Harper Lee scrittrice statunitense Il buio oltre la siepe
Il papavero rosso
Il massimo
è non avere
mente. Sentimenti:
oh, quelli ne ho; mi
governano. Ho
un signore in cielo
che si chiama sole, e mi apro
per lui, mostrandogli
il fuoco del mio cuore, fuoco
come la sua presenza.
Che altro può essere una simile gloria
se non un cuore? Oh, sorelle e fratelli,
eravate come me una volta, tanto tempo fa,
prima di essere umani? Vi
concedeste di aprirvi
una volta per poi non aprirvi
mai più? Perché in verità
adesso io sto parlando
come voi. Io parlo
perché sono distrutta.
Vespro
Una volta credevo in te; ho piantato un fico.
Qui, in Vermont, paese
senza estate. Era una prova: se l’albero viveva,
allora tu esistevi.
Questa logica dice che non esisti. O esisti
esclusivamente nei climi caldi,
nella torrida Sicilia, in Messico, in California,
dove crescono inimmaginabili
albicocche e fragili pesche. Forse
vedono la tua faccia in Sicilia; qui, vediamo appena
l’orlo del tuo vestito. Devo addestrarmi
a dare una parte dei pomodori a John e a Noah.
Se c’è giustizia in qualche altro mondo, a quelli
come me, che la natura spinge
a vite di astinenza, dovrebbe toccare
la parte più abbondante di tutte le cose, di tutti
gli oggetti della fame, l’insaziabilità
essendo lode di te. E nessuno loda
più appassionatamente di me, con
desiderio più dolorosamente frenato o più merita
di sedere alla tua destra, se esiste, partecipando
del perituro, il fico immortale,
che non viaggia.
I gigli bianchi
Mentre un uomo e una donna fanno
un giardino tra loro come
un letto di stelle, qui
fanno passare la sera d’estate
e la sera diventa
fredda del loro terrore: potrebbe
finire, sarebbe capace
di devastazione. Tutto, tutto
può perdersi, nell’aria odorosa
le strette colonne
che salgono inutilmente e, di là,
un ribollente mare di papaveri –
Taci, mio amato. Non mi importa
quante estati vivo per tornare:
questa sola ci ha dato l’eternità.
Ho sentito le tue mani
seppellirmi per liberare il suo splendore.
(Traduzione di Nicola Gardini da The Wild Iris 1992).
Approccio all’orizzonte (18)
Una mattina mi sono svegliata incapace di muovere il braccio destro.
Avevo sofferto periodicamente di notevoli
dolori su quel lato, il mio braccio da pittrice,
ma in questo caso non c’era dolore.
In effetti, non c’era sensibilità.
Il mio medico è arrivato entro un’ora.
Ci fu subito la richiesta di altri dottori,
vari test, procedure —
Ho mandato via il dottore
e invece ho assunto il segretario che trascrive queste note,
le cui capacità, mi è stato assicurato, sono adeguate alle mie esigenze.
Si siede accanto al letto a testa bassa,
possibilmente per evitare di essere ritratto.
Quindi iniziamo. C’è un senso
di allegria nell’aria,
come se gli uccelli cantassero.
Dalla finestra aperta arrivano ventate di aria dolce e profumata.
Il mio compleanno (ricordo) si sta avvicinando velocemente.
Forse i due grandi momenti collideranno
e vedrò me stessa incontrarsi, andare e venire –
Naturalmente, gran parte del mio io originale
è già morto, quindi un fantasma sarebbe costretto
ad abbracciare una mutilazione.
Il cielo, ahimè, è ancora lontano,
non proprio visibile dal letto.
Esiste ora come ipotesi remota,
un luogo di libertà del tutto svincolato dalla realtà.
Mi ritrovo a immaginare i trionfi della vecchiaia,
immacolati, visionari disegni
fatti con la mia mano sinistra –
“Sinistra”, anche, come “residuo”.
La finestra è chiusa. Di nuovo silenzio, moltiplicato.
E nel mio braccio destro, ogni sensibilità scomparsa.
Come quando la hostess annuncia la conclusione
attraverso l’audio del servizio di bordo.
La sensibilità è scomparsa – mi viene in mente
che sarebbe una bella lapide.
Ma ho sbagliato a suggerire
che questo sia già accaduto.
In effetti, sono stata perseguitata dalla sensibilità;
è il dono dell’espressione
che così spesso mi ha delusa.
Mi ha delusa, mi ha tormentata, praticamente per tutta la vita.
Il segretario alza la testa,
pieno di astratta deferenza
ispirata dall’approccio della morte.
Non può aiutare, realmente, ma essere emozionante,
questo emergere della forma dal caos.
Una macchina, vedo, è stata installata vicino al mio letto
per informare i miei visitatori
del mio progresso verso l’orizzonte.
Il mio stesso sguardo continua a spostarsi su di essa,
linea instabile delicatamente
ascendente, discendente,
come una voce umana in una ninna nanna.
E poi la voce si ferma.
A quel punto la mia anima si sarà fusa
con l’infinito, rappresentato
da una linea retta,
come un segno meno.
Non ho eredi
nel senso che non ho nulla di sostanziale
da lasciare.
Forse il tempo attutirà questa delusione.
Per chi mi conosce bene non sarà una novità;
Lo capisco. Quelli a cui
sono legata dall’affetto
perdoneranno, spero, le distorsioni
imposte dall’occasione.
Sarò breve. Così si conclude,
come dice la hostess,
il nostro breve volo.
E tutte le persone che non si conosceranno mai
si affollano nel corridoio e vengono tutte incanalate
nel terminale.
Louise Glück, Faithful and Virtuous Night, Farrar, Straus and Giroux. 2014
traduzione di Marcello Comitini
La spada nella roccia
Il mio analista alzò brevemente lo sguardo.
Naturalmente non potevo vederlo
ma avevo imparato, nei nostri anni insieme,
a intuire questi movimenti. Come al solito,
si è rifiutato di ammettere
se avessi ragione o meno. La mia ingegnosità contro
la sua evasività: il nostro giochino.
In quei momenti, ho sentito l’analisi
affiorare: sembrava far emergere in me
un’astuta vivacità ero
incline a reprimerla. L’indifferenza
del mio analista per le mie esibizioni
era adesso immensamente rilassante. Un’intimità
era cresciuta tra noi
come una foresta intorno a un castello.
Le persiane erano chiuse. Vacillanti
barre di luce avanzavano sulla moquette.
Attraverso una piccola striscia sul davanzale della finestra,
ho visto il mondo esterno.
Per tutto questo tempo ho avuto la vertiginosa sensazione
di fluttuare sopra la mia vita. Quella vita
scorreva lontana. Ma stava
ancora scorrendo: questa era la domanda.
Fine estate: la luce stava svanendo.
Scintille sfuggite guizzarono sulle piante in vaso.
L’analisi era al suo settimo anno.
Avevo ricominciato a disegnare –
piccoli schizzi modesti, casuali
costruzioni in tre dimensioni
modellati su oggetti funzionali —
Eppure, l’analisi richiese
gran parte del mio tempo. A cosa
questo tempo fu sottratto: questa
era anche la domanda.
Mi sdraio, guardando la finestra,
lunghi intervalli di silenzio si alternano
a riflessioni un po’ svogliate
e domande retoriche –
Il mio analista, ho sentito, mi stava guardando.
Così una madre, nella mia immaginazione, fissa il suo bambino addormentato,
il perdono che precede la comprensione.
O, più probabilmente, così mio fratello deve avermi guardato –
forse il silenzio tra noi prefigurava
questo silenzio, in cui tutto ciò che rimaneva non detto
era in qualche modo condiviso. Sembrava un mistero.
Poi l’ora finì.
Scesi come ero salita;
il portiere aprì la porta.
Il clima mite della giornata persisteva.
Sopra i negozi erano state spiegate le tende a strisce
a proteggere la frutta.
Ristoranti, negozi, chioschi
con gli ultimi giornali e sigarette.
Gli interni diventavano più luminosi
mentre l’esterno diventava più scuro.
Forse i farmaci stavano funzionando?
Ad un tratto si sono accesi i lampioni.
Ho sentito, improvvisamente, la sensazione che telecamere iniziassero a riprendere;
ero consapevole del movimento intorno a me, i miei simili
guidati da un insensato feticcio per l’azione —
Quanto profondamente ho resistito a questo!
Mi sembrava superficiale e falso, o forse
parziale e falso —
Invece la verità … beh, la verità come la vedevo io
si esprimeva come immobilità.
Ho camminato un po’, fissando le vetrine delle gallerie …
i miei amici erano diventati famosi.
Potevo sentire il fiume in sottofondo,
da cui proveniva l’odore dell’oblio
intrecciato con le erbe aromatiche in vaso dei ristoranti—
Avevo deciso di unirmi a una vecchia conoscenza per cena.
Eccolo al nostro solito tavolo;
il vino fu versato; era impegnato con il cameriere,
discutendo dell’agnello.
Come al solito, durante la cena è nata una piccola discussione, apparentemente
riguardante l’estetica. C’era libertà di espressione.
Fuori, il ponte luccicava.
Le auto correvano avanti e indietro, il fiume
brillò dietro, imitando il ponte. Natura
che riflette l’arte: qualcosa di simile.
Il mio amico ha trovato l’immagine potente.
Era uno scrittore. I suoi numerosi romanzi, all’epoca,
sono stati molto lodati. Uno era molto simile a un altro.
Eppure il suo compiacimento mascherava la sofferenza
come forse la mia sofferenza mascherava la compiacenza.
Ci conoscevamo da molti anni.
Ancora una volta lo avevo accusato di pigrizia.
Ancora una volta, ha respinto la parola …
Sollevò il bicchiere e lo capovolse.
Questa è la tua purezza, ha detto,
questo è il tuo perfezionismo
Il bicchiere era vuoto; non ha lasciato segni sulla tovaglia.
Il vino mi era andato alla testa.
Tornai a casa lentamente, meditabonda, un po’ ubriaca.
Il vino mi era andato alla testa, o no
la notte stessa, la dolcezza di fine estate?
Sono i critici, ha detto,
i critici hanno le idee. Noi artisti
(includeva me): noi artisti
siamo solo bambini con i nostri giochi.
Louise Glück
(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
cinque poesie da Averno e L’iris selvatico di Louise Glück, Edizione Il Saggiatore
da Averno(2006)
La stella della sera
Questa sera, per la prima volta in molti anni,
mi è apparsa di nuovo
una visione dello splendore della terra:
nel cielo del crepuscolo
la prima stella sembrava
crescere in luminosità
mentre la terra si oscurava
finché in ultimo non poté essere più scura.
E la luce, che era la luce della morte,
sembrava restituire alla terra
il suo potere di consolare. Non c’erano
altre stelle. Solo quella
di cui sapevo il nome
poiché nella mia altra vita le avevo fatto
torto: Venere,
stella del crepuscolo,
a te dedico
la mia visione, poiché su questa superficie vuota
hai gettato luce sufficiente
a rendere il mio pensiero
nuovamente visibile.
Averno
1.
Muori quando il tuo spirito muore.
Altrimenti, vivi.
Puoi non farcela al meglio, ma tiri avanti —
non hai altra scelta.
Quando lo dico ai miei figli
non prestano attenzione.
I vecchi, pensano —
fanno sempre così:
parlano di cose che non si vedono
per coprire tutti quei neuroni che perdono.
Ammiccano fra loro;
senti il vecchio, parla di spirito
perché non ricorda la parola per sedia.
È terribile essere soli.
Non intendo vivere soli —
essere soli, dove nessuno ti sente.
Ricordo la parola sedia.
Voglio dire — è solo che non mi interessa più.
Mi sveglio pensando
devi prepararti.
Presto lo spirito si arrenderà —
tutte le sedie del mondo non ti aiuteranno.
So cosa dicono quando sono nell’altra stanza.
Dovrei vedere uno specialista, dovrei prendere
uno dei nuovi farmaci per la depressione?
Li sento che discutono, sottovoce, come dividere le spese.
E voglio gridare
vivete tutti in un sogno.
Basta e avanza, pensano, vedermi perdere colpi.
Basta e avanza senza le lezioni che gli faccio questi giorni
come se avessi diritto a nuove informazioni.
Bene, loro hanno lo stesso diritto.
Stanno vivendo in un sogno, e io mi sto preparando
a diventare un fantasma. Voglio gridare
la nebbia si è diradata —
È come una vita nuova:
non dipendi dalla conclusione;
conosci la conclusione.
Pensaci: sessant’anni seduta su sedie. E ora lo spirito mortale
che vorrebbe così apertamente, così temerariamente —
Sollevare il velo.
Vedere a cosa stai dicendo addio.
3.
Da un lato, l’anima erra.
Dall’altro, gli esseri umani che vivono nella paura.
In mezzo, il pozzo della scomparsa.
Alcune ragazze mi chiedono
se sarebbero al sicuro nei dintorni dell’Averno —
hanno freddo, vogliono andare a sud per un po’.
E una dice, come scherzando, ma non troppo a sud —
Io dico, al sicuro come da qualsiasi parte,
il che le rende felici.
Intendo dire che niente è sicuro.
Sali su un treno, scompari.
Scrivi il tuo nome sul finestrino, scompari.
Ci sono luoghi come questo ovunque,
luoghi in cui entri come ragazza,
da cui non ritorni mai.
Come il campo, quello che è bruciato.
Dopo, la ragazza sparì.
Forse non esisteva,
non abbiamo prove in un senso o nell’altro.
Tutto ciò che sappiamo è:
il campo bruciò.
Ma questo lo vedemmo.
Quindi dobbiamo credere nella ragazza,
in quello che ha fatto. Altrimenti
sono solo forze che non capiamo
a governare la terra.
Le ragazze sono felici, pensando alle vacanze.
Non prendete il treno, dico.
Scrivono i loro nomi nella condensa sul finestrino di un treno.
Voglio dire, siete brave ragazze,
che cercate di lasciare i vostri nomi.
Persefone l’errante
Nella seconda versione, Persefone
è morta. Lei muore, sua madre piange —
i problemi della sessualità
qui non ci concernono.
Ossessivamente, nel lutto, Demetra
percorre la terra. Non ci aspettiamo di sapere
cosa Persefone stia facendo.
È morta, i morti sono misteri.
Abbiamo qui
una madre e un enigma: questo
corrisponde precisamente all’esperienza
della madre quando
guarda in faccia alla bambina. Pensa:
ricordo quando non esistevi. La bambina
è perplessa; più tardi, l’opinione della bambina è
che è sempre esistita, proprio come
sua madre è sempre esistita
nella sua forma attuale. Sua madre
è come una figura a una fermata d’autobus,
un pubblico per l’arrivo dell’autobus. Prima di questo,
lei era l’autobus, una temporanea
casa o comodità. Persefone, protetta,
guarda fuori dalla finestra del carro.
Cosa vede? Una mattina
all’inizio della primavera, ad aprile. Ora
tutta la sua vita sta iniziando — sfortunatamente
questa sarà
una vita breve. Conoscerà, a fondo,
solo due adulti: la morte e sua madre.
Ma due è
due volte ciò che ha sua madre:
sua madre ha
una bambina, una figlia.
Come dea, avrebbe potuto avere
mille bambini.
Cominciamo a vedere qui
la profonda violenza della terra
la cui ostilità suggerisce
che non desidera
continuare come fonte di vita.
E perché questa ipotesi
non è mai considerata? Perché
non è nel racconto; essa solamente
crea il racconto.
Nel lutto, dopo che la figlia muore,
la madre vaga per la terra.
Sta studiando il suo caso;
come un politico
lei ricorda tutto e non ammette
niente.
Per esempio, la nascita
di sua figlia fu intollerabile, la sua bellezza
fu intollerabile: questo lo ricorda.
Ricorda di Persefone
l’innocenza, la tenerezza —
Cosa progetta, mentre cerca sua figlia?
Sta manifestando
un avvertimento il cui messaggio implicito è:
cosa stai facendo fuori dal mio corpo?
Ti chiedi:
perché è sicuro il corpo della madre?
La risposta è
questa è la domanda sbagliata, poiché
il corpo della figlia
non esiste, se non
come un ramo del corpo della madre
che deve essere
ricongiunto a ogni costo.
Quando un dio piange significa
distruggere gli altri (come in guerra)
mentre allo stesso tempo chiede
di ribaltare i patti (anche come in guerra);
se Zeus la recupera,
l’inverno finirà.
L’inverno finirà, la primavera ritornerà.
I venticelli irritanti
che amavo tanto, gli idioti fiori gialli —
La primavera ritornerà, un sogno
fondato su una falsità:
che i morti ritornano.
Persefone
era abituata alla morte. Ora sempre e poi sempre
sua madre la trascina di nuovo fuori —
Devi chiederti:
i fiori sono veri? Se
Persefone «ritorna» sarà
per una di due ragioni:
o non era morta o
viene usata
per sostenere una finzione —
Penso di poter ricordare
l’essere morta. Molte volte, d’inverno,
ho avvicinato Zeus. Dimmi, gli chiedevo,
come posso tollerare la terra?
E lui diceva:
tra poco tempo sarai di nuovo qui.
E nell’intervallo
dimenticherai tutto:
quei campi di ghiaccio saranno
i prati dell’Eliso.
da L’iris selvatico (1992)
Mattutino
Padre irraggiungibile, quando all’inizio fummo
esiliati dal cielo, creasti
una replica, un luogo in un certo senso
diverso dal cielo, essendo
pensato per dare una lezione: altrimenti
uguale — la bellezza da entrambe le parti, bellezza
senza alternativa — Solo che
non sapevamo quale fosse la lezione. Lasciati soli,
ci esaurimmo a vicenda. Seguirono
anni di oscurità; facemmo a turno
a lavorare il giardino, le prime lacrime
ci riempivano gli occhi quando la terra
si appannò di petali, qui
rosso scuro, là color carne —
Non pensavamo mai a te
che stavamo imparando a venerare.
Sapevamo solo che non era natura umana amare
solo ciò che restituisce amore.
Fine dell’estate
Dopo che pensai tutte le cose,
pensai il vuoto.
C’è un limite
al piacere che trovavo nella forma —
In questo non sono come voi,
non mi appago in un altro corpo,
non ho bisogno
di un riparo fuori di me —
Mie povere ispirate
creazioni, siete
fastidi, in fondo,
mera limitazione; siete
alla fine troppo poco simili a me
per piacermi.
E così candide:
volete essere ripagate
della vostra scomparsa,
pagate tutte con qualche parte della terra,
qualche ricordo, come una volta eravate
compensate per il lavoro,
lo scriba pagato
con argento, il pastore con orzo
per quanto non è la terra
a durare, non
queste scaglie di materia —
Se apriste gli occhi
mi vedreste, vedreste
il vuoto del cielo
specchiato in terra, i campi
di nuovo nudi, senza vita, coperti di neve —
poi luce bianca
non più travestita da materia.
traduzione di Massimo Bacigalupo.
APRILE
Nessuna disperazione è come la mia disperazione…
Non c’è posto in questo giardino
di pensare cose simili, producendo
i fastidiosi segni esteriori; l’uomo
che strappa ferocemente un’intera foresta,
la donna che zoppica, rifiutando di cambiar vestito
o lavarsi i capelli.
Pensate che mi importi
se vi parlate?
Ma voglio che sappiate
mi aspettavo di più da due creature
che furono dotate di mente: se non
che aveste davvero cura l’uno dell’altro
almeno che capiste
che il dolore è distribuito
tra voi, tra tutti i vostri simili, perché io
possa riconoscervi, come il blu scuro
marchia la scilla selvatica, il bianco
la viola di bosco.
Buon compleanno a Louise Glück, nata oggi nel 1943
Una poesia di Louise Glück, Premio Nobel
Legge non scritta
Interessante come ci innamoriamo:
nel mio caso, in modo assoluto.
In modo assoluto e, ahimè, spesso –
così era nella mia gioventù.
E sempre con uomini piuttosto giovanili –
immaturi, imbronciati, o che prendono timidamente a calci foglie morte:
alla maniera di Balanchine.
Né li vedevo come ripetizioni della stessa cosa.
Io, con il mio inflessibile platonismo,
il mio fiero vedere solo una cosa alla volta:
ho decretato contro l’articolo indefinito.
Eppure, gli errori della mia gioventù
mi rendevano senza speranza, perché si ripetevano
come è di solito vero.
Ma in te sentii qualcosa oltre l’archetipo –
una vera espansività, un’esuberanza e amore della terra
profondamente estranei alla mia natura. A mio merito,
benedissi la mia buona fortuna per te.
La benedissi in modo assoluto, alla maniera di quegli anni.
E tu nella tua saggezza e crudeltà
mi hai gradualmente insegnato l’assenza di senso di quel termine.
Da Nuovi poeti americani (Einaudi, 2006).
Mezzanotte –
Alla fine la notte mi circondò;
ci galleggiavo sopra, forse dentro
o mi trasportava come un fiume trasporta
una barca, e allo stesso tempo
vorticava sopra di me,
costellata di stelle ma comunque oscura.
Questi erano i momenti per i quali ho vissuto.
Ero, mi sentivo, misteriosamente elevata al di sopra del mondo
e quell’azione che alla fin fine era impossibile
rendeva il pensiero non solo possibile ma illimitato.
Non aveva fine. Non ho bisogno, ho sentito,
di fare qualcosa. Qualsiasi cosa
sarebbe stata fatta per me, o fatta a me,
e se non fosse stata fatta, non era
essenziale.
Ero sul mio balcone.
Nella mano destra tenevo un bicchiere di scotch
in cui si stavano sciogliendo due cubetti di ghiaccio.
Il silenzio era entrato in me.
Era come la notte e i miei ricordi — erano come le stelle
in quanto erano fissi, sebbene ovviamente
se si fossero potuti vedere come fanno gli astronomi
si sarebbe visto che sono fuochi senza fine, come i fuochi dell’inferno.
Ho appoggiato il bicchiere sulla ringhiera di ferro.
Sotto, il fiume scintillava. Come ho detto,
tutto brillava — le stelle, le luci del ponte, gli importanti
edifici illuminati che sembravano fermarsi al fiume
per riprendere di nuovo, il lavoro dell’uomo
interrotto dalla natura. Di tanto in tanto ho visto
le imbarcazioni da diporto serali; poiché la notte era calda,
erano ancora piene.
Questa è stata la grande escursione della mia infanzia.
Il breve viaggio in treno che culmina in un tè di gala in riva al fiume,
poi quello che mia zia chiamava la nostra passeggiata,
poi la barca stessa che navigava avanti e indietro sull’acqua scura –
Le monete in mano a mia zia passarono nella mano del capitano.
Mi è stato consegnato il biglietto, ogni volta un nuovo numero.
Quindi la barca si è immessa nella corrente.
Ho tenuto la mano di mio fratello.
Abbiamo visto i monumenti che si susseguivano
sempre nello stesso ordine
e così ci siamo spostati nel futuro
dove si sperimentano ricorrenze perpetue.
La barca risalì il fiume e poi tornò indietro.
Si è spostata nel tempo e poi
attraverso un’inversione di tempo, anche se la nostra direzione
era sempre avanti, la prua continuava
a tracciare un sentiero nell’acqua.
Era come una cerimonia religiosa
in cui la congregazione stava
aspettando, vedendo,
e questo era l’intero punto, il contemplare.
La città andava alla deriva
metà a destra, metà a sinistra.
Guardate com’è bella la città,
ci diceva mia zia. Perché
era illuminata, immagino. O forse perché
qualcuno l’aveva detto nell’opuscolo stampato.
Successivamente abbiamo preso l’ultimo treno.
Spesso mi addormentavo, anche mio fratello dormiva.
Eravamo bambini di campagna, non abituati a tante emozioni.
Voi siete ragazzi esausti, disse mia zia,
come se tutta la nostra infanzia fosse a questo proposito
una qualità esaurita.
Fuori dal treno, il gufo stava chiamando.
Quanto eravamo stanchi quando siamo arrivati a casa.
Sono andata a letto con i calzini.
La notte era molto buia.
La luna è sorta.
Ho visto la mano di mia zia afferrarsi alla ringhiera.
Con grande eccitazione, applausi e ovazioni,
gli altri salirono sul ponte superiore
a guardare la terra scomparire nell’oceano –
Louise Glück
(TRADUZIONE DI MARCELLO COMITINI)
BIOGRAFIA
Glück Louise-Premio Nobel per la Letteratura 2020. Nata a New York nel 1943, Louise Glück è una poetessa statunitense. La sua poesia evoca schegge memoriali rielaborando temi come l’isolamento e la solitudine, in un tono insieme colloquiale e meditativo. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope all’interno di una scrittura molto moderna, che racconta di un matrimonio che sta per finire. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per “la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale”. Louise Glück è una poetessa statunitense. La sua poesia evoca schegge memoriali rielaborando temi come l’isolamento e la solitudine, in un tono insieme colloquiale e meditativo. Vincitrice del premio Pulitzer con L’iris selvatico (The Wild Iris, 1993), ha convinto i critici per lo stile controllato ed elegante con cui assorbe lunghe sequenze narrative di tratto confessionale che ricordano la poesia di R. Lowell, S. Plath e A. Sexton. In Meadowlands (1997) rievoca figure mitiche come Ulisse e Penelope all’interno di una scrittura molto moderna, che racconta di un matrimonio che sta per finire. Nel 2020 vince il Nobel per la letteratura per “la sua incofondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale”.
Nel 2020 per il Saggiatore vengono pubblicati: Averno e L’Iris Selvatico. A queste segue Ararat (2021).
Poesia fredda
Freddo ora.
Vicino al bordo. Quasi
insopportabile. Nubi
si ammucchiano in alto e ribollono
dal nord dell’orso bianco.
In questo mattino che spacca gli alberi
sogno le sue tracce grasse,
lo strutto salvavita.
Penso all’estate dai frutti luminosi,
boccioli che si arrotondano in bacche, foglie
manciate di granaglie.
Forse ciò che il freddo è, è il momento
in cui misuriamo l’amore che abbiamo sempre avuto, segreto
per le nostre stesse ossa, il duro amore affilato
per il caldo fiume dell’io, oltre ogni cosa; forse
è questo che significa la bellezza
dello squalo blu che incrocia verso le foche che cadono.
Nella stagione della neve
nel freddo incommensurabile
cresciamo crudeli ma onesti, ci manteniamo
vivi
se possiamo, prendendo uno dopo l’altro
i corpi necessari degli altri, i molti
fiori rossi schiacciati.
Solitari, bianchi campi
Ogni notte
il gufo
con la sua scimmiesca faccia selvaggia
lancia il suo richiamo di tra i rami neri,
e i topi hanno freddo
e i conigli rabbrividiscono
nei campi innevati –
e allora si apre la lunga, profonda valle del silenzio
quando egli smette il suo canto e si lancia
in aria.
Io non so
quale sia della morte lo scopo
ultimo, ma penso
questo: chiunque sogni di tenere la sua
vita in pugno
anno dopo anno per centinaia di anni
non ha mai considerato il gufo –
come egli viene, esausto,
attraverso la neve,
attraverso gli alberi ibernati,
superati tronchi e piante,
tirandosi fuori da stalle e campanili,
girando per questa e quella via
attraverso le maglie di qualunque ostacolo –
fermato da nulla –
riempiendosi momento dopo momento
di una gioia rossa e digeribile,
lanciandosi a falce dai campi solitari e bianchi –
e come al mattino,
come se ogni cosa fosse
come deve essere, i campi
si fanno intensi di luce rosa,
il gufo scompare
dietro tra i rami,
la neve va a cadere
fiocco dopo perfetto fiocco.
Cenni biografici di Mary Oliver
Mary Oliver (Maple Heights, 10 settembre 1935 – Hobe Sound, 17 gennaio 2019) è stata una poetessa statunitense. Ha vinto il National Book Award e il Premio Pulitzer. Il New York Times l’ha descritta come “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Mary Oliver – Poetessa statunitense
LE OCHE SELVATICHE
*
Non devi essere buono.
Non devi trascinarti ginocchioni,
pentito, per cento miglia attraverso il deserto.
Devi soltanto permettere a quel mite animale, al tuo corpo, di amare ciò che ama.
Parlami della tua disperazione, io ti racconterò la mia.
Intanto, il mondo va avanti.
Intanto, il sole e gli splendenti sassolini della pioggia
attraversano i paesaggi,
passano sopra le praterie e gli alberi dalle profonde radici,
sopra le montagne e i fiumi.
Intanto, le oche selvatiche, alte nel limpido azzurro,
fanno nuovamente ritorno a casa.
Chiunque tu sia, per quanto tu possa essere solo,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti manda il suo richiamo come le oche selvatiche, aspro ed eccitante:
annuncia incessantemente la tua appartenenza
alla famiglia delle cose.
—————————————————–
Il sole
Hai mai visto
niente
nella tua vita
di più prodigioso
del modo in cui il sole,
ogni sera,
ampio e disteso,
fluttua verso l’orizzonte
dentro nuvole e colline,
o nel mare spiegazzato,
per perdersi –
e come sbuchi ancora
fuori dall’oscurità,
ogni mattina,
dall’altra parte del mondo,
come un fiore rosso
galleggiando verso l’alto sui suoi oli celesti,
diciamo, un mattino di inizio estate,
alla sua perfetta suprema distanza –
e hai mai sentito per qualcosa
un tale amore selvaggio –
pensi che esista in qualche posto, in una qualsiasi lingua,
una parola che si gonfi abbastanza
per il piacere
che ti riempie,
mentre il sole
si allunga,
ti riscalda
quando sei lì in piedi
a mani vuote –
o anche tu ti sei allontanato
da questo mondo –
oppure
sei impazzito
per il potere,
per il possesso?
Alcune domande che potresti fare
L’anima è solida come il ferro?
O è tenera e fragile come le ali
di una falena nel becco di un gufo?
Chi ce l’ha, e chi no?
Continuo a guardarmi intorno.
La faccia dell’alce è triste
come la faccia di Gesù.
Il cigno apre lentamente le sue ali bianche.
In autunno, l’orso bruno trasporta le foglie nell’oscurità.
Una domanda segue l’altra.
Possiede una forma? Come un iceberg?
Come l’occhio di un colibrì?
Ha un polmone, come il serpente o il pettine di mare?
Perché dovrei averla io e non il formichiere
che ama i suoi cuccioli?
Perché io e non il cammello?
Pensaci bene, che dire degli alberi d’acero?
Cosa dell’iride blu?
Cosa dire di tutti i sassolini seduti soli al chiaro di luna?
Cosa dire delle rose, e dei limoni, e delle loro foglie lucenti?
Che dire dell’erba?
Dormendo nella foresta
Pensavo che la terra si ricordasse di me, che
mi riportasse indietro così teneramente, sistemandosi
la gonna scura, le tasche piene di semi
e di licheni. Dormivo come mai prima d’ora,
una pietra sul letto del fiume, nulla
tra me e il fuoco bianco delle stelle,
soltanto i miei pensieri che si libravano
agili come falene tra i rami
degli alberi perfetti. Per tutta la notte
sentivo attorno a me i piccoli regni
respirare, gli insetti e gli uccelli che svolgono
il loro lavoro nell’oscurità. Per tutta la notte
caddi e mi rialzai, come in acqua, lottando
con un destino luminoso. Al mattino
ero svanita almeno una dozzina di volte
in qualcosa di migliore.
Mary Oliver (1935-2019)- Poetessa statunitense, vincitrice del National Book Awards 1992 e del Premio Pulitzer 1984, è autrice di 32 raccolte poetiche e di quattro saggi sulla poesia. Il New York Times l’ha definita “Di gran lunga, la poetessa di questo paese che ha venduto di più”.
Giuseppe D’Abramo (1988), laureato in Lettere Moderne, vive a Milano. Ha pubblicato poesie e racconti sulle riviste Atelier, Gradiva, Inchiostro, Sagarana, Grado Zero, A4, Il Raccoglitore e su la Repubblica di Roma e Milano per Bottega di poesia.
L’iceberg immaginario
Meglio per noi l’iceberg della nave,
pur segnando il termine del viaggio.
Pur se piantato come un piolo, un nuvolo petroso
in un mare di marmo in movimento.
Meglio per noi l’iceberg della nave; meglio
questa piana innevata che respira,
pur con le vele stese sopra il mare
come neve non sciolta sulle acque.
Ondeggiante, solenne campo, un iceberg
con te riposa, ne sei consapevole?,
per bruciare al risveglio le tue nevi.
Una scena così un marinaio darebbe gli occhi per vederla.
La nave viene ignorata. L’iceberg s’alza
e risprofonda; i suoi vitrei pinnacoli
correggono le ellittiche del cielo.
Una scena così rende spontaneamente enfatico chi sta
sul palco. Corde sottilissime fornite
da trecce eteree di neve bastano
ad alzare il velario. I begli ingegni di quei picchi bianchi
duellano col sole. Liceberg rischia
il proprio peso su una ribalta mobile
e ristà, gli occhi sgranati.
Quest’iceberg taglia dall’interno
le sue sfaccettature. Si conserva
in eterno come i gioielli di una tomba
e adorna solo se stesso o, al più, le nevi
che tanto ci stupiscono sul mare.
Addio, diciamo, addio, la nave salpa
dove le onde cedono alle onde e le nuvole
trascorrono in un cielo più caldo.
Gli iceberg si attagliano all’anima
(un’altra che si è fatta da sé con elementi quasi invisibili)
a vederli così: polputi, belli, eretti invisibili.
(da Miracolo a colazione, traduzione di Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2006)
*
The Imaginary Iceberg
We’d rather have the iceberg than the ship,
although it meant the end of travel.
Although it stood stock-still like cloudy rock
and all the sea were moving marble.
We’d rather have the iceberg than the ship;
we’d rather own this breathing plain of snow
though the ship’s sails were laid upon the sea
as the snow lies undissolved upon the water.
O solemn, floating field,
you are aware an iceberg takes repose
with you, and when it wakes my pasture on your snows?
This is a scene a sailor’d give his eyes for.
The ship’s ignored. The iceberg rises
and sinks again; its glassy pinnacles
correct elliptics in the sky.
This is a scene where he treads the boards
is artlessly rethorical. The curtain
is light enough to rise on finest ropes
that airy twists of snow provide.
The wits of these white peaks
spar with the sun. Its weight the iceberg dares
upon a shifting stage and stands and stares.
This iceberg cuts its facets from within.
Like jewerly from a grave
it saves itself perpetually and adorns
only itself, perhaps the snows
which so surprise us lying on the sea.
Good-bye, we say, good-bye, the sheeps steers off
where waves give in to one another’s waves
and clouds run in a warmer sky.
Icebergs behoove the soul
(both beeing self-made from elements least visible)
to see them so: fleshed, fair, erected ivisible.
Il miscredente
Dorme sulla cima dell’albero maestro.
Bunyan
Dorme sulla cima dell’albero maestro
con gli occhi serrati.
Sotto di lui si sciolgono le vele
come le lenzuola del suo letto, esponendo
all’aria notturna la testa del dormiente.
Trasportato lassù nel sonno,
nel sonno s’è raccolto
in una palla d’oro in cima all’albero,
o si è arrampicato dentro un uccello d’oro,
o alla cieca s’è seduto a cavalcioni.
“Ho pilastri di marmo a fondamenta”
ha detto una nube. “Non mi sposto mai.
Vedi i pilastri là nel mare?”.
Sicuro nell’introspezione adesso
scruta i liquidi pilastri del proprio riflesso.
Un gabbiano, le ali sotto le sue,
ha osservato che l’aria
“sembrava marmo”. Lui ha risposto “Quassù
torreggio per il cielo perché le ali
di marmo in cima alla mia torretta volano”.
Ma dorme sulla cima del suo albero maestro
con gli occhi sigillati.
Il gabbiano ha frugato nel suo sogno
che era: “Non devo finire tra i flutti.
Il mare luccicante mi vuole tra i suoi flutti.
È duro come il diamante; vuol distruggerci tutti”.
Miracolo a colazione (Adelphi, 2006), trad. it. D. Abeni, R. Duranti, O. Fatica
The Unbeliever
He sleeps on the top of a mast.
Bunyan
He sleeps on the top of a mast
with his eyes fast closed.
The sails fall away below him
like the sheets of his bed,
leaving out in the air of the night the sleeper’s.
Asleep he was transported there,
asleep he curled
in a gilded ball on the mast’s top,
or climbed inside
a gilded bird, or blindly seated himself astride.
“I am founded on marble pillars”,
said a cloud. “I never move.
See the pillars there in the sea?”.
Secure in introspection
he peers at the watery pillars of his reflection.
A gull had wings under his
and remarked that the air
was “like marble”. He said: “Up here
I tower through the sky
for the marble wings on my tower-top fly”.
But he sleeps on the top of his mast
with his eyes closed tight.
The gull inquired into his dream,
which was, “I must not fall.
The spangled sea below wants me to fall.
It is hard as diamonds; it wants to destroy us all”.
Un’arte sola
L’arte di perdere s’impara facilmente:
tante cose si sforzano d’andar perdute,
che la perdita non è un grave incidente.
Perdi una cosa al giorno. Apri all’inconveniente
delle chiavi smarrite, delle ore sprecate.
L’arte di perdere s’impara facilmente.
Prova a perdere di più, e più velocemente:
luoghi, e nomi, e destinazioni stabilite
per un viaggio. Non ne verrà un grave incidente.
Ho perso l’orologio di mia madre e – gente! –
l’ultima, o quasi, di tre case molto amate.
L’arte di perdere s’impara facilmente.
Ho perso due care città, e un continente;
due fiumi, reami vasti e certe mie tenute.
Mi mancano, però non è un grave incidente.
— Anche se perdo te (la voce tua ridente,
un gesto che amo), è chiaro, non farò smentite:
l’arte di perdere s’impara facilmente,
ma pare un grave (Scrivilo!) grave incidente.
© Versione italiana di Simone Pagliai
One Art
The art of losing isn’t hard to master;
so many things seem filled with the intent
to be lost that their loss is no disaster.
Lose something every day. Accept the fluster
of lost door keys, the hour badly spent.
The art of losing isn’t hard to master.
Then practice losing farther, losing faster:
places, and names, and where it was you meant
to travel. None of these will bring disaster.
I lost my mother’s watch. And look! my last, or
next-to-last, of three loved houses went.
The art of losing isn’t hard to master.
I lost two cities, lovely ones. And, vaster,
Some realms I owed, two rivers, a continent.
I miss them, but it wasn’t a disaster.
— Even losing you (the joking voice, a gesture
I love) I shan’t have lied. It’s evident
the art of losing isn’t hard to master
though it may look like (Write it!) like disaster.
From: The Complete Poems 1926-1979.
Copyright © 1979, 1983 by Alice Helen Methfessel.
Più fredda l’aria
Dobbiamo ammirare la perfetta mira
di quest’aria d’inverno, cacciatrice provetta
la cui arma spianata non ha bisogno di mirino,
se non fosse che, lontano o vicino,
la sua preda è sicura, il colpo netto.
L’infimo tra di noi è così che tira.
Per ridurre il margine d’errore
sono ferme le barche e di gesso gli uccelli;
la galleria dell’aria coincide
con quella angusta che il suo sguardo incide.
Il centro del bersaglio, la pupilla,
collima con la mira e con l’ardore.
Ha il tempo in tasca, col suo ticchettio
segna il passo su un attimo. Non cura
momento e circostanze, lei, ha invocato
l’atmosfera per questo risultato.
( E l’orologio chiude l’avventura
tra ruote, foglie e nubi a scampanio).
Miracolo a colazione (Adelphi, 2005), trad. it. Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica
The Colder The Air
We must admire her perfect aim,
this huntress of the winter air
whose level weapon needs no sight,
if it were not that everywhere
her game is sure, her shot is right.
The least of us could do the same.
The chalky birds or boats stand still,
reducing her conditions of chance;
air’s gallery marks identically
the narrow gallery of her glance.
The target-center in her eye
is equally her aim and will.
Time’s in her pocket, ticking loud
on one stalled second. She’ll consult
not time nor circumstance. She calls
on atmosphere for her result.
(It is this clock that later falls
in wheels and chimes of leaf and cloud.)
Poetessa statunitense di origine canadese, nata a Worcester, Massachusetts, l’8 febbraio 1911, morta a Boston il 6 ottobre 1979. Rimasta presto orfana di padre, la madre ricoverata qualche anno dopo in una clinica psichiatrica, la B. compie gli studi universitari e comincia a viaggiare in Europa e in Africa del Nord, poi in Messico (dove entra in amicizia con P. Neruda) e in Brasile, a Rio de Janeiro, dove vive quasi ininterrottamente dal 1952 al 1972, e conosce e traduce opere di V. de Moraes, C. Drummond de Andrade e O. Paz (cfr. An anthology of twentieth-century Brasilian poetry, 1972). Ha vinto nel 1956 il premio Pulitzer, il National Book Award nel 1969 e il Books Abroad/Neustadt nel 1976.
Amica di M. Moore e di R. Lowell, ai quali era legata da profonde affinità, non lontana dalle vedute modernistiche sull’arte espresse da R. Frost e W. Stevens, fa rivivere nella sua poesia lo spirito metafisico di E. Dickinson. In North and South (1945) alla dimensione spaziale si sovrappone l’ordine metaforico, al topos letterale il complesso simbolico, al segno grafico quello linguistico. La fissità della carta geografica − in Maps − rivela un mondo pulsante, dove l’inusuale ravviva all’improvviso il familiare. Nelle nuove poesie della raccolta A cold spring (1955) la conoscenza del territorio si arricchisce della conoscenza della storia. Con l’esperienza brasiliana, tradotta poeticamente in Questions of travel (1965), la vastità del continente America s’impone nella poesia della B., ma non riesce a occupare interamente il suo spazio interiore: la sua ricerca continua, in un percorso sempre più approfondito, dentro l’essere. Sul paesaggio domestico di Geography III (1976) si affaccia delicatamente la presenza dell’impenetrabile e si afferma il senso di mistero universale.
Modernista nel rendere l’irrazionale o il prerazionale ricorrendo al mito e nel riproporre lo stato del linguaggio primitivo, la poesia della B. può dirsi postmoderna nella costruzione di uno spazio linguistico culturale entro il quale l’io si mette in gioco e si definisce fino a identificarsi con l’umanità intera.
Una scelta di poesie è stata tradotta in italiano: L’arte di perdere (1982).
Bibl.: C. W. MacMahon, E. Bishop: a bibliography 1927-1979, Charlottesville (Virginia) 1980. Si vedano inoltre: A. Stevenson, E. Bishop, New York 1966; L. Schwartz, S. P. Estess, E. Bishop and her art, Ann Arbor (Michigan) 1983; E. Bishop, a cura di H. Bloom, New York 1985.