Renata Viganò scrittrice, poetessa e partigiana –Nacque a Bologna nel 1900 e a soli 12 anni, nel 1912, esordì con la sua prima raccolta di poesie dal titolo Ginestra in fiore, seguita, dopo tre anni, da Piccola Fiamma.
Ma oltre alla poesia, la Viganò si dedicò anche alla prosa e raggiunse l’apice del suo successo con L’Agnese va a morire, pubblicato da Einaudi nel 1949, un romanzo neorealistico ispirato alla Resistenza che ottenne il Premio Viareggio. La scrittrice partecipò, infatti, alla lotta partigiana collaborando come infermiera e scrivendo per la stampa clandestina.
Vogliamo ricordarla con voi pubblicando alcune sue poesie:
Cantata di una giovane mondina-
Mondine, mondine,
cuore della risaia.
Mio caro padre, mia cara madre,
io sono quaggiù per trenta giorni.
Appena arrivata mi sento già stanca;
chi sa come sarò al ritorno.
Si mangia poco, si beve a stento,
l’acqua fresca la troviamo di rado.
Eppure, mamma, son tanto contenta
d’esser venuta per questa strada.
Mondine, mondine,
amore della risaia.
Con le gambe sempre nell’acqua,
non so perché, vien sete in bocca.
Sono, al tramonto, una bestia stracca,
che si butta dove te tocca.
Paglia nuda e fitti respiri
nel camerone con tante zanzare.
Se per stanchezza non possiamo dormire,
qualche volta ci mettiamo a cantare.
Mondine, mondine,
fiore della risaia.
È bello, mamma, mondare il riso,
chè il riso è bianco e i padroni son neri.
Essi hanno in terra il paradiso,
noi camminiamo per bruschi sentieri.
Ma i nostri sentieri ci portano avanti,
e andiamo incontro a più dolce stagione.
Essi son pochi e noi siamo tanti,
e poco giova sentirsi padroni.
Mondine, mondine,
dolore della risaia.
Di sera guardo sulla pianura
quando si aprono in alto le stelle.
Non è il lavoro che fa paura,
chè, di questo, son figlia e sorella.
Mio caro padre, mia cara madre,
io vi ringrazio di essere forte.
Andiamo insieme su un’unica strada,
e la bandiera la portano i morti.
Mondine, mondine,
onore della risaia.
L’usignolo-
L’usignolo solo
canta triste fra i rami,
e pare che richiami
un sogno già svanito
un sogno già sfiorito.
Canta pian l’usignolo.
La ginestra-
Nasce sul brullo monte,
fra i roveti ed i sassi,
fragile come un bimbo
che muove i primi passi.
La sua fragil corolla
rallegra il senteruolo,
rallegra il pastorello
colle caprette, solo.
Oh! Ginestra ignorata
è breve la sua vita,
ella nasce in estate,
d’autunno è già sfiorita.
E uno strano contrasto
lo stelo col fior fa;
quello forte, robusto,
questo fragilità.
Renata Viganò si appassionò fin da piccola alla letteratura e coltivava un sogno: fare da grande il medico. Tuttavia le difficoltà economiche subentrate in famiglia la indussero ad interrompere il liceo e, con senso del sacrificio e una maturazione affrettata e non voluta, ad entrare nel mondo del lavoro come inserviente e poi infermiera negli ospedali bolognesi.
Questo suo impegno al servizio dei bisognosi non le impedì di scrivere per quotidianie periodici, elzeviri, poesie, racconti sino all’8 settembre 1943.
Con la firma dell’armistizio la sua vita ebbe una svolta esistenziale: assieme al marito Antonio Meluschi e il figlio, l’infermiera-scrittrice partecipò alla lotta partigianacome staffetta, infermiera e collaborando alla stampa clandestina.
Di questo periodo disagiato ma intriso di sano idealismo esistenziale fu pervasa la susseguente produzione letteraria. L’Agnese va a morire (1949), romanzo tradotto in quattordici lingue, rappresentò il punto più alto; vinse il secondo premio al Viareggio[2]e costituì il soggetto per il film omonimo diretto da Giuliano Montaldo.
Il romanzo racconta vicende partigiane con onesta semplicità da cronista e spirito di sincera adesione agli eventi, e fu considerato negli anni del dopoguerra un esempio, una testimonianza della narrativaneorealista.
Vale la pena di ricordare, tra le opere della Viganò, almeno altri due libri sul tema della Guerra di liberazione: Donne della Resistenza (1955), ventotto affettuosi ritratti di antifasciste bolognesi cadute, e Matrimonio in brigata (1976), una raccolta di efficaci racconti partigiani, uscito proprio l’anno in cui la scrittrice è scomparsa.
Due mesi prima della morte, a Renata Viganò fu assegnato il premio giornalistico Bolognese del mese, per il suo stretto rapporto con la realtà popolare della città.
Renata Viganò
Opere
Ginestra in fiore. Liriche, Bologna, Beltrami, 1913.
Piccola fiamma. Liriche (1913-1915), Milano, Alfieri & Lacroix, 1916.
Il lume spento, Milano, Quaderni di poesia, 1933.
L’Agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1949.
Mondine, Modena, Tip. Modenesi, 1952.
Arriva la cicogna, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1954.
Donne della Resistenza, Bologna, STEB, 1955. [Ritratti di donne partigiane pubblicato in occasione della Festa dell’Unità di Bologna 1955]
Ho conosciuto Ciro, Bologna, Tecnografica emiliana, 1959.
Una storia di ragazze, Milano, Del Duca, 1962.
Matrimonio in brigata, Milano, Vangelista, 1976.
Rosario. Libera interpretazione dei quindici misteri del rosario scritta da me, non credente, per puro amore di leggenda e poesia, Bologna, A.N.P.I., 1984. [poesie pubblicate dall’ANPI Bologna in 100 copie, con incisioni di Guttuso, Covili].
Sonetti inediti, Bologna, A.N.P.I., 1984.
La bambola brutta. Storia di Eloisa partigiana, illustrazioni Viola Niccolai, a cura di “Brigata Viganò”: Dafne Carletti, Sofia Fiore, Margherita Occhilupo, Marta Selleri, Elena Sofia Tarozzi e Tiziana Roversi, Bologna, Tipografia Negri, 2017. [Nuova edizione del racconto pubblicato la prima volta in “Pioniere”, 1960]
Alessandra Granito-Eugen Drewermann interprete di Kierkegaard-Orthotes Editrice
Descrizione del libro di Alessandra Granito-Eugen Drewermann interprete di Kierkegaard-Orthotes Editrice-Le quattro forme kierkegaardiane della disperazione rilette alla luce della psicoanalisi-Sulle macerie della destituzione del moderno disimpegno metafisico-sostanzialistico, la cultura contemporanea post-moderna ha costruito insidiose derive della soggettività, ne ha profilato il rovesciamento al di fuori di se stessa e ha plasmato un sé non più monolitico e ipertrofico, ma borderline, vulnerabile ed eccentrico, scisso in quello scarto tragico tra fattualità e pretesa che ne “La malattia per la morte” Søren Kierkegaard con acribia psicologica e sensibilità anacronistica definisce “disperazione”, intesa come epifenomeno di un’esistenza segnata dalla contestazione pessimistico-scettica del sé che de facto si è. Il presente lavoro inquadra e attualizza tale riflessione nella cornice ermeneutico-psicoanalitica di Eugen Drewermann, il quale presenta la fenomenologia kierkegaardiana del sé disperato come una fenomenologia del profondo, e la “disperazione” come la conseguenza dell’elaborazione distorta dell’angoscia esistenziale e di un rapporto sbagliato con se stessi che sfocia nel rifiuto di sé, nella stagnazione spirituale, in stati di disagio e di squilibrio psico-esistenziali (nevrosi).
-Autrice-
Alessandra Granito
Alessandra Granito, è dottore di ricerca in Filosofia presso l‘Università «G. d’Annunzio» di Chieti-Pescara. Borsista D.A.A.D., ha svolto attività di ricerca presso la «Eberhard Karls Universität» di Tübingen (Germania) ed è attualmente è impegnata come Research Fellow presso il Søren Kierkegaard Forskingscenter di Copenaghen. Gli interessi di ricerca sono principalmente la tematica esistenziale (la Existenzphilosophie tedesca), la meontologia, i rapporti tra filosofia, letteratura e critica della modernità. Oltre che contributi in tedesco e in inglese apparsi in volumi collettanei italiani e stranieri, è stata relatrice a convegni nazionali e internazionali
Ricordo di Agata Cesario, che dedicò alcune sue poesie alla Madonna.Nelle sue rime parlò spesso di fede e di speranza, nonostante le sofferenze di un brutto male,che ne causò la morte il 16 maggio 1989
Agata Cesario resta nel cuore e nella memoria di molti, ricordata ogni anno a Cellara (Cosenza) paese dov’è nata e dove una piazza è intitolata al suo nome: “insigne poetessa cellarese” recita la dedica scolpita nel marmo.
Madre della Croce
Al canto del gallo
si sono voltati a guardare
chi aveva tradito.
Le ombre degli ulivi raccolti
si strinsero in un tenero abbraccio.
Le madri raccoglievano i figli
cantavano ancora le nenie,
melodie sepolte nella casa di pietra
che lo vide fanciullo.
“Non lo abbiamo visto passare”
Risposero in coro.
I sassi arroventati
sopportavano i gemiti.
Pronta la madre raccoglieva
le lacrime ed il sangue.
Fu un lungo patire
quando il tempio squarciato
gridava vendetta.
È lontano il tempo
che, tu, madre,
salisti il Calvario:
la strada è un lungo lamento,
c’è chi inciampa per l’ultima volta,
chi cerca orizzonti troppo lontani,
chi s’abbandona agli angoli, stanco.
Ma vedremo qualcuno seguirci per via?
Tenendoci per mano
vinceremo il furore
e ti faremo ghirlande
con i fiori sparsi
sul nostro cammino.
Canterò per te
Canterò, canterò per te
mio piccolo sole
tutta l’allegria del bosco
e i viaggi di bianchi aironi.
Ti farò la giostra
e ti condurrò
su cavalli alati.
Volerò, volerò per te
sui colli che non
hanno sera,
ti porterò canzoni
sulle ali del vento.
Ti darò la mia fantasia
e lunghe vette di luce
e la storia dei secoli
e la mia vita d’eterno.
“Amicizia”
Dimmele le tue paure,
posso prenderti per mano
e condurti dove le nebbie
non s‟alzano nemmeno
e su noi gli alberi
non hanno che cime;
ti conduco dove il passo mio
si fa più vicino al tuo;
non sentiamo altro
che questo nostro andare
senza orizzonti.
D’Estate
La notte è chiara
le nebbie che ci coprivano
il giorno appaiono disperse,
il cielo si svela
senza stanchezza,
l’uccello notturno
non sa più cantare.
“Non vorremmo”
Noi resteremo qui
ad ingaggiare primavere
piene di vento.
Non vorremmo altro spazio
che il nostro,
non vorremmo altro tempo
che quello per resistere
agli orrori.
“Come un’alba novella”
Se un fiore muore
non pensare alla vita
che si è spenta
ma a quella
che vive
nel bocciolo
del suo stelo.
Se una stella di notte
cade nel buio
non pensare alla luce
che si è spenta
ma a quella che brilla
di molte
fiammelle.
Se guardi un tramonto
non pensare ad un giorno
passato
ma a quello che sorgerà
domani
come un’alba novella.
Agata Cesario
Fonte- L’altroquotidiano.it
Dall’antico dolore all’estremo spiraglio
A cura di Francesco Sisinni
Ricordo di Agata Cesario, che dedicò alcune sue poesie alla Madonna.Nelle sue rime parlò spesso di fede e di speranza, nonostante le sofferenze di un brutto male,che ne causò la morte il 16 maggio 1989
Agata Cesario resta nel cuore e nella memoria di molti, ricordata ogni anno a Cellara (Cosenza) paese dov’è nata e dove una piazza è intitolata al suo nome: “insigne poetessa cellarese” recita la dedica scolpita nel marmo.
Su iniziativa del Sindaco, la piazza è stata inaugurata l’anno scorso quando ci fu una grande festa in onore di Agata, quella che Pino Nano, in un lungo messaggio inviato, ha definito “la festa di A-gata e della sua famiglia”. Una cerimonia intima, scandita dai ricordi personali e dalle testimo-nianze di chi ha frequentato Agata, non solo insegnante, vista anche come “animatrice” della comunità con la quale amava confrontarsi e che la chiamava per iniziative in campo religioso come in campo sociale. Potremmo forse sintetizzare così il senso del suo percorso, racconta il fratello Giacomo, giornalista, presente alla messa in ricordo officiata a Roma dal cardinale Raffaele Fari-na, e che ora affida la recensione della nuova edizione del libretto di poesie “Spazi infiori-ti” (1981) al prof. Francesco Sisinni, una delle figure di spicco della cultura italiana, docente alla Lumsa e già direttore generale per i beni librari al ministero dei Beni culturali. Fu nominato da Giovanni Paolo II membro della pontificia Commissione per i beni culturali ecclesiastici.
Il testo, che qui di seguito si riporta, penetra fin nel fondo dell’anima di una poetessa che, confessa Sisinni, mi è familiare e che avevo quasi perduto di vista. Poesie datate 1981, ma in realtà senza tempo, che hanno sempre qualcosa da dire, “da leggere”.
Comprendere un’opera d’arte, ovvero, saperla leggere ed interpretare è certamente un fatto di cultura, connesso com’è alla disponibilità di un’accorta, quanto avanzata metodologia ermeneutica. E, tuttavia, intelligerla, ovvero indagarla ontologicamente, oltre e più che semanticamente, è soprattutto un fatto di empatia, che misteriosamente consente l’immedesimazione del Lettore nell’Autore, proprio nel momento creativo dell’opera stessa: Poiesis.
L’ovvietà di siffatta riflessione, che, come noto, rinvia alla vasta produ-zione estetica e linguistica, da Baumgarten a Croce, da Panofsky ad Heidegger, non delegittima, comunque, assumerla come premessa essenziale, là ove, come qui, rileva il debito di lettura alla capaci-tà empatica, appunto.
Dunque, un’esperienza di vita breve, ma intensa – quella di Agata Cesario – che distillata in grumi di poesia, è stata appena sospinta dal timido soffio dell’affetto fraterno tra le mie carte e miei libri ed ora è qui perché anch’io, più che la conosca, l’ascolti, anzi la senta, tra gli echi ineludibili di una terra a-vara e bella, cui han prestato voce innumeri scrittori e poeti anche del nostro tempo, dal calabrese Corrado Alvaro a Giuseppe Berto, che calabro non era.
E così ho letto e riletto questa silloge “spazi infioriti” , che si accredita, anzitutto, con la semplicità accattivante di una edizione essenziale, ove le liriche, 35 (se si esclude quella fuori testo: “Come un’alba novella”), si presentano a mo’ di palinsesto, che ti invita ad attraversarlo, scandagliandovi non evi, ma eventi, anzi stati d’animo che, coinvolgendo, trascinano fino all’ultimo fondale di quel mare profondo, che è l’anima, là ove nascono le memorie, senza tempo!
“Senza tempo”, come recita l’incipit della raccolta e proprio come insegna Agostino nelle sue Confessioni, giacché il tempo, come realtà, non è e se ne parliamo e lo misuriamo è solo per-ché esso appartiene all’anima, ove il passato è memoria, il futuro è attesa e il presente è attenzione.
Or è che da questo fondale senza tempo, solo poche sillabe si fanno paro-la e solo alcune parole, emergendo in superficie, tra macchie ed abrasioni, rivendicano senso: Nebbia; Paesaggio intimo ed esterno (la madre, il padre, il paese); Dolore; Nostalgia; Fede.
La nebbia, che ricorre ripetuta-mente nei versi della Cesario, non è un ingrediente di pittura surrealista, ma è piuttosto una presenza che ingombra l’assenza: divora, copre, vagheggia, eppure vela e rivela.
E là ove appena si dissolve, ecco apparire quel nostro piccolo mondo antico, la cui storia, uguale per tutti, diversa per ciascuno, pensavi di aver consegnato per sempre a quel lontano commiato sofferto e che, invece, ti porti dentro, ineludibilmente ovunque, sempre!
Ed ecco le note di nenia struggente, che ridisegnano su orizzonti improbabili gli occhi ostinatamente comprensivi della madre, mentre girandole e fiammelle, inventate per un giorno di festa dal padre, inutilmente si rincorrono nel caleidoscopio delle immagini cangianti, ove tutto fugge … e ritorna: le case di pietra, il dedalo dei vicoli, i vecchi balocchi, riproposti, sublimati, dalla pungente nostalgia.
La nostalgia! Certo la Cesario ha pensato a Plotino, giacché conosce bene questo sentir sottile e inquietante, che i moderni chiamano malinconia. Ma la sua poesia non è epica e perciò non ha bisogno né del mito di Ulisse, né del profeta dell’eterno ritorno. La sua è il rimpianto di un Eden perduto, fatto di piccole cose, ma, anche di “grandezze non comprese”.
Di qui “l’antico dolore”. E già, perché questo libretto è umido di lacrime non piante. È un dolore che non grida, ma singulta quello che è “stanco di passare sulla consueta strada”. Non infinito, come nello Schopenhauer, né cosmico, come nel Leopardi ma, semplice-mente esistenziale, connesso alla problematicità della storia, contro cui s’erge la sfida, né può spegnersi “l’ansia di rag-giungere l’estremo spiraglio”.
Ed ecco, perciò, finalmente la Fe-de: la fede, unica alternativa, come avverte Kierkegaard, alla disperazione. E perciò, dalla strada insanguinata del Calvario, giunge alto il suo grido: “Non abbandonarmi Signore” giacché tu sai “la paura dei miei giorni”; “Donami pace e consolazione”, perché tu sai che “sono priva di tutto”.
Solo la fede, infatti, può far spera-re in un domani “Come un’alba novella”: poesia, fuori testo, questa, che si può leggere come “postscriptum” della presente silloge, ma anche e meglio, come introduzione di quella, qua e là annunciata, ma che Agata non ha avuto il tempo di lasciarci.
Titos Patrikios-Le parole nude-Antologia con testo greco a fronte-
Editore Interlinea-Novara-Testi di Giovanni Conte-Traduttore Katerina Papatheu-Descrizione del libro di Titos Patrikios, uno dei maggiori poeti europei attuali, nato ad Atene nel 1928, ha partecipato alla resistenza, durante l’occupazione nazifascista, rischiando l’esecuzione, e alla guerra civile. Mandato al confino durante i regimi di destra che si sono avvicendati fino al 1974, è sopravvissuto alla brutalità delle due guerre e della polizia e alle torture, grazie a una scrittura assidua, febbrile, incessante. È un poeta che s’interroga, e il suo verso è un sentiero ritmico che protrae quasi all’infinito il suo sentire, è un percorso della memoria che può riempire i vuoti della vita. “Nessun verso oggi può rovesciare i regimi /[…]/ se non per sollevare un angolo di verità”. A questo servono appunto i poeti, perché “a un certo momento scelgono, denunciano, sperano, / chiedono /[…]/ passando in rassegna le cose già accadute / la poesia cerca risposte / a domande non ancora fatte”. Edizione, con inediti, a cura di Katerina Papatheu, con una nota di Giuseppe Conte.
Titos Patrikios
Biografia di Titos Patrikios
Titos Patrikios, figlio di due noti attori del teatro greco, è nato ad Atene nel 1928. Durante l’occupazione nazifascista ha partecipato alla Resistenza e nel 1944 ha rischiato l’esecuzione. Dal 1951 al 1954 è stato confinato nelle isole di Makrònissos e di àghiostratis, e dal 1954 al 1959 ha vissuto ad Atene come «confinato in congedo». Laureato in Giurisprudenza all’Università di Atene, è diventato avvocato, lavorando anche come giornalista. Molto attivo nel campo culturale, è stato, nel 1954, fra i fondatori dell’importante rivista letteraria “Epitheòrisi Technis”. Dal 1959 al 1964 è stato a Parigi dove ha studiato Sociologia e Filosofia a l’école des Hautes études e ha lavorato come ricercatore al Centre National de la Recherche Scientifique. Nel 1967, all’avvento della dittatura dei colonnelli, sfuggendo all’arresto, lascia la Grecia e vive a Parigi, dove lavora come consulente all’Unesco, e a Roma, dove lavora alla FAO. Dal 1976 vive ad Atene.
Dopo l’esordio come poeta nel 1943 sulla rivista studentesca “Xekìnima tis Niòtis”, la sua prima raccolta di versi, Strada sterrata, risale al 1954. Seguirono le raccolte Apprendistato (1963), Fermata a richiesta (1975), Poesie, I (1976), Mare promesso (1977), Controversie (1981), Specchi a fronte (1988), Deformazioni (1989), Apprendistato, ancora (1991), Il piacere delle dilazioni (1992), Poesie I, II, III (1988), La resistenza dei fatti (2000), La Porta dei Leoni (2002), Il nuovo tracciato (2007), Poesie, IV (2007), Brama d’amore che scioglie le membra (2008), La casa (2009), Convivenza col presente (2011), La poesia ti trova (2012). Ha pubblicato anche quattro volumi di racconti e numerosi saggi letterari, sociologici e giuridici. Due suoi libri di sociologia, scritti in francese e tradotti in inglese, spagnolo e russo, sono pubblicati dall’Unesco (1972, 1976) e due altri scritti in inglese e francese sono pubblicati dalla FAO (1970, 1974). Ha tradotto in greco, tra gli altri, testi di Spinoza, Lukàcs, Hannah Arendt, Walt Whitman, Majakowskij, Neruda, Saint-John Perse, éluard, Aragon, Brecht, Balzac, Stendhal, Valéry. Sue poesie sono state pubblicate in tutti i paesi europei e in Messico, Cile, Brasile, Egitto, Marocco, Cina. Due sue raccolte sono state tradotte in Francia (Altérations, Parigi 1991; Apprentissage, Parigi 1996); due in Germania (Spiegelbilder, Colonia 1993; Das Hans, Berlino 2010). Un’antologia di suoi versi è pubblicata negli Stati Uniti (The Lions’ Gate, 2006). Un’ampia antologia delle sue poesie tradotte in italiano da Nicola Crocetti, La resistenza dei fatti, è uscita nel 2007 in Italia da Crocetti Editore. Interlinea ha pubblicato le due antologie con testo greco a fronte La casa e altre poesie (tradotto dallo stesso Crocetti, nel 2009) e Le parole nude nel 2013.
Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti da Patrikios in Italia si ricorda il Premio Brancati, Zafferana Etnea 2007, Premio Letterario Internazionale l’Aquila-Carispac 2009, Premio internazionale di Poesia Civile di Vercelli 2009, Premio Feronia Città di Fiano 2011. Nel 2004 il presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia.
Titos Patrikios
Interlinea Edizioni ha sede a Novara
via Mattei 21 28100 Novara, NO, Italia
L’interlinea lo spazio bianco tra due righe scritte o stampate, apparentemente inutile ma in verità necessario alla lettura. Infatti le parole si confonderebbero sulla pagina senza questa distanza, il cui bianco fa risaltare il nero del testo illuminando così il significato di un romanzo, di uno studio, di una poesia.
All’inizio degli anni Novanta due giovani novaresi hanno creduto giusto cercare un senso e uno spazio nell’interlinea lasciata bianca dai titoli di tanti e grandi cataloghi librari, riscoprendo autori italiani dell’800 e ‘900, anche con inediti (da Rebora a Montale, fino a Soldati e Vassalli), aprendo la prima collana letteraria italiana legata al Natale “Nativitas“ (nonsolo con Dickens ritradotto ma con Soldati, Consolo, Rigoni Stern, Testori, Wojtyla… e un premio letterario), offrendo uno spazio diverso alla critica letteraria (partendo però dai maestri: Dionisotti, Maria Corti, Mengaldo),e pubblicando la rivista “Autografo” del Fondo Manoscritti di Pavia, credendo nella poesia, con la collana “Lyra” e la serie “Lyra giovani” diretta da Franco Buffoni, e facendo dialogare letteratura e spiritualità con autori da Hesse a Turoldo, da Anna Maria Cànopi a Testori, senza facili buonismi ma scegliendo la crisi dell’uomo come tema della collana “Passio“, offrendo anche servizi editoriali di qualità (dagli atti di convegni ai repertori bibliografici fino ai cataloghi d’arte). Negli ultimi anni si sono avviate le edizioni nazionali delle opere di due classici come Matteo Maria Boiardo e Giovanni Verga.
Se la letteratura è una riscoperta di parole vecchie e nuove nel 1992 da Novara è salpato il piccolo vascello di carta che non chiede altro se non di avere lettori che sappiano leggere la verità di quelle parole vecchie e nuove nell’interlinea dell’editoria e della cultura italiana.
Roma -Debutta al Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
Roma-Debutta al Teatro Lo Spazio, dal 12 al 15 dicembre, MACBETH CIRCUS SHOW- La rappresentazione del potere, spettacolo scritto da Paolo Vanacore con la regia di Gianni De Feo.
Roma -Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
Sullo sfondo della celebre opera di Shakespeare lo spettacolo si articola su due piani, quello della realtà e quello della rappresentazione. I due piani spesso andranno a sovrapporsi, a dialogare, a coincidere in modo grottesco e surreale. Il testo è l’archetipo per eccellenza dell’ambizione sfrenata, della falsità e dell’ipocrisia che spesso anima il mondo dello spettacolo, un mondo in cui l’arte e il talento perdono sempre di più il loro valore a discapito della fama, della smania di apparire, più che di essere.
Le atmosfere della messa in scena richiamano, a tratti, il sapore e il gusto retrò di un circo senza tempo dove i personaggi al limite del grottesco si scontrano, si accaniscono, si accapigliano a difesa di un ruolo di cui ognuno di loro si sente investito, in un eccentrico delirio di autocelebrazione. Le ambientazioni e i trucchi si ispirano al decadentismo dell’espressionismo berlinese.
Roma -Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
Un gioco metateatrale che vede coinvolti due buffi e patetici uomini in costume e maschere clownesche, mentre recitano alcuni momenti salienti della tragedia shakespeariana secondo quell’antico stile in cui i ruoli femminili erano ancora affidati ad attori maschi. Alle loro “giocolerie” verbali si contrappongono i toni più secchi della perfida direttrice del fantasmagorico teatro dove sarà rappresentato appunto il Macbeth. Tuttavia, anch’essa è vittima di un’ossessiva sete di Potere.
In un ritmo serrato, il dialogo alterna momenti di puro lirismo a una comicità surreale. I tre personaggi saranno stilisticamente caricati fino all’espressione più estrema e assurda della loro follia, per poi essere depauperati e destrutturati come marionette dai fili spezzati. Le musiche originali faranno da contrappunto alla trama drammaturgica fino a spingersi in esibizioni canore, nello stile di un autentico Show.
Roma -Teatro Lo Spazio lo spettacolo “MACBETH CIRCUS SHOW”
La Farsa del Potere o la sua Rappresentazione trova infine pace nella consapevolezza della caducità delle cose, in un finale senza via d’uscita, dove ciò che rimane è silenzio. “…e tutti i nostri ieri saran serviti a rischiarar la via verso la morte che incenerisce:”
MACBETH CIRCUS SHOW
La rappresentazione del Potere
di Paolo Vanacore (da un’idea di Gianni De Feo)
Con : Eleonora Zacchi, Riccardo De Francesca, Gianni De Feo
Musiche Alessandro Panatteri
Scene Roberto Rinaldi e Aurora Bresci – Costumi Roberto Rinaldi
Regia Gianni De Feo
Produzioni: Camera Musicale Romana – Florian Metateatro – Centro artistico il Grattacielo
In Scozia, nell’XI secolo, Macbeth e Banco sono di ritorno da una vittoriosa battaglia contro i rivoltosi. Incontrano alcune streghe che fanno loro una profezia: Macbeth sarà signore di Cawdor e in seguito re di Scozia, mentre la progenie di Banco salirà al trono. Parte della profezia si avvera subito. Giunge infatti un messaggero che comunica a Macbeth che re Duncano gli ha concesso la signoria di Cawdor. Venuta a conoscenza della profezia delle streghe, l’ambiziosa Lady Macbeth incita il marito a uccidere il re.
Atto II
Del delitto viene incolpato il figlio di Duncano, Malcolm, che si trova costretto a fuggire in Inghilterra. Ora che Macbeth è re di Scozia, la moglie lo convince a liquidare Banco e soprattutto il figlio di costui, Fleanzio, nel timore che si avveri la seconda parte della profezia. I sicari di Macbeth assassinano Banco in un agguato, ma Fleanzio riesce a fuggire. Durante un banchetto a corte, Macbeth è terrorizzato dall’apparizione del fantasma di Banco.
Atto III
Inquieto, Macbeth torna dalle streghe per interrogarle. Il verdetto è oscuro: egli resterà signore di Scozia fino a quando la foresta di Birnam non gli muoverà contro, e nessun “nato di donna” potrà nuocergli. Lady Macbeth, intanto, lo incita a uccidere la moglie e i figli del nobile profugo Macduff che, insieme a Malcolm, sta radunando in Inghilterra un esercito per muovere contro Macbeth.
Atto IV
L’esercito invasore giunge segretamente al comando di Malcolm e Macduff. Giunti nei pressi della foresta di Birnam, i soldati raccolgono i rami degli alberi e con questi avanzano mimetizzati dando l’impressione che l’intera foresta si avanzi (come nella profezia). Lady Macbeth, nel sonno, è sopraffatta dal rimorso e muore nel delirio. Macbeth, rimasto solo, fronteggia l’invasore, ma è ucciso in duello da Macduff, l’uomo che, venuto al mondo con una sorta di parto cesareo, avvera la seconda parte del vaticinio (“nessun nato di donna ti nuoce”).
Marianne Moore (St. Louis, Missouri, 1887 – New York 1972) esordì nel 1921 con Poems, una raccolta di poesie giovanili che H. Doolittle, sua ex compagna al Bryn Mawr College, e R. McAlmon s’incaricarono di pubblicare nel più stretto riserbo. Tra il 1925 e il 1929, dopo un primo successo ottenuto con Observations (1924), diresse la rivista letteraria «The Dial», divenendo uno dei protagonisti del dibattito sulla poesia modernista. Spesso sospesa tra sconfinamenti fantastici e scientifica puntualità d’osservazione (noto l’eclettico bestiario cui M. dà vita nei suoi versi), la sua poesia è siglata da una cifra ironica e da un linguaggio che si fa sempre più rarefatto e compresso. Tra le sue opere più significative: The pangolin and other verse (1936); What are years (1941); Nevertheless (1944); A face (1949); Collected poems (1951 – Premio Pulitzer, National Book Award e Premio Bollingen). Oltre alle raccolte successive (Like a bulwark, 1956, trad. it. 1974; O to be a dragon, 1959; Tell me, tell me: granite, steel, and other topics, 1966), ha lasciato un volume di saggi, Predilections (1955) e un’esemplare traduzione di The fables of La Fontaine (1954). Il Complete poems of MarianneMoore è apparso nel 1967 (trad. it., in 2 voll., 1972-74).
*
La poesia
Non piace neanche a me: ci sono cose assai più importanti di simili inezie. Comunque, leggendola con tranquillo disprezzo, uno scopre che in fin dei conti può esserci del genuino. Mani capaci di afferrare, occhi capaci di dilatarsi, capelli all’occorrenza capaci di rizzarsi, sono cose importanti non in virtù delle interpretazioni pompose che possono suggerirvi, ma perchè sono utili. Quando diventano derivate a tal punto da non essere più intellegibili siamo tutti d’accordo: non possiamo ammirare ciò che non riusciamo a capire: il pipistrello appeso a testa in giù o in cerca di qualcosa da mangiare, elefanti che cozzano, un cavallo selvaggio che si rotola, un lupo sotto un albero, instancabile, il critico ottuso che si contrae di scatto la pelle come a un cavallo infastidito da un tafano, il tifoso di base-ball, l’esperto di statistica- e non ha senso neppure svalutare “documenti commerciali e libri scolastici”. Sono importanti anche questi. Però occorre distinguere: se vengono utilizzati a sproposito da poeti di secondo ordine, il risultato non sarà mai poesia. Nè vi sarà poesia finchè i poeti non sapranno essere i “veristi dell’immaginazione” sdegnando banalità e insolenza, e non sottoporranno al vostro esame “giardini immaginari con dentro rospi veri”. Se, comunque, pretendete da un lato il materiale della poesia allo stato grezzo e dall’altro richiedete ciò che è genuino, allora vuol dire che la poesia vi interessa.
Da Unicorni di mare e di terra. Poesie 1935-1951, Rizzoli.
Serpenti, manguste, incantatori di serpenti e simili
Ho un amico che pagherebbe un occhio della testa per quelle lunghe dita tutte uguali –
per quegli orrendi artigli d’uccello, per quell’aspide esotico e la mangusta –
prodotti del paese dove tutto è fatica, il paese del cercatore d’erba,
del portatore di torce, del servo addetto al cane, del portatore messaggero, del santone.
Affascinato da questo esimio verme, selvatico e feroce quasi quanto il giorno della cattura,
lo fissa con occhi sbarrati che sembrano incapaci d’analisi.
«Il serpe sottile che si snoda fulmineo nell’erba,
la tartaruga placida dal dorso variegato,
il camaleonte che passa dalla frasca alla pietra e dalla pietra al ruscello»,
un tempo gli accendevano l’immaginazione;
ora la sua ammirazione è concentrata tutta qui.
Spesso, ma non pesante, si drizza sporgendo dal suo cesello da viaggio,
l’essenzialmente ellenico, il plastico animale tutto d’un pezzo dal naso alla coda;
non si può fare a meno di guardarlo come si è costretti a guardare le ombre delle Alpi
che nelle loro pieghe imprigionano come mosche nell’ambra
i ritmi della pista di pattinaggio.
Questo animale, al quale dalla notte dei tempi
è stata attribuita tanta importanza,
bello, a quanto sostenevano i suoi adoratori – a che scopo fu inventato?
Forse per dimostrare che quando l’intelligenza nella sua forma pura
s’imbarca in un ordine di pensiero improduttivo deve fare marcia indietro?
Chissà; la sola cosa certa al riguardo è la sua forma; ma perché protestare?
La passione di migliorare il prossimo è di per sé una malattia affliggente.
Meglio la repulsione, che non avanza pretese.
Che cosa sono gli anni?
Cos’è la nostra innocenza,
cos’è la nostra colpa?
Tutti sono nudi,
nessuno è salvo.
E da dove viene il coraggio:
la domanda senza risposta,
il dubbio risoluto – che chiama
muto, e sordo ascolta –
che nella sventura,
nella morte stessa
dà coraggio agli altri,
e nella stessa sconfitta induce
l’anima a farsi forte?
Sa vedere nel fondo delle cose ed è lieto
chi accede alla mortalità e nella sua prigione si eleva
al di sopra di se stesso,
come il mare dentro un abisso
lotta invano per liberarsi
e trova nell’arrendersi
il suo perdurare.
Così chi sente fortemente
opera da forte. Anche l’uccello
cresciuto cantando
rinsalda la propria forma e l’innalza.
Benché prigioniero, dice
col suo canto potente
che la soddisfazione è cosa vile,
cosa pura è la gioia.
Questa è la mortalità.
Questa è l’eternità.
A una lumaca
Se «la concisione è la prima grazia dello stile»,
tu la possiedi. La contraibilità è una virtù
come lo è la modestia.
Non è l’acquisizione d’una cosa qualsiasi
capace di adornare,
né la qualità accidentale
che può accompagnarsi a una cosa espressa bene,
che noi apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, «un metodo conclusivo»;
«una conoscenza dei princìpi»,
nel curioso fenomeno del tuo corno occipitale.
New York
l’epopea del selvaggio,
cresciuta dove lo spazio ci occorre per i traffici –
il centro del commercio all’ingrosso delle pellicce,
costellato di tende d’ermellino e popolato di volpi,
i lunghi peli che ondeggiano due dita sopra il pellame;
il terreno cosparso di pelli di daino – macchie di bianco su bianco,
«così come un ricamo monocromo su raso può avere una trama varia»;
e vizze piume d’aquila compresse dal vento;
e strisce di pelli di castoro – bianche, sollecite di neve.
Ce ne corre di spazio tra la «regina carica di gioielli»
e il bellimbusto col manicotto,
tra il cocchio dorato a forma di flacone di profumo,
e la confluenza del Monongahela con l’Allegheny
e la filosofia scolastica delle terre selvagge.
Non è la copertina dei romanzetti di frontiera che conta,
le cascate del Niagara, i cavalli pezzati e la canoa da guerra;
non è il dire «la pelliccia se non è più bella delle pellicce delle altre,
è meglio non averla» –
e il cui equivalente in carne cruda e in bacche ci basterebbe
per sfamare l’universo;
non è il clima dell’ingegnosità,
le pelli di lontra, di castoro, di puma
senza armi da fuoco, né cani;
non è il profitto,
ma «la possibilità di accedere all’esperienza».
Una tomba
Uomo che scruti dentro il mare,
impedendo la vista ad altri che come te avrebbero diritto di guardare,
e dell’umana natura porsi nel bel mezzo d’una cosa,
ma in mezzo a questa non ti è possibile stare;
il mare non ha altro da offrire che una tomba ben scavata.
Gli abeti stanno in processione con in cima
una smeraldina zampetta di tacchino,
riservati come i loro profili, non dicono nulla;
non è la repressione, comunque, la più evidente caratteristica del mare;
il mare è un collezionista, pronto a restituire uno sguardo rapace.
Altri, oltre a te, hanno avuto quello sguardo –
e la loro espressione non è più di protesta; i pesci non li esplorano più
poiché le loro ossa non hanno durato;
gli uomini calano le reti, senza sapere che stanno dissacrando una tomba,
e remano via veloci – le pale dei remi
che si muovono insieme come le zampe dei ragni d’acqua
quasi non vi fosse una cosa come la morte.
Le increspature avanzano insieme in una falange –
belle sotto i ricami della spuma,
e svaniscono esauste mentre il mare
penetra mormorando fra le alghe e si ritira;
gli uccelli, attraversano a nuoto l’aria velocissimi, stridendo come sempre –
lo scudo della tartaruga tormenta la base degli scogli muovendosi sotto;
e l’oceano, sotto il pulsare dei fari e il rintocco delle boe,
come al solito avanza, e non sembra neppure
lo stesso oceano in cui le cose, cadendo, sono destinate ad affondare –
quell’oceano in cui, se una cosa si torce o si rigira,
lo fa, semmai, senza volontà né coscienza.
Non c’è cigno più bello
«Non c’è acqua più immobile
delle morte fontane di Versailles.» Non c’è cigno
dal cupo cieco sguardo obliquo
e dalle gambe di gondoliere, bello quanto
il cigno di porcellana
dalle pupille nocciola e dall’aureo collare dentato
che ne attesta l’appartenenza.
Allogato nel candelabro Luigi XV
di boccioli dipinti di celòsie
dalie, ricci di mare e sempreverdi,
se ne sta appollaiato sulla spuma ramificante
di lucidi fiori scolpiti,
alto, a suo agio. Il re è morto.
Che cosa sono gli anni
Che cos’è la nostra innocenza, che cosa la nostra colpa? Tutti sono nudi, nessuno è salvo. E donde viene il coraggio: la domanda senza risposta, l’intrepido dubbio, – che chiama senza voce, ascolta senza udire – che nell’avversità, perfino nella morte, ad altri dà coraggio e nella sua sconfitta sprona
l’anima a farsi forte? Vede profondo ed è contento chi accede alla mortalità e nella sua prigionia ti leva sopra se stesso, come fa il mare dentro una voragine, che combatte per essere libero e benché respinto trova nella sua resa la sua sopravvivenza.
Così colui che sente fortemente si comporta. L’uccello stesso, che è cresciuto cantando, tempra la sua forma e la innalza. È prigioniero, ma il suo cantare vigoroso dice: misera cosa è la soddisfazione, e come pura e nobile è la gioia. Questo è mortalità, questo è eternità.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza e
“in verità, non è affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero in questa circostanza. Alcuni rotarono sull’asse del proprio valore, come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono in una professione di umiltà. Il cuneo levigato che poteva spaccare il firmamento era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri di quanto può esser lunga una conversazione di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose che non avrebbero potuto mai essere vere – ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza; il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto. Il bastone, la sacca, la finta incoerenza dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la salvaguardia di se stessi.
Cogliere e scegliere
La letteratura è un fase della vita. Per chi ne ha paura la situazione è senza rimedio; per chi le si accosta in confidenza non conta quello che se ne può dire. L’opaca allusione, il simulato volo verso l’alto non ottengono nulla. Perché stendere un velo sopra il fatto che Shaw si muove con impaccio sul terreno dei sentimenti ma per il resto è gratificante; che James è tutto quello che di lui si è detto? Non esiste uno Hardy romanziere e uno Hardy poeta, ma un uomo solo che interpreta la vita come emozione. Il critico deve sapere quello che a lui piace: Gordon Craig con il suo “questo sono io” e “questo è mio”, con i suoi tre re magi, i suoi “tristi prati francesi” e il suo “ciliegio cinese”,
Gordon Craig così soggettivo e privo di pudori – un vero critico.
E Burke è uno psicologo, di una curiosità acuta da procione. Summa diligentia; per quell’imbroglione che ha un nome così divertente – molto giovane e molto temerario – Cesare attraversò le Alpi sul sommo di una “diligenza”! Noi non siamo maniaci del significato, ma ci sconcerta la dimestichezza con i significati errati. Noioso calabrone, le candele non sono fatte per l’elettricità. Cagnolino che corri per il prato ad addentare la biancheria
e sostieni di avere preso un tasso, ricorda Senofonte: basta un comportamento elementare per metterci sulla pista. “Una buona salva di latrati”, qualche robusta grinza che increspa la pelle tra le orecchie, è tutto quello che noi pretendiamo.
Nei giorni del colore prismatico
non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore era bello, non per l’affinamento di un’arte primitiva, ma per la sua stessa originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante del perpendicolare, semplice a vedersi e a spiegarsi: non è più così; né la fascia blu-rosso-gialla di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è anch’essa una di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di peculiare; la complessità non è un delitto, ma se la portate fino alla soglia dell’oscurità, più nulla sarà semplice. La complessità, poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno come per confonderci con la tetra illusione che l’insistenza è la misura di ogni risultato e che ogni verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente la sofisticazione è quel che è sem- pre stata – agli antipodi delle iniziali grandi verità. “Parte strisciava, parte si accingeva a strisciare, il resto stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul- tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la classica moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà sommergerla, se vuole. Sappi però che ci sarà se dice: “Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.
Da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi.
«Avamposto»
«Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Avamposto
Via Lupardini 4, 89121 Reggio Calabria (c/o Sergio Bertolino)
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Non basta andare a capo a questo verso:
giù deve sprofondare, a capofitto
gettarsi dove risiede il tuo palpito
segreto, quello che pensiamo perso.
*
Anno scorso, dicono, una donna
si è spacciata per me. Mi somigliava
parecchio: aveva quel modo vagante
tutto mio di deludere, rideva
tremenda ai vetri come faccio anch’io
talvolta con la mia povera voce.
Quest’ingannatrice voglio trovarla
e baciarla sulla bocca: quanto amore
mi ha risparmiato, quanto male.
*
A lungo abbiamo discorso del dopo.
Tu non chiedevi, dandomi le spalle
forti mi interrogavi come un oracolo.
Non esiste miracolo, dicevo, solo
per noi la giustizia dell’incontro.
E così esiste, pensavo, il congedo
dei congedi. Esiste la mano che porta
lontano il suono amato del tuo volto.
*
Dammi la sconsiderata fiducia
di mio padre nel futuro, del futuro
dammi il sacro terrore di mia madre.
Stringimi forte a non finire
più schiacciata dal passo del tempo —
appuntami al petto la lettera scarlatta
dei sopravvissuti. Scatta, dissolvimi
col cuore nel bicchiere dei minuti.
*
Questo amo di te: il tuo vuoto
di parole, il lapsus che ti racconta
da un romanzo, la carezza invisibile
a occhio nudo, la nuda mezza mela
rimasta sul letto per errore.
Nota biografica di Lara Pagani è nata nel 1986 a Lugo (Ravenna), dove vive e lavora. È laureata in lingue e letterature straniere. Suoi inediti sono apparsi su alcune riviste online, tra cui Poetarum Silva, Larosainpiu e Limina Mundi.
Rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore generale e responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online
Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Giovanna Rosadini, Paola Mancinelli, Antonio Fiori, Gisella Blanco, Lucrezia Lombardo, Sarah Talita Silvestri, Massimo D’Arcangelo, Valentina Furlotti, Nicola Barbato, Mario Famularo, Piero Toto. Collaboratori: Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Matteo Pupillo, Giulio Maffii, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo
Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani
La Cina rossa. Storia del Partito comunista cinese
di Guido Samarani e di Sofia Graziani
Editori Laterza-Bari
Descrizione del libro-Se vogliamo comprendere la Cina contemporanea non possiamo prescindere dalla storia del Partito comunista cinese. Ne ha determinato le sorti e i profondi cambiamenti, trasformando in cento anni un paese rurale nella seconda potenza economica mondiale. Nel luglio del 1921, quando nacque, il Pcc aveva solo una cinquantina di membri ed era un soggetto politico marginale. Oggi conta oltre novanta milioni di iscritti e, dal 1949, è alla guida di un paese immenso e molto complesso. Con questa ambiziosa opera, che si avvale delle fonti più aggiornate, Guido Samarani e Sofia Graziani intrecciano la storia del Pcc alla storia della Repubblica popolare cinese, delineandone l’organizzazione, l’ideologia, la strategia interna e internazionale, i momenti gloriosi quanto gli eventi drammatici. Un’opera unica in Italia.
Gli Autori
Guido Samarani
Guido Samarani è stato professore di Storia ed istituzioni dell’Asia presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove è attualmente Senior Researcher. Tra le sue pubblicazioni: La Cina di Mao, l’Italia e l’Europa negli anni della Guerra fredda (a cura di, con C. Meneguzzi Rostagni, Il Mulino 2014); La Cina contemporanea. Dalla fine dell’Impero a oggi (Einaudi 2017); La rivoluzione in cammino. La Cina della Lunga Marcia (Edizioni Salerno 2018); La Cina nella storia globale. Percorsi e tendenze (a cura di, Guerini e Associati 2019); Mao. Il grande timoniere e la Cina moderna (la Repubblica 2020). Per Laterza ha pubblicato, insieme a Sofia Graziani, La Cina rossa. Storia del Partito comunista cinese (2023).
Sofia Graziani è docente di Storia e lingua cinese presso l’Università di Trento.Tra le sue pubblicazioni, Il Partito e i giovani. Storia della Lega giovanile comunista in Cina (Cafoscarina 2013) e Roads to Reconciliation: People’s Republic of China, Western Europe and Italy during the Cold War Period (1949-1971) (a cura di, con G. Samarani e C. Meneguzzi Rostagni, Edizioni Ca’ Foscari 2018). Per Laterza ha pubblicato, insieme a Guido Samarani, La Cina rossa. Storia del Partito comunista cinese (2023).
Edizione: 2023 Pagine: 312 Collana: Storia e Società ISBN carta: 9788858150962 ISBN digitale: 9788858152348 Argomenti: Storia contemporanea, Storia dei paesi extraeuropei
Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 febbraio del 1912. Scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel Regio Liceo – Ginnasio Alessandro Manzoni di Milano, dove intreccia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che verrà interrotta nel 1933 a causa delle forti ingerenze da parte dei suoi genitori. Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, precisamente al corso di laurea in Filologia moderna, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi e Remo Cantoni. A soli ventisei anni si tolse la vita mediante ingestione di barbiturici in una sera nevosa di dicembre del 1938.
POESIA“Inverno”che racconta la fredda stagione, composta nel 1932, il cui titolo originale era “Tramonto”.
“Inverno”
Fili neri di pioppi –
fili neri di nubi
sul cielo rosso –
e questa prima erba
libera dalla neve
chiara
che fa pensare alla primavera
e guardare
se ad una svolta
nascono le primule –
Ma il ghiaccio inazzurra i sentieri –
la nebbia addormenta i fossati –
un lento pallore devasta
i colori del cielo – Scende la notte –
nessun fiore è nato –
è inverno – anima –
è inverno.
Antonia Pozzi nasce a Milano il 13 febbraio del 1912. Scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel Regio Liceo – Ginnasio Alessandro Manzoni di Milano, dove intreccia con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che verrà interrotta nel 1933 a causa delle forti ingerenze da parte dei suoi genitori. Nel 1930 si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, precisamente al corso di laurea in Filologia moderna, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi e Remo Cantoni. A soli ventisei anni si tolse la vita mediante ingestione di barbiturici in una sera nevosa di dicembre del 1938.
Usignolo, piccolo poeta,
forse senza accorgermene, ho imparato da te
questi lunghi silenzi
mentre il sole della vita batte così pienamente.
Forse, senza rendermene conto, l’ho imparato
dalla tua pazienza appostata
tra le fronde:
l’attesa di una fragile quiete
in cui le parole trovano il loro filo d’argento,
il fratello oscuro del tuo canto splendente.
(da ‘Arietta‘, 1996)
Maria Àngels Anglada
Biografia di Maria Àngels Anglada (Vic, 9 marzo 1930 – Figueras, 23 aprile 1999).Laureata in lettere classiche all’Università di Barcellona e grande conoscitrice del mondo classico, ha tradotto testi dal latino e dal greco in catalano. Si è dedicata a vari generi: poesia, narrativa, critica letteraria e saggio. Ha collaborato a diversi periodici. Tra le sue opere, tutte scritte in catalano, si distinguono: “Les closes”, romanzo vincitore del premio Josep Pla 1978; “Sandàlies d’escuma”, vincitore del premio Lletra d’Or 1985; “Columnes d’hores”, che raccoglie tutte le sue poesie fino al 1990; e specialmente “El violí d’Auschwitz” (già uscito in Italia con il titolo “Il violino di Auschwitz”, Editori Riuniti) e il nostro “Il quaderno di Aram” (titolo originale “Quadern d’Aram”).
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