’ di freccia,
la sbalza un’amadriade
è in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
Lampane graziose
giran la verde stanza:
e, strani amanti e spose,
i gnomi e le mandragore
coi gigli e con le rose escono in danza.
Del mondo ameno e tetro
com’è che ai sensi tardi
mi piove il raggio e il metro?
E né cornetta acustica
mi soccorre né vetro orecchi e sguardi?
Com’è che le mie colpe
non anco all’olmo e al pino
latra la iniqua volpe?
Né il truculento martoro
mi succhiella le polpe a mattutino?
Sono un granel di pepe
non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
ed è minor che lucciola
nell’ombra siepe il mio pensiero.
Oh fata bianca, come
un nevicato ramo,
dagli occhi e dalle chiome
più bruni della tenebra,
e dal soave nome in ch’io ti chiamo.
Oh Azzarelina! in pegno
dell’amor mio, ricevi
questo morente ingegno,
tu che puoi far continovi
nel tuo magico regno i miei dì brevi.
L’erbetta ov’io m’ascondo
so che è incanata anch’ella;
né vampa o furibondo
refolo o gel mortifica
lo smeraldo giocando in che è sì bella.
So che, d’amor rapita,
in un perpetuo ballo
mi puoi mutar la vita
o su fra gli astri, o in nitide
case di margherita e di corallo.
sien acque, o stelle, o venti,
ove abitar degg’io,
per primo don m’assenti
il bacio tuo: per ultimo,
dei rissosi viventi il pieno oblìo.
Ascolta, Azzarelina:
la scienza è dolore,
la speranza è ruina
la gloria è roseo nugolo,
la bellezza è divina ombra fiore.
Così la vita è un forte
licor che ebbri ci rende,
un sonno alto è la morte
e il mondo un gran Fantasima
che danza con la Sorte e il fine attende.
Vieni ed amiam. L’aurora
non spunta ancor; gli steli
ancor son curvi; ancora
il focherel di Venere
malinconico infiora i glauchi cieli.
Vieni ed amiam. Chi vive,
naturalmente guada
alle tenarie rive:
ma chi è prigion nel circolo
che la tua man descrive a ciò non bada.
Giovanni Prati
Un giorno d’inverno
Sempre sul farsi della tacit’ora
Crepuscolar m’invade una tranquilla
Malinconia, che dolcemente irrora
Questi occhi del dolor che da lei stilla.
Guardo il foco morente, e m’innamora
Tenervi intenta e risa la pupilla,
lnsin che appena qualche brace ancora
Tra la commossa cenere scintilla.
Il crepitar di quella ultima vita,
L’ombra addensata e la cadente neve
Di piu cupa tristezza il cor mi serra.
E prorompoll dall’anima atterrita:
Mio Dio, che sogno è questo viver breve!
Mio Dio, che solitudine è la terra!
Oh che cielo!
Oh che cielo ! oh che mar ! Quella profonda
e doppia immensità quanti sospiri
mi trae dal cor ! di che malie m’inonda!
con che forza m’assorbe entro i suoi giri!
La man per gioco, o fanciulletta bionda,
non por sugli occhi miei: lascia ch’io miri
queste due glorie. A te né il ciel né l’onda
parlano: ed altro muove i tuoi desiri,
Te move il riso dell’età tua verde,
un’ape d’oro, una farfalla, un fiore:
me l’infinito ciel, l’onda infinita.
E in questi abissi il mio pensier si perde,
e mentre scherzi, o bimba, il pensatore
piange tra il vel delle tue rosee dita.
Alba
Fumano i campi; la rugiada stilla
sull’erba nova; il cheto aere si desta
il sol che spunta, e con l’aletta in resta
il cardellino in cima al gelso trilla.
Al giocondo lavor sparsa è la villa
sui bruni solchi; pei declivi a festa
saltan le capre; e in seno a la foresta
le allegrie della caccia il corno squilla.
Questa è vita davver; questo è divino
elemento di forza all’uman petto:
aria, luce, tripudio, opera intorno.
E noi, civico vulgo, ogni mattino
(fatica insigne!) ci leviam dal letto,
pallidi spettri, ad invecchiar d’un giorno.
Ramuscello
O ramuscel di mandorlo,
quando su te si posa
il cardellino, e ai limpidi
rigagni e al ciel di rosa
sparge la fresca e lieta
anima di fanciullo e di poeta;
o ramuscel, per magica
arte io vorrei mutarmi
nell’ augellin che dondola
su te, trillando carmi;
su te che spargi al vento
la molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
E là, cantando il giovane
mio tempo e i dolci inganni,
le ingrate nevi e il cumulo
non sentirei degli anni.
Ma ognun la sua fatale
stella ha sul capo; ed accusarla è male.
Marionette
Al fantolino, più che pesca o mela,
piace il casotto degl’incanti, dove
un piccol mondo di figure nove
al suo cupido e fermo occhio si svela:
né sa che dietro la dipinta tela
per fili arcani in giocolier le move;
e crede velo il finto; e in quelle prove,
in quegli atti, in que’ volti avvampa e gela.
Grandeggia quindi il fantolin con l’ora:
e nel mondo degli uomini s’aggira,
e crede vero ciò ch’ è finto ancora.
Uom poi diventa, e si travaglia e stanca
pur dietro a sogni: e il dì che l’ombra ei mira
del Ver, spìa sul quadrante, e il tempo manca.
Giovanni Prati
Or passeggi solinga
Ti veggo, o madre; per i conscii lochi
dove teco scherzava io fanciulletto
or passeggi solinga, e il caro aspetto
del tuo lontano lacrimando invochi.
Parmi d’udire i tuoi gemiti fiochi
i quando mesta riguardi il vacuo letto,
e tuo figlio mancar vedi al banchetto,
e il cerchi indarno ai consueti giochi.
Sì, vederti mi par, parmi d’udirti
povera madre! e rimaner lontano,
tal rimorso è per me ch’io non so dirti.
Conosco il fallo e m’addoloro e piango!
Ahi! Com’è questo cor misero e strano!
Conosco il fallo, eppur lontan rimango.
Tra veglia e sonno
Un verno a notte bruna
mentre nell’erma stanza
d’Usca inducea la luna
un pallido chiaror,
cantò questa romanza
il reduce Gildorl.
«Senti diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor:
compi la tua promessa;
vieni, mio dolce amor.
Eccoti il lino bianco,
segnaI della tua fede;
mirami cinta al fianco
la ciarpa tricolor;
vieni, nessun ti vede,
angelo del mio cor.
Mio bel tesor, calcai
sabbie infuocate e nevi;
un oceàn varcai
per te, mio bel tesor;
per me varcar tu devi .
solo un vial di fior.
Tu mi dicesti un giorno,
con lacrime dirotte:
«Quando farai ritorno,
chiamami, o mio Gildor,
chiamami a mezzanotte, .
ti volerò sul cor.»
Senti, diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor;
compi la tua promessa,
vieni, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
piti bello ho salutato
ma te recando in core,
fu mio secondo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.
Che fai, diletta mia?
Quell’ora è già suonata.
lo gelo sulla via,
e tu non vieni ancor …
Ti sei di me scordata;
addio, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
le belle ho ricusato ;
or senza te nel core,
sarà mio solo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.»
E dileguò. Svegliata
Usca, sul far del giorno,
disse d’aver sognata
la voce di Gildor;
e aspetta il suo ritorno
la poveretta ancor.
Biografia di Giovanni Prati
Busto di Giovanni Prati (Trento)
Giovanni Prati (Comano Terme, 27 gennaio 1815 – Roma, 9 maggio 1884) è stato un poeta e politico italiano.
Giovanni Prati
Giovanni Prati nacque nel 1815 a Dasindo (oggi frazione del Comune di Comano Terme) nel Trentino, all’epoca appartenente all’Impero Austro-Ungarico e si formò nell’Imperial Regio Ginnasio d’Austria-Ungheria di Trento, intitolato alla sua persona nel 1919, Liceo Classico Giovanni Prati, dopo il passaggio del Trentino – Alto Adige all’Italia. Nello stesso Ginnasio studiò il poeta e patriota Antonio Gazzoletti.
Studiò legge a Padova e si dedicò alla poesia. Si sposò nel 1834 con Elisa Bassi, dalla quale ebbe tre figli: Riccardo, Rita ed Ersilia (i primi due morirono infanti). La moglie venne a mancare nel 1840. I temi della morte della moglie e dell’affetto per la figlia ritorneranno frequentemente nelle sue liriche. Pubblicò a Padova la prima raccolta, Poesie, nel 1836. Decise di trasferirsi a Milano nel 1841; qui conobbe Alessandro Manzoni e pubblicò l’Edmenegarda, una novella sentimentale in endecasillabi sciolti che ebbe un grande successo di pubblico ma fu stroncata dalla critica.
A Milano pubblicò nel 1843 i Canti lirici, canti per il popolo e ballate; nel 1844 dette alle stampe Memorie e lacrime e Nuovi canti. Dal 1845 al 1848 soggiornò a Padova, a Venezia e a Firenze. Nel 1848, recatosi a Torino, si mostrò sostenitore della Monarchia Sabauda. Negli anni che precedettero la prima guerra di indipendenza, fu sostenitore di Re Carlo Alberto di Savoia: per questo motivo, gli austriaci lo espulsero dal Regno Lombardo Veneto (anche Milano e Venezia all’epoca appartenevano all’Impero),e il governo di Firenze del Granducato di Toscana (sotto la dinastia Asburgo-Lorena) gli rifiutò l’asilo politico.
Furono questi i tempi più difficili e tormentati della sua vita perché professava i suoi ideali a favore della Monarchia Sabauda in una terra ostile e tra uomini decisamente avversi. Legato da ideali alla Monarchia Sabauda tornò a Torino, dove la sua fedeltà fu premiata con la nomina del Re Vittorio Emanuele II di Savoia a storiografo della Corona. Nel 1851 sposò in seconde nozze l’attrice drammatica Lucia Arnaudon.
Nel 1861 nel Governo Cavour (VIII legislatura del Regno d’Italia) venne eletto Deputato nel Parlamento Italiano con Torino divenuta Capitale del Regno d’Italia. A Torino presso il Caffè Fiorio in via Po, frequentato tra gli altri anche da Camillo Benso conte di Cavour, Massimo D’Azeglio, Urbano Rattazzi, Gabrio Casati, discuteva le sorti della neonata Italia. Nel 1865 seguì il Governo Unitario a Firenze divenuta Capitale, dove conobbe Mario Rapisardi, Niccolò Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Francesco Dall’Ongaro, Terenzio Mamiani ed altri.
Nel 1871 si trasferì a Roma divenuta Capitale d’Italia, nel 1876 divenne Senatore nel governo Depretis I XIII legislatura del Regno d’Italia nel 1878 divenne membro del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1878 il Ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis governo Cairoli I fondò a Roma l’Istituto Superiore di Magistero del quale Giovanni Prati divenne direttore. Durante questi anni la sua poesia aveva continuato a fluire con la pubblicazione del poema Armando (1868, una parte del quale era apparsa nel ’64), degli oltre cinquecento sonetti di Psiche (1876) e delle liriche raccolte in Iside (1878). Morì a Roma nel 1884.
Sepolto a Torino, le sue ceneri furono trasferite nel paese natio ricongiunto alla patria. Dal 1923 le sue spoglie risiedono nella chiesa di Dasindo di Lomaso.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Prati
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