Dal libro: Fotoreportage per raccontare Roma e la sua Campagna Romana
di Franco Leggeri.
La bellezza, la poesia e la “bioarchitettura” del Viale dei pini nella Campagna Romana. V.le del sito Archeologico Torre della BOTTACCIA-Brano e Fotoreportage tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
L’ecologia è un concetto che fa parte della coscienza universale, di cui dobbiamo essere ogni giorno sempre più consapevoli. Il grande scienziato della natura e poeta Goethe riassume tale consapevolezza con queste parole: “Nulla si impara a conoscere, se non ciò che si ama, e più forte è l’amore tanto maggiore sarà la conoscenza”. Imparare a “godere” dello spazio naturale che ci circonda è uno strumento di straordinario valore per diffondere e sedimentare nell’agire una vera e propria cultura della sostenibilità. In tal senso, probabilmente la più spontanea e potente istanza pedagogica è proprio il paesaggio, capace di impartire una sua prima e fondamentale educazione implicita: il paesaggio è infatti come scrive , molto bene, nel suo saggio ”Paesaggio Educatore” il Regni R. “ maestro di una cultura dell’ascolto dell’armonia dell’uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare”(Ed.Armando -2009). L’ammirazione per lo splendore della natura è il motore che genera e, conseguentemente, moltiplica in ognuno di noi , sin dalla più giovane età, i sentimenti di affezione , rispetto e curiosità verso il patrimonio ambientale che ci circonda. D’altra parte tale affezione e desiderio di cura tutela non può che scaturire dalla conoscenza e dalla relazione . Ci è istintivamente estraneo ciò che non conosciamo, con cui non possiamo dialogare per assenza di codici condivisi e a cui non siamo socializzati . L’estraneità si supera a mio avviso, solo attraverso un flusso comunicativo e relazionare che deve essere continuamente alimentato e che dà luogo ad una empatia prodromica a comportamenti di cura , tutela e di salvaguardia . Per recuperare i “codici” che ci consentono , nell’ascolto, di comprendere il linguaggio della natura bisogna , infatti, conoscere quest’ultima, perché solo coltivando una conoscenza profonda e radicata , ma anche istintiva, di qualcosa possiamo affezionarci ad essa, amarla e far crescere in noi il desiderio spontaneo di difenderla e preservarla.
Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
Campagna romana
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
Articolo e foto sono di Franco Leggeri per l’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico” IL Mitico LUCA-Archeologo e storico della Villa Romana delle ColonnacceCASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .
-Roma, MunicipioXIII: il Castello della Porcareccia-
Roma, Municipio XIII -Franco Leggeri Fotoreportage- : il Castello della Porcareccia – Quartiere Casalotti. Fuori dal traffico della Via Boccea, in una discontinuità edilizia, c’è il Castello della Porcareccia, noto anche con il nome “Castello aureo”, che domina il suo borgo medievale. Il fortilizio, in posizione strategica, è costruito su di uno sperone roccioso. Anticamente vi era una torre di avvistamento, ora scomparsa. Il Castello nel corso dei secoli è stato, più volte, rimaneggiato e, rispetto alla costruzione originale, ora si vedono modifiche strutturali evidenti. Il toponimo deriva da “Porcaritia”.
Il Castello della Porcareccia-cortile interno
Nel passato questa era una località al centro di boschi di querce e, quindi , luogo più che mai adatto all’allevamento dei maiali. Il primo documento che parla del Castello è una lapide del 1002, che si trova nella Chiesa di Santa Lucia delle Quattro Porte ,dove si legge che un prete “romanus” dona la tenuta della Porcareccia ai canonici di Monte Brianzo. Nel 1192 Papa Celestino III dà la cura del fondo ai canonici di Via delle Botteghe Oscure. Il Papa Innocenzo III affidò una parte della tenuta all’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito. La tenuta passò, dopo la crisi fondiaria del 1527, ai principi Massimo e nel 1700 ai Principi Borghese, quindi ai Salviati e ai principi Lancellotti, ora la proprietà del Castello è della Famiglia Giovenale che lo possiede dal 1932.
Il Castello della Porcareccia
Il portale d’ingresso è imponente e su di esso vi è lo stemma di Sisto IV. Prima di accedere al cortile interno, nel “tunnel”, in alto, si notano dei fori passanti sedi di una grata metallica che, alla bisogna, era calata per impedire assalti e irruzioni di nemici . Nel giardino interno del Castello vi è, in bella mostra, una stele commemorativa di un funzionario imperiale delle strade di Roma . La stele probabilmente era riversa in terra perché presenta evidenti segni di ruote di carro. Vicino vi è una lapide funeraria con incisi dei pavoni, antico simbolo di morte. Sono visibili altri reperti di epoca romana, come frammenti di capitelli e spezzoni di colonne. In bella mostra, montata alla rovescia, vi è una vecchia macina a mano per il grano, una simile è nel cortile della chiesa di Santa Maria di Galeria. Nel piazzale interno c’è la chiesetta di Santa Maria la cui costruzione risale al 1693.
Il Castello della Porcareccia
Ciò che colpisce nella chiesa è la bellezza dell’Altare realizzato in legno intagliato, come dice uno dei proprietari, il Sig. Pietro Giovenale:”l’Altare è stato costruito dai prigionieri austriaci della Grande Guerra che qui erano stati internati”. Nel 1909, giusto un secolo fa, in questa chiesa celebrava la Messa il giovane prete Don Angelo Roncalli, il futuro Papa Buono, Giovanni XXIII il quale veniva in questi luoghi per goderne la bellezze naturali e gustare ”la buona ricotta” della via Boccea che Gli veniva offerta dai pastori ; a ricordo di questa visite, all’interno della chiesa, per desiderio della Famiglia Giovenale, il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, Mons. Gino Reali, nel 2004 inaugurò una lapide. La tenuta della Porcareccia fu anche antesignana della “guerra delle quote latte”; Ci narra la storia che nel periodo di carestia si diede il massimo sviluppo all’allevamento dei suini per sfamare la popolazione di Roma, come si legge in una bolla di Papa Urbano V nel 1362 che decretava “libertà di pascolo ai suini in qualsiasi terreno e proprietà…”. Per segnalare la presenza degli animali furono messi dei campanelli alle loro orecchie e chiunque ne impediva il pascolo incorreva in pene severissime.
Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri
N.B. Le foto originali sono di Franco Leggeri- Fonte articolo: Autori Vari- Si Evidenzia e voglio ricordare che gli Alunni di Casalotti hanno realizzato un pregevole lavoro sulle origini e la Storia del Castello. L’Intervista con il Sig. Giovenale è di Franco Leggeri- Si chiarisce che l’articolo è solo una piccola sintesi ricavata da un lavoro molto più esaustivo e completo relativo al Medioevo e i sistemi difensivi della Campagna Romana – TORRI SARACENE-TORRI DI SEGNALAZIONI – Monografia e ricerca storica i biblioteca di Franco Leggeri pubblicazione a cura dell’Associazione DEA SABINA.
Il Castello della PorcarecciaIl Castello della PorcarecciaIl Castello della Porcareccia
Il fascino della fotografa Vivian Maier è dovuto al mistero che circonda la sua vita e il suo lavoro. La vicenda di Vivian Maier, la misteriosa bambinaia fotografa diventata un caso mediatico poco dopo la sua morte, è nota solo a grandi linee, così come nota è solo una piccola selezione delle sue immagini e una manciata di informazioni sulla sua vita“Vivian Maier. Una fotografa ritrovata” è la raccolta più completa delle sue fotografie, in bianco e nero e a colori. Grazie al testo introduttivo di Marvin Heiferman, scrittore e curatore, il volume esplora e celebra la vita e l’opera di Vivian Maier in una prospettiva precisa e attuale, analizzando il suo lavoro nel contesto della Street photography americana contemporanea. Basato anche su una serie di interviste a persone che la conobbero, il testo getta una nuova luce sulla vita e sulla sorprendente opera di Vivian Maier. Con 240 fotografie in gran parte inedite, questa raccolta include anche le immagini degli effetti personali della fotografa, così come gli oggetti collezionati nella sua vita e mai prima d’ora visti.
La vita di Vivian Maier è stata ricostruita in particolare da John Maloof che ha cercato testimonianze della sua vita negli Stati Uniti, specialmente tra le famiglie presso le quali ha vissuto. La parte francese della sua biografia è stata ricostruita grazie al lavoro dell’associazione Vivian Maier et le Champsaur[1] che ha cercato testimoni nel Champsaur, la valle d’origine della sua famiglia materna nelle Alte Alpi.
Vivian Maier nacque a New York, il 1º febbraio 1926. Suo padre, Charles Maier, era statunitense, nato da una famiglia di emigranti austriaca, mentre sua madre, Maria Jaussaud, era nata in Francia, nel maggio 1897, a Saint-Julien-en-Champsaur in cui visse fino alla sua partenza in America, dove un ramo della famiglia Jaussaud era già emigrata. A New York, Maria conobbe Charles Maier, impiegato in una drogheria, che sposò nel maggio 1919 ottenendo, attraverso il matrimonio, la cittadinanza degli Stati Uniti. Da questa unione nacquero due figli: prima un maschio, William Charles, nel 1920, e poi, nel 1926, una figlia, Vivian.
Vivian Maier
Separatisi i genitori nel 1929, il ragazzo fu affidato ai nonni paterni e Vivian rimase con la madre, che trovò poi rifugio presso un’amica francese che viveva nel Bronx, di nome Jeanne Bertrand, nata nel 1880 non lontano dalla valle di Champsaur. Jeanne Bertrand era già una fotografa professionista, tanto che ebbe gli onori della prima pagina del 23 agosto 1902 del Boston Globe, il principale giornale di Boston, che pubblicò una sua foto e due ritratti fatti da lei, insieme ad un articolo elogiativo sul suo giovane talento fotografico. Fu lei che trasmise a Maria e a sua figlia la passione per la fotografia.
Vivian Maier
Grazie alle testimonianze raccolte dai residenti in Champsaur, il sito dell’associazione locale riporta che tra il 1932 e il 1933, le due donne e Vivian tornarono in Francia e si stabilirono prima a Saint-Julien, poi a Saint-Bonnet-en-Champsaur. Parte dell’infanzia di Vivian si svolse quindi in Francia, dai sei-sette anni fino ai dodici. In quel periodo, Vivian parla francese e gioca con i bambini della sua età mentre Maria, sua madre, scatta alcune fotografie che testimoniano del loro soggiorno.
Vivian Maier
Il 1º agosto 1938 Maria Maier e sua figlia ripartirono per gli Stati Uniti a bordo del transatlantico Normandie, che collegava Le Havre a New York, dove di nuovo si stabilirono. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1950-1951, Vivian Maier, all’età di 24-25 anni, tornò a Champsaur per mettere all’asta una proprietà che le era stata lasciata in eredità. In attesa della vendita, Vivian, con due apparecchi fotografici a tracolla, percorse la regione, facendo visita ai membri della sua famiglia e riprendendo molte immagini.
Vivian Maier
La giovane donna ripartì nell’aprile del 1951 per New York. Con il ricavato della vendita della casa, comprò una fotocamera eccellente, una Rolleiflex professionale, e viaggiò nel Nordamerica. In seguito lavorò come bambinaia al servizio di una famiglia di Southampton, prima di stabilirsi definitivamente nel 1956 a Chicago, dove continuò a fare la governante per bambini.
Vivian Maier
Vivian Maier aveva 30 anni al suo arrivo a Chicago, dove fu assunta dai coniugi Nancy e Avron Gensburg per prendersi cura dei loro tre ragazzi: John, Lane e Matthew. Secondo Nancy Gensburg, Vivian non prediligeva fare la bambinaia, ma, non sapendo che altro fare, quello fu il mestiere che esercitò per quarant’anni. I bambini, peraltro, l’adoravano: per Lane Gensburg, Vivian “era come Mary Poppins“.
Vivian Maier
Presso i Gensburg Maier aveva un bagno privato, che le servì anche come camera oscura, avendola lei attrezzata per sviluppare i negativi e i suoi film. La fotografa diede libero sfogo alla sua passione per la fotografia allorché, ad ogni occasione, poté immortalare la vita quotidiana nelle strade con i suoi abitanti, bambini, lavoratori, persone di buona società e personaggi famosi come pure miserabili, mendicanti ed emarginati. Mentre era ancora al servizio dei Gensburg, che ricorsero ad una temporanea sostituita, Vivian intraprese, da sola, per 6 mesi, tra il 1959 e il 1960, un viaggio intorno al mondo, visitando le Filippine, la Thailandia, l’India, lo Yemen, l’Egitto, l’Italia dove sostò a Genova e a Torino e infine la Francia con un ultimo soggiorno a Champsaur girando in bicicletta per tutto il circondario e scattando molte foto. Non disse mai ai Gensburg dove fosse stata, benché fosse molto legata a questa famiglia che conobbe fin dal suo arrivo a Chicago e con cui visse per 17 anni. Diventati grandi John, Lane e Matthew, i Gensburg non ebbero più bisogno di una tata e Vivian Maier li lasciò per continuare la sua attività presso altre famiglie con bambini piccoli. Da quel momento smise di sviluppare e di elaborare i suoi negativi e decise di passare alla fotografia a colori con diverse fotocamere, tra cui una Kodak e una Leica.
Vivian Maier
Nel 1975 morì la madre Maria, con la quale non aveva più rapporti da anni. Vivian, sempre animata dalla sua grande passione per la fotografia, continuò a guadagnarsi da vivere come bambinaia. Non si conoscono tutte le famiglie presso le quali prese servizio, ma si sa che nel 1987 si presentò ai coniugi Usiskin, suoi nuovi datori di lavoro, portando con sé 200 casse di cartone contenenti il suo archivio personale, che furono immagazzinate in un box.
Vivian Maier
Dal 1989 al 1993 Vivian si prese cura con grande umanità di Chiara Bayleander, un’adolescente con disabilità mentale. In questo periodo le sue casse furono sistemate in un mezzanino del suo datore di lavoro.
Vivian Maier
Mentre l’età avanzava, Vivian si trovò ad attraversare gravi difficoltà finanziarie. Le sue casse, da ultimo, andarono a finire nel box di un magazzino preso in affitto. Alla fine degli anni novanta i fratelli Gensburg, con i quali Vivian aveva per molto tempo mantenuto un legame andando a visitarli in occasione di matrimoni, lauree e nascite, la rintracciarono in un piccolo alloggio economico di Cicero e la trasferirono in un grazioso appartamento a Rogers Park vegliando su di lei.[2]
Vivian Maier
Sul finire del 2008, Vivian ebbe un incidente cadendo sul ghiaccio e battendo la testa, per cui fu ricoverata in ospedale. I Gensburg per garantirsi che avesse le migliori cure la fecero trasferire in una casa di cura a Highland Park. Nonostante queste affettuose attenzioni, Vivian Maier morì dopo poco tempo, il 21 aprile 2009, senza che né lei né i Gensburg sapessero che due anni prima, a causa degli affitti non pagati, il suo box era stato messo all’asta, e prima che John Maloof, che cercava sue notizie e voleva valorizzare la sua opera, potesse trovarla e incontrarla.
Maier e, soprattutto, la sua vasta quantità di negativi[3] è stata scoperta nel 2007, grazie alla tenacia di John Maloof, anche lui statunitense, giovane figlio di un rigattiere. Nel 2007 il ragazzo, volendo fare una ricerca sulla città di Chicago e avendo poco materiale iconografico a disposizione, decise di comprare in blocco per 380 dollari, ad un’asta, il contenuto di un box zeppo degli oggetti più disparati, espropriati per legge ad una donna che aveva smesso di pagare i canoni di affitto. Mettendo ordine tra le varie cianfrusaglie (cappelli, vestiti, scontrini e perfino assegni di rimborso delle tasse mai riscossi), Maloof reperì una cassa contenente centinaia di negativi e rullini ancora da sviluppare.
Dopo aver stampato alcune foto, Maloof le pubblicò su Flickr, ottenendo un interesse entusiastico e virale e l’incoraggiamento della community ad approfondire la sua ricerca. Pertanto fece delle indagini sulla donna che aveva scattato quelle fotografie: venne a sapere che Vivian non aveva famiglia e aveva lavorato per tutta la vita come bambinaia soprattutto nella città di Chicago; durante le giornate libere e i periodi di vacanza era solita scattare foto della vita quotidiana di città come New York, Chicago e Los Angeles. La maggior parte delle sue foto sono street photosante litteram e dunque Maier può essere considerata una antesignana di questo genere fotografico. Inoltre, Maier scattò molti autoritratti, caratterizzati dal fatto che non guardava mai direttamente verso l’obiettivo, utilizzando spesso specchi o vetrine di negozi come superfici riflettenti.
La sua vita può essere paragonata a quella della poetessa statunitense Emily Dickinson, che scrisse le sue riflessioni e le sue poesie senza mai pubblicarle e, anzi, a volte, nascondendole in posti impensati, dove furono ritrovate solamente dopo la sua morte. Dal momento della sua scoperta, Maloof ha svolto una grande attività di divulgazione della sua opera fotografica, organizzando mostre itineranti in tutto il mondo.[4] Vivian Maier utilizzava per scattare le sue immagini una macchina fotografica Rolleiflex e un apparecchio Leica IIIc. La sua vita e il suo lavoro sono stati oggetto di libri e documentari.
Affermazione di Joan Fontcuberta
Nel 2017 il fotografo spagnolo Joan Fontcuberta affermò, durante una conferenza tenutasi a Bologna, di aver inventato lui il personaggio di Vivian Maier insieme a John Maloof e che per quanto la donna delle foto sia realmente esistita e le foto sono autentiche, tutta la storia che ruota attorno a lei è stata inventata[5]. In seguito non si hanno notizie di prove fornite da Fontcuberta, noto per le sue provocazioni, né che abbia reiterato l’affermazione; nessun organo di stampa l’ha avallata.[6]
Mostre
Vivian Maier Anthology, settembre 2023-gennaio 2024, Palazzo Pallavicini (Bologna) organizzata da Deborah Petroni, Chiara Campagnoli e Rubens Fogacci, a cura di Anne Morin
Summer in the City, giugno–agosto 2013, Chicago; Russell Bowman Art Advisory.[23]
Vivian Maier, giugno–agosto 2013, Shanghai, Cina; Kunst.Licht Photo Art Gallery.[24]
Vivian Maier: Out of the Shadows, luglio–settembre 2013, Toronto, Ontario; Stephen Bulger Gallery.[25]
Vivian Maier: Out of the Shadows – The Unknown Nanny Photographer, agosto–ottobre 2013, Durango, Colorado; Open Shutter Gallery.[26]
Загадка Вивьен Майер (The Riddle of Vivian Maier), settembre–ottobre 2013, Mosca, Russia; Центр фотографии имени братьев Люмьер (The Lumiere Brothers Center for Photography).[8]
Vivian Maier: Picturing Chicago, ottobre 2013, Chicago; Union League Club.[27]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–febbraio 2014, Cleveland, Ohio; Cleveland Print Room.[30]
Certificates of Presence: Vivian Maier, Livija Patikne, J. Lindemann, 17 gennaio – 8 marzo 2014, Milwaukee; Portrait Society Gallery.[31]
Vivian Maier: Out of the Shadows, gennaio–marzo 2014, Minneapolis; MPLS Photo Center.[32]
Vivian Maier: Out of the Shadows, febbraio–giugno 2014, San Francisco; Scott Nichols Gallery.[33]
See All About It: Vivian Maier’s Newspaper Portraits, marzo–maggio 2014, Berkeley; The Reva and David Logan Gallery at UC Berkeley’s Graduate School of Journalism.[34]
Vivian Maier, Photographer, marzo–maggio 2014, Fribourg, Svizzera; Cantonal and University Library.[35]
Vivian Maier: Out of The Shadows, marzo–settembre 2014, Chicago, Illinois; Harold Washington Library.[36]
Vivian Maier – A Photographic Journey, maggio–luglio 2014, Highland Park; The Art Center Highland Park.[37]
In occasione dei 110 anni dalla nascita di Robert Capa (22 ottobre 1913) rendiamo omaggio al grande fotografo ungherese con una mostra personale che ripercorre i principali reportage di guerra e di viaggio che Capa realizzò durante vent’anni di carriera, anni che coincisero con i momenti cruciali della storia del Novecento.
Realizzata grazie alla collaborazione con l’agenzia Magnum Photos, la mostra riunisce un eccezionale corpus di fotografie: oltre 80 stampe originali, alcune delle quali mai esposte prima in una mostra italiana, accompagnate da una rara intervista rilasciata dal fotoreporter a una radio americana nel 1947 e da alcuni documenti d’epoca provenienti dalla collezione di Magnum.
Attraverso sette sezioni e con un percorso diacronico vengono raccontati i più importanti reportage in bianco e nero realizzati da Robert Capa, dagli esordi a Berlino e Parigi (1932-1936) alla guerra civile spagnola (1936-1939); dall’invasione giapponese in Cina (1938) alla seconda guerra mondiale (1941-1945); dal reportage di viaggio in Unione Sovietica (1947) a quello sulla nascita di Israele (1948-1950), fino all’ultimo incarico come fotografo di guerra in Indocina (1954).
Nei suoi vent’anni di carriera ha raccontato la storia restando sempre fedele al suo celebre aforisma: “se le tue foto non sono abbastanza buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino”.
L’azione – con tutta la sua dinamicità e forza propulsiva – spicca tra gli scatti come un fil rouge, che si dipana anche nei ritratti presenti in mostra, volutamente pochi e scelti per ricordare al pubblico i volti della Storia – come quello di Trockij ardente oratore – o della sua storia personale, come quello di Picasso, fotografato nel suo studio di Parigi dove era rimasto anche durante l’occupazione, e dell’amico Steinbeck con cui intraprese il viaggio oltre la cortina di ferro, nel ’47.
Il libro di Ludovico Quaroni, l’architetto che fotografava Roma
By Angela Madesani
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Ludovico Quaroni
È stato uno dei protagonisti della ricostruzione postbellica, uno dei più noti docenti della facoltà di Architettura della Capitale, Ludovico Quaroni (Roma, 1911-1987), al quale Humboldt Books dedica un volumetto delizioso, Roma 1968. Il libro contiene le immagini che Ludovico e il nipote Livio hanno dedicato a Roma, ma, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, non ci troviamo di fronte a un libro di immagini di architettura, piuttosto a una serie di fotografie di documentazione della città, dove accanto agli edifici ci sono le persone, anch’esse protagoniste delle immagini. Quella del grande architetto è una lettura libera, che ha un precedente nel bel volume pubblicato da Laterza nel 1969, Immagine di Roma. LE FOTOGRAFIE ROMANE DI LUDOVICO QUARONI
Ludovico Quaroni
Il libro è accompagnato da un prezioso testo di un allievo di Quaroni, Francesco Pecoraro, introdotto da una frase dell’architetto che ci fa comprendere il senso di tale lavoro: “Vogliamo che si sviluppi una critica delle città, accanto alla critica letteraria, alla critica delle arti plastiche, del cinematografo e della musica”. Le sue non sono delle semplici immagini, ma un autentico strumento di lavoro: “Per lui fotografare Roma” ‒ spiega Pecoraro ‒ “significava coglierne qui e là, con un solo scatto, la complessità e la manomissione, la contraddizione e la sovrapposizione degli elementi che la compongono (che la componevano negli anni Sessanta), il lascito, le ferite indelebili, le effrazioni, le profanazioni, le distruzioni, su cui, se davvero ce ne importasse qualcosa, piangeremmo”. In quelle foto sono poste accanto tante città diverse, quella dei poveri, della piccola borghesia, degli accattoni. Una città complessa, che potrebbe somigliare, per certi punti di vista, a quella che Pasolini ci ha raccontato in Mamma Roma, uno dei suoi capolavori cinematografici.
Ludovico Quaroni
ROMA VISTA DA QUARONI
Ci troviamo proprio, secondo il pensiero di Quaroni, di fronte a un continuum, di case, cose, persone, alberi, fiume. Non c’è soluzione di continuità. Uno spazio particolare hanno le automobili spesso presenti, simbolo di conquista negli Anni del boom. La sua è un’indagine di matrice sociale di notevole importanza, che ci aiuta a comprendere la situazione romana di quel periodo, assai diversa da quella milanese. I casermoni popolari sono accanto ai campi e alle baraccopoli nella prima periferia della città, in un insieme in cui è la tristezza a dominare.
Chiude il libro un bel testo di Ludovico Quaroni accompagnato dai provini annotati a mano dall’architetto, che ci fanno comprendere la sua metodologia lavorativa.
‒ Angela Madesani
Ludovico Quaroni – Roma 1968
Humboldt Books, Milano 2021
Pagg. 112, € 20
ISBN 9788899385873 www.humboldtbooks.com
Ludovico Quaroni-Nacque a Roma il 28 marzo 1911, figlio di Giuseppe, ingegnere, e di Sofia Pia Seitz. I Seitz erano un’antica famiglia di pittori e incisori tedeschi che avevano aderito al movimento dei nazareni. Sofia Pia era figlia di Ludovico (Roma, 11 giugno 1844-Albano Laziale, 11 settembre 1908), autore della cappella dei Tedeschi nella basilica di Loreto e dell’affresco della chiesa di S. Maria dell’Anima a Roma; fu anche direttore della Pinacoteca Vaticana. A sua volta Ludovico era figlio di Alexander Maximilian, un allievo di Peter von Cornelius, al seguito del quale, nella prima metà dell’Ottocento, si era trasferito in Italia con tutta la famiglia.
Quaroni ebbe due fratelli maggiori, Pietro (1898-1971), diplomatico e politico, presidente della RAI tra il 1964 e il 1969, e Giorgio (1907-1960), pittore e scultore, esponente della corrente artistica del muralismo nella sua declinazione italiana, che vide come massimo esponente Mario Sironi. Giorgio e Ludovico ebbero un ruolo importante nelle opere romane per l’E42, il quartiere pianificato da Marcello Piacentini per l’Esposizione universale del 1942, che non ebbe luogo a causa della guerra; i due fratelli collaborarono anche alla realizzazione della chiesa per la messa al campo nel foro Mussolini a Roma (1937), all’allestimento del padiglione delle Conquiste alla Mostra d’Oltremare di Napoli (1940) e al progetto della chiesa del Prenestino di Roma (1947).
Dopo aver frequentato il liceo classico Ennio Quirino Visconti ottenendo il diploma nel 1928, Quaroni intraprese gli studi di architettura, come dichiarò in alcune interviste, per seguire le orme del padre. L’altro suo grande interesse fu la musica, che aveva cominciato a studiare fin da giovane frequentando i corsi di violoncello presso il conservatorio di Roma e giungendo alle soglie del diploma.
La musica fu una passione che lo accompagnò per tutta la vita, diventando il centro di lunghe dissertazioni con alcuni suoi collaboratori, convinti che per parlare di architettura si dovesse anche parlare d’altro, mantenendo alta la tensione intellettuale, tra analisi sistematica, confronti, metafore.
Nel 1934 si laureò con lode a Roma, con un progetto per il ministero degli Esteri. La laurea concludeva un percorso di studi di eccellenza in tutte le materie, coronato dall’assegnazione della medaglia d’oro come miglior laureato, che gli valse una borsa di studio della Fondazione Mario Palanti intitolata a Manfredo Manfredi. In seguito, ottenuta l’abilitazione all’esercizio della professione, aprì uno studio con Francesco Fariello e Saverio Muratori, con i quali partecipò ai concorsi di architettura della metà degli anni Trenta, che furono, a Roma in particolare, campo di sperimentazione per un’architettura nuova. È del 1935 il progetto di concorso per il nuovo auditorium di Roma, per il quale successivamente, nel 1937, i tre elaborarono una versione ideale da inserire nel parco di villa Borghese; del 1936 è quello per il piano regolatore di Aprilia e quello per la pretura unificata di Roma. Nel 1937 i tre risultarono vincitori ex aequo con Luigi Moretti del concorso per la piazza Imperiale dell’E42, uno dei complessi del quartiere romano destinato all’esposizione universale, la cui costruzione cominciò prima della guerra per concludersi tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del 1960, in occasione delle Olimpiadi romane.
La grande piazza è perimetrata da quattro edifici che ospitano i Musei delle scienze, etnografico, dell’arte antica e dell’arte moderna. Il gruppo di Quaroni è autore degli ultimi due.
In questo primo periodo di attività, molto intenso sotto il profilo culturale, Quaroni proseguì il suo percorso di formazione frequentando da neolaureato la scuola di perfezionamento in urbanistica di Roma e nel 1936 il corso di scenografia presso il Centro sperimentale di cinematografia. Strinse legami con l’ambiente intellettuale romano, entrando in contatto con figure di spicco quali Massimo Bontempelli, Giuseppe Capogrossi, Cipriano Efisio Oppo. Gli anni della formazione si svolsero in un clima culturale contraddittorio. A Roma, la tensione verso il rinnovamento dell’architettura affondava le radici nella retorica nazionalista; timidi tentativi di aprirsi al dibattito internazionale erano soffocati all’interno dello scontro tra modernisti e conservatori, tra MIAR (Movimento Italiano per l’Architettura Razionale) e RAMI (Raggruppamento Architetti Moderni Italiani), alla ricerca di un bilanciamento fra tradizione, modernità e stile.
In questo contesto nel 1936 ebbe inizio anche l’impegno di Quaroni nella didattica universitaria: fu assistente di Enrico Del Debbio nel corso di disegno architettonico e rilievo dei monumenti, e di Piacentini nel corso di urbanistica. In seguito, dal 1939 fu assistente di Plinio Marconi e nel 1940 ottenne la libera docenza in composizione architettonica.
Sia l’impegno accademico sia quello professionale si interruppero quando, il 31 maggio 1940, fu chiamato alle armi: sbarcato a Tripoli, in Libia, l’8 giugno di quell’anno, fu impegnato in azioni di guerra a Bengasi dall’11 giugno al 6 febbraio 1941; disperso nella battaglia di Agedabia in Cirenaica, fu fatto prigioniero dagli inglesi il 7 febbraio 1941 e portato prima in Egitto e da lì in India, ove scontò una lunga prigionia durante la quale trovò conforto alla privazione della libertà impegnandosi nell’organizzazione di concorsi di architettura, mostre, corsi di urbanistica per gli architetti, gli ingegneri e i geometri che con lui condividevano la reclusione.
Per riempire le lunghe giornate di prigionia disegnava progetti ideali: al centro, il tema della residenza unifamiliare, ma anche dell’abitare collettivo, frutto della riflessione sull’esperienza personale del «vivere insieme», che sarebbe diventata materia di lavoro nell’immediato dopoguerra. E durante questo periodo elaborò anche alcuni progetti per il maragià dello Stato di Dewas.
Dopo quasi cinque lunghi anni di prigionia in India, ritornò in patria sbarcando a Taranto il 2 gennaio 1946. Nel 1949 sposò Marcella Coromaldi, dalla quale ebbe una figlia cui fu dato il nome della madre di Ludovico, Sofia.
Il ritorno all’attività fu segnato dal coinvolgimento nell’opera di rinnovamento dell’architettura italiana a più livelli: nella didattica, all’interno dell’APAO (Associazione Per l’Architettura Organica) di Bruno Zevi e dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica), del quale fu vicepresidente dal 1947 al 1951 e presidente del consiglio direttivo per il Lazio dal 1949 al 1951, ma soprattutto nell’attività progettuale. Con Mario Ridolfi inaugurò la stagione neorealista dell’architettura italiana, partecipando ai due progetti-manifesto della ricostruzione del Paese: il concorso per il fabbricato viaggiatori della stazione Termini (1947) e il progetto per il quartiere Tiburtino, entrambi a Roma.
Il primo progetto, sviluppato con Ridolfi, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino, Arrigo Carè, Giulio Ceradini, è considerato il vincitore morale del concorso, anche se l’edificio realizzato è il frutto della collaborazione dei due primi classificati ex aequo, il raggruppamento composto da Leo Calini e Eugenio Montuori e quello formato da Massimo Castellazzi, Vasco Fadigati, Achille Pintonello, Annibale Vitellozzi. Per il secondo, il Tiburtino, Ridolfi e Quaroni furono capigruppo di uno dei principali interventi di ricostruzione nati con la legge n. 43 del 28 febbraio 1949, ideata da Amintore Fanfani per realizzare alloggi a basso costo e favorire l’impiego di massa di lavoratori non specializzati nel settore edilizio.
A Roma, insieme al Tuscolano e a Valco San Paolo, l’esperienza del Tiburtino (1950-56) fu terreno di sperimentazione delle ricerche sull’abitazione per giovani architetti che si affacciavano alla professione, guidati dai maestri della generazione precedente, tra i quali Quaroni, delusi dall’esperienza dell’architettura come arte di Stato, che aveva loro fornito occasioni progettuali di grande respiro, ma li aveva anche condotti a discutibili compromessi tra metafisiche astrazioni e monumentali neoclassicismi.
I quartieri INA-Casa, in tutta Italia, furono una sorta di laboratorio per le ricerche sull’abitazione. In particolare, il Tiburtino accoglie gran parte delle ricerche svolte da Ridolfi presso il CNR (Centro Nazionale delle Ricerche) ed esemplifica la proposta culturale veicolata dalla pubblicazione del Manuale dell’architetto (1945). Il quartiere è composto di diversi tipi di edifici (a torre, a schiera, in linea), collocati in modo da ricreare la contiguità spaziale propria delle città, secondo un nuovo modello – quello che documentò la posizione presa da Quaroni sul disegno della città – poi sviluppato nel decennio successivo e che ritenne l’impegno sociale la via del riscatto del Paese dalle ferite della guerra. Una sorta di responsabilità morale del progettista che condusse il Quaroni degli anni Cinquanta a produrre un’architettura anonima, quella che fu appunto collocata dalla critica all’interno del movimento neorealista, ma che Quaroni stesso, nel 1957, immediatamente dopo la conclusione dell’esperienza della ricostruzione, disconobbe e definì «Paese dei barocchi»: architettura degli stati d’animo, prodotto di un’urgenza da una parte, e dall’altra di una revisione e di una rinuncia al dibattito sulla modernità.
«Il paese dei barocchi non è il risultato di una cultura solidificata, di una tradizione viva: è il risultato di uno stato d’animo. Lo stato d’animo che ci sosteneva in quei giorni, nei quali, per ognuno di noi, qui a Roma, interessava solo fare qualche cosa che fosse distaccato da certi errori di un certo passato al quale rimproveravamo la sterilità e il fallimento sul piano umano» (Quaroni, in Casabella Continuità, 1957, n. 215, p. 24).
Fu con la costruzione del villaggio operaio della Martella (Matera, 1951) che Quaroni mise definitivamente al centro del progetto la questione sociale. La vicenda ebbe inizio nell’ambito degli studi dell’UNRRA-Casas (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), sostegno economico che l’amministrazione delle Nazioni Unite elargì per favorire la ricostruzione italiana. Nel 1949 Quaroni, con Piero Maria Lugli, Michele Valori, Federico Gorio e Luigi Agati, fece parte della commissione incaricata della realizzazione di alloggi per la comunità contadina che viveva nei Sassi. Questa esperienza fu l’occasione dell’avvio di un sodalizio duraturo con Adriano Olivetti, che all’epoca era commissario dell’UNRRA-Casas e presidente dell’INU. Quaroni avrebbe partecipato al movimento olivettiano e alla rivista Comunità e sarebbe stato redattore del piano regolatore di Ivrea (1952).
Se nell’esperienza del Tiburtino erano le «case con il tetto» a definire la figura urbana, laconica, del dopoguerra come antitesi alle architetture con la copertura piana, icone del moderno, alla Martella si rileva la pressoché totale assenza di ricerca figurativa a favore di una perentoria opzione per il valore del vicinato. Unica concessione all’immagine neorealista, la chiesa del villaggio, posta in cima all’altura, con la parete di fondo in vetro perché le celebrazioni fossero aperte a tutti.
Appartiene al complesso di opere che Quaroni realizzò nel dopoguerra anche la chiesa di Francavilla al Mare (1949-58), un’architettura semplice, frutto della collaborazione con Pietro Cascella, costruita sulle ceneri della precedente chiesa settecentesca, distrutta durante il secondo conflitto mondiale. Il progetto vincitore del concorso, indetto nel 1948, affrontava il tema dell’edificio sacro come occasione per riflettere sul «moderno misticismo» (Tafuri, 1964, p. 84), vicina allo spirito della gente nella scelta dell’impianto, variazione ottagonale allungata dell’aula basilicale, anticipatrice dello stile post-antico che Quaroni espresse nelle sue ultime opere per il riuso di alcuni elementi del lessico storico.
Gli anni Sessanta furono caratterizzati da progetti sulla grande scala. Quaroni fu interprete della rinascita del town design, anticipando già nel 1954, con la redazione del piano di Ivrea e con gli studi per quello di Roma, il suo interesse per il progetto urbano, sviluppato poi nel piano di Ravenna (1956-57), di Cortona (1957) e di Bari (1965), messo in pratica nelle proposte per il centro direzionale di Torino e per l’asse attrezzato di Roma. Fu però con il progetto di concorso per il quartiere CEP (Coordinamento dell’Edilizia Popolare) alle Barene di San Giuliano (1958), un’area compresa tra Marghera, Mestre e Venezia, che Quaroni, coordinatore di un gruppo composto da Massimo Boschetti, Adolfo De Carlo, Gabriella Esposito, Luciano Giovannini, Aldo Livadotti, Luciana Menozzi, Alberto Polizzi e Ted Musho, aprì nuovi orizzonti operativi per il progetto a scala urbana.
Recuperava la dimensione utopistica e visionaria nel disegno di grandi piazze circolari che raggiungevano ampiezze di 400 m di diametro, delimitate da edifici, adibiti a centro direzionale, alti fino a 16 piani.
Importante si rivelò l’impegno di Quaroni nella pubblicistica negli anni Sessanta e Settanta: dal 1972 fu curatore della collana Planning & design, per i tipi di Mazzotta editore, e dal 1977 fece parte del comitato di redazione della rivista Parametro.
Con La Torre di Babele (Padova 1967), su suggerimento di Aldo Rossi, raccolse in un unico libro gli scritti sulla città, affrontando il problema del disegno per la città moderna, cioè della necessità e della possibilità di ridare figura alla metropoli attraverso nuovi strumenti progettuali.
Dieci anni dopo Quaroni diede alle stampe Progettare un edificio. Otto lezioni di architettura (1977).
Questa volta il testo era rivolto agli studenti di architettura, scritto come dispensa per il corso di progettazione architettonica nell’anno accademico 1974-75: ancora oggi esso è ritenuto testo fondamentale per la didattica della progettazione, adottato in tutta Italia nei corsi universitari.
In questi anni Quaroni sposò in seconde nozze Gabriella Esposito, dalla quale ebbe un figlio, Massimiliano Emilio.
Se gli anni Sessanta furono caratterizzati da studi alla grande scala, quelli dell’ultimo periodo di attività ebbero come tema la grande forma. Mentre nasceva il postmoderno, Quaroni proponeva una sorta di architettura post-antica. Gli elementi architettonici (colonna, basamento, attacco a terra e attacco al cielo) divennero elementi archetipici, geometrici o iconici.
Ne sono esempi la sfera della chiesa di Gibellina (concorso del 1970, con Luisa Anversa, Giangi D’Ardia, Livio Quaroni) e il colonnato del progetto per l’ampliamento del teatro dell’Opera a Roma (1983), che doveva essere formato da ottantadue colonne di granito rosa scuro legate da una trabeazione di derivazione industriale.
Quaroni è autore di più di 340 tra progetti e realizzazioni e fu per tutta la vita un grande didatta.
A Roma tra il 1949 e il 1951 fu incaricato di storia della critica urbanistica, e di urbanistica a Roma e Napoli tra il 1951 e il 1955. Nel 1955 vinse il concorso per la cattedra di urbanistica a Firenze, dove insegnò, svolgendo anche il compito di direttore dell’istituto di urbanistica, fino al 1964, quando fu chiamato a Roma a coprire il ruolo di ordinario nella cattedra di composizione architettonica rimasta vacante per la morte improvvisa di Adalberto Libera. A Roma insegnò dal 1965 al 1981, anno del pensionamento, ricoprendo anche il ruolo di direttore dell’istituto di progettazione.
Fu visiting professor presso il MIT (Massachusetts Institute of Technology), responsabile per le relazioni culturali tra le Università di Roma e di Teheran, vicepresidente dell’Accademia di S. Luca dal 1981 al 1982, presidente nel biennio successivo e membro del Consiglio superiore dei lavori pubblici.
Risultò vincitore di numerosi premi, tra i quali il Diplome de Grand Prix all’Exposition internationale de l’urbanisme et de l’habitation nel 1947, e ricevette più volte la targa IN/Arch (Istituto Nazionale di Architettura), oltre a riconoscimenti in sei edizioni della Triennale di Milano (1936, 1940, 1947, 1951, 1954 e 1960).
Agli studenti dedicò un documento in 42 punti, esposto nella sua ultima lezione presso la facoltà di architettura e pubblicato postumo sulla rivista Domus (dicembre 1987, n. 689), dove, come in un testamento, tocca tutti i temi relativi al progettare, alla conoscenza, alla città e alla storia.
Crespi, Profili di architetti: Q., in Comunità, novembre 1957, n. 54, pp. 52-59; M. Tafuri, L. Q. e lo sviluppo dell’architettura moderna in Italia, Milano 1964; A. Quistelli, Progetti dello studio Quaroni. Dieci anni di esperienze didattiche e professionali, in Controspazio, luglio-agosto 1973, n. 2, pp. 8-42; L. Q. Architetture per cinquant’anni, a cura di A. Terranova, Roma-Reggio Calabria 1985; L. Q.: dieci quesiti e cinque progetti, a cura di A. Orlandi, Roma 1986; L. Q., in Lezioni di progettazione. 10 maestri dell’architettura italiana, a cura di M. Montuori, Roma 1988, pp. 182-217; L. Barbera, Cinque pezzi facili dedicati a L. Q., Roma 1989; P. Ciorra, L. Q. 1911-1987. Opere e progetti, Milano 1989; C. Conforti, L. Q., in Dizionario dell’architettura del XX secolo, a cura di C. Olmo – M.L. Scalvini, V, Torino 2001, pp. 177-180; Il moderno attraverso Roma: guida alle opere romane di L. Q., a cura di A. Greco – G. Remiddi, Roma 2003; ModernoContemporaneo. Scritti in onore di L. Q., a cura di F. Toppetti – O. Carpenzano, Roma 2006; P. Bonifazio, Fondo L. Q., in Bollettino AAA/Italia, 2010, n. 9, p. 42; Intervista a L. Q., Ivrea 2011; A. Riondino, L. Q. e la didattica dell’architettura nella Facoltà di Roma tra gli anni ’60 e ’70, Roma 2012; L’architettura delle città – The Journal of the scientific society L. Q., 2013, nn. 1-2, monografico: L.Q. l’Architetto/L.Q. the Architect, a cura di A. Del Monaco et. al.
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025-
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025-Sabato Santo -Pasqua del Signore– Fotoreportage di Franco LEGGERI-citando il Poeta
Johann Wolfgang von Goethe che così dipinse la nostra Campagna Romana: “Armonia eterea, delle ombre chiare e azzurre, fuse nel vapore che tutto avvolge in una sinfonia di trasparenze lucenti”.
Poeta Johann Wolfgang von Goethe
Campagna Romana-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
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Etimologia
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
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Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
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A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
Tigre dell’Amur simbolo della città di Vladivostok
Valentin Gritsenko:”Lo sapete che la tigre dell’Amur è il simbolo di Vladivostok dal 1881? Questo favoloso felino è raffigurato sull’emblema della città e ci sono statue e immagini ovunque”.
Vladivostok venne fondata nel 1859 dal conte Nikolaj Murav’ëv-Amurskij; i russi, compresa subito l’importanza strategica dell’insediamento, fortificarono la città. Nel 1871 venne aperta la linea telegrafica che la univa con Shanghai e Nagasaki. Nello stesso anno venne aperto il porto e vi fu trasferito il quartier generale della Flotta del Pacifico, precedentemente posto a Nikolaevsk-na-Amure. Nove anni dopo le venne garantito lo status di città, mentre nel 1883 venne adottato come stemma cittadino la tigre siberiana.
XIX secolo
Il 31 ottobre 1861 a Vladivostok arrivò il primo colonizzatore civile, il mercante Jacov Semenov. Il 15 marzo 1862 fu firmato l’acquisto del territorio, mentre nel 1870 l’uomo divenne il primo sindaco della nuova città. Nello stesso periodo una commissione del Governo decise che Vladivostok dovesse essere un importante polo portuale dell’Estremo Oriente[3][4].
Nel 1871 vennero spostati a Vladivostok da Nikolaevsk-na-Amure il quartier generale della Flotta Siberiana della Marina russa, il Comando militare ed altri Enti navali. Nel 1880 Vladivostok ottenne lo status di città[4], e negli anni ’90 del XIX secolo avvenne il boom demografico[5] ed economico della città. I fattori che determinarono tale progresso furono il completamento della costruzione della ferrovia Transiberiana e della ferrovia cinese orientale. I dati del primo censimento avvenuto nell’Impero russo il 9 febbraio 1897 attestano che in quel momento nella città risiedevano 28.993 persone, mentre dieci anni dopo la popolazione cittadina era triplicata[5]. Lo sviluppo del commercio internazionale e la forte attività commerciale russa in Corea, Cina e Giappone, portarono alla necessità dell’insediamento nella città di numerosi interpreti. Con il provvedimento del 9 luglio 1899 da parte del Consiglio di Stato dell’Impero russo fu creata a Vladivostok l’Università d’Oriente.
Al momento dell’instaurazione del governo bolscevico, la città di Vladivostok era in declino, visto che uscendo dalla città, le truppe nipponiche avevano depredato la maggior parte dei beni materiali. La vita si paralizzò: nelle banche erano assenti le ricchezze monetarie che nel XIX secolo avevano portato la città a un periodo di splendore, l’attrezzatura delle industrie era scomparsa, rivenduta dagli operai. A causa dell’emigrazione e della repressione dei cittadini la popolazione calò vertiginosamente a 106.000 cittadini. Nel 1923 il Governo attuò un piano finalizzato alla ripresa portuale, che nel 1925 divenne il settore più redditizio dell’economia del paese sovietico.
Seconda guerra mondiale
Vladivostok non fu teatro di guerra durante il secondo conflitto mondiale. Tuttavia, durante gli anni di guerra l’allerta fu sempre massima a causa della preoccupazione di un possibile attacco giapponese. La città fu la prima a partecipare al «Fondo della Difesa», consistente nella donazione di oggetti di valore dei cittadini al Governo per l’acquisto di materiale militare.[6]
Dopo la seconda guerra mondiale
Il Consiglio dei ministri dell’URSS mise in discussione un possibile impedimento per gli stranieri a entrare nella città; infatti dopo la seconda guerra mondiale Vladivostok si confermò importante porto della Marina militare sovietica. Oltre all’impossibilità per gli stranieri di solcare il territorio della città dell’Estremo Oriente, fu messa in discussione la chiusura delle ambasciate straniere. Il porto commerciale sarebbe stato spostato a Ussurijsk. Il provvedimento fu attuato il primo gennaio 1952.
Durante gli anni del «disgelo», il Governo rivolse in modo particolare l’attenzione a Vladivostok. La prima visita dell’allora segretario del PCUSChruščёv avvenne nel 1954.
In quegli anni le infrastrutture cittadine si trovavano in uno stato pessimo. Nel 1959 il leader dell’URSS visitò per la seconda volta la città costiera, questa volta con il compito di parlare con i rappresentanti della città del miglioramento economico e sociale della località. Infatti, il 18 gennaio 1960 venne approvato l’emendamento «Per la realizzazione del miglioramento della città di Vladivostok». Negli anni ’60 viene costruita la linea della filovia e la città diventa un enorme cantiere: nelle zone circostanti la città vennero costruiti nuovi distretti, il centro fu rimodernato.
Il 20 settembre 1991 il presidente dell’RSFSRBoris Elc’in firmò il provvedimento che eliminava il divieto di visita della città da parte di stranieri.[8]
Periodo contemporaneo
Dopo lo scioglimento dell’URSS l’economia cittadina si trasformò da fiorente in quasi inesistente. Furono chiusi gli stabilimenti di produzione militare, provocando un altissimo numero di disoccupati. Negli anni ’90 Vladivostok era il centro del lavoro illegale e del contrabbando. A causa del peggioramento del livello di vita, crollò il tasso di fecondità e si verificò una numerosissima migrazione interna.[9]
All’inizio del XXI secolo si registrò un miglioramento sociale ed economico. Il 4 novembre 2010 Vladivostok fu insignita del titolo di «Città di gloria militare».[10]
Il nuovo sviluppo della città raggiunse un livello importante nel 2012, quando fu ospitata la riunione dell’APEC. Grazie all’evento furono spesi 20 miliardi di dollari per la sostituzione delle vecchie infrastrutture. I progetti più importanti che sono stati realizzati sono la costruzione del ponte «Corno d’oro» e il ponte dell’isola Russkij, un nuovo complesso aereo-ferroviario e dell’Università federale dell’Estremo oriente.
-Alberto Sughi -Artista del realismo esistenziale-
I disegni :”momenti di vita quotidiana senza eroi”-
Alberto Sughi
Alberto Sughi (Cesena 5 ottobre 1928-Bologna 31 marzo 2012)-Artista del realismo esistenziale ,si era trasferito a Roma nel 1948, dove aveva frequentato il gruppo artistico del Portonaccio, animato da Renzo Vespignani, che lo influenzerà nelle successive ricerche legate al realismo a sfondo sociale.
Scelse la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. I dipinti di Sughi rifuggono tuttavia ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. Enrico Crispolti nel 1956 nel inquadrò la sua pittura nell’alveo del realismo esistenziale.
Scelse la strada del realismo, nell’ambito del dibattito fra astratti e figurativi dell’immediato dopoguerra. I dipinti di Sughi rifuggono tuttavia ogni tentazione sociale; mettono piuttosto in scena momenti di vita quotidiana senza eroi. Enrico Crispolti nel 1956 inquadrò la sua pittura nell’alveo del realismo esistenziale.
La ricerca di Alberto Sughi procede per cicli tematici: le cosiddette Pitture verdi, dedicate al rapporto fra uomo e natura (1971-1973), il ciclo La cena (1975-1976); agli inizi degli ’80 appartengono i venti dipinti e i quindici studi di Immaginazione e memoria della famiglia; dal 1985 la serie La sera o della riflessione. L’ultima serie di dipinti, esposta nel 2000, è intitolata Notturno.
“Donna sul divano Rosso”, 1959, Olio e tempera su tavola 150×120 cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Uomini al bar”, 1960, Olio e tempera su tela 180×130 cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La cena. Uomo che mangia”, 1975, Acrilico su tavola 100×70 cm, Roma, collezione privata, Milano Collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La cena. Donna sola”, 1976, Acrilico su tela 180×120 cm, Fiuggi, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Donna davanti al televisore”, 1981, Acrilico su tela 158×158 cm, Roma, collezione dell’Artista – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La lavanda dei piedi”, 1981, Acrilico su tela 160x160cm, Cesena, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Tramonto romano”, 1983, Olio su tela 180×250 cm, Sessa Aurunca, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Teatro d’Italia”, 1984, Olio su tela 250×360 cm, Cesena, collezione Cassa di Risparmio – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Guardare fuori”, 1985, Olio su tela 100×120 cm, Trezzano sul Naviglio, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La sera”, 1985, Olio su tela 120×100, Roma, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“La poltrona del potere”, 1969, Olio su tela 110×140 cm, Trezzano sul Naviglio, collezione privata – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub;
“Villa sull’Adriatico”, 1973, Olio su tela 120×100 cm, Roma, collezione dell’Artista – Fonte: Alberto Sughi – Il Gioco dell’apparenza 5 cicli pittori dal 1960 al 1986, Edizioni dell’Uniclub.
Torrita Tiberina-(RM)- Fondazione Mario & Maria Pia Serpone
Parco d’Arte Contemporanea nel cuore della Sabina
La Collezione-La Fondazione Mario e Maria Pia Serpone, un parco d’arte contemporanea nel cuore della Sabina, a soli 40km da Roma. Le opere della collezione sono orientate in corrispondenza con le stelle madri della costellazione del Toro dando forma ad un’architettura invisibile che accompagna i visitatori a scoprire installazioni all’aperto di artisti come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Bruno Munari e Luca Maria Patella, per citarne alcuni. Oltre a ciò, la Fondazione è orgogliosa di ospitare due rarità nel panorama artistico internazionale: un ‘bottle crash’ di Shozo Shimamoto, la quale opera è un work in progress oggetto di performance annuali; e la cappella Nitsch, una cappella che il fondatore dell’azionisimo viennese Hermann Nitsch ha allestito con sue opere create in loco. Un luogo d’incontro per quanti celebrano l’amore, la libertà, la pace e l’equilibrio nel rispetto reciproco di tutte le forze che governano la natura, l’istituzione ha come centro d’interesse lo studio, la riflessione e la diffusione dell’arte contemporanea. La fondazione è visitabile esclusivamente su prenotazione.
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Per info e per organizzare una visita, scrivere a: info@fondazioneserpone.org.
La collezione permanente
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Una fondazione dove opere d’arte contemporanea contornano il prato, ne seguono le curve, lo impreziosiscono con significati estetici e lo ridisegnano, nobilitando lo spazio con installazioni ambientali a cielo aperto, con performance e con tutto quanto possa prendere forma d’arte attraverso il linguaggio del contemporaneo, in perfetta relazione con l’ambiente.
La cappella Nitsch
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Uno spazio nel bosco concepito come una piccola cappella, il cui progetto, sottoposto al parere dell’artista, ha riscontrato la sua piena approvazione. Hermann Nitsch ha dato, infatti, la sua totale disponibilità per l’allestimento e arredamento della stessa, con opere ed installazioni da realizzarsi in loco.
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Hermann Nitsch, artista austriaco, massimo esponente dell’azionismo viennese, filosofo, musicista e pittore dal 1957 si dedica alla concezione del suo “Orgien Mysterien Theater”(OMT): forma di arte totale che coinvolge tutti e cinque i sensi. Per Nitsch, teatro, palcoscenico, musica, architettura e natura divengono imprescindibili l’uno dall’altro.
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Nelle sue opere si evidenzia l’aspetto drammatico di una “liturgia ematica”, che ripercorre concettualmente il processo di sublimazione dolorosa del “sangue glorioso”. Il sacrificio diviene elemento centrale di un processo di identificazione-coinvolgimento, che travolge i tradizionali schemi comportamentali.
L’opera di Nitsch è riconosciuta a livello mondiale. L’Austria e precisamente Mistelbach gli ha dedicato un museo personale, così come anche la Fondazione Morra a Napoli gli ha dedicato un museo a lui intitolato, inaugurato nel 2008; inoltre le sue opere sono presenti nei più importanti musei di arte contemporanea.
Contattaci-Per organizzare una visita della Fondazione Serpone, un evento privato o per avere maggiori informazioni sui nostri progetti e collaborazioni, inviaci una mail: info@fondazioneserpone.org
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