Paolo Tassi- DSG&MSG-Collettivo R/ATAHUALPA-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
– PAOLO TASSI- DSG&MSG-Collettivo R/ATAHUALPA-Prove d’Autore –
– PAOLO TASSI- DSG&MSG-Collettivo R/ATAHUALPA-Prove d’Autore –
Se questo è un uomo di Primo Levi
“Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera,
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”
“Nei riguardi dei condannati a morte, la tradizione prescrive un austero cerimoniale, atto a mettere in evidenza come ogni passione e ogni collera siano ormai spente, e come l’atto di giustizia non rappresenti che un triste dovere verso la società, tale da potere accompagnarsi a pietà verso la vittima da parte dello stesso giustiziere. Si evita perciò al condannato ogni cura estranea, gli si concede la solitudine, e, ove lo desideri, ogni conforto spirituale, si procura insomma che egli non senta intorno a sé l’odio o l’arbitrio, ma la necessità e la giustizia, e, insieme con la punizione, il perdono.
Ma a noi questo non fu concesso, perché eravamo troppi, e il tempo era poco, e poi, finalmente, di che cosa avremmo dovuto pentirci, e di che cosa venir perdonati?”
“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo…
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.”
“Se questo è un uomo” di Primo Levi
Sopra le coltri elefantine delle aiuole
un cactus gotico fiorisce in teschi regali
e nelle cavità di malinconici organi,
nei metallici grappoli cannosi,
marciscono antiche melodie.
Palle di cannone, semi di guerra
ha disperso il vento.
Sopra ogni cosa svetta la notte,
e nel bosso di cupole sempre verdi
lo sventato imperatore in punta di piedi se ne va
ai giardini magici delle sue stòrte,
e nella bonaccia delle rosee serate
tintinna un fogliame vetroso,
che le dita degli alchimisti toccano
come vento.
Accecano i telescopi per orrore del cosmo;
e i fantastici occhi degli stellonauti
se li è bevuti la morte.
e intanto la luna ha deposto uova nelle nubi,
stelle nuove sono sgusciate a frotte come uccelli
che migrano da terre nericce
canticchiando la canzone dei destini umani,
ma nessuno c’è che li possa intendere.
Ascoltate le fanfare del silenzio,
su tappeti logori come sindoni di secoli
ci incamminiamo verso l’invisibile futuro
e Sua maestà la polvere
si adagia lieve sul trono vuoto.
Da: Vestita di luce, a cura di Sergio Corduas, Einaudi, Torino 1986, p. 23
Vi sono città che sembrano fatte per la poesia. Una di queste certamente è Praga. Fu uno dei centri artistici principali dell’epoca barocca, poi della mitteleuropa (oltre a Franz Kafka vi era nato qui anche Rainer Maria Rilke nel 1875). Nel 1918 divenne capitale della Cecoslovacchia. Allora Jaroslav Seifert aveva diciassette anni (era nato a Žižkov, un sobborgo operaio di Praga). A quel tempo aiutava il padre al suo negozio di quadri, unica fonte di sostentamento della famiglia, che però chiuse i battenti nel corso della guerra per via delle dure condizioni di vita imposte dal conflitto bellico. Si diplomò come privatista nel 1919 e già allora simpatizzava per la Rivoluzione Russa e per la causa del comunismo. Quell’anno cominciò a pubblicare su riviste e nel ’21 pubblicò la sua prima raccolta di poesia, La città in lacrime. Nello stesso anno si iscrisse al Partito comunista e cominciò a lavorare per la stampa di partito (scriveva sul quotidiano «Rude pravo», collaborava con la casa editrice di partito e fece parte della redazione di alcune riviste letterarie). Conobbe in questi anni František Halas, il quale si era da qualche anno trasferito da Brno. Anche quest’ultimo simpatizzava con la causa del comunismo, frequentava gli stessi ambienti di Seifert e pubblicò sulle riviste in cui quest’ultimo lavorava. Tra i due poeti nacque un’amicizia fraterna. Seifert fu tra i fondatori del gruppo di poeti e artisti del movimento Devětsil, fondato a Praga nel 1920 e attorno a cui si erano raccolti critici e poeti di primo piano (in seno a questo gruppo nacque nel 1924 il poetismo, un movimento artistico e poetico di fondamentale importanza nel ‘900 ceco e non solo, che propugnò e attuò un impetuoso rinnovamento nella scena letteraria sotto il segno delle avanguardie letterarie europee). Figura di primo piano di questo raggruppamento fu il critico Karel Teige, col quale nel 1924 Seifert fece un memorabile viaggio in Italia proprio nel momento in cui il fascismo stava prendendo il potere. Nel 1925 fu in Unione Sovietica e l’anno successivo pubblicò la raccolta L’usignolo canta male, nella quale si avverte il passaggio da una prima fase influenzata dalla poesia proletaria a una fase più matura sotto il segno delle avanguardie europee (surrealismo, dadaismo). Notevole e profetica per quanto riguarda i futuri destini dell’Europa è la poesia dal tono espressionista Il vecchio campo di battaglia (“Il sole gira l’ombra alle cose,/ la terra è incinta di morti./ Già si spacca, andiamo e balliamo/ in tondo!// È notte, è mattino e fra le nebbie fa giorno,/ avvolti in brandelli tutti dormono./ È il mantello di Arlecchino, la terra,/ una scacchiera sfondata,/ è l’Europa”). Nel 1929 Seifert firma un manifesto contro l’affermazione della linea stalinista all’interno del Partito Comunista cecoslovacco e per questo ne venne espulso. Proprio in quell’anno pubblicò la raccolta di poesia Il piccione viaggiatore nella quale compare la citata poesia dedicata alla sua città natale. L’allontanamento dal partito fu una svolta importante nella sua biografia intellettuale e artistica. A partire da questo momento guardò l’Unione Sovietica e la causa del comunismo mondiale in modo sempre più scettico e critico. Anche dal punto di vista formale le sue poesie cambiarono: si passò da forme metriche irregolari o assenti a metri più regolari e tradizionali mentre dal punto di vista stilistico il poeta gradualmente passò a un tono più intimista e lirico. Il soggetto della sua poesia a cui rimase fedele per tutta la sua vita, fu proprio Praga, città nella quale i suoi ricordi d’infanzia si intrecciano con i riferimenti al mito di una città nella quale l’arte e la storia avevano lasciato tracce indelebili. Con lo smembramento della Cecoslovacchia del ’39 e l’occupazione di Praga da parte delle truppe naziste prevalsero nella sua poesia gli accenti di indignazione civile. Nel 1948 si espresse chiaramente contro la “sovietizzazione” del suo paese (per questo fino al 1956 fu costretto al silenzio). Nel 1968, a seguito della sua posizione fortemente critica nei confronti dell’invasione sovietica del suo paese, fu di nuovo ridotto al silenzio (anche se le sue poesie circolavano sotto forma di samizdat). Il premio Nobel assegnato nel 1984 (due anni prima della sua morte) non giovò molto alla sua fama a livello mondiale. Forse proprio perché per tutta la sua vita rimase così fedele alla sua amata città.
“Sonetto dell’amore totale”
Ti amo tanto, amore mio… non canti
il cuore umano con maggiore verità…
Ti amo come amico e come amante
in una sempre diversa realtà.
Ti amo per affinità, di un quieto amore prestante
e ti amo al di là, presente nella nostalgia.
Ti amo, infine, con grande libertà
per l’eternità e a ogni istante.
Ti amo come un animale, semplicemente
di un amore senza mistero e senza virtù
con un desiderio massiccio e permanente.
E amandoti così, molto e sempre
un giorno nel tuo corpo all’improvviso
morirò per aver amato più di quanto ho potuto.
Marcus Vinicius de Moraes
Ordine delle foto dei Cantieri scuola:A)-Pescorocchiano;B)-Poggio Bustone;C)-Turania;D)-Contigliano;E)-Labro;F)-Poggio Catino;
G)- Corografia della provincia di Rieti con l’ubicazione dei Cantieri scuola.
Nel 1948 venne attribuita alla Camera di commercio di Rieti il compito di gestire ed organizzare i Cantieri scuola, in collaborazione con la Prefettura di Rieti, con l’Ufficio provinciale del lavoro e l’ispettorato ripartimentale del corpo delle foreste. Quest’attività di organizzazione e controllo, deliberata il 25 novembre 1948, comportava la realizzazione di una serie di interventi sul territorio al fine di combattere la disoccupazione e, al tempo stesso, di offrire alla provincia una adeguata ricostruzione dopo il conflitto bellico. In genere, salvo rare eccezioni, si trattava di cantieri mirati o al rimboschimento, oppure ad una più ampia sistemazione delle zone montane, o alla costruzione di un più adeguato apparato viario. I lavori erano eseguiti sotto la direzione tecnica dell’Ispettorato forestale del ripartimento di Rieti, mentre l’avviamento al lavoro era curato dall’Ufficio provinciale del lavoro tramite la sua rete di Uffici di collocamento. Durante i lavori del cantiere era prevista anche un’assistenza medica demandata alle singole condotte tramite una apposita convenzione stipulata con l’INAIL.
Ordine delle foto dei Cantieri scuola:
A)- Pescorocchiano;
B)-Poggio Bustone;
C)-Turania;
D)-Contigliano;
E)-Labro;
F)-Poggio Catino;
G)- Corografia della provincia di Rieti con l’ubicazione dei Cantieri scuola.
Il poeta Giorgio Caproni
Da: Il passaggio d’ Enea
I – DIDASCALIA
Fu in una casa rossa:
la Casa Cantoniera.
Mi ci trovai una sera
di tenebra, e pareva scossa
la mente da un transitare
continuo come il mare.
Sentivo foglie secche,
nel buio, scricchiolare.
Attraversando le stecche
delle persiane, del mare
avevano la luminescenza
scheletri di luci rare.
Erano lampi erranti
d’ ammotorati viandanti.
frusciavano in me l’ idea
che fosse il passaggio d’ Enea.
II – VERSI
«A l’ accent familier
nous devinons le spectre»
La notte quali elastiche automobili
vagano nel profondo e con i fari
accesi, deragliando sulle mobili
curve sterzate a secco, di lunari
vampe fanno spettrali le ramaglie
e tramano di scheletri di luce
i soffitti imbiancati? Fra le maglie
fitte d’ un dormiveglia che conduce
il sangue a sabbie di verdi e fosforiche
prosciugazioni, ahi se colpisce l’ occhio
della mente quel transito, e a teoriche
lo spinge dissennate cui il malocchio
fa da deus ex machina!…Leggère
di metallo e di gas, le vive piume
celeri t’ aggrediscono – l’ acume
t’ aprono in petto, e il fruscio, delle vele.
T’ aprono in petto le folli falene
accecate di luce, e nel silenzio
mortale delle mobili cantilene
soffici delle gomme, entri nel denso
fantasma – entri nei lievi stritolii
lucidi del ghiaino che gremisce
le giunture dell’ ossa, e in pigolii
minimi penetrando ove finisce
sul suo orlo la vita, là Euridice
tocchi, cui nebulosa e sfatta casca
la palla morta di mano. E si dice
il sangue che c’ è amore ancora, e schianta
inutilmente la tempia, oh le leghe
lunghe che ti trascinano – il rumore
di tenebra, in cui il battito del cuore
ti ferma in petto il fruscio delle streghe!
Ti ferma in petto il richiamo d’ Averno
che dai banchi di scuola ti sovrasta
metallurgico, il senso è in quell’ eterno
rombo di fibre rotolanti a un’ asta
assurda di chilometri, sui lidi
nubescenti di latte trovi requie
nell’ assurdo delirio -Trovi i gridi
spenti in un’ acqua che appanna una quiete
senza umano riscontro, ed è nel raggio
d’ ombra che di qua penetra i pensieri
che là prendono corpo, che al paesaggio
di siero, lungo i campi dei Cimmeri
del tuo occhio disfatto, riconosci
il tuo lémure magro (il familiare
spettro della tua scienza) nel pulsare
di quei pistoni nel fitto dei boschi.
Nel pulsare del sangue del tuo Enea
solo nella catastrofe, cui sgalla
il piede ossuto la rossa fumea
bassa che arrazza il lido. Enea che in spalla
un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’ un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto. Nell’ avvampa
funebre d’ una fuga su una rena
che scotta ancora di sangue, che scampo
può mai esserti il mare (la falena
verde dai fari bianchi) se con lui
senti di soprassalto che nel punto
d’ estrema solitudine, sei giunto
più esatto e incerto dei nostri anni bui?
Nel punto in cui, trascinando il fanale
rosso del suo calcagno, Enea un pontile
cerca che al lancinante occhio via mare
possa offrire altro suolo – possa offrire
al suo cuore di vedovo (di padre,
di figlio – al cuore dell’ ottenebrato
principe d’ Aquitania), oltre le magre
torri abolite l’ imbarco sperato
da chiunque non vuol piegarsi. E,
con l’ alba già spuntata a cancellare
sul soffitto quel transito, non è
certo un risveglio la luce che appare
timida sulla calce. Il tremolio
scialbo del giorno in erba, in cui già un sole
che stenta a alzarsi allontana anche in cuore
di quei motori il perduto ronzio.
III – EPILOGO
Sentivo lo scricchiolio,
nel buio, delle mie scarpe:
sentivo quasi di talpe
seppellite un rodio
sul volto, ma sentivo
già prossimo ventilare
anche il respiro del mare.
Era una sera di tenebra,
mi pare a Pegli, o a Sestri.
Avevo lasciato Genova
a piedi, e freschi
nel sangue i miei rancori
bruciavano, come amori.
M’ approssimavo al mare
sentendomi annientare
dal pigolio delle scarpe:
sentendo già di barche
al largo un odore
di catrame e di notte
sciacquante, ma anche
sentendo già al sol, rotte,
le mie costole, bianche.
Avevo raggiunto la rena,
ma senza avere più lena.
Forse era il peso nei panni,
dell’ acqua dei miei anni.
* * * * *
DEUS ABSCONDITUS
Un semplice dato: Dio non si è nascosto, Dio si è suicidato.
(SENZA TITOLO?)
Dio non c’é ma non si vede. Non è una battuta: è una professione di fede.
LA VITA
Adesca ma è micidiale.
Le basta, per l’invidia, un sasso.
Per quanto sia cauto il tuo passo,
rassegnati! ti riuscirà mortale.
CONDIZIONE
Un uomo solo,
chiuso nella sua stanza.
Con tutte le sue ragioni.
Tutti i suoi torti.
Solo in una stanza vuota,
a parlare. Ai morti.
(Da Il muro della terra [1964-1975])
EPILOGO
Annina è nella tomba.
Annina, ormai, è un’ombra.
E chi potrà più appoggiare
l’orecchio al suo petto,
e ascoltare come una volta il cuore,
timido, tumultuare?
(da Versi livornesi)
ULTIMA PREGHIERA
Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nei buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricordati perché ti mando:
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisterone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mormorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.
(da Versi livornesi)
CONGEDO DEL VIAGGIATORE CERIMONIOSO
Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.
Con voi sono stato lieto
dalla partenza, e molto
vi sono grato, credetemi
per l’ottima compagnia.
Ancora vorrei conversare
a lungo con voi. Ma sia.
Il luogo del trasferimento
lo ignoro. Sento
però che vi dovrò ricordare
spesso, nella nuova sede,
mentre il mio occhio già vede
dal finestrino, oltre il fumo
umido del nebbione
che ci avvolge, rosso
il disco della mia stazione.
Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette),
e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare
facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare
quanto, anche messi alle strette
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio)’ confidare.
(Scusate. E una valigia pesante
anche se non contiene gran che:
tanto ch’io mi domando perché
l’ho recata, e quale
aiuto mi potrà dare
poi, quando l’avrò con me.
Ma pur la debbo portare,
non fosse che per seguire l’uso.
Lasciatemi, vi prego, passare.
Ecco. Ora ch’essa è
nel corridoio, mi sento
più sciolto. Vogliate scusare.)
Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma, cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia.
Congedo a lei, dottore,
e alla sua faconda dottrina.
Congedo a te, ragazzina
smilza, e al tuo lieve afrore
di ricreatorio e di prato
sul volto, la cui tinta
mite è sì lieve spinta.
Congedo, o militare
(o marinaio! In terra
come in cielo ed in mare)
alla pace e alla guerra.
Ed anche a lei, sacerdote,
congedo, che m’ha chiesto se io
(scherzava!) ho avuto in dote
di credere al vero Dio.
Congedo alla sapienza
e congedo all’amore.
Congedo anche alla religione.
Ormai sono a destinazione.
Ora che più forte sento
stridere il freno, vi lascio
davvero, amici. Addio.
Di questo, sono certo: io
son giunto alla disperazione
calma, senza sgomento.
(da Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee [’60-’64])
Roberto Pasanisi
Giorgio Caproni: l’assoluto e le cose
[Originariamente pubblicato su Fucine Mute 65]
Una vocazione precoce per la poesia, scandita per cinquanta anni sul filo d’una posizione appartata ma risentita, di là dalle mode e dal volgere turbinoso degli anni, è certo una delle cifre caratterizzanti dell’arte di Giorgio Caproni. Negli anni dell’Ermetismo, la sua poesia si ritaglia uno spazio autonomo, il cui primo referente sono piuttosto Ceccardo Roccatagliata Ceccardi (uno degli autori alle origini della poesia moderna in Italia) e «gli altri ribelli apuani», lungo quella grande tradizione ligure che lui stesso avrebbe contribuito a disegnare, non senza polemiche, sul piano critico.
Nato a Livorno nel 1912, non è azzardato né difficile rintracciare nella sua stessa in fondo scarna biografia la radice di quell’aerea e fresca musicalità, di quella grazia un po’ alla Chiabrera, quasi da canzonetta settecentesca, esile come un fiore di serra, che contrassegna fortemente tutta la sua produzione giovanile, da Come un’allegoria (1932-1935) (1936; il suo libro d’esordio) a Cronistoria (1943), ma che il poeta non dimenticherà del tutto nemmeno nei libri della maturità. Fino ai diciotto anni, infatti, Caproni studia violino, musicando fra l’altro brani del Poliziano (l’Orfeo), del Tasso e del Rinuccini; abbandonàti gli studi regolari, continuerà tuttavia ad esercitarsi sull’amato strumento per tutta la vita.
La sua poesia, del resto, si contrassegna sin dall’inizio per un’attenzione elettiva alla tecnica, sul filo d’una sapienza formale volta a costruire il verso con un’accurata opera di cesellatura, di oraziano labor limae: caratteristici sono l’uso della parentesi e dei trattini, che genialmente disegnano differenti piani nel verso, creando un affascinante e spericolato giuoco d’intersezioni e di rimandi, quasi che il filo del discorso si insegua e ricada continuamente su se stesso, procedendo a spirale piuttosto che in linea retta.
E il poeta stesso, in un continuo ed illuminante intersecarsi di produzione poetica e meditazione critica ed autoriflessione su di essa – secondo una cifra caratteristica del poeta moderno, da Baudelaire in poi -, ad indicare i Leitmotiv fondamentali della sua poesia: «All’origine dei miei versi […] direi che c’è la giovinezza e il gusto quasi fisico della vita, ombreggiata da un vivo senso della labilità delle cose, della loro fuggevolezza: coup de cloche, come dicono i francesi, o continuo avverti mento della presenza, in tutto, della morte. Sono versi un poco “macchiaioli”, che risentono molto del mio soggiorno, da bambino, nelle campagne fra Pisa e Livorno, in casa di un certo Cecco, allevatore e domatore di cavalli.»
Già nei primi versi emergono i paesaggi e la luce delle campagne toscane, ocra e verde, còlte attraverso una musica ora ariosa ora dissonante, ma che improvvisamente si slansia in aperture di stupefatta largura, come nell’explicit di Prima luce:
La terra, con la sua faccia
madida di sudore,
apre assonnati occhi d’acqua
alla notte che sbianca.
Gli uccelli sono sempre i primi
pensieri del mondo.
Si colgono qui alcuni dei moduli compositivi proprî della poesia caproniana: la leggerezza quasi impressionistica del tocco, il morbido surrealismo delle immagini («apre assonnati occhi d’acqua»), in cui si stempera la pur presente concretezza delle cose, l’aspra dissonanza dell’enjambement attributo/sostantivo («primi / pensieri»), la ricchezza dei referenti culturali (i carducciani pensieri della conclusio, tutt’uno con quelli di San Martino). La figura femminile, evocata nei tratti diafani del ricordo, manifesta montalianamente una sua lontana funzione salvifica soltanto attraverso la memoria: «[…] Dietro / i vetri, nello specchiato / cielo coi suoi rondoni / più fioco, / da me segreta ormai / silenziosa t’affanni / come nella memoria.»
L’immagine, tutta giocata sulla connotazione della ‘trasparenza’ dei vetri (metafora, d’altronde, del ricordo), ha la delicatezza impalpabile e pur luminosa dell’acquerello, espressa nella medietas di uno stile che spazia senza sussulti dal registro ‘alto’ a quello quotidiano, secondo un modus scribendi proprio di tutta la lirica caproniana.
Anche sugli exempla e sulla temperie più profonda dei suoi versi è ancóra il poeta stesso ad illuminarci: «Le mie vere fonti sono i poeti delle origini, dai siciliani ai toscani prima di Cavalcanti: poeti che usavano una lingua ancora inesistente, e quindi dura, spigolosa, non addomesticata a ritmi cantabili. Ed è stata proprio questa durezza, questa musicalità non dico sgradevole, ma tuttavia non consolatoria, che ho cercato di riprodurre, almeno da un certo punto in poi.» A quelli citati da Caproni vanno aggiunti i modelli di Lorca, di Antonio e Manuel Machado, di Azorín, di Ungaretti. Si vedano, a mo’ di specimen, versi come «il paese, tale nel cuore / si turba, / sebben lo tenga / amore, il tuo remoto / viso al cadere fitto / dell’ore.», in cui sapientemente si mescidano suggestioni dugentesche e scansione ungarettiana, sottese al tema tutto caproniano della labilità irreversibile e nostalgicamente rivissuta d’uomini e cose.
In Finzioni, la sua terza raccolta, del ’41, il poeta livornese prosegue con strenua coerenza il suo discorso poetico, sempre intessuto di ariose e magiche ouverture, sul filo d’una stilnovistica dulcedo e d’un senso di continuo e stupefatto miracolo:
di sale – e sono vele
al vento, sono bandiere
spiegate a bordo l’ampie
vesti tue così chiare.
Il prodigio della presenza metafisica di madonna è còlto, ancóra una volta, tramite il consueto ‘tu’ di sapore montaliano: l’insegnamento del maestro dell’Ermetismo è in effetti qua e là presente, come nei versi di Cronistoria (1943), l’ultima raccolta di quella che potremmo definire la prima maniera caproniana:
Alzata la brace nera
di gioventù, un linguaggio
più esteso alla bandiera
del Quirinale impone
la tua insegna – il tuo nome.
Tutta la produzione successiva, da Stanze della funicolare in poi (1952), appare segnata dall’esperienza tragica della guerra, e poi dal sempre crescente smarrimento di fronte al nuovo mondo emerso dalle macerie, in cui il poeta stenta ormai a riconoscersi: la scansione poetica si amplia, fino a rendere misura del discorso non più il verso, ma l’intera strofa, che acquisisce un’architettura più complessa e difficile, ma non per questo meno persuasiva, segnata com’è da un uso ancor più rimarcato dell’enjambement. E il poeta stesso, coniugando, more solito, un’acuta autoriflessione critica al suo fare poetico, che ci informa sulla sua metánoia; che non è, scilicet, solo stilistica, ma che implica un’evoluzione ed un approfondimento coerente e spericolato della sua Weltanschauung: «[…] ormai è giunto il momento, dopo tanto paziente e isolato lavoro sulla parola […] di indirizzare risolutamente il gusto al discorso: di ritentare insomma, dopo tanta effusione, la composizione, un’ombra almeno di ciò che comunemente s’intende per poema, tentando alfine il salto, ricchi di tanta esperienza formale, dalla lirica pura alla poesia. Un salto sì, dall’alto in basso, ma appunto per questo dall’astrazione (dalla solitudine) alla vita concreta (alla società).»
La poesia di Caproni appare sempre più intessuta di echi e iterationes fittissimi, che sovente gli servono per evocare scenarî di squallida e grigia quotidianità, di ascendenza eliotiana, nei quali la stessa figura femminile, smessa ogni soave suggestione trascendente, è solo una pallida immagine dell’inferno terreno, la cui ambientazione è ancóra quella delle trattorie vocianti e dei bar fumosi dell’anteguerra, ma stavolta divenuti metafora e luoghi elettivi d’una desolata modernità:
Perché è nebbia, e la nebbia è nebbia, e il latte
nei bicchieri è ancor nebbia, e nebbia ha
nella cornea la donna che in ciabatte
lava la soglia di quei magri bar
dove in Erebo è il passo. E, Proserpína
o una scialba ragazza, mentre sciacqua
i nebbiosi bicchieri, la mattina
è lei che apre alla nebbia che acqua
(solo acqua di nebbia) ha nella nebbia
molle del sole in cui vana scompare
l’arca alla vista. […]
E in questi anni, in effetti, che Genova (dove il poeta si era trasferito dall’età di dieci anni) diventa per Caproni luogo mitico d’ogni fare poetico ed irripetibile «città dell’anima»: «Il punto di stazione da cui guardo Genova non è quello, scelto ad arte, del turista. E un punto di stazione che si trova dentro di me. Perché Genova l’ho tutta dentro. Anzi. Genova sono io. Sono io che sono fatto di Genova.» Il referente lo apparenta, per certi aspetti, a quell’altro grande cantore della città ligure che fu il Campana dei Canti orfici (1914), specialmente in una poesia come Genova, o di quella sorta di frammentario abbozzo d’un poema sulla città, di cui una lirica come Piazza San Giorgio costituisce uno dei momenti più significativi.
Con Il seme del piangere (1959) Giorgio Caproni sembra riprendere alcune movenze giovanili, ripercorrere, con più matura consapevolezza, le antiche, soavissime ariette, malinconicamente addolcite, stavolta, di vaghe ascendenze sabiane e penniane; la morte, uno dei temi cruciali dell’ultimo Caproni, comincia a farsi strada in maniera preponderante, seppure ancóra esorcizzata in tristi ma musicali cantabili, nello scenario tipicamente caproniano della stazione:
Chi avrebbe mai pensato, allora,
di doverla incontrare
un’alba (così sola
e debole, e senza
l’appoggio d’una parola)
seduta in quella stazione,
la mano sul tavolino
freddo, ad aspettare
l’ultima coincidenza
per l’ultima destinazione?
Nella raccolta successiva, Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1965), il poeta approfondisce ulteriormente le sue tematiche, rendendo sempre più universale la sua solitudine ed il suo straniamento in un mondo inesorabilmente travolto dalla sirena del tecnologismo e della mercificazione: Il gibbone costituisce uno specimen particolarmente emblematico del motivo, nonché una delle liriche più famose ed antologizzate del poeta; qui il contrasto fra città ideale e città reale si fa straordinariamente struggente nella sua definitiva insanabilità, là dove la città dell’anima si risolve in uno scintillio favoloso di luci:
Nell’ossa ho un’altra città
che mi strugge. E là.
L’ho perduta. Città
grigia di giorno e, a notte,
tutta una scintillazione
di lumi – un lume
per ogni vivo, come
qui al cimitero, un lume
per ogni morto. Città
cui nulla, nemmeno la morte
– mai, – mi ricondurrà.
L’ultimo Caproni, da Il muro della terra in poi (1975), amplia il suo discorso anche sul piano dei referenti culturali, intessendo i suoi libri, attraverso una ricca mèsse di note, d’un fitto e sapiente giuoco di richiami letterari, che ne accresce fortemente la risonanza; la sua poesia, nel contempo, perde ulteriormente di concretezza, e le cose si riducono a pallidi, inafferrabili simulacri, còlte sul filo di risentiti ossimori:
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
Nella raccolte successive, fino a Il franco cacciatore (1982), l’ispirazione capronoana sembra ulteriormente incupirsi, eleggendo a modello il I canto dell’Inferno dantesco, ma attingendo a tratti echi vagamente eliotiani: «Gli amici sono spariti / tutti. Le piazze / sono rimaste bianche.» Il tema centrale diviene quello del doppio: come dice in Geometria, «[…] Così si forma un cerchio / dove l’inseguito insegue / il suo inseguitore. / Dove non si può più dire / (figure concomitanti / fra loro, e equidistanti) / chi sia il perseguitato / e chi il persecutore.»; o ancóra, in Rivelazione: «Mi sono risolto. / Mi sono voltato indietro. / Ho scorto / uno per uno negli occhi / i miei assassini. / Hanno / – tutti quanti – il mio volto.»
Siamo così all’ultima raccolta, pubblicata postuma a cura di Giorgio Agamben: «La res amissa, che doveva essere l’idea centrale, rimanda anch’essa a una ricerca, a una caccia: quella al Bene perduto, a un regalo prezioso di cui si è cancellata ogni memoria […]. Ma l’assenza può riempire ogni fessura, diventare tema conduttore ineludibile; e la `cosa’ perduta prende il posto della guida, da tempo smarrita e mancante» nel cháos informe della postmodernità. Così quel bene perduto può farsi a tratti metafora politica, in versi epigrammatici dove un acre ed amaro umorismo scaglia la sua maledizione contro l’Italia ribalda e allo sfascio di questi anni oscuri: «Laida e meschina Italietta. / Aspetta quello che ti aspetta. / Laida e furbastra Italietta.»; oppure: «Fra le disgrazie tante / che mi son capitate, / ahi quella d’esser nato / nella “terra di Dante”.»
Così l’ultimo Caproni, attraverso una poesia sempre più filosofica, si misura col tema dell’assenza di Dio, alla ricerca della comprensione di tutta un’epoca, del senso ultimo dell’uomo e delle cose: ne nasce una poesia enigmatica e misteriosa, tutta accesa di improvvisi baluginii nel buio, eterna metafora della ricerca dell’uomo che insegue infinitamente se stesso. Sullo sfondo, il dramma già fatto magistralmente presente da Novalis: «Noi cerchiamo dappertutto l’assoluto e troviamo sempre e soltanto cose».
Breve biografia di Giorgio Caproni, nato a Livorno nel 1921 (morto il 22 gennaio 1990 a Roma). Il padre Attilio era ragioniere, la madre Anna Picchi sarta. Studiò a Genova, poi al magistero di Torino dove seguì le lezioni del filosofo antifascista Alfredo Poggi. Dovette interrompere la sua frequenza, dedicandosi solo agli studi di violino. Nel 1935 inizia la sua attività di insegnante a Rovegno [alta Val Trebbia], proseguita poi in provincia di Padova e a Roma (1938). Nel 1939 fu richiamato alle armi. L’8 settembre 1943 era in Val Trebbia, e vi rimase fino alla fine della guerra civile affiancandosi ai partigiani. Dopo la guerra si stabilì a Roma, con la moglie Rina, e i figli Attilio Mauro e Silvana, continuando a fare il maestro elementare.
Fondamentale per Caproni fu la lettura nel 1930 di “Ossi di seppia” di Montale. Importanti per la sua formazione prima della guerra furono le letture dei poeti francesi e spagnoli, Apollinaire e Machado, e dei filosofi antichi e moderni (tra cui Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard de “Il concetto dell’angoscia”). Solo nel 1933 fu pubblicata la sua prima poesia, Prima luce sulla rivista “Espero”, poi compresa nella sua prima raccolta poetica. Ha pubblicato i volumi di versi Come un’allegoria (1936), Ballo a Fontanigorda (1938), Cronistoria (1943). Dopo la guerra sono Stanze della funicolare (1952), Il passaggio di Enea (1956), Il seme del piangere (1959), Il muro della terra (1975), Il franco cacciatore (1982). Collabora a varie riviste e quotidiani (L’Unità, Avanti!, Paragone), per molti anni curò la pagina culturale di “Mondo operaio”, e tenne una rubrica su “La fiera letteraria”. Nel 1983 è l’edizione di Tutte le poesie edito da Garzanti. Seguirono Il conte di Kevenhuller (1986) e, postumo, Res amissa (1991).
Caproni mescola lingua popolare e lingua colta, con una sintassi strappata, ansiosa, in una musica dissonante ma anche squisita. Esprime un attaccamento sofferto alla realtà quotidiana, sublimando la sua matrice di pena in una suggestiva epica casalinga. Gli accenti di aspra solitudine delle ultime raccolte approdano a una religiosità senza fede, senza la possibilità di dio. Il mondo poetico di Caproni ha consumato ogni illusione, è sceso al silenzio, ha varcato in modo conseguenziale la frontiera di un mondo definitivamente senza ‘grazia’. La sua poesia affonda in una memoria corrosa, in un vissuto che muore a ogni istante: egli è uno scrittore del disincanto.
Caproni è stato anche un ottimo traduttore: iniziò nel 1951 quando Natalia Ginzburg gli commissionò la traduzione de Il tempo ritrovato di Proust per Einaudi; ha poi tradotto Maupassant (Bel Ami, 1965), Céline (Morte a credito, 1964), Apollinaire (Poesie, 1979), Jean Genet (4 romanzi, 1975). Volume di racconti sono L’ultimo borgo (1980) e Il labirinto (1984).
DESCRIZIONE
È stato su una spiaggia di Malibu, nel 1988, che Peter Lindbergh ha scattato la serie White Shirts, ora nota in tutto il mondo. Semplici eppure fondamentali, quelle fotografie ci hanno fatto scoprire Linda Evangelista, Christy Turlington, Rachel Williams, Karen Alexander, Tatjana Patitz ed Estelle Lefébure segnando l’inizio di un’epoca che ha ridefinito il concetto di bellezza, mentre Lindbergh sarebbe passato a modificare la scena della fotografia di moda nei decenni successivi.
Questa edizione, che riunisce più di 300 immagini scattate da Lindbergh in 40 anni di carriera, illustra le inflessioni cinematografiche e l’approccio umanista del fotografo tedesco, che ha realizzato immagini al contempo seducenti e introspettive.
Nel 1980, Rei Kawakubo chiese a Lindbergh di realizzare gli scatti per una campagna di Commes des Garçons, una delle sue prime sortite nella fotografia pubblicitaria. Kawakubo gli diede carta bianca. Negli anni a venire seguirono collaborazioni con i nomi più venerati della moda, che sfociarono in rapporti di grande stima reciproca: nei suoi ritratti, il rispetto di Lindbergh per alcuni dei più grandi stilisti del nostro tempo è evidente. Tra gli altri, Lindbergh ha fotografato Azzedine Alaïa, Giorgio Armani, Alber Elbaz, John Galliano, Jean Paul Gaultier, Karl Lagerfeld, Thierry Mugler, Yves Saint Laurent, Jil Sander e Yohji Yamamoto.
Da molti considerato un pioniere nel suo campo, Lindbergh si è sottratto agli standard di bellezza dell’industria, celebrando invece l’essenza e la personalità dei suoi soggetti. Il suo contributo è stato inoltre fondamentale per l’ascesa di modelle come Kate Moss, Naomi Campbell, Linda Evangelista, Cindy Crawford, Mariacarla Boscono, Lara Stone, Claudia Schiffer, Amber Valletta, Nadja Auermann e Kristen McMenamy.
Ma il campo d’azione di Lindbergh si è esteso anche fino a Hollywood e oltre: ad apparire nei suoi scatti sono, tra gli altri, Cate Blanchett, Charlotte Rampling, Richard Gere, Isabelle Huppert, Nicole Kidman, Madonna, Brad Pitt, Catherine Deneuve e Jeanne Moreau. Dalla foto scelta da Anna Wintour per la copertina del suo primo numero di Vogue allo scatto leggendario di Tina Turner sulla Torre Eiffel, nelle fotografie di Lindbergh il centro della scena non sono mai gli abiti, la celebrità o il glamour. Ogni immagine comunica l’umanità del suo soggetto con una malinconia serena che è il tratto unico e inconfondibile di Lindbergh.
Fin dall’inizio della sua carriera, Lindbergh ha avuto successo nel mondo dell’arte contemporanea, e le sue fotografie sono state esposte nelle gallerie molto prima di apparire sulle riviste. Questa edizione contiene un’introduzione aggiornata, ricavata da un’intervista del 2016, che permette di sbirciare dietro l’obiettivo di Lindbergh e nella quale il fotografo racconta delle sue prime collaborazioni, del sottile rapporto tra arte e pubblicità e del potere della narrazione.
TASCHEN ha 40 anni! Da quando nel 1980 ha iniziato la sua attività come archeologo culturale, TASCHEN è sinonimo di pubblicazioni accessibili a tutti, grazie alle quali bibliofili appassionati di tutto il mondo possono crearsi la propria biblioteca di testi d’arte, antropologia ed erotismo a prezzi imbattibili. Oggi celebriamo 40 anni di libri incredibili mantenendoci fedeli al credo aziendale. La serie 40 presenta nuove edizioni di alcuni dei best-seller del nostro catalogo: in un formato più compatto, a prezzi ridotti ma realizzate come sempre con la garanzia di una qualità impeccabile.
DESCRIZIONE
Tra i giovani (soprattutto militari) che dopo l’8 settembre 1943 vollero sottrarsi all’invio in Germania o all’arruolamento nell’esercito della Rsi, diversi decisero di opporsi a tedeschi e fascisti “con le armi in pugno”. Il volume analizza le convinzioni che li animavano e le organizzazioni e i partiti che li sostenevano; come e dove si riunirono i primi partigiani e in particolare il gruppo di Malga Silvagno; la nascita e lo sviluppo del gruppo di Malga Campetto, che mise in atto la “guerriglia di movimento” contribuendo a diffondere la lotta armata; i rapporti conflittuali tra i partigiani di diversa ispirazione e la formazione del battaglione “Danton” di Giuseppe Marozin; la costituzione, verso la fine di aprile del 1944, delle principali formazioni partigiane del Vicentino, che più tardi estesero la loro azione anche nelle province limitrofe. Più che di strategie e tattiche, si parla di storie di persone e luoghi che evidenziano come la Resistenza armata abbia trovato terreno fertile nei giovani contadini e montanari, nella gente delle contrade, nell’ambiente operaio delle fabbriche, in buona parte del clero e degli intellettuali e persino tra le autorità civili e militari
Prima
Mia madre ha ripetuto il suo nome in me
non per mancanza d’immaginazione ma per amore agli specchi
dove lei trova il suo corpo
in un equilibrio che pensava d’aver dimenticato.
Quando mi chiama
la sua voce trasforma la mia persona in un’eco
in una ripetizione cantilenante
una serie infinita di specchi
riproduce la mia sagoma fino all’indicibile
svuotandomi
polverizzandomi.
Quando mia madre mi chiama
sta chiamando se stessa
e alla fine nessuno sa chi è chi in questa casa.
Antes
Mi madre ha repetido su nombre en mí
no por falta de imaginación sino por amor a los espejos
donde ella encuentra su cuerpo
en un equilibrio que creyó olvidar.
Al llamarme
su voz convierte a mi persona en un eco
en una repetición en sonsonete
una serie infinita de espejos
reproduce mi silueta hasta lo indecible
vaciándome
pulverizándome.
Cuando mi madre me llama
se está llamando a ella
y al final nadie sabe quién es quién en esta casa.
Dalla raccolta De madrugada (2014)
I suoi occhi
Non c’era nulla dietro i suoi occhi
solo un mare senza movimento,
un mare
di acque scure
con pesci nuotando al rallentatore
e sirene sminuzzate
in un fondo senza fondo
tra montagne schiacciate
che una volta furono
remotamente
animali che il tempo estinse.
I suoi occhi
nonostante tutto
cercano
in me
un altro mare
simile e distante
per accarezzarlo con il suo sguardo.
Sus ojos
No había nada detrás de sus ojos
sólo un mar sin movimiento,
un mar
de aguas oscuras
con peces nadando en cámara lenta
y sirenas desmenuzadas
en un fondo sin fondo
entre montañas hundidas
que alguna vez fueron
remotamente
animales que el tiempo extinguió.
Sus ojos
a pesar de todo
buscan en mí
otro mar
parecido y distante
para acariciarlo con su mirada.
Cane che abbaia
C’è un cane nell’edificio di fronte
rinchiuso
dietro la ringhiera di un balcone
che non fa altro che abbaiare
dalla mattina alla sera.
Nel frattempo
il mondo passa nella sua vertiginosa disarmonia
abbaia al cane
e il cane sempre risponde.
Il dialogo non ha fine
è diventato inverosimile,
non si capiscono
non si capiranno mai.
La mattina si espande
dai suoi propri limiti
scivolosi
naufraga e riprende i suoi impulsi
e naufraga di nuovo.
A questo punto
nessuno in questo quartiere
vuole sentire ancora
il beato cane che abbaia
e abbaia.
Che il mondo si faccia capire
una buona volta
che quell’animale ritorni in sé
una volta per tutte
e capisca che nulla gli appartiene.
È un cane squallido
brutto
dagli occhi sporgenti
l’ho visto sbadigliare, mangiare e
grattarsi le pulci,
molti vorremmo avvelenarlo
ma non potremmo:
il balcone è alto
e il mondo non smette di passare
continuamente
con la sua cantilena che alimenta
latrati e chissà quante altre cose
in questa strada
dove si trova la mia casa.
Perro que ladra
Hay un perro en el edificio de enfrente
encerrado
detrás de la baranda de un balcón
que no hace otra cosa que ladrar
de la mañana a la noche.
Mientras tanto
el mundo pasa en su vertiginosa desarmonía
le ladra al perro
y el perro siempre contesta.
El diálogo no tiene fin
se ha vuelto inverosímil,
no se entienden
nunca se entenderán.
La mañana se explaya
desde sus propios límites
resbaladizos
naufraga y retoma sus ímpetus
y naufraga otra vez.
A esta altura
ya nadie en este vecindario
quiere oír más
al dichoso perro que ladra
y ladra.
Que el mundo se haga entender
de una buena vez
que ese animal entre en razones
de una vez por todas
y entienda que nada le pertenece.
Es un perro escuálido
feo
de ojos saltones
lo he visto bostezar y comer y
rascarse las pulgas,
muchos quisiéramos envenenarlo
pero no podríamos:
el balcón es alto
y el mundo no deja de pasar
continuamente
con su cantilena que alimenta
ladridos y quién sabe cuántas cosas más
por esta calle
en la que está mi casa.
Gatto davanti alla finestra
Il mio gatto crede che nella finestra ci sia molto da guardare.
La finestra con quel mondo ristretto che porta dentro
rimane in silenzio.
Il vetro
tuttavia
riflette il corpo del mio gatto
che guarda e guarda,
so che pensa che se il mondo fosse così grande
come la gente suol credere
non ci entrerebbe in quel miserabile rettangolo.
La luce è buona
per il gatto e per il mondo,
li riflette entrambi.
Senza il vetro nulla di tutto questo sarebbe possibile.
Gato frente a la ventana
Mi gato cree que en la ventana hay mucho para mirar.
La ventana con ese mundo apretado que lleva dentro
permanece en silencio.
El vidrio
sin embargo
refleja el cuerpo de mi gato
que mira y mira,
sé que piensa que si el mundo fuera tan grande
como la gente suele creer
no entraría en ese miserable rectángulo.
La luz es buena
para el gato y para el mundo,
los refleja a los dos.
Sin el vidrio nada de esto sería posible.
Come questa povera gente
Come questa povera gente che
ripetutamente
ritorna
alla loro casa allagata,
ritorno a guardarmi allo specchio:
i miei occhi,
che non vogliono vedere, vedono
l’ampiezza del mio viso
il coraggioso gesto della vita
che cade lungo il bordo delle mie sopracciglia;
causa ed effetti si inanellano
con totale impunità:
la vita è un tulle che lascia vedere
le tracce di un transito in vertigini infinite.
Como esta pobre gente
Como esta pobre gente que
una y otra vez
regresa
a su casa inundada,
vuelvo a mirarme en el espejo:
mis ojos,
que no quieren ver, ven
la amplitud de mi cara
el esforzado gesto de la vida
cayendo por el borde de mis cejas;
causas y efectos se enhebran
con total impunidad:
la vida es un tul que deja ver
las huellas de un tránsito en infinito vértigo
Venti d’autunno
Cominciano ad arrivare
i venti dell’autunno,
giungono prima dell’autunno
come deve essere, quei venti
scuotono le pareti
di questa mia casa
che li attende
ancor prima che si facciano sentire
tremare borbottare tremolare,
pareti e tetti rimangono avvolti nei loro scuotimenti.
Il futuro ha spiegato le sue ali al presente
mentre il passato si è reclinato nell’appoggiò
di ciò che mai si ripeterà.
Il vento mi racconta che l’autunno verrà a sdraiarsi
sul tetto di casa mia
come un gatto.
Tutto va bene ora
che il futuro ha spinto i suoi venti fin qui.
Vientos de otoño
Comienzan a llegar
los vientos del otoño,
se adelantan al otoño
como debe ser, esos vientos
estremecen las paredes
de esta casa mía
que los espera
aún antes de que se hagan oír
temblar refunfuñar tremolar,
paredes y techos quedan envueltos en sus sacudimientos.
El futuro ha desplegado sus alas hacia el presente
mientras el pasado se reclinó en el respaldo
de lo que nunca se repetirá.
El viento me cuenta que el otoño vendrá a recostarse
sobre el techo de mi casa
como un gato.
Todo está bien ahora
que el futuro empujó el viento hasta aquí.
Dalla raccolta Los días (2014)
Congedo
Mettesti la mia mano sul tuo petto
e chiudesti gli occhi:
La mia mano rimase dentro il tuo petto.
Dall’altro lato dei tuoi occhi
la mia mano accarezzò la tua memoria
parsimoniosamente
la mia mano affogò nella tua liscia memoria
poi qualcuno fischiò nel corridoio
la sera levigò i suoi margini,
dire addio è facile
quando il silenzio avvolge la vita
senza limiti
il silenzio è un piccolo dio
che rende il nostro congedo un luogo di arrivo
ora posso guardare
la mia propria morte nei tuoi occhi
la vedo inerpicarsi sul bordo del mio nome
e ci protegge entrambi.
Despedida
Pusiste mi mano sobre tu pecho
y cerraste los ojos:
mi mano quedó dentro de tu pecho.
Del otro lado de tus ojos
mi mano acarició tu memoria
parsimoniosamente
mi mano se ahogó en tu lisa memoria
después alguien silbó en el pasillo
la tarde pulió sus aristas,
despedirse es fácil
cuando el silencio envuelve a la vida
sin límites
el silencio es un pequeño dios
que convierte nuestra despedida en sitio de llegada
puedo mirar ahora
mi propia muerte en tus ojos
la veo trepándose sobre el borde de mi nombre
y nos cobija a los dos.
Dalla raccolta Invierno (inediti)
Biografia di Irma Verolín è nata l’8 dicembre 1953 a Buenos Aires, in Argentina. Ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali: il primo premio comunale «Eduardo Mallea», il primo premio internazionale «Horacio Silvestre Quiroga», il primo premio internazionale della Fondazione Luis Palés Matos di Porto Rico; primo premio della Fondazione Victoria Ocampo; Premio Emecé; Primo premio comunale della città di Buenos Aires; primo premio internazionale del romanzo di Mercosur. Ha pubblicato tre libri di poesia, quattro di racconti e due romanzi. E’ autrice di libri di letteratura per bambini e ragazzi, e di questi ne sono stati pubblicati cinque. Alcuni dei suoi testi sono stati tradotti in inglese, tedesco, italiano, russo e portoghese.
Irma Verolín Nació el 8 de diciembre de 1953 en Buenos Aires, Argentina. Ha recibido numerosos premios y galardones, entre ellos: el primer premio municipal “Eduardo Mallea”, el primer premio internacional “Horacio Silvestre Quiroga”, el primer premio internacional de la Fundación Luis Palés Matos de Puerto Rico; primer premio de la Fundación Victoria Ocampo; Premio Emece; Primer premio municipal de la ciudad de Buenos Aires; primer premio internacional de novela del Mercosur. Ha publicado tres libros de poesía, cuatro de cuentos y dos novelas. Es autora de libros de literatura infantil y juvenil, de los cuales se han publicado cinco. Algunos de sus textos han sido traducidos al inglés, alemán, italiano, ruso y portugués.
Se Castelnuovo (Archivio 1981)
Castelnuovo,
Parole meravigliose, se le saprò vestire e dipingere, con le foglie degli ulivi , nella dolcezza della sera.
Castelnuovo, se saprò descrivere, scrivere e incidere, il fascino raffinato dei colori, così come sono tradotti e vissuti nella spiritualità dell’anima.
Non ho un teschio in mano, non ho i dubbi di Amleto, non scriverò i tormenti, i miei dubbi, non sono Shakespeare.
Non trovo statico il legittimo dubbio che vaga , da sempre, nel labirinto di Dedalo.
Castelnuovo, non è il Castello di Elsinore o quello di Dracula. Castelnuovo è, a volte ,un inquieto schema di vie dove si rincorrono i pensieri partoriti da uno spirito notturno per un progetto del bello.
Castelnuovo è un pensiero filtrato, Castelnuovo è potenzialità: non idea, ma sostanza.
Il fuori posto della mia poesia ,Castelnuovo se lo chiami “musica” o “poesia”,
( neanche Cartesio mi aiuta ad uscire dai meandri del nozionismo)
Le ferite aperte sono il suono di una domanda antica, la pericolosa,( gesuitica?), insoddisfazione. Eppure la notte si adagia , sempre, sui tetti e il “genio maligno” fugge, finalmente , dalla mia esistenza.
Conosco la luce di Castelnuovo, Castelnuovo non è la mia “provincia oscura”. Castelnuovo è una divinità ed io ai suoi piedi ho lasciato i miei sogni, i miei sguardi, i miei pensieri, i miei versi.
Castelnuovo: ora non confondo più il buio con la tenebra. Oggi, ora non ho più paura della notte.
Castelnuovo, i colori e l’ideologia.
Questa mattina i colori di Castelnuovo
si disperdono come stelle filanti.
Colori profumati, impercettibili, e nascosti
tra il linguaggio degli ulivi.
E’ questa una mia visione interiorizzata,
ma sempre in cerca di un approdo sicuro.
Si, Castelnuovo non può essere un racconto sommario
ma, come le sequenze chimiche , deve espandersi
in una litania nell’immenso cielo.
Castelnuovo diventa una litania senza amen,
e senza consistenza, un oggetto fantasma
all’interno di una storia inaccessibile
che si frantuma come stelle filanti
nell’intimità di esperienze sofferte e malate
che diventano , esse stesse, oggetti appesi alle pareti del mio io.
Castelnuovo mi tenta ancora al peccato dell’illuminismo,
e così l’ideologia diventa il mio luogo del “niente”,
l’elemento misterioso di una poesia forgiata con i colori della pietra.
Colori castelnuovesi e tristezza ideologica
che sono come i dubbi di Amleto
in cerca di Ofelia che disperde, così tremante, i colori
della sua fragile innocenza.
Piange Castelnuovo in cerca dei colori,
sepolti trai vecchi tronchi deposti a terra ,
terra scura come i sogni svaniti all’alba
di questa poesia, ora diventata logora e affaticata
mentre rincorre il colore di questo giorno
sempre uguale agli altri.
I vecchi libri
I vecchi libri sono come sculture
Di una vita del dopo
Sono ritagli di tempo
E risultati di calcoli per una rotta tracciata
alla ricerca di sentieri che segnano l’anima.
Sentieri solitari e sospesi sulle emozioni
Che si anellano all’interno di un cerchio
Di passione e scrittura.
Ed è così, mentre i gatti si addormentano
Sull’autobiografica di un’oscura psicologa analista,
Che io mi interrogo sui Dialoghi, ormai scheletri, di Platone,
Si, proprio quelli
Che ho sepolto
Nei miei appunti tra i libri, nascosti in alto sugli scaffali.
L’Estate castelnuovese (1978)
Dai campi si leva
Un coro serrato di cicale
Il rosso , taciturno, dei papaveri
Veglia il riposo delle poche parole
di desiderio silenzio.
Poi, la sera ,lo sguardo abbraccia fosforescenti geometrie
Che nascono dall’immobilità della stanchezza.
Ascolto note di avventure eccessive, affogate in follie singolari.
I miei occhi (pallidi) sono sguardi (stanchi) ai margini dei campi.
Ora,
Del giorno, che corre al tramonto, ne dimentico l’alba.