Descrizione del libro di Han Kang “La vegetariana”-«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi.
Han Kang premio Nobel per la letteratura 2024–“La vegetariana”-
Figlia dello scrittore Han Seung-won[2], è nata a Gwangju il 27 novembre 1970. Dopo gli studi all’Università Yonsei di Seul (letteratura coreana)[3], esordisce pubblicando una serie di cinque poesie nella rivista coreana Letteratura e società[4] nel 1993.[5] L’anno successivo esce il suo primo romanzo[6] al quale ne seguiranno altri cinque. Dal 2013 insegna scrittura creativa al Seoul Institute of the Arts[7].
Han Kang premio Nobel per la letteratura 2024–“La vegetariana”-
Han Kang premio Nobel per la letteratura 2024
Il 25 maggio 2019 ha consegnato un suo manoscritto inedito intitolato Dear Son, My Beloved alla Biblioteca del futuro, un progetto artistico culturale ideato da Katie Paterson. Così come le altre opere di questa biblioteca anche il libro di Han verrà pubblicato e reso disponibile solo nel 2114, cento anni dopo l’avvio dell’iniziativa.[10]
Il 10 ottobre 2024 viene insignita del Premio Nobel per la letteratura, con la seguente motivazione: “per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana”[11][12], divenendo il primo rappresentante del suo Paese a vincere un Nobel in questa categoria[13].
사랑과, 사랑을 둘러싼 것들 (letteralmente L’amore e le cose che circondano l’amore), 2003.
가만가만 부르는 노래 (letteralmente Una canzone cantata sottovoce), Bichae, 2007. ISBN 9788992036276 Il libro include un CD musicale di 10 brani in veste di autrice e cantante di canzoni.[15]
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Tristano e Isotta(Tristan und Isolde) è un dramma musicale di Richard Wagner, su libretto dello stesso compositore. Costituisce il capolavoro del Romanticismo tedesco e, allo stesso tempo, è uno dei pilastri della musica moderna, soprattutto per il modo in cui si allontana dall’uso tradizionale dell’armonia tonale.
Richard Wagner-
La trama è basata sul poemaTristan di Gottfried von Straßburg, a sua volta ispirato dalla storia di Tristano raccontata in lingua francese da Tommaso di Bretagna nel XII secolo. Wagner condensò la vicenda in tre atti, staccandola quasi completamente dalla storia originale e caricandola di allusioni filosofiche di stampo schopenhaueriano.
Decisivo per la stesura dell’opera fu l’amore intercorso tra il musicista e Mathilde Wesendonck (moglie del suo migliore amico), destinato a restare inappagato. Wagner era ospite dei Wesendonck a Zurigo, dove ogni giorno Mathilde poteva ammirare pagina per pagina l’evolvere della composizione. Trasferitosi a Venezia per fuggire lo scandalo, Wagner si ispirò alle notturne atmosfere della città lagunare, dove scrisse il secondo atto e dove attinse l’idea per il preludio del terzo. Scrisse Wagner nella sua autobiografia:
«In una notte d’insonnia, affacciatomi al balcone verso le tre del mattino, sentii per la prima volta il canto antico dei gondolieri. Mi pareva che il richiamo, rauco e lamentoso, venisse da Rialto. Una melopea analoga rispose da più lontano ancora, e quel dialogo straordinario continuò così a intervalli spesso assai lunghi. Queste impressioni restarono in me fino al completamento del secondo atto del Tristano, e forse mi suggerirono i suoni strascicati del corno inglese al principio del terz’atto.»
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Terminato a Lucerna nel 1859, Tristano venne inizialmente proposto al teatro di Vienna, dove però fu respinto in quanto giudicato ineseguibile. Dovettero trascorrere ben sei anni prima che il dramma potesse essere rappresentato per la prima volta al Koenigliches Hof- und National- Theater (Opera di Stato della Baviera) di Monaco di Baviera il 10 giugno 1865, diretta da Hans von Bülow con Ludwig e Malwina Schnorr von Carolsfeld nelle parti dei due protagonisti, e con il concreto sostegno del re Ludwig II.
La critica dell’epoca si divise tra coloro che videro in quest’opera un capolavoro assoluto e quelli che la considerarono una composizione incomprensibile. Tra questi ultimi figura il critico austriaco Eduard Hanslick, noto per le sue posizioni conservatrici in ambito musicale. Fu proprio l’atteggiamento di Hanslick a fornire a Wagner l’idea per il personaggio di Sixtus Beckmesser ne I maestri cantori di Norimberga.Il cosiddetto “accordo del Tristano“, che apre la partitura.Una copia del manoscritto originale . Finale.
Al Teatro alla Scala di Milano, il 29 dicembre 1900, andò in scena nella traduzione italiana di Boito ed Angelo Zanardini con la direzione di Arturo Toscanini. Nel 1902 avvenne la prima rappresentazione in concerto nel Théâtre du Château-d’Eau di Parigi di “Tristan et Isotte” nella traduzione francese di Alfred Ernst.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Musica
Nella musica del Tristano si è voluta vedere un’anticipazione del futuro.[1] Servendosi dell’uso ossessivo del cromatismo e della tecnica della sospensione armonica, Wagner ottiene un effetto di suspense che dura per tutto il corso dell’azione. Le cadenze incomplete del preludio non vengono risolte fino alla fine del dramma, che si chiude col canto di amore e morte di Isotta (Liebestod). Come dice il critico Rubens Tedeschi, il linguaggio musicale del Tristano deve farsi infinitamente duttile per dipingere – oltre il pochissimo che accade – il moltissimo che viene alluso. Il Leitmotiv deve quindi smussare la propria nettezza melodica a favore della massima incertezza. In questo sbiadire dei contorni melodici si insinua l’allentamento dei rapporti armonici, come l’ombra notturna dei due amanti contribuisce all’ambiguità dei significati. È una sorta di ondeggiamento perpetuo simile al movimento del mare. Hanslick stroncò il valore della partitura affermando che “contiene della musica ma non è musica” e denunciando “il fumo dell’oppio suonato e cantato”. Lo stesso Wagner, in una lettera a Mathilde Wesendonck, definì il proprio lavoro “qualcosa di terribile, capace di rendere pazzi gli ascoltatori”.
Particolarmente impressionanti per la loro modernità – al limite della dodecafonia – sono le variazioni del tema del Filtro d’amore e della Canzone mesta del pastore, a metà del terzo atto, che accompagnano il protagonista nella sua delirante allucinazione. Il cromatismo e il prevalere dell’armonia sulla melodia appaiono già evidenti fin dalle prime battute del preludio (tema del Desiderio). Carl Dahlhaus definisce queste battute come una serie informe e insignificante di intervalli se non fosse per gli accordi che sorreggono e determinano la condotta melodica. La condotta armonica del tema del Desiderio (ossia il famoso “accordo del Tristano”) acquista carattere motivico in proprio. Allo stesso modo, il motivo del Destino deve la sua inconfondibile fisionomia non tanto alla condotta melodica quanto al collegamento con una successione di accordi che ha l’evidenza inquietante dell’enigma. In altre parole, la condotta armonica (che se ascoltata autonomamente non avrebbe senso) scaturisce nel rapporto che intercorre tra il motivo melodico del tema del Destino e un contrappunto cromatico a suo modo integrato nel motivo stesso: affiora l’idea paradossale di un “motivo polifonico”.[2]
La prima rappresentazione del Tristano nel 1865 ebbe un effetto non indifferente sul pubblico dell’epoca. Rubens Tedeschi segnala che l’estetica del decadentismo europeo nacque in quel momento, sebbene all’interno di un processo che sarebbe accaduto anche senza il diretto intervento di Wagner. La “valanga intellettuale” investì letterati, pittori e musicisti preparando la ribellione della avanguardie novecentesche. Valgono tra tutte le parole di Giulio Confalonieri:
«Tristano non ha soltanto soddisfatto una sete e placato una febbre ormai brucianti nell’umanità intera, ma altresì infettato la musica di un bacillo che nulla, nemmeno le più moderne penicilline, sono ancor riuscite ad eliminare del tutto.»
Interpretazione
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Wagner all’epoca del Tristano.
Si dice spesso che nel Tristano Wagner abbia voluto mettere in scena la filosofia di Schopenhauer. In effetti, in una lettera spedita a Franz Liszt nel dicembre del 1854, Wagner scrisse che l’incontro col grande filosofo gli aveva rivelato un “accorato e sincero desiderio di morte, la piena incoscienza, la totale inesistenza, la scomparsa di tutti i sogni, unica e definitiva redenzione”. Ma (come nota il critico Petrucci nel suo Manuale wagneriano), se così fosse, Tristano e Isotta avrebbero saputo dominare la loro passione. Schopenhauer insegna che per raggiungere la serenità occorre accettare la sofferenza e rassegnarsi alla concezione pessimistica dell’impossibilità del desiderio. Tristano è invece letteralmente divorato dal desiderio. L’esaltazione della notte – cantata per tutto il secondo atto come brama irrisolta di fuggire la luce del giorno e con essa la vacuità del reale – trova nella morte la sua naturale conseguenza in quanto liberazione. Una liberazione, dunque, non pessimistica rinuncia ma simbolo (per metà ascetico, per altra metà panteistico) di unione cosmica. Per questo motivo, Tristano era addirittura venerato dal filosofo Nietzsche, anche in virtù delle sue ideologie dell’ateismo: “Vorrei immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo”.
Schopenhauer e la filosofia della pace dei sensi saranno piuttosto trattati nel mistico Parsifal, che decretò l’allontanamento di Nietzsche dalla concezione wagneriana. A proposito del presunto ateismo del Tristano, vale la pena di segnalare un’osservazione di Antonio Bruers: “A chi giudicasse esagerato l’uso della parola ateo, dobbiamo rilevare un fatto che non si discute: in tutto il Tristano non è mai nominato Dio.”
Un altro dubbio circa il legame con Schopenhauer arriva da Thomas Mann: “Tristano si rivela profondamente legato al pensiero del Romanticismo e non avrebbe avuto bisogno di Schopenhauer come padrino. La notte è il regno di ogni romanticismo; scoprendola esso ha sempre identificato in lei la verità, in contrasto con la vaga illusione del giorno, il regno del sentimento in antitesi a quello della ragione”.
In effetti Tristano racchiude in sé la percezione di un mondo misterioso e fantastico in cui esprimere la propria “eterna eccezionalità”; racchiude l’inconsapevole ricordo di eventi passati e fondamentali; racchiude l’individuo che per comprendersi si isola dalla società. Cos’altro simboleggiano, per esempio, i favolosi castelli che Ludwig II eresse tra i monti della Baviera? Lo stesso Ludwig che, un’ora dopo aver assistito alla prima rappresentazione, decise di ritirarsi da solo nella notte, cavalcando nel bosco in preda ad una fortissima emozione. Allo stesso modo farà Zarathustra di Nietzsche, che per ritrovare se stesso si ritira sulla cima di una montagna. Siamo già molto lontani dall’eroe medievale del soggetto originale. L’eroe è stato trasferito dalla dimensione dell’amore cortese alla tenebrosa atmosfera degli Inni alla notte di Novalis.
Del resto, come sempre capita in Wagner, non è possibile non rintracciare alcune latenti allusioni politiche che tanto fecero discutere in seno alla Tetralogia. Già il poeta Hölderlin aveva decantato la “grande missione” della Germania, situata al centro dell’Europa e considerata come il “cuore sacro dei popoli”. In questa direzione, Tristano e Isotta potrebbero forse simboleggiare la verità intima che la forza del filtro magico ha saputo rivelare contrapponendola al resto del mondo, all’apparenza delle convenzioni sociali. Tali allegorie (che in futuro avrebbero contagiato pericolosamente la politica intesa come purezza dello spirito tedesco) si associano però al costante desiderio di annullamento nutrito dai protagonisti. Il loro desiderio non è deputato a risolversi nell’opulenza della vita materiale ma in un’altra dimensione, simbolo metafisico della vita più autentica e segreta. Questo è il vero dramma dei due amanti: l’impossibile conciliazione della dicotomia in cui sono costretti a vivere, divisi come sono tra anima e corpo, tra essenza e apparenza, come rivela il tormento allucinato di Tristano nel terzo atto, mirabilmente reso nell’incisione discografica di Wilhelm Furtwängler.
Tristano e Isotta non vivono un amore normale ostacolato dalle avversità come accade in Romeo e Giulietta, bensì inappagabile per sua stessa natura, condannato a vivere nel finito e soddisfabile solo nella morte. È la verità più profonda che gli amanti avrebbero taciuto reprimendola nel subcosciente. Non c’è da stupirsi, quindi (anche se per altri comprensibili motivi) che Cosima Wagner ironizzò riguardo l’amore intercorso tanti anni prima tra suo marito e Mathilde Wesendonck. Nel suo libro La mia vita a Bayreuth, Cosima scrisse: “Poverina, si spaventerebbe se sapesse cosa c’è nel Tristano!”
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Trama
Antefatto
Per liberare la Cornovaglia da un ingiusto tributo imposto dagli irlandesi, Tristano ha ucciso il cavaliere Morold, patriota irlandese e fidanzato della principesse Isotta, figlia del re d’Irlanda. Ferito durante il combattimento, viene amorevolmente curato dalla stessa Isotta, la quale non conosce la sua identità. Soltanto il ritrovamento di un frammento della spada le fa capire di trovarsi davanti all’assassino del suo uomo; allora lo risparmia, facendosi promettere di sparire per sempre dalla sua vita. In seguito, Tristano infrange il giuramento e ritorna per portarla in sposa al Re di Cornovaglia, come pegno di riconciliazione tra i due paesi.
Atto I
Scena 1ª
La voce di un giovane marinaio si alza dal ponte di un vascello:
“Verso levante muove la nave, soffia il vento verso il nostro paese: e tu, bimba irlandese, dove rimani?…”
In rotta verso l’Inghilterra, Isotta sfoga la sua rabbia contro il giovane Tristano, cui la lega un confuso sentimento di amore e di odio. Lo fa chiamare affinché la venga a trovare ma Tristano, turbato, risponde di non poter abbandonare il timone della nave.
Scena 2ª
Isotta ricorda il passato, racconta alla sua ancella Brangania di essersi affezionata a un misterioso guerriero di nome Tantris, il giovane rimasto ferito nella battaglia, che lei raccolse curandone le ferite. In realtà, Tantris era Tristano, che presentandosi sotto falso nome era riuscito a scampare alla vendetta di Isotta grazie al suo sguardo supplicante.
“Con lucida spada mi presentai davanti a lui, per vendicare la morte di Morold. Dal suo giaciglio egli mi guardò: non sulla lama, non sulla mano, ma sui miei occhi egli alzò lo sguardo. Con mille giuramenti mi promise lealtà eterna ed ebbi pietà per la sua pena. Ma ben altro sfoggio fece Tristano di ciò che in me celavo. Colei che tacendo gli ridava la vita, colei che tacendo lo salvava dall’odio, tutto egli ha messo in mostra! Borioso del successo, mi ha additata quale preda di conquista. Sii maledetto, infame!…”
Reprimendo l’amore che li unisce, Isotta vorrebbe uccidersi con lui per cancellare l’affronto.
Scena 3ª
Tristano arriva e, in un impeto di rabbia, accetta di sacrificarsi con onore.
“La signora del silenzio, silenzio a me impone. Se comprendo ciò che ha taciuto, taccio ciò che non comprende.”
Entrambi credono di bere un potente veleno ma Brangania ha sostituito il veleno con un filtro d’amore. Nell’orchestra, ricompaiono i temi del Desiderio e dello Sguardo, che erano già apparsi nel preludio strumentale. Il loro sentimento si rivela con forza alla realtà, ogni incomprensione svanisce e il mondo circostante non ha più alcun significato. Quando lo scudiero di Tristano, Kurwenald, giunge ad avvertire dell’imminente incontro col Re, Tristano risponde: “Quale re?” ormai del tutto ignaro di ciò che sta avvenendo. Nel momento in cui la nave approda nel porto, Tristano e Isotta si gettano l’uno nelle braccia dell’altro.
“Tristano e Isotta” -(Tristan und Isolde) di Richard Wagner-
Atto II
Scena 1ª
Nel giardino del castello di re Marke, durante la notte, Isotta attende l’arrivo di Tristano. Brangania la avverte del pericolo che stanno correndo, sapendo che Melot, amico di Tristano, ma innamorato segretamente di Isotta, potrebbe rivelare al Re l’amore clandestino della coppia. Isotta non le crede. Tristano si precipita in scena con un abbraccio travolgente.
Scena 2ª
Incomincia la lunga notte dei due innamorati che è la vera protagonista del dramma, è l’oscurità che circonda i due amanti e li riassorbe in un’originaria, individuale armonia. Dice Isotta:
“Chi là segretamente celai, come mi parve malvagio quando, nello splendore del giorno, l’unico fedelmente amato sparve agli sguardi d’amore, e quale nemico s’erse dinnanzi a me! Trascinarti voglio laggiù, con me nella notte, dove il mio cuore mi promette la fine dell’errore, dove svanisce la follia del presentito inganno.”
Dice Tristano:
“Su noi discendi, notte arcana! Spargi l’oblio della vita!… Quel che là nella notte vegliava cupamente richiuso, quel che, senza sapere e pensarci, oscuramente concepii – l’immagine che i miei occhi non osavano osservare, ferita dalla luce del giorno – mi si rivelò scintillante.”
”Gloria al filtro e alla sua forza! Mi dischiuse le vaste porte dove solo in sogno ho soggiornato. Dalla visione celata nel segreto scrigno del cuore, esso cacciò lo splendore ingannevole del giorno, sì che il mio orecchio, penetrando la notte, potesse vederla davvero.
“Chi amoroso osserva la notte della morte, a chi essa confida il suo profondo mistero: la menzogna del giorno, fama e onore, forza e ricchezza, come vana polvere di stelleinnanzi a lui svanisce!…Fuor dal mondo, fuor del giorno, senza angosce, dolce ebbrezza, senza assenza, mai divisi, soli, avvinti, sempre sempre, nell’immenso spazio!..”
Ma nel momento più impetuoso della passione, quando le voci e la musica vengono sospinte dal motivo della Felicità, improvvisamente l’incanto si spezza. Arrivano il Re, Melot e i cortigiani del castello, che circondano inorriditi la coppia degli amanti. Il tema musicale del Giorno avverso invade la scena. Sorge l’alba.
Scena 3ª
Melot, tradendo Tristano, presenta al Re la sua vittima. Il magnanimo re Marke si perde allora in un lungo monologo cantato sul tema del Cordoglio, addolorato per il comportamento di Tristano e rievocando le vicende che li unirono in passato.
“A me, questo? Perché? Chi mi è fedele, se il mio Tristano mi tradì?… Se non c’è redenzione, chi può spiegare al mondo tale cupo immenso abisso?…”
Ma Tristano, come trasognato, non può fornire alcuna spiegazione. “Ciò che tu domandi non potrai mai comprendere”, e si volge quindi verso l’amata:
“Dove ora Tristano s’avvia, vuoi tu seguirlo, Isotta? È terra buia, muta, da cui mia madre m’inviò, quando mi partorì dal regno della morte…”
Mentre Isotta lo bacia, Melot incita il Re a reagire. Tristano sfida l’amico a duello e si lascia cadere sulla sua spada. Cade ferito tra le braccia di Kurwenald.
Atto III
Scena 1ª
Il castello di Tristano nel terzo atto.
Tra le rovine del suo castello, accudito dal fedele Kurwenald, Tristano riprende lentamente conoscenza. Ferito nel corpo e nell’anima, egli ha delle allucinazioni. Ciò che desidera gli è negato e il pensiero di Isotta, simbolo di quel desiderio, lo travolge. Immobile sul letto la cerca, in preda al delirio la invoca:
“Kurwenald, non la vedi?!”
Ma l’orizzonte del mare è completamente vuoto. Tristano, allora, maledice il filtro magico che gli rivelò l’amore e la verità:
“Il terribile filtro, che m’ha votato al tormento, io stesso l’ho distillato! Nell’affanno del padre, nel dolore della madre, nel riso e nel pianto, ho trovato i veleni del filtro!”…
Sono pagine molto drammatiche, dove la musica rompe definitivamente con la tonalità tradizionale anticipando per la prima volta il sistema dodecafonico. Ma intanto la nave di Isotta è apparsa davvero all’orizzonte, salutata da un’allegra cantilena del corno inglese. Tristano è fuori di sé dalla gioia. Egli segue l’arrivo del veliero e manda Kurwenald a ricevere l’amata. Rimasto solo, si strappa le bende della ferita e si alza in piedi sanguinante:
“O sangue mio, scorri giulivo!… Lei, che un dì mi guarì le ferite, a me s’avvicina per salvarmi!… Possa il mondo perir, dinnanzi alla mia esultante fretta!”…
Isotta entra in scena. Sulle grandi note del tema del Giorno avverso, i due amanti si abbracciano. Sul tema dello Sguardo, Tristano esala l’ultimo respiro.
Scena 2ª
Mentre Isotta piange la morte di Tristano, un’altra nave approda al castello. Si tratta di re Marke che, venuto a conoscenza del filtro magico e dell’inevitabile verità, è accorso con Melot a chiedere perdono. Ma Kurwenald, furibondo per la morte del suo padrone, si scaglia contro di lui. Appena Melot arriva lo uccide in un colpo; resta ferito a sua volta e muore egli stesso accanto al corpo di Tristano. Il Re, addolorato, cerca di spiegarsi con Isotta ma lei, ormai, non lo ascolta più. Nel suo canto supremo, Isotta invoca la celebre Liebestod, la “morte d’amore” che riunirà i due amanti:
“Son forse onde di teneri zeffiri? Son forse onde di voluttuosi vapori? Nel flusso ondeggiante, nell’armonia risonante, nello spirante universo del respiro del mondo, annegare, inabissarmi, senza coscienza, suprema voluttà!”
Sulle note della Felicità, Isotta cade trasfigurata sul corpo di Tristano. Il Re benedice i cadaveri. Si chiude lentamente il sipario.
Goethe J.W., Viaggio in Italia -Johann Heinrich Wilhelm Tischbein
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
Goethe J.W., Viaggio in Italia -,Roman CampagnaGoethe J.W., Viaggio in Italia -William Stanley Haseltine-Morning LIght,Roman Campagna
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
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Biblioteca DEA SABINANatalia Ginzburg-Le voci della sera –
Einaudi editore
DESCRIZIONE-Le voci della sera (Einaudi, 2015) uscito per la prima volta nel 1961 della scrittrice Natalia Ginzburg pone sotto la lente d’ingrandimento la famiglia e le sue relazioni. La società e le sue aspettative sociali. Romanzo di gesta e di sottrazione del pensiero, narrato in prima persona ci fa immergere nell’egoismo di ciò che si vorrebbe per noi a dispetto di ciò che l’io individuale vorrebbe perseguire. La voce narrante è Elsa che scrive in prima persona – che potrebbe essere l’alter ego della scrittrice – che narra, racconta, invade, ma non di sé, di ciò che la circonda, di come va il mondo. Elsa è taciturna e da attenta osservatrice preferisce analizzare la realtà al di fuori da sé più che mettersi a nudo. Romanzo che vinse il Premio Strega nel 1961 risulta piacevole e sempre godibile, dove la malinconia, le difficoltà dei sentimenti e dei rapporti amorosi e la famiglia d’origine ne segnano le coordinate di lettura.
Camminiamo, interminabilmente, sul fiume. Lui si guarda intorno, dice: – Ma qui è proprio campagna. Veniamo in città, ma poi andiamo sempre in cerca della campagna, non è così?
Gli dico: – Perché facciamo finta di non conoscerci, quando siamo al paese?
Dice: – Perché siamo buffi.
Dice: – Per la tua reputazione. Non devo comprometterti, visto che poi non ti sposo.
Rido, e dico: – Della mia reputazione, me ne infischio, io.
S’attorciglia i capelli attorno alle dita, si ferma un poco a pensare.
– Al paese, – dice, – non mi sento libero. Mi pesa addosso tutto.
– Cosa ti pesa?
– Mi pesa, – dice, – tutto, il Purillo, la fabbrica, la Gemmina, e anche i morti.
– Mi pesano, capisci, anche i morti.
– Una volta o l’altra, – dice, – pianto lì e me ne vado.
E io gli dico: – Non mi porti con te?
– Crederei di no.
Camminiamo, per un poco, in silenzio.
– Tu, – mi dice, – devi trovarti uno che ti sposa. Non subito, magari, fra un po’.
Dice: – Non hai mica bisogno di sposarti subito. Che furia c’è?
– Anche con me, così, – dice, – stai bene.
– Con te, così? il mercoledì e il sabato? – dico.
– Sì, così, no?
– Adesso, – dico, – dobbiamo tornare, che presto sarà l’ora dell’autobus.
E torniamo, riattraversiamo il parco, costeggiamo le mura del castello, passiamo il ponte che vibra sotto le ruote dei tram.
– Non dico mica che sia l’ideale, per te, così, – dice.
Natalia Levi nacque il 14 luglio del 1916 a Palermo, figlia di Giuseppe Levi, illustre scienziato triestinoebreo, e di Lidia Tanzi, milanesecattolica, sorella di Drusilla Tanzi. Il padre era professore universitario antifascista e insieme ai tre fratelli di lei sarà imprigionato e processato con l’accusa di antifascismo. I genitori diedero a Natalia e ai fratelli un’educazione atea.
Formazione e attività letteraria
Natalia trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Torino. Della sua prima giovinezza raccontò lei stessa in alcuni testi autobiografici pubblicati soprattutto in età avanzata, fra cui I baffi bianchi (in Mai devi domandarmi, 1970). Compì gli studi elementari privatamente, trascorrendo quindi in solitudine la sua infanzia; sin dalla tenera età si dedicò alla scrittura di poesie. Si iscrisse poi al Liceo – Ginnasio Vittorio Alfieri,[2] vivendo come un trauma il passaggio alla scuola pubblica. Già nel periodo liceale si dedicò alla stesura di racconti e testi brevi, primo fra tutti Un’assenza (la sua «prima cosa seria»), poi pubblicato sulla rivista Letteratura negli anni Trenta. Abbandonò invece la poesia; a tredici anni aveva fra l’altro spedito alcuni suoi componimenti a Benedetto Croce, che espresse un giudizio negativo su di essi.[3]
Esordì nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato dalla rivista “Solaria“, e nel 1938 sposò Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà in seguito tutte le proprie opere. Dalla loro unione nacquero due figli e una figlia: Carlo (Torino, 15 aprile 1939), che diverrà un noto storico e saggista, Andrea (Torino, 9 aprile 1940 – Bologna, 4 marzo 2018) e Alessandra (Pizzoli, 20 marzo 1943). In quegli anni strinse legami con i maggiori rappresentanti dell’antifascismo torinese e in particolare con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933.
Nel 1940 seguì il marito, inviato al confino per motivi politici e razziali, a Pizzoli in Abruzzo, dove rimase fino al 1943.
Nel 1942 scrisse e pubblicò, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il primo romanzo, dal titolo La strada che va in città, che verrà ristampato nel 1945 con il nome dell’autrice.
In seguito alla morte del marito, torturato e ucciso nel febbraio del 1944 nel carcere romano di Regina Coeli, nell’ottobre dello stesso anno Natalia giunse a Roma, da poco liberata, e si impiegò presso la sede capitolina della casa editrice Einaudi. Nell’autunno del 1945 ritornò a Torino, dove rientrarono anche i suoi genitori e i tre figli, che durante i mesi dell’occupazione tedesca si erano rifugiati in Toscana.
Nel 1947 esce il suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario “Tempo”.
In quello stesso periodo, come ha rivelato Primo Levi a Ferdinando Camon in una lunga conversazione diventata un libro nel 1987 e poi lo stesso Giulio Einaudi in una intervista televisiva, diede parere negativo alla pubblicazione di Se questo è un uomo. Il libro uscirà per una piccola casa editrice, la De Silva di Franco Antonicelli, in 2500 copie, e solo nel 1958 verrà riproposto da Einaudi diventando il grande classico che conosciamo.
Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra, con il quale concepirà la figlia Susanna (4 settembre 1954 – 15 luglio 2002) e il figlio Antonio (6 gennaio 1959 – 3 marzo 1960), entrambi portatori di handicap. Iniziò per Natalia un periodo ricco in termini di produzione letteraria, che si rivelò prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell’indagine psicologica. Nel 1952 pubblicò Tutti i nostri ieri; nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vinse il premio Viareggio,[4] e il romanzo Sagittario; nel 1961Le voci della sera che, insieme al romanzo d’esordio, verrà successivamente raccolto nel 1964 nel volume Cinque romanzi brevi.
Nel decennio successivo seguirono, nella narrativa, i volumi Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. In questo periodo Natalia Ginzburg fu anche collaboratrice assidua del Corriere della Sera, che pubblicò numerosi suoi elzeviri su argomenti di critica letteraria, cultura, teatro e spettacolo. Tra questi, una sua lettura critica, con uno sguardo al femminile, del film Sussurri e grida[6] ottenne un forte riscontro nel panorama letterario e culturale nazionale, divenendo un punto di riferimento per la critica bergmaniana.[7]
Nella successiva produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada di Swann di Proust, ripropose in modo più approfondito i temi del microcosmo familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del 1977, il romanzo epistolare La città e la casa del 1984, oltre al volume del 1983 La famiglia Manzoni, visto in una prospettiva saggistica.
È l’anno 1969 a costituire un punto di svolta nella vita della scrittrice: il secondo marito morì e, mentre cominciava in Italia, con la strage di piazza Fontana, il periodo cosiddetto della strategia della tensione, la Ginzburg intensificò il proprio impegno dedicandosi sempre più attivamente alla vita politica e culturale del Paese,[8] in sintonia con la maggioranza degli intellettuali italiani militanti orientati verso posizioni di sinistra.
Nel 1971 sottoscrisse, assieme a numerosi intellettuali, autori, artisti e registi,[9] la lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli,[10] documento attraverso cui si denunciano, riguardo alla morte di Giuseppe Pinelli, le presunte responsabilità dei funzionari di polizia della questura di Milano (con particolare riferimento al commissario Luigi Calabresi). Tale adesione verrà più volte ricordata dalla stampa in seguito al matrimonio della nipote della Ginzburg, Caterina, con Mario Calabresi, figlio del commissario nel frattempo assassinato. Nello stesso anno si unì ai firmatari di un’autodenuncia di solidarietà verso alcuni giornalisti di Lotta Continua accusati di istigazione alla violenza.[11]
Nel 1976 partecipò alla campagna innocentista in favore di Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono,[12] i due militanti di Potere Operaio che saranno poi condannati per i reati a loro imputati (tra cui l’omicidio dello studente nazionalista greco Mikis Mantakas).
Il 25 marzo 1988 scrisse per L’Unità un articolo divenuto famoso, dal titolo: Quella croce rappresenta tutti,[13] difendendo la presenza del simbolo religioso nelle scuole e opponendosi alle contestazioni di quegli anni.
Morte
Morì a Roma nelle prime ore dell’8 ottobre 1991. È sepolta al cimitero del Verano di Roma
Traduzione di Gianni Pannofino-ADELPHI EDIZIONI SPA
SINOSSI
Raymond Chandler –L’aria di Pasadena è «immobile, rovente e profumata» quando Marlowe, sigaretta spenta fra le labbra e cappello calcato sulla fronte, fa il suo ingresso nella sontuosa residenza di Mrs. Elizabeth Murdock. L’incarico che la donna gli prospetta dalla sua chaise-longue di vimini, mentre si scola un bicchiere di porto dopo l’altro, non si direbbe dei più difficili, né dei più pericolosi: ritrovare un’antica e rarissima moneta d’oro – il prezioso doblone Brasher – sottratta alla collezione del defunto marito, probabilmente dalla nuora scomparsa. Ma non appena Marlowe fiuta una pista promettente e sente a portata di mano la soluzione del caso, una serie di omicidi indecifrabili fa calare sull’indagine una fitta coltre di mistero. Per vederci chiaro dovrà spingersi a Bunker Hill – «città vecchia, perduta, fatiscente e piena di balordi» – e frugare palazzi popolati da inquilini sfuggenti, portieri che «sono sempre un po’ cani da guardia e un po’ ruffiani», «uomini anziani dai volti che sembrano battaglie perse». Niente, comunque, che un detective del suo calibro, armato come sempre di laconico cinismo e un’aria imperturbabile da eroe romantico, non possa affrontare, e come sempre nella sua inimitabile maniera, attraversando la nera notte di Los Angeles fra ricatti, night club, pinte di whisky e segreti celati dal tempo.
Negli anni venti conobbe colei che diventò l’amore della sua vita, Cissy Pascal, moglie di un pianista, di 18 anni più grande di lui; per lui divorziò dal marito, ma solo nel 1924, alla morte della madre di Chandler, contraria a quest’unione, Raymond e Cissy si sposeranno. Iniziò un periodo di relativa tranquillità per i due, fino al 1931 circa, Chandler fece carriera in una serie di aziende petrolifere e non scriveva più, nemmeno come giornalista. In una lettera di anni dopo confessò di aver odiato quel lavoro per cui, nonostante il successo, ai primi degli anni trenta entrò in crisi profonda: il matrimonio non funzionava, iniziò ad avere rapporti extra-coniugali con le sue segretarie, ma soprattutto iniziò a bere, avendo problemi al lavoro (come il suo personaggio alter-ego, Philip Marlowe).
Nel 1932 il licenziamento portò Chandler a una crisi esistenziale ed economica, ma fu grazie a questa crisi che trovò una sorta di “disperazione rabbiosa e speranzosa” che gli fece dire: “io sono vivo, attraverso la pagina, attraverso il racconto”. Iniziò quindi a scrivere pulp fiction per guadagnarsi da vivere e pubblicò il suo primo racconto “I ricattatori non sparano” nel 1933, all’età di quarantacinque anni, sulla rivista Black Mask, una rivista che pubblicava racconti di vita vissuta, di indagini della strada, pieni di azione, con inseguimenti e casi risolti con “pugni e pistole”. Chandler era un fervente ammiratore di Dashiell Hammett che, a suo dire, aveva restituito il delitto alla gente, perché “se la gente ammazza qualcuno lo fa per un motivo”. Pur non guadagnando molto, Chandler era soddisfatto, e il rapporto con la moglie tornò sereno.
Nel 1939 pubblicò il suo primo romanzo, Il grande sonno, dove compare per la prima volta il detective Philip Marlowe, che si muove nella Los Angeles bella e corrotta del decennio degli anni trenta. Il libro ebbe un discreto successo, ma solo nel 1942, quando fu scoperto da Hollywood, il successo gli arrise davvero, sia come romanziere che come sceneggiatore, per cui firmò un contratto con la Paramount nel 1943. Scrisse una trentina di racconti nonché otto romanzi e un racconto incompiuto, tutti e nove con il detective Marlowe come protagonista, dal 1939 al 1953, alcuni dei quali sono capolavori, non solo del genere Noir. Come sceneggiatore per Hollywood, Chandler traspose per il cinema molti dei suoi romanzi, con Robert Mitchum ed Humphrey Bogart considerati i migliori interpreti del suo rude detective dal cuore d’oro. Il suo lavoro ad Hollywood incluse anche sceneggiature per altri noir e polizieschi, le più importanti sono quelle de La fiamma del peccato (di Billy Wilder, 1944), Il fantasma (di Lewis Allen, 1945), La dalia azzurra (di George Marshall, 1946) e L’altro uomo (di Alfred Hitchcock, 1951).
Precipitò nuovamente nel tunnel dell’alcolismo e tentò una sorta di suicidio nel 1955, un anno dopo la morte dell’adorata moglie Cissy. Prima di aver ultimato l’ottavo romanzo della saga di Marlowe, morì di polmonite a La Jolla nel 1959. Nel 1988, per il centenario della nascita dello scrittore, venne dato il compito di terminare l’ultima opera di Chandler al giallista Robert B. Parker.
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All’inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C’erano solo pochi dati sicuri: l’edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato. Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all’ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l’editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l’edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l’epiteto irrazionale implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni irrazionale non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l’etichetta di quell’incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche una vasta parte dell’essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all’editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l’irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l’idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L’altra parte di Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi – posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno –, evidentemente accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa.
Laure Murat-Proust, romanzo familiare- Sellerio Editore-
Descrizione del libro di Laure Murat– «Come fa Proust ad affascinare i suoi lettori, senza distinzione di classe, raccontando microscopiche peripezie dell’alta società parigina?». E perché la ricorrente lettura della Recherche, l’analisi proustiana dell’aristocrazia «faceva luce sul mio ambiente d’origine più dell’esperienza personale vissuta dall’interno»?
Due domande che si inseguono e si scambiano i ruoli dentro le pagine di questo romanzo familiare: ricostruzione di memorie e sentimenti legati a un’infanzia-adolescenza cresciuta tra gente titolata, domestici e governanti, in cui quello che si doveva imparare non poteva essere insegnato. Una ricostruzione che è insieme altro. Senza netto confine, si mescola con l’analisi del metodo Proust, il meccanismo crudele messo in atto per muovere un mondo di pure forme in cui ogni personaggio vivo che c’è dietro alla fine si rivela tutto il contrario di come sembrava («Dietro il sadico, si scopre il tenero. Dietro l’uomo di mondo, lo zotico. Dietro una leggendaria duchessa, una donna ordinaria. Dietro un uomo virile, un effeminato». Insomma: dietro il nobile, l’ignobile).
Laure Murat-Proust, romanzo familiare
E si mescola ancora con un’esplorazione sociale, eseguita indirettamente sprofondando negli intrecci tra persone vere e personaggi inventati che legavano i fili della grande ragnatela alla famiglia principesca dell’autrice.
L’autrice, Laure Murat, figlia di un discendente diretto del maresciallo napoleonico e re di Napoli e di una duchessa di altissimo lignaggio, dichiara di avere avuto con le sue origini e con i suoi anni d’infanzia un rapporto ambiguo e irrisolto di repulsione e fascino. Una forma di alienazione dal passato, aggravata dal fatto che la sua omosessualità risultava inaccettabile sia in famiglia sia nel suo ambiente sociale («Proust è stato il primo a prendere sul serio l’omosessualità»). La trentennale lettura e rilettura della Recherche le ha fornito una via di disalienazione. E il percorso seguito, che questo libro racconta, è una storia privata come ogni memoir. Ma porta a mostrare in che cosa consiste «il potere liberatorio» della grande cattedrale di Proust: fare di ognuno, «di quest’essere plurale, misterioso, un soggetto universale».
Traduzione dal francese di Marina Di Leo, Giulio Sanseverino
Titolo originale: Proust, roman familial
Con la sua prosa scorrevole e piena di riferimenti letterari, Proust, romanzo familiare è al contempo un saggio colto e un memoir, a metà tra Annie Ernaux ed Emmanuel Carrère. Ma è anche, e soprattutto, un inno al potere emancipatorio della letteratura e un invito a (ri)leggere alcune tra le pagine più importanti della letteratura mondiale.
Finalista al Premio Goncourt e vincitore del Prix Médicis Essai 2023.
«Uno dei migliori libri su Proust che si possano sognare».
Le Monde des Livres
18Febbraio2025
La memoria n. 1332
304 pagine
EAN 9788838947803
Formato e-book: epub
Protezione e-book: acs4
Autore
Laure Murat (Parigi, 1967), storica e scrittrice, insegna Storia della letteratura alla UCLA di Los Angeles. Con La casa del dottor Blanche (2001) ha vinto il Premio Goncourt per le biografie.
I virtuosi – Yasmina Khadra – Sellerio Editore Palermo
Descrizione del libro di Yasmina Khadra-Un affresco emozionante dell’Algeria tra le due guerre attraverso gli occhi di un algerino povero e puro che si trova sballottato dagli eventi della colonizzazione francese, della Prima guerra mondiale e delle guerre civili. Un romanzo dal respiro ottocentesco, denso e commovente, pieno di empatia, che miscela perfettamente la materia brutale della violenza bellica con dialoghi vivaci e descrizioni poetiche.
Algeria, 1914. Yacine è un giovane ingenuo e virtuoso. Non vuole deviare dalla legge divina, né sa come evitare le trappole e le insidie del mondo. Povero e alla mercé di un ricchissimo signore che ha diritto di vita e di morte su di lui, sulla sua famiglia e sull’intera comunità, Yacine imbocca un sentiero irto di insidie che non era destinato a percorrere. La Grande Guerra è appena deflagrata, l’Europa intera è nel caos, e dal misero villaggio in cui è nato e cresciuto si ritrova catapultato nel fango della trincea.
Sballottato dagli eventi e dai conflitti della colonizzazione francese, scoprirà il mondo moderno: quello delle macchine e delle macchinazioni, della fedeltà e dei tradimenti, del coraggio e delle promesse ingannevoli. E anche quello dell’amore, semplice e puro, unico faro per resistere all’avversità. Il ricordo dei suoi compagni lo perseguita senza sosta, la paura lo tormenta, in un vagabondare tra agio e miseria, amicizia e odio, prigionia e libertà. Ma è circondato da una schiera di personaggi che con lui compongono un’umanità vitale, sempre resistente. E se questa avventurosa esistenza disseminata di pericoli lo pone sulla strada di uomini spietati, disonesti e crudeli, gli offre anche incontri straordinari e gli rivela una bellezza che il mondo, nonostante tutto, non sembra poter cancellare.
Yasmina Khadra ha scritto un romanzo dal respiro ottocentesco, denso e commovente, pieno di empatia, miscelando perfettamente la materia brutale della violenza bellica con dialoghi vivaci e descrizioni poetiche. Il racconto dell’Algeria dell’inizio del ventesimo secolo, terra multiculturale dominata dalla colonizzazione, si intreccia alle avventure di un eroe schiacciato dalla fatalità della sorte, un uomo – meglio, un ragazzo – che tra sangue e vendetta sceglie una terza via, quella della saggezza e del coraggio.
18Marzo2025
Il contesto n. 164
516 pagine
EAN 9788838947742
In libreria dal: 18 Marzo 2025
Traduzione dal francese di Marina Di Leo
Titolo originale: Les vertueux
Autore-Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohamed Moulessehoul, è uno scrittore stimato e apprezzato nel mondo intero. Nato in Algeria nel 1956, reclutato alla scuola dei cadetti a nove anni, è stato ufficiale dell’esercito algerino. Dopo aver suscitato la disapprovazione dei superiori con i suoi primi libri, ha continuato usando come pseudonimo il nome della moglie. Nel 1999 ha lasciato l’esercito svelando così la sua vera identità e ha scelto di vivere in Francia. In Italia sono pubblicati molti dei suoi romanzi, tra cui i due noir Morituri (1998) e Doppio bianco (1999), e Quel che il giorno deve alla notte (2009), miglior libro del 2008 per la rivista letteraria «Lire» (adattato a film nel 2012). Con Sellerio: Gli angeli muoiono delle nostre ferite (2014), Cosa aspettano le scimmie a diventare uomini (2015, 2022), L’ultima notte del Rais (2015), L’attentato (2016), dal quale è stato tratto il film di Ziad Doueiri, Khalil (2018), L’affronto (2021), Le rondini di Kabul (2021), Il sale dell’oblio (2022) e Cosa sognano i lupi (2024).
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12) – Louis Pasteur, il primo microbiologo-
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma- 12) – Louis Pasteur, il primo microbiologo- Lo scienziato che dimostrò che i germi esistono e possono causare malattie –Roma -Portuense-Vigna Pia e Dintorni– Questo reportage, come quelli a seguire, vuole essere un viaggio che documenta e racconta la storia di un quartiere di Roma: Portuense-Vigna Pia e i suoi Dintorni con scatti fotografici che puntano a fermare il tempo in una città in continuo movimento. Non è facile scrivere, con le immagini di una fotocamera, la storia di un quartiere per scoprire chi lascia tracce e messaggi. Ci sono :Graffiti, Murales, Saracinesche dipinte, Vetrine eleganti che sanno generare la curiosità dei passanti ,il Mercatino dell’usato, il Mercato coperto, le Scuole, la Parrocchia, il Museo, la Tintoria storica della Signora Pina, la scuola di Cinema, la scuola di Musica, le Palestre , il Bistrò ,i Bar ,i Ristoranti, le Pizzerie e ancora i Parrucchieri e gli specialisti per la cura della persona e come non ricordare l’Ottica Vigna Pia .Non mancano gli Artigiani e per finire, ma non ultimo, il Fotografo “Rinaldino” . Il mio intento è di presentare un “racconto fotografico” che ognuno può interpretare e declinare con i suoi ”Amarcord” come ad esempio il rivivere “le bevute alla fontanella”, sita all’incrocio di Vigna Pia-Via Paladini, dopo una partita di calcio tra ragazzi ,oppure ricordando i “gavettoni di fine anno scolastico. Infine, vedendo il tronco della palma tagliato, ma ancora al suo posto, poter ricordare, con non poca tristezza, la bellezza “antica” di Viale di Vigna Pia.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Roma,lungo via Folchi ,con inizio dalla via Portuense, si trovano i Murales che raffigurano gli scienziati che hanno combattuto e vinto le battaglie contro le malattie infettive. Eroi veri, ma dimenticati su questo muro di cinta . I Murales ora rischiano il degrado e la “polverizzazione” dell’intonaco. Il muro di cinta dell’Ospedale “Lazzaro Spallanzani”, lato via Folchi, fa da “sostegno” e “tela” ai murales realizzati in questi 270 metri. L’Opera fu iniziata nel febbraio del 2018 e completata e inaugurata il 3 maggio dello stesso anno. Nei Murales sono immortalati i 13 volti di Scienziati che hanno scritto la storia della ricerca sulle malattie infettive. Il progetto dei Murales, finalizzato a celebrare gli 80 anni della struttura ospedaliera, è stato realizzato grazie alla collaborazione fra la Direzione dello Spallanzani e l’Associazione Graffiti Zero che promuove l’integrazione fra la Street Art e i luoghi che la ospitano. Unica grave pecca ,ahimè, non vi è immortalata nessuna donna.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Verranno pubblicati le foto dei Murales di tutti i 13 scienziati , uno alla volta, questo al fine di poter evidenziare la biografia e la loro Opera in maniera più completa possibile. Le biografie pubblicate a corredo delle foto sono prese da Enciclopedio Treccani.on line e Wikipedia
Il bicentenario di Louis Pasteur, il primo microbiolog Lo scienziato che dimostrò che i germi esistono e possono causare malattie raccontato dalla professoressa Carla Renata Arciola.
Professoressa-Carla Renata Arciola
Duecento anni fa, il 27 dicembre 1822, nasceva a Dole, un paesino della regione francese del Giura, Louis Pasteur, chimico e pioniere nello studio dei microrganismi patogeni.
Carla Renata Arciola, docente di Patologia Clinica e di Storia della Medicina nel Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia, ci racconta l’enorme importanza delle sue ricerche per il progresso della scienza medica e per la salute dell’umanità intera.
Tutti hanno sentito nominare almeno una volta la “pastorizzazione”, il processo di conservazione degli alimenti che da Louis Pasteur ha preso il nome, ma il suo contributo al progresso scientifico in medicina è stato assai più ampio, ce lo può riassumere?
Louis Pasteur era un chimico e condusse i suoi primi studi sulla fermentazione della birra e del vino e sulla malattia del baco da seta. Si occupò di fermentazione su richiesta di alcuni fabbricanti di birra, timorosi per le sorti delle loro produzioni. I suoi studi misero in evidenza che le alterazioni nella fermentazione di questi alcolici potevano essere evitate semplicemente portando a 55- 60° C la loro temperatura per tempi molto brevi. In questo modo si otteneva la bonifica delle bevande senza alterare le loro caratteristiche organolettiche. La tecnica è stata poi utilizzata sino ai nostri giorni per “pastorizzare” il latte, le uova, i succhi di frutta e molto altro.
In tutt’altro contesto, ma sempre utilizzando il calore, Pasteur riuscì a trovare una brillante soluzione per prevenire i danni dovuti alla pebrina, la malattia epidemica del baco da seta: elevare la temperatura di qualche grado per sollecitare l’uscita delle farfalle, così da poter esaminarle al microscopio, individuare precocemente quelle contaminate ed escluderle dalla catena produttiva della seta.
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage- Murales Ospedale Spallanzani di Roma-12)- – Louis Pasteur- il primo microbiologo
Un’altra grande innovazione di Pasteur fu il concetto di “attenuazione” e di “vaccino attenuato”, che egli introdusse studiando il cosiddetto “colera dei polli”, una malattia che colpisce gli allevamenti avicoli. Pasteur coltivò materiale contaminato, proveniente da polli uccisi dalla malattia, in un brodo di coltura e poté constatare che poche gocce del brodo bastavano a uccidere un pollo sano. Si accorse però che i polli trattati con una brodocoltura vecchia di alcune settimane non morivano più e collegò il fenomeno all’attenuazione della virulenza dovuta all’invecchiamento della coltura. Inoltre, i polli così vaccinati risultavano protetti dalla malattia anche in caso di esposizione a colture fresche e vitali: questo perché il precedente contatto col vaccino attenuato aveva stimolato le loro difese immunitarie. Successivamente Pasteur estese le sue ricerche e le sue applicazioni ad altre malattie del bestiame, come il carbonchio.
Uno straordinario successo di Pasteur in ambito vaccinale riguardò la rabbia silvestre. Si deve infatti a Pasteur il merito di aver progettato e preparato il primo vaccino per il trattamento della rabbia animale e umana. La rabbia, con le sue vittime furiose, si manifestava molto drammaticamente e il trattamento cui i malati erano allora sottoposti, cioè l’applicazione di tizzoni ardenti sulle ferite, era impressionante. Pasteur sviluppò un vaccino che saggiò prima sui cani: così vaccinati, questi non sviluppavano più la rabbia se esposti ai morsi di animali rabbiosi. Poi una drammatica emergenza lo spinse a saggiare il vaccino anche sull’uomo: gli portarono un bambino che aveva subito quattordici morsi da un cane rabbioso. L’altissima probabilità che il bambino morisse di rabbia convinse Pasteur a procedere subito con la somministrazione del suo vaccino sperimentale, affiancato da un medico (Pasteur non era medico) che eseguì materialmente le iniezioni. Il bambino fu sottoposto a un ciclo di vaccinazioni con dosi crescenti e si salvò. Fu così che Pasteur divenne famoso e ricercato: vittime di morsi di cane e di lupo giunsero nei laboratori di Pasteur da tutta la Francia, e anche dall’estero, per ricevere il nuovo trattamento antirabbico. A Parigi, per il trattamento della rabbia, fu costruito appositamente, con finanziamenti pubblici, l’Istituto Pasteur.
Pasteur dimostrò anche che la “Teoria dei germi patogeni” non è solo una teoria ipotetica ma è la realtà del mondo che ci circonda. Fino a quel momento invece, l’origine delle malattie che ora chiamiamo “infettive” (peste, colera, tifo, ecc..) come era spiegata dalla medicina?
Oggi è ovvio riconoscere i batteri e i virus come causa di malattie che possono trasmettersi da un individuo all’altro ma, sino alla fine dell’Ottocento, l’origine delle malattie era ancora molto misteriosa. All’epoca di Pasteur le numerose epidemie di colera focalizzarono il dibattito sulle possibili cause di tale malattia e sui possibili meccanismi della sua diffusione. Si ipotizzava allora vagamente la natura contagiosa di molte malattie epidemiche, ma senza un coerente collegamento concettuale fra cause, effetti, evoluzione. La teoria che anche esseri viventi microscopici potessero essere coinvolti nel contagio e nello sviluppo delle malattie, benché fosse stata avanzata in più occasioni sin dal Seicento, non era mai stata dimostrata. Sino ad allora, era emersa solo una lunga serie di ipotesi e di congetture che mettevano in relazione, in modo disordinato e talora capriccioso, la fermentazione, la putrefazione, i miasmi, il contagio, l’infezione, la corruzione. Il passaggio dalle confuse ipotesi sulla natura dei contagi a una spiegazione convincente ed unitaria fu il risultato dello sviluppo di una nuova disciplina, la microbiologia, e di una nuova teoria, la teoria dei germi. Il termine microbiologia fu introdotto ufficialmente nel 1881 da Pasteur in occasione del Congresso Internazionale di Medicina di Londra e sancì il riconoscimento della teoria dei germi per spiegare l’origine di molte malattie epidemiche. Secondo la teoria, in estrema sintesi, i microbi sono causa di malattie che possono essere trasmesse da un individuo all’altro. Pasteur avviava così una vera e propria rivoluzione concettuale nella storia del pensiero scientifico.
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Pasteur dimostrò inoltre la fallacia della c.d. “generazione spontanea” dei viventi. Una teoria che risaliva ai tempi di Aristotele. Per il filosofo greco gli organismi viventi nascono da altri organismi, ma possono anche generarsi spontaneamente, ad esempio scaturendo dalla putrefazione della terra. Nel 1860 l’Accademia Francese delle Scienze istituì un premio per chi fosse riuscito a far luce sulla millenaria questione con una dimostrazione scientifica. Louis Pasteur vinse il premio, dimostrando l’impossibilità della formazione spontanea dei microrganismi e spiegando che quella che appariva come “generazione spontanea” era invece il frutto di una contaminazione dall’esterno. Gli esperimenti di Pasteur rimangono un brillante esempio di rigore sperimentale.
Per chiudere, una domanda, per così dire, “di stagione”. Pasteur era nato durante le feste natalizie. Quali cibi del pranzo di Natale non potremmo mangiare (o potremmo mangiare, ma con maggior rischio per la salute) se non ci fosse stato Louis Pasteur?
La grandezza delle scoperte di Pasteur si riverbera su molti aspetti della nostra vita e della nostra salute ed è tuttora attualissima. In questo periodo di festa potremo ringraziare Pasteur quando porteremo sulle nostre tavole il panettone impastato con ingredienti pastorizzati, come le uova e il latte, o farcito con panna e crema, quando faremo bollire a lungo il brodo, per renderlo più gustoso ma anche per sterilizzarlo, oppure quando condiremo i tortellini con la panna (pastorizzata), quando stapperemo lo spumante (pastorizzato) o anche, in onore di Pasteur, lo champagne (pastorizzato) per il brindisi augurale di Natale e Capodanno.
Fonte-ALMA MATER STUDIORUM – Università di Bologna –
Vita e attività di Louis Pasteur, il primo microbiologo-Chimico e biologo francese (Dôle 1822 – Villeneuve l’Étang, Seine-et-Oise, 1895). Considerato il padre della microbiologia, a lui si devono sia la scoperta della fermentazione sia l’introduzione delle vaccinazioni e dei metodi di sterilizzazione.
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
– Louis Pasteur- il primo microbiologo
Franco Leggeri Fotoreportage-Murales Ospedale Spallanzani di Roma
Louis Pasteur-(Dôle 1822 – Villeneuve l’Étang, Seine-et-Oise, 1895)Di umili origini–(il padre era un conciapelli), compiuti gli studî secondarî a Besançon, si iscrisse (1843) all’École normale supérieure di Parigi, addottorandosi nel 1847. Le sue prime ricerche furono di cristallografia. Il chimico tedesco E. Mitscherlich aveva osservato (1844) che il paratartrato e il tartrato doppio di soda e di ammoniaca, perfettamente identici quanto alla composizione chimica, alla forma cristallina e alle proprietà fisiche, esercitavano azioni diverse sulla luce polarizzata, senza riuscire a trovarne una spiegazione. P. si impegnò per diversi anni a ricercare la causa di un tale fenomeno, individuandola infine nella loro dissimmetria molecolare (1848). Gli studî sulla dissimmetria molecolare (P. continuerà ad occuparsi di cristallografia fino al 1857) mostrarono in seguito tutta la loro importanza dando luogo al sorgere della stereochimica. Nel 1854 fu nominato docente nella facoltà di scienze di Lilla. In quegli anni (le sue prime annotazioni sui Cahiers de laboratoire sono del 1855), P. cominciò ad occuparsi del problema delle fermentazioni, indotto a ciò anche dalle pressanti richieste di alcuni fabbricanti di birra preoccupati per le sorti del loro prodotto. L’idea allora dominante intorno all’origine e alla causa delle fermentazioni era quella sostenuta dal chimico tedesco Liebig che riteneva la fermentazione un fenomeno puramente chimico. Nel suo primo Mémoire sur la fermentation appelée lactique (1857), P. sostiene che “la fermentazione si mostra correlata alla vita“. Nella fermentazione alcolica in particolare egli notò la presenza di globuli il cui comportamento era quello di esseri viventi microscopici. Giunto a questo punto P. fu naturalmente portato a chiedersi quale fosse l’origine di questi esseri microscopici, capaci di indurre importanti fenomeni di trasformazione delle sostanze fermentescibili. Fu così che si trovò ad affrontare lo studio della generazione spontanea, antica teoria esplicativa dell’origine della vita e risalente almeno ad Aristotele. Nel sec. 17° tale teoria fu dimostrata falsa dall’italiano F. Redi per l’origine spontanea di mosche e insetti di varia natura. La teoria risorse nel sec. 18° per certi aspetti con la disputa Spallanzani-Needham. Nel 1858 F. A. Pouchet comunicò all’Académie des sciences alcuni risultati favorevoli all’eterogenesi. La disputa Pasteur-Pouchet sulla generazione spontanea durò a lungo e si concluse con il “trionfo” di P., il quale riuscì a dimostrare che con alcuni accorgimenti tecnici i liquidi utilizzati negli esperimenti, se precedentemente sterilizzati, non presentavano alcuna produzione vitale. Bisogna dire che i motivi ideologici presenti nel dibattito fecero apparire Pouchet un materialista convinto e, di contro, P. un difensore dello spiritualismo e della religione ufficiale. Un’attenta ricostruzione storica ha dimostrato che i termini reali della questione stanno ad indicare l’erroneità di tale semplificazione. Dalla teoria della generazione spontanea alla teoria generale dei germi patogeni il passo era breve e quasi obbligato. La medicina in generale e la chirurgia in particolare acquisivano i concetti fondamentali di sepsi e asepsi. Il grande chirurgo inglese J. Lister, invitando P. a Edimburgo dichiarava: “Ho bisogno di aggiungere che grande soddisfazione sarebbe per me mostrarvi qui quanto la chirurgia vi deve”. Dal 1865 al 1870 P. si dedicò quasi interamente allo studio delle malattie del baco da seta. A conclusione di questi suoi lavori poteva affermare che le due principali malattie che lo colpiscono, la pebrina e la flaccidezza, sono malattie ereditarie e contagiose, indicando i mezzi per prevenirle. Negli anni Ottanta P. si impegnò nello studio di numerose malattie infettive come il colera dei polli e il carbonchio. Grazie a queste ricerche egli riuscì a mettere a punto un metodo di attenuazione degli agenti patogeni mediante l’azione dell’ossigeno dell’aria. Attraverso l’inoculazione preventiva dei germi attenuati egli riusciva a prevenire la malattia nella sua forma più virulenta e mortale. Nasce così la tecnica della vaccinazione preventiva delle malattie infettive. Ma gli studî che gli diedero fama imperitura furono, per la loro drammaticità e spettacolarità, quelli sulla rabbia. Questi studî segnarono, per P., il passaggio dalla sperimentazione animale a quella sull’uomo. Contrariamente a quanto avveniva per le altre malattie infettive, P. non riuscì mai a isolare l’agente patogeno della rabbia. Riuscì però, col contributo fondamentale di É. Roux, a mettere a punto un metodo di attenuazione del virus rabbico. Da qui l’importante prassi della vaccinazione preventiva. La spettacolarità dei risultati ottenuti da P. sull’uomo ha contribuito a creare un vero e proprio mito-P., che attraverso una acritica vulgata storiografica ci ha tramandato un’immagine agiografica e di maniera del grande scienziato francese. Solo di recente, anche sulla base di un attento studio dei manoscritti inediti (Cahiers de laboratoire), si è cominciato a restituire una dimensione storica realistica alla scienza pasteuriana e al suo autore nella sua concreta figura di uomo e di scienziato del sec. 19°. Numerosi furono gli incarichi accademici cui P. venne chiamato: direttore degli studî scientifici all’École normale (1857-67), prof. di chimica alla Sorbona (1867-74), direttore del laboratorio di fisiologia-chimica all’École normale (1867-88); nel 1888 (fino al 1895) fu direttore dell’Institut P., fondato per lui, per ricerche di sieroterapia e microbiologia. Nel 1882 era stato eletto all’Académie française. Fu socio straniero dei Lincei (1888). Delle opere si ha un’edizione completa a cura di M. Pasteur-Vallery-Radot (Oeuvres, 7 voll., 1922-39); la Correspondance è stata pubblicata in 4 volumi (1940-51). Fonte -Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
I 7 libri di Charles Dickens da leggere assolutamente.
Scrittore ma anche giornalista, editore e persino attore: Charles Dickens è una vera star dell’Europa vittoriana. Secondogenito di undici figli, a dodici anni viene costretto a lavorare in una fabbrica di lucido da scarpe per ripagare i debiti del padre, finito in galera. Insomma, il grande narratore inglese non ha inventato nessuna delle disavventure occorse a Oliver Twist o David Copperfield: i suoi romanzi raccontano il lato oscuro di una Londra che lui conosce bene, in piena rivoluzione industriale, tra sfruttamento e progresso, miseria e prestigio.
Dickens è dunque il cantore di Londra, ma i suoi libri uscivano a puntate attesi con grande trepidazione in tutta Europa e in America. Prima di scrivere, era solito fare lunghe passeggiate, anche di notte, tra il rumore delle fabbriche e i quartieri ricchi. Per questo, come spiega George Orwell, le atmosfere cittadine dickensiane sono ancora così vivide: “Quando Dickens descrive una cosa una volta, la si ricorda per tutta la vita”. Oltre al lato socialmente impegnato dell’autore, Dickens è anche maestro di ironia e satira: indimenticabili le bizzarre caricature del Circolo di Pickwick e degli altri scritti d’esordio. La vera grandezza di Dickens sta però nell’attualità dei suoi romanzi e nella modernità dello stile narrativo. Bisognerebbe leggerli tutti, ma per chi vuole (ri)scoprire l’opera di un grande scrittore, ecco quelli che secondo noi sono i 7 libri di Charles Dickens da leggere assolutamente almeno una volta nella vita.
1) Il Circolo Pickwick –
Primo di una lunga serie di romanzi bestseller, Il Circolo Pickwick resta un capolavoro dell’umorismo. La trama funge da cornice per presentare gag memorabili e una miriade di personaggi bizzarri (a cominciare dalla strepitosa comitiva viaggiante composta da mister Pickwick, Sam Weller e soci) che mettono alla berlina la fragilità della morale inglese d’epoca vittoriana.
2) Le avventure di Oliver Twist
Le avventure di Oliver Twist è il secondo romanzo pubblicato da Charles Dickens. Sicuramente l’avrete incontrato per la prima volta a scuola, in un edizione per ragazzi o sull’antologia (o forse nella trasposizione cinematografica di Roman Polanski?). In verità questo libro è molto di più di un romanzo di formazione: la storia del giovane Oliver ha mille sfaccettature e rimane un superclassico che vale sempre la pena di custodire nella propria biblioteca e di annoverare tra i libri di Dickens da leggere assolutamente.
3) David Copperfield
Una delle commedie umane più lette d’ogni tempo. E difficilmente si trova in letteratura una descrizione più efficace del mondo visto dagli occhi di un bambino. “Di tutti i miei libri”, diceva Dickens, “amo soprattutto David Copperfield.” E si sa anche il perchè. Questo romanzo è considerato una sorta di fiction autobiografica: il racconto retrospettivo della vita di David ricorda da vicino molte delle peripezie vissute dal vero Dickens tra infanzia e maturità.
4) Canto di Natale
La più celebre delle storie sul Natale è un racconto dai profondi insegnamenti sul Bene e il Male, adatto a tutte le età, qui in una bella edizione con prefazione di Gianrico Carofiglio. Come noto, i tre fantasmi del Natale appariranno in infinite trasposizioni narrative, dal cinema al fumetto (lo stesso personaggio dello zio Paperone disneyano ha come prototipo l’avarissimo Ebenezer Scrooge). Con questo romanzo breve Dickens si consacra anche come l’inventore letterario della magia del Natale.
5) Una storia tra due città
Le due città di questo memorabile romanzo storico di Dickens sono Londra e Parigi, maestose scenografie su cui lo scrittore ambienta la sua era della Rivoluzione. Secondo alcuni sarebbe uno dei libri più venduti di tutti i tempi (con la bellezza di 200 milioni di copie). Comunque sia, resta una grande storia in cui il passato si sovrappone al presente e delinea inesorabile i rapporti tra i diversi e ancora una volta straordinari personaggi ideati da Dickens.
6) Tempi difficili
In una fittizia città industriale del tardo ‘800, papà Grandgrin, come molti suoi contemporanei, educa la famiglia a fuggire gli idealismi e la fantasia. Così spinge la figlia Louisa a un matrimonio senza amore ma assai economicamente vantaggioso. Si vedrà presto costretto a dover prendere le distanze dalle proprie convinzioni…
Il grande romanzo della maturità di Dickens: una macchina travolgente in cui ricorrono gli ingredienti consueti della sua scrittura, ma con in più un tono di favola che a tratti stempera gli eventi persino in chiave comica.
7) Grandi speranze
Grandi speranze è l’ultimo romanzo di formazione dickensiano, nonché un capolavoro assoluto del genere. Protagonista indimenticabile è il giovane orfano Pip nel suo sogno di far fortuna e salvarsi la vita. Molti critici vedono anche nella filigrana di Grandi speranze una traccia autobiografica: narratore e protagonista, Pip racconta da adulto il suo cammino di conoscenza e disillusione di fronte ai casi della vita in un misto di humour e compassione nel ricordare la propria ingenuità.
David Copperfield di Charles Dickens – Articolo di Giovanni Teresi-Fonte RAI Cultura-
David Copperfield di Charles Dickens
David Copperfield è l’ottavo romanzo dello scrittore inglese Charles Dickens e rientra nei romanzi sociali . L’opera, inizialmente, è stata pubblicata a puntate mensili tra il 1849 e il 1850 con il titolo originale The Personal History, Adventures, Experience and Observation of David Copperfield the Younger of Blunderstone Rookery (Which He Never Meant to Be Published on Any Account).
É il romanzo più popolare ed autobiografico di Dickens.
David Copperfield, dopo la morte della madre, lascia Blunderstone per Londra. Mr Murdstones, il patrigno, lo obbliga ad andare a lavorare al magazzino di vini di Murdstone and Grimby. All’ età di dieci David diventa un piccolo apprendista. Egli lavora insieme con altri tre o quattro ragazzi che lavorano sotto il controllo di un supervisore adulto. David descrive la miseria e la sporcizia del posto di lavoro. Così, sotto la sferza del tirannico maestro Creakle e la fatica del lavoro in fabbrica, sperimenta presto la durezza della vita.
Ma grazie alle cure della bizzarra zia Betsey, che lo aiuta a sistemarsi presso l’avvocato Wickfield e a terminare gli studi, David scoprirà la propria vocazione letteraria e riconquisterà il suo rango borghese. Impareggiabile nel raccontare paure ed emozioni dell’universo infantile, Dickens sfodera doti di acuto osservatore nel disegnare la galleria di tipi umani che ruota attorno al protagonista: da Mr. Micawber, sempre sull’orlo del fallimento ma capace del più genuino entusiasmo, all’ammirato compagno di studi Steerforth, che rivelerà da adulto la sua natura spregiudicata e viziosa, al servile e viscido Uriah Heep, il cattivo della storia. Alla fine del diciannovesimo secolo il lavoro minorile e le dure condizioni erano considerate una cosa normale e i piccoli lavoratori erano sottoposti a grossi rischi. Ma David non può esprimere la segreta agonia della sua anima. Egli vede il futuro in modo negativo e non ha speranza: nessuna possibilità di crescere e di distinguersi come individuo. La miseria del suo lavoro e la sua condizione sociale soffocano i suoi sogni e le sue aspettative.
Con geniale esuberanza il romanzo intreccia commedia e tragedia sullo sfondo di una Londra prototipo della metropoli moderna e tetra incubatrice di miseria, solitudine, crimine.
Charles Dickens miscelando insieme una buona dose di dramma ma anche di ironia, riesce a trasmettere al lettore una miriade di emozioni, che passano dalla tristezza, alla gioia, dalle risate alle lacrime, dalla rabbia ai sospiri. Insomma, immergersi tra le pagine di David Copperfield equivale a vivere un vero e proprio viaggio non solo in un’epoca passata, ma anche in sensazioni molto forti, che rendono la lettura un’esperienza completa e piena.
prefazione di Silvia Secco- Samuele Editore-Pordenone
Maria Milena Priviero nasce a Pordenone nel 1945 da madre istriana e padre friulano. Trascorre l’infanzia e la giovinezza a Ravenna dove compie gli studi superiori. Ritorna nella sua città natale, dove attualmente risiede, ed opera come bibliotecaria ed animatrice culturale.
Dal 1999 partecipa a premi letterari ottenendo diversi premi e riconoscimenti, tra i quali Il Leone di Muggia nel 2007 (terzo premio).
Nel 2008 riceve dalla Città di Porcia il Premio Purlilium.
E se
e se dell’amore dovessi dire
non lo direi con le parole
ad occhi chiusi forse lo direi
e le mani intrecciate
o forse non lo direi affatto
perché l’amore è una voce
che in silenzio il silenzio ascolta
Numeri primi
Nella vita avrei amato
le moltiplicazioni,
(magari un altro figlio intorno
ai quaranta’anni)
e invece hanno prevalso
le divisioni, le separazioni dai luoghi,
(quando non erano sottrazioni)
così ora sento più vicini i numeri
dispari, meglio se primi
(tanto i conti non tornano)
che un resto lasciano certo
una via ancora possibile
forse a un ricalcolo.
Trasloco
Tutto era stato caricato
sul camion del trasloco
che aspettava rombando sulla strada,
che una bimba facesse quel passo
di lasciare la sua infanzia
smarrita sugli scalini
della vecchia casa
in una scatola di cartone,
stretta nel cerchio convulso
della braccia, dove stava
coi nati, stranita anche la gatta
Maria Milena Priviero- Da capo al fine-
Signorina Poesia
è come una donna
che per le vie del centro passa
o forse è ancora una ragazza
che incede leggera, senza lasciare
traccia ma che sa andare oltre
intraprendente
sulla spalla la sua giacca
e s’apre di nuovo
il tuo sorriso inatteso
aggrappato a quel tuo
forte fragile stelo,
come l’ultima Nerina
del tuo giardino
in un filo di voce
sospeso : – Sei tu, sei tu,
quella che mi piace –
Come ramo lacerato dal vento
hai una ferita esposta
Semmai un giorno si saldasse
avresti una parte di te più dura.
Bisognerebbe tagliarlo lo sai,
perché ramifichi ancora
ma il taglio non è la cura
Ieri ho messo via il nostro
inverno in grandi scatole
di cartone nonostante il tempo
fuori fosse avverso.
L’ho posto tra maglioni, felpe
sciarpe e pantaloni
di fustagno, preoccupata
che stesse bene e al caldo.
Ma ho ancora tanto freddo
e trattengo per noi (di nuovo
bambini), guai un mal,
un plaid e dei vecchi golfini
Da Capo a Fine:
il moto circolare della memoria e della poesia
Scrive Alberto Bertoni in La poesia contemporanea (Il Mulino edizioni, 2012), che “la memoria di un poeta è tutto: la memoria che il poeta riceve, la memoria che il poeta trasmette”, ed in questo piccolo scrigno di versi, seconda raccolta poetica edita per l’autrice di Pordenone, dopo Il tempo rubato (Samuele Editore, 2013), Maria Milena Priviero affida appunto alla memoria la cifra stilistica della propria narrazione poetica la quale, per sua natura, rifiuta la linea temporale – caratteristica della prosa – per sgranarsi, velata dall’emotività e dalla lontananza del ricordo, quasi come una corona di rosario.
Se, sempre citando Bertoni, intendiamo anche etimologicamente il Verso come un “volgere”, un infinito tornare indietro, ecco che il titolo di questa raccolta si chiarifica nel suo senso musicale di reiterazione: “Da capo al fine”, appunto, che non intende condurci ad alcun luogo d’approdo in maniera lineare, ma che circolarmente, continuamente, ci propone di ricominciare. Si tratta, come dice l’autrice, di un “infinito lato del finire”: una litania di ricordi di voci, visioni, sentimenti e vissuto, che attraverso la delicata traduzione poetica rinominano un “piccolo mondo antico” senza però costringerlo a ritornare del tutto in superficie, per lasciarlo lì, in una smorzata e calma luce che non vuole per forza delinearne in maniera plastica i contorni e che quasi lo tutela, nella sfera della verosimiglianza, dalla crudeltà del reale. In questo senso il microcosmo di Da capo al fine, se pure descritto, è un giardino segreto, che un tempo è stato consistenza di nomi e cognomi, parentela, stagioni, luoghi fisici ed abitanti dei luoghi, e che ora l’autrice ci permette di sbirciare (“Li vedo i giorni alle spalle / in dissolvenza”) come da una breccia della recinzione, da un minimo spiraglio, per il quale ciò che ci è consentito di guardare ci appare nuovo, diverso: “Eppure c’è un luogo / dove vorrebbero posarsi, tornare / sulle rive di un fiume un lago, / di uno stagno se non del mare”.
Le trentanove poesie di Da capo al fine definiscono, con una limpida ed al contempo soffusa capacità descrittiva priva d’artifici retorici – dove “l’ombra era ombra, nitida / senza sfumature e il verde / era verde, secco nell’erba / e la nuvola era bianca, bianca / nell’azzurro” – un vero e proprio stato in luogo, dal quale non ci allontaniamo veramente mai. Il luogo fisico ed insieme emotivo di questa raccolta poetica è, infatti, quello circolare di un lago: il piccolo laghetto della Burida a Porcia, vicino Pordenone, luogo d’origine e di ritorno – anche biograficamente – di Maria Milena, dal quale è visibile la sua casa (“In fondo è sempre ritorno / un luogo”) e che si fa culla del ricordo, utero nativo di gestazione poetica, punto di chiusura del cerchio e nuovamente capo di ripartenza. Sulle rive di questo minuscolo tondo d’Arcadia dall’acqua quieta, quasi la vediamo camminare lentamente (“chè lei era così / sempre un po’ distratta / sempre un passo avanti a se stessa”); quasi vediamo ciò che la sua memoria vede: una donna, di spalle, a volte bambina (la bimba di “Trasloco”), a volte matura signora del presente (“Così alla fine sono qui / con le mani nella terra / a interrare i germogli”), altre volte “signorina” (la splendida ragazza della copertina e di “La sera prima”), che ricorda il proprio vissuto, e che a volte si siede, ricordando, “abbracciandosi i ginocchi”, quasi a difendere la propria visione dal pericolo del nuovo (“questa voglia di restare alla finestra / questa voglia di quiete di assenza / sommessamente mi fa chiudere la porta”). Nomino volutamente l’Arcadia, a definizione di questo luogo reale ed immaginario, in quanto contesto classico di pacificazione e terra quasi mitica d’armonia, poiché qui si colloca anche la peculiare caratteristica della poetica di Maria Milena Priviero: una parola discreta, piana e quasi sommessa, molto vicina alla sfera colloquiale. Quella stessa parola poetica senza “rumore”, dalle “rime non crepuscolari / ma verdi, elementari”, a lungo cercata da Giorgio Caproni ad esempio, poeta la cui voce sovente riecheggia all’interno di questi versi.
Samuele Editore nasce nel 2008 a Pordenone con un indirizzo che predilige la poesia. Fin dall’inizio riprende il marchio storico della Tipografia di Alvisopoli fondata nel 1810 da Nicolò Bettoni. La vecchia Tipografia nella sua storia pubblicò diverse opere importanti come Le Api panacridi di Alvisopoli (1811, scritta per il figlio di Napoleone Bonaparte) di Vincenzo Monti (poeta, scrittore, drammaturgo, traduttore tra i massimi esponenti del Neo Classicismo italiano). La Tipografia, che aveva per logo un’ape cerchiata da un tondo con il motto Utile Dulci, lavorò fino al 1852, anno della sua chiusura.
Samuele Editore raccoglie l’eredità di quel grande momento storico assumendo gli stessi ideali e gli stessi obiettivi di Nicolò Bettoni. Intenzione bene esemplificata dal motto Utile dulci che l’Editore colloca a manifesto del suo lavoro. Si tratta infatti di un passo oraziano tratto dall’Ars poetica (13 a.c.): Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci, Lectorem delectando pariterque monendo (ha avuto ogni voto colui che ha saputo unire l’utile al dolce, dilettando e nello stesso tempo ammonendo il lettore). Lo stesso passo viene ripreso nel XVIII secolo dall’Illuminismo italiano col significato di il lavoro e l’arte sono fondamento di una vita serena. Usato nel medesimo significato anche dalla tipografia di Nicolò Bettoni è adesso concetto fondante e ispiratore della ricerca poetica e delle pubblicazioni della Samuele Editore.
Già dopo pochi anni di attività Samuele Editore si è imposto all’attenzione della cultura nazionale lavorando coi maggiori esponenti della poesia, del giornalismo, della televisione italiana. Con un lavoro di promozione continuo sia con manifestazioni proposte dalla Casa Editrice (a Pordenone, Trieste, Venezia, Milano, Torino, Roma, Napoli, eccetera) sia con partecipazioni a Festival importanti (Pordenonelegge, Residenze Estive, Libri in Cantina, Salone del Libro di Torino, Book City, Ritratti di Poesia, Più Libri più Liberi) sia con newsletter e pubblicità settimanali in internet, Samuele Editore vanta una presenza nei maggiori blog e siti letterari, ma anche sulla stampa nazionale quale Il Corriere della Sera, L’Espresso, L’Avvenire, L’Unità, Il Manifesto, Il Piccolo, Il Gazzettino, Il Messaggero Veneto, Poesia, Il Segnale. Nel 2013 L’Espresso lo intervista scrivendo: la Casa Editrice produce in pochi anni un buon catalogo di giovani poeti. Canzian è anche un critico letterario on line, e ha capito, tra i primi, che è finita l’epoca delle riviste letterarie e che la critica, militante o no, è passata a discutere sul Web. Nel 2015 Giovanna Rosadini lo cita nella Lettura del Corriere della Sera come una delle realtà eroiche rappresentative della piccola editoria italiana. Nel 2021 su Ansa il suo nuovo progetto Laboratori critici viene paragonato a quello di Feltrinelli de Sotto il vulcano – idee, narrazioni, immagini.
A maggio 2013 Samuele Editore apre alla poesia internazionale pubblicando poesie inglesi tradotte in italiano. Dal 2015 Samuele Editore ha iniziato a proporre volumi in doppia lingua anche di poeti italiani affrontando la tematica della traduzione e dell’autotraduzione. In questo si inscrive la partecipazione, nel 2014, al New York Poetry Festival, la presentazione nel 2015 a Managua in Nicaragua e la partecipazione al convegno del NEMLA nel 2019 a Washington DC. In questa direzione l’attenzione a livello internazionale che viene riconosciuta alla Samuele Editore si concretizza nel 2021 con la partecipazione al Festival Mahalla a Istanbul.
Nel novembre 2015 Samuele Editore lancia il suo primo ciclo di poesia intitolato Una Scontrosa Grazia, con sede a Trieste. Un progetto che vede un incontro ogni due settimane con autori editi dall’Editore e con autori non editi ma di sicuro interesse nel panorama nazionale. Nel febbraio 2016 apre un ciclo intitolato Callisto a Venezia, presso Palazzo Grimani, conclusosi nel 2017. Nel 2017 apre un ciclo pordenonese intitolato Poesia in Incisoria, conclusosi nel 2018. Nel 2018 a Trieste apre il ciclo Poesia agli Specchi conclusosi nel 2019. A questi si sono affiancati nel tempo Animula Vagula Blandula (Maniago), I Poeti di Scilla alla Biblioteca Pagliarani (Roma), Intelligenti Pauca (Milano).
Diventato nel tempo un contenitore culturale che non si occupa esclusivamente dei propri autori ma allarga gli eventi e i cicli al dialogo tra poeti di diversa provenienza e pubblicazione, già dal 2013 Samuele Editore inizia a organizzare diversi Festival Letterari, tra questi: Poesia tra le acque di Polcenigo (Polcenigo, 2013), Il soggiorno dei poeti e degli artisti (Arta Terme, 2013), Verdarti (Porcia, 2014), I territori dell’uomo (Maniago, 2014), Premio Carducci in Carnia ne Il Comune Rustico (Arta Terme, 2015), Crambe Tataria (San Quirino, 2016), Libri in Cantina Poesia (Susegana, 2016/2017), Le notti del mito (Trieste, Udine, Pordenone, Milano, Napoli, Roma, 2018), Il Festival della Letteratura Verde (Porcia, 2018/2021), Panorami Poetici (Spilimbergo, 2019/2021), Varieazioni (Rotondi, 2021, per la parte letteraria).
Nel 2019 la Samuele Editore integra la propria proposta di eventi entrando nei Centri Commerciali con presentazioni alternative. Tra le location GranFiume di Fiume Veneto e Belforte di Monfalcone.
Nel 2016 fonda il portale di promozione della Poesia Laboratori Poesia.
Dal 2019 la Samuele Editore è distribuita in tutta Italia da Fastbook.
Dal 2020 la Samuele Editore apre una rubrica d’arte e letteratura dal titolo Pre-Dizioni sul noto portale ArteMagazine.
Nel 2020 Samuele Editore apre il canale podcast nel sito con interventi e letture dei maggiori poeti italiani e internazionali.
A luglio 2021 Marta Goldin disegna il nuovo logo di Laboratori Poesia
Dal 2021 la Samuele Editore entra in giuria e cura le edizioni del Premio Bologna in Lettere, sezione poesia inedita.
Dal 2021 assume la direzione della Collana Gialla e Gialla Oro di Pordenonelegge accanto a Gian Mario Villalta, Roberto Cescon e Augusto Pivanti, e ne cura le pubblicazioni.
A novembre 2021 fonda la rivista semestrale di Poesia e Percorsi letterari Laboratori critici, per la direzione di Matteo Bianchi.
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