Il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, Mons. Diego BONA, recentemente scomparso, ha riportato al culto dei fedeli e all’attenzione degli archeologi le Catacombe dei Santi martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC- Il 19 gennaio 1994 ,festa di San Mario, il Mons. Diego BONA guidò una processione di circa 500 fedeli verso le Catacombe ripristinando così un’antica tradizione popolare che si era persa nel corso degli anni. Nei pressi delle Catacombe vi è una piccola chiesetta dedicata a San Mario e Marta, eretta nel 1700 e restaurata nel 1871. In questa chiesetta ,nel 1909, il giovane sacerdote Don Giuseppe RONCALLI, futuro papa Giovanni XXIII- il Papa Buono, venne a celebrare la messa in memoria del fratello Mario. Papa Giovanni XXIII amava la via Boccea e la Campagna Romana durante le sue escursioni egli si deliziava nel gustare “ la buona ricotta di Boccea” che Gli veniva offerta dai pastori romani. A ricordo della presenza in questi luoghi di Papa Giovanni è stata posta in essere, nel 2004, una epigrafe marmorea nella chiesetta di Santa Maria sita all’interno del Castello della Porcareccia nel quartiere Casalotti.
Breve Storia dei Santi MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC.
Ultimo santuario della via Cornelia era quello dei martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC. Nel Martirologio Geronimiano sono ricordati il 16 e 20 gennaio. Sembrerebbe che il vero dies natalis fosse il 20 gennaio, in cui sono stati commemorati nel Sacramentario Gelasiano antico ( Saccr.Gel.,p.131; nel Gelasiano di S.Gallo invece sono anticipati al giorno 19 e vi mancano ABACUC e AUDIFAX (Gel. S. Gallo, p.20) .Di questi Martiri non si hanno notizie sicure.Secondo la passio (Acta SS. Gennaio, II, Parigi, 1863, pp. 578-583.) Mario e Marta erano nobili persiani; al tempo di Claudio il Gotico vennero a Roma , insieme con i figli Abacuc e Audifax per venerare i sepolcri degli Apostoli e aiutare i carcerati per la Fede.Arrestati a loro volta furono condannati dal prefetto Musciano e condotti sulla “ via Cornelia miliaro tertio decimo ad Nymphas Catabassi”: Mario, Abacuc e Audifax furono “decollati sub arenario” e i loro corpi bruciati; Marta invece “in Nympha necata est”. La Matrona Felicita raccolse i resti dei primi tre, Mario,Abacuc e Audifax, ed il corpo di Marta dal pozzo in cui era stato gettato, e li seppellì “ sub die tertio decimo Kalendas febraurium” (B.SS.VIII, p.165. Dall’indicazione topografica “ ad Nymphas” è nata la fantomatica martire Ninfa-cf.B.SS.,IX,p.1009).
I corpi dei Martiri sarebbero stati trasferiti da Papa Pasquale I nella Basilica di S. Prassede ( Lib. Pont.II, p. 64.).
Ricerca e Articolo dell’ Architetto Maurizio PETTINARI
Nella più antica cerchia di mura di epoca romana il nome di Porta Romana indicava una porta sita a meridione, sul viadotto di accesso alla città (corrispondente all’attuale Via Roma), con cui l’antica via Salaria raggiungeva il foro (piazza Vittorio Emanuele II) dopo aver superato il Velino con il Ponte Romano.
Il nome continuò ad essere usato anche nelle mura medievali per indicare la porta edificata nel 1586 sulla sponda sinistra del fiume, a protezione del quartiere Borgo. In passato Porta Romana era collocata al termine della via omonima, saldata agli edifici circostanti.
La sua posizione, posta all’ingresso sud della città lungo la Via Salaria, la rendeva il biglietto da visita per tutti i viaggiatori provenienti da Roma. Per questa ragione nel 1930 l’area fu sottoposta ad un intervento di riqualificazione ad opera dell’architetto Cesare Bazzani, con il quale venne creata l’attuale Piazza della Repubblica e la porta venne monumentalizzata ricollocandola al centro della piazza, a mo’ di arco di trionfo, con alle spalle un’esedra in mattoni che venne eretta sul semiperimetro della piazza.[13] In tale occasione fu aggiunta nella sommità della porta una copertura in cemento che riporta due iscrizioni di benvenuto e arrivederci alla città: sul lato esterno «Ingredere Omnia Fausta Ferens» («entra portando buoni auspici»), sul lato interno «I et redi feliciter» («va’ e torna con successo»).
I disegni del progetto sono raccolti dall’Archivio di Stato di Terni.
Nota a chiarimento dell’Architetto Maurizio PETTINARI:”I disegni provengono dall’archivio Bazzani custoditi all’Archivio di stato di Terni. In parte sono disponibili anche sul web sotto varie voci. Le cartoline postali fanno parte di mie ricerche che da tempo svolgo sui centri della Sabina, della Provincia di Perugia (un tempo) e quella di Rieti (oggi)”.
“Verso il maggio del 1944 cominciò la deportazione degli ebrei ungheresi. Cominciarono allora ad arrivare ogni giorno e ogni notte lunghissimi trasporti contenenti migliaia di persone… vagoni giungevano, e ancora vagoni, e ancora vagoni.
Noi avevamo l’ordine di restare nei Block quando i trasporti arrivavano, ma riuscivamo a guardare lo stesso – vedevamo tante comiche piccole teste affacciarsi inquiete alle feritoie e scrutare quello che li aspettava lì.
Erano sempre i bambini che guardavano fuori – i bambini.
Si sentivano talora i loro pianti nella notte quando scendevano dai trasporti e faceva freddo, era buio, anche se tutt’intorno riflettori sinistri illuminavano il campo. Si sentiva gridare nella notte “mamma”, “mammina” in tutte le lingue”.
Luciana Nissim Momigliano spiegò così la sua scelta di diventare pediatra dopo il suo ritorno da Auschwitz nel 1945 e successivamente diventare psicanalista per cercare di capire almeno in parte alcune delle sofferenze a cui aveva assistito.
“Avevo visto morire tanti bambini, desideravo fare qualcosa che li facesse vivere”.
Liliana sopravvisse alla deportazione ad Auschwitz Birkenau che condivise i suoi compagni torinesi tra cui Primo Levi.
“Primo parlava per tutti noi” soleva dire per giustificare il suo silenzio. Deputava a lui il compito di raccontare l’indicibole.
Sarà solo dopo il 1987, quando Primo Levi muore, che Luciana Nissim Momigliano capisce di non potersi più tirare indietro e di dover prendere la staffetta.
Tornerà per la prima volta ad Auschwitz solo nel 1996.
Muore il 1 dicembre 1998.
Desideriamo ricordarla per la sua capacità di ascolto e per quel senso di rispetto assoluto della sofferenza degli altri dovuto senz’altro a ciò a cui aveva assistito senza poter fare niente.
Da: Donne contro il mostro
Foto | Shoah Foundation
Associazione Figli della Shoah.
LUCIANA NISSIM
Luciana Nissim nasce il 20 ottobre 1919 a Torino in una famiglia colta e agiata. Di origine ebrea riscopre i suoi legami con l’ebraismo a seguito delle leggi razziali del 1938 e prende a frequentare la biblioteca della scuola ebraica dove incontra tra gli altri quelli che saranno gli amici della vita: i fratelli Artom, Franco Momigliano (che diventerà suo marito), Vanda Maestro, Eugenio Gentili Tedeschi, Primo Levi, Giorgio Segre, Giorgio Diena, Alberto Salmoni e Bianca Guidetti Serra. Dopo l’8 settembre 1943, con la famiglia e l’amica Vanda si rifugia in Val d’Aosta, dove, dopo qualche tempo, le due ragazze entrano in contatto con la banda partigiana in formazione di cui fa parte anche Primo Levi e che tra il 12 e 13 dicembre subisce un rastrellamento fascista che porterà i tre amici prima nelle carceri di Aosta e quindi a Fossoli.
A Fossoli a loro tre si unisce Franco Sacerdoti e i quattro diventano inseparabili. Insieme salgono sul convoglio che il 22 febbraio parte per Auschwitz. All’immatricolazione nel Lager di Birkenau Luciana dichiara di essere medico e questo contribuisce alla sua salvezza: viene destinata al Revier, l’infermeria del campo, dove si rende conto dell’inutilità del suo lavoro, ma è risparmiata dal ritmo mortale della vita del campo. Alla fine di agosto si offre volontaria come medico per Hessisch Lichtenau, campo di lavoro dipendente da Buchenwald, e da qui, grazie a un elettricista italiano, riesce a far pervenire una cartolina a Franco Momigliano. Resta nel campo fino a quando l’avanzata degli alleati costringe le SS all’evacuazione dei campi.
LA FUGA DURANTE UN TRASFERIMENTO
Durante un trasferimento decide di scappare e con una ragazza slovacca trova rifugio presso una fattoria fino alla guerra: “io dico che era il 25 aprile […]”.
Presta il suo lavoro di medico in un campo di raccolta di deportati a Grimma fino all’estate. Ritrova la libertà scrivendo ancora a Franco, legando l’esperienza appena patita, che già sta diventando memoria, allo slancio verso una vita libera: “ Sono stata deportata nel campo di concentramento più terribile del mondo, Auschwitz, in Alta Slesia, Polonia – è stato tutto molto duro e pericoloso, ma lo vedi, sono una dei non molti che ne sono usciti. Ed è così bello essere vivi e liberi. Ed è così strano poterti scrivere che non riesco a dirti niente, […] Ciao Franco – è troppo bello pensare che ti rivedrò.”
La relazione con l’altro è colta con immediatezza quale elemento di costruzione della propria identità su cui si misura nel campo la perdita di sé e al ritorno il rinascere della voglia di vivere.
Il 20 luglio 1945 arriva a Biella. Porta immediatamente la sua testimonianza componendo insieme a Pelagia Lewinska il libro a due voci Donne contro il mostro che esce per l’editore Ramella nel 1946: Luciana sceglie per il suo pezzo il significativo titolo Ricordi della casa dei morti. Poi non parlerà più, riconoscendo all’amico Levi il ruolo di testimone per tutti. Nel novembre 1946 si sposa con Franco, con cui condividerà il dolore per una bambina nata morta (Vanda) e poi la gioia di un figlio (Alberto). Dopo aver diretto a Ivrea l’asilo nido della Olivetti, si trasferisce con il marito a Milano, dove studia con Franco Fornari e Cesare Musatti diventando figura importante della psicoanalisi in Italia. Nel suo lavoro trasferisce l’esperienza accumulata e l’ascolto diventa perno di un’attività segnata da un bisogno di parola che è scambio. Muore a Milano nel 1998. I suoi documenti sono ora depositati all’Istituto piemontese della Resistenza, dopo che Alessandra Chiappano li ha raccolti e studiati con la sensibilità della storica impegnata, tra i pochi, allo studio della deportazione femmiile e che qui ricordiamo con affetto e riconoscenza.
Antonio Gramsci, Lettera alla mamma del 15 dicembre 1930.
Carissima mamma,ecco il quinto natale che passo in privazione di libertà e il quarto che passo in carcere. Veramente la condizione di coatto in cui passai il natale del 26 ad Ustica era ancora una specie di paradiso della libertà personale in confronto alla condizione di carcerato. Ma non credere che la mia serenità sia venuta meno. Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido più di gusto come una volta, ma credo di essere diventato più saggio e di avere arricchito la mia esperienza degli uomini e delle cose. Del resto non ho perduto il gusto della vita; tutto mi interessa ancora e sono sicuro che se anche non posso piú «zaccurrare sa fae arrostia» [«sgranocchiare le fave arrostite» in lingua sarda], tuttavia non proverei dispiacere a vedere e sentire gli altri a zaccurrare.
Dunque non sono diventato vecchio, ti pare? Si diventa vecchi quando si incomincia a temere la morte e quando si prova dispiacere a vedere gli altri fare ciò che noi non possiamo più fare. In questo senso sono sicuro che neanche tu sei diventata vecchia nonostante la tua età. Sono sicuro che sei decisa a vivere a lungo, per poterci rivedere tutti insieme e per poter conoscere tutti i tuoi nipotini: finché si vuol vivere, finché si sente il gusto della vita e si vuole raggiungere ancora qualche scopo, si resiste a tutti gli acciacchi e a tutte le malattie. Devi persuaderti però che occorre anche risparmiare un po’ le proprie forze e non intestarsi a fare dei grandi sforzi come quando si era di primo pelo. Ora mi pare appunto che Teresina, nella sua lettera, mi abbia accennato, con un po’ di malizia, che tu pretendi di fare troppo e che non vuoi rinunziare alla tua supremazia nei lavori di casa. Devi invece rinunziare e riposarti. Carissima mamma, ti auguro tante cose per le feste, di essere allegra e tranquilla. Tanti auguri e saluti a tutti di casa.
Ilan Pappè-La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati .
di Ilan Pappé (Autore)-Michele Zurlo (Traduttore)
Descrizione
Dopo la sua acclamata indagine sulla pulizia etnica della Palestina avvenuta negli anni Quaranta, il famoso storico israeliano Ilan Pappe´ rivolge l’attenzione all’annessione e all’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, esponendoci la prima critica globale relativa ai Territori Occupati palestinesi. Frutto di anni di ricerche, il nuovo lavoro di Pappe´ rappresenta probabilmente l’analisi piu` completa mai scritta sulla genesi dei Territori Occupati e sulla vita quotidiana all’interno di quella che l’autore definisce, appunto, «la prigione piu` grande del mondo». Pappe´ analizza la questione da molteplici punti di vista: attraverso l’analisi di materiali d’archivio recentemente declassificati, ricostruisce sotto una luce nuova le motivazioni e le strategie dei generali e dei politici israeliani – e lo stesso processo decisionale – che hanno gettato le basi dell’occupazione della Palestina; rivolgendo poi lo sguardo alle infrastrutture legali e burocratiche e ai meccanismi di sicurezza messi in atto dagli occupanti, rivela il modo in cui Israele e` riuscito a imporre il suo controllo a oltre un milione di palestinesi; infine, attraverso i documenti delle ONG che lavorano sul campo e i resoconti di testimoni oculari, Pappe´ denuncia gli effetti brutalizzanti dell’occupazione, dall’abuso sistematico dei diritti umani e civili ai blocchi stradali, dagli arresti di massa alle perquisizioni domiciliari, dal trasferimento forzato degli abitanti autoctoni per far spazio ai coloni al famigerato muro che sta rapidamente trasformando anche la stessa Cisgiordania in una prigione a cielo aperto. Il libro di Pappe´ e` al contempo un ritratto incisivo e commovente della quotidianita` nei Territori Occupati e un accorato appello al mondo perche´ non chiuda gli occhi di fronte ai crimini contro l’umanita` a cui e` soggetta da piu` di settant’anni la popolazione indigena della Palestina.
Prima stesura a cura di Maria Fancelli con un testo di Jonathan Bazzi –
Marsilio Editori Venezia
Descrizione-
Il libro racconta la breve vita di Werther, un giovane uomo redditiere, aspirante pittore, che vive in una imprecisata cittadina della Germania tardo-feudale circa quindici anni prima della Rivoluzione francese. Uscito di casa per un viaggio legato all’eredità materna, si innamora perdutamente di Lotte, promessa e poi sposa di Albert, il consorte esemplare. Mentre nella prima parte vive una stagione di travolgente felicità fisica, in armonia con se stesso e con gli altri, nella seconda parte Werther cade in uno stato depressivo e si abbandona a una crescente pulsione di morte. Finché, di fronte all’impossibilità di amare Lotte, medita una decisione estrema. Sistema le sue carte e scrive un biglietto di addio, quindi manda il servitore a chiedere le pistole ad Albert per un improbabile viaggio. Si lascia guidare in questo percorso dalle drammatiche pagine di un bardo gaelico appena scoperto, Ossian. Le accarezzerà a lungo, quelle pistole passate attraverso le mani di lei, contemplandole come un vettore d’amore. Lei che aveva tremato ed era trasalita nel porgere al servitore l’oggetto richiesto dall’amato. Altri temi si affacciano all’orizzonte del libro: la decadenza di un’aristocrazia al tramonto, la società chiusa, la pulsione artistica, il rifiuto della cultura accademica, lo spirito di libertà, la natura splendente e divina, la città ostile, il giardino, il sogno di un abbandono al dionisiaco. Ossian e Omero sono le contrastanti letture. Una storia d’amore e di morte, atto fondativo della letteratura tedesca moderna e icona del romanzo epistolare europeo.
Autore-Johann W. GoetheL’entusiasmo per il genio di Shakespeare, l’approfondimento dei grandi temi della sensibilità borghese, l’esperienza diretta della vita politica e culturale di un piccolo ducato tedesco, il lungo viaggio in Italia, l’assidua attenzione agli sviluppi della Rivoluzione francese, il costante riferimento ai grandi esempi della civiltà classica e la fervida discussione con le espressioni più salienti della cultura del suo tempo: su queste basi Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) costruisce i pilastri della letteratura tedesca moderna e con le grandi figure di Werther e di Egmont, di Ifigenia e di Tasso, ma soprattutto di Wilhelm Meister e di Faust, la eleva a Weltliteratur.
Johann W. Goethe-I dolori del giovane Werther-
Prima stesura a cura di Maria Fancelli, con un testo di Jonathan Bazzi – Marsilio Editori Venezia
-Articolo e Ricerca storica dell’Arch.Maurizio Pettinari-
Il 25 febbraio 1899 l’ingegner Edoardo Ugolini presentò domanda alla Prefettura di Perugia per derivare 1,20 m3/sec di acqua dal fiume Farfa, presso le le fornaci di Santa Maria a Valle Basetti utilizzando un salto di 86,50 m, al fine di alimentare la ferrovia elettrica Rieti-Corese e ottenne la concessione con i decreti emanati l’11 luglio e il 6 novembre 1900. Il 28 marzo 1901 fu costituita la Società Romana di Elettricità, che oltre ad acquistare la concessione Ugolini, entrò in possesso delle sorgenti di Càpore (Frasso Sabino), di proprietà del Principe Borghese e la neo costituita azienda affidò all’ingegner Ulisse Del Buono lo studio del progetto per utilizzare le sorgenti Càpore e altre acque del demanio in un’unica derivazione. Il progetto prevedeva la restituzione delle acque presso il fosso Roccabaldesca sotto Mompeo, il salto utilizzato era di 122 m mentre il canale misurava 7 km di lunghezza. La Prefettura di Perugia, il 29 gennaio 1903, esaminò il decreto della nuova concessione, che divenne definitivo il 10 aprile dello stesso anno, tuttavia solo il 23 novembre 1906 fu emanato il decreto che approvò e rese esecutivo il progetto. Nel frattempo l’ingegner Angelo Filonardi, uno dei i fondatori della Società Italiana per le Condotte d’Acqua e successore di Del Buono nello studio del progetto, concepì una soluzione alternativa per l’impianto, mediante un canale derivatore fino a Torre Baccelli, nel comune di Fara in Sabina, con uno sviluppo complessivo di 11,700 km allo scopo per poter sfruttare un salto geodetico di 162,50 metri e di conseguenza poter produrre una maggior quantità di energia, a fronte di una spesa maggiore per realizzare le opere idrauliche necessarie. Il nuovo progetto, presentato il 21 maggio 1907 dagli ingegneri Filonardi e Waldis, ottenne il decreto l’8 luglio 1909. Il lungo iter si concluse con il progetto definitivo, opera dell’ingegner Enrico Anagni, subentrato al Filonardi dopo la scomparsa di quest’ultimo che fu presentato il 1 marzo 1910 e approvato il 9 giugno 1910. Finalmente nell’agosto 1911 iniziarono i lavori sotto la direzione di Enrico Anagni, che si avvalse della collaborazione degli ingegneri Gino Coari e Stefano Bellini. Tuttavia tra il 1912 al 1914 fu costruita poco meno della metà del canale derivatore, mentre con opportune modifiche progettuali la lunghezza della derivazione fu ridotto a 10,5 km, con una portata massima derivabile di 8 m3/sec. In seguito allo scoppio della Prima Guerra Mondiale la costruzione proseguì molto lentamente, ma sotto la direzione dell’ingegner Giordano i lavori ripresero con vigore alla fine del 1918, mentre per la parte elettrica l’incarico fu affidato all’ingegner Oscar Sismondo, capo servizio della Società Anglo Romana. Nonostante le difficoltà tecniche e finanziarie nel febbraio 1923 l’impianto idroelettrico entrò in funzione con due gruppi turbina Riva e alternatore Westinghouse da 5.000 kW ciascuno, alimentati da due condotte forzate realizzate dalla ditta Antonio Bosco di Terni. Per innalzare il valore della tensione, inizialmente furono istallati quattro trasformatori monofase Westinghouse da 4500 kVA ciascuno, che elevavano la tensione prodotta dagli alternatori da 6.000 Volt a 60.000 Volt della linea elettrica, in seguito sostituiti da un unico trasformatore trifase. Contestualmente furono realizzate anche le abitazioni per il direttore della centrale e le famiglie degli operai. Una linea elettrica a 60.000 Volt, lunga circa 3 km, collegava la centrale alla sottostazione elettrica di Colonnetta “La Memoria” situata nel comune di Montopoli di Sabina, dove, unitamente agli elettrodotti ad alta tensione provenienti dalla cabina “Roma” dell’elettrochimico di Papigno (TR), alimentava le utenze romane. Nel 1933, per fare fronte a una crescente domanda di energia elettrica, la Società Romana di Elettricità realizzò, nei pressi di Torre Baccelli, un bacino di carico con una capacità di circa 140.000 m3, che consenti l’installazione di una terza condotta forzata e di un altro gruppo turbo-alternatore Riva-Tecnomasio Italiano identico ai precedenti, destinato alla funzione di riserva. Le acque del Farfa, restituite al suo corso naturale dal canale di di scarico della centrale, furono ulteriormente utilizzate tramite un canale di derivazione dalla centrale idroelettrica Farfa 2, situata non lontano dalla stazione ferroviaria di Poggio Mirteto, inaugurata nel 1936. Nel 1944, durante in secondo conflitto mondiale, la centrale Farfa 1, la sottostazione di Colonnetta La Memoria e la centrale Farfa 2 furono minate e gravemente danneggiate dalle truppe tedesche in ritirata, ma appena possibile la Società Romana di Elettricità ripristinò gli impianti restituendoli alla loro piena efficienza. Nel 1963, con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la centrale divenne proprietà dell’ENEL, poi nel 1985 fu automatizzata per essere gestita da posto di teleconduzione di Montorio al Vomano (TE). Negli anni recenti grazie a Enel Green Power, società multinazionale italiana operante nel settore di mercato delle energie rinnovabili e Michele Antonilli, docente presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Aldo Moro” di Passo Corese, l’impianto idroelettrico è stato teatro di numerosi eventi didattici e culturali nell’ambito della manifestazione “Centrali Aperte”, divenendo uno dei rari esempi di officina idroelettrica ancora dotata di macchinario originale, in quanto la corsa frenetica all’acquisizione dei certificati verdi ha determinato la perdita irreparabile di una molte impressionante di gruppi, organi di comando e componenti elettromeccanici storici. Visitando Farfa 1 colpisce positivamente la presenza di due targhe apposte nel 2007, che ricordano vari ingegneri che contribuirono alla realizzazione dell’opera, tra cui Aldo Netti, nato a Stifone, che portò l’energia elettrica a centotrenta comuni del Lazio e dell’Umbria e operò anche nelle Marche. E’ incredibile che sia Narni sia Terni si siano dimenticate di lui, membro tra l’altro del consiglio di amministrazione delle Acciaierie ternane, al punto che non si è meritato neanche l’intitolazione di una via o di una piazza nella autoproclamata “capitale dell’archeologia industriale”.
Fonte: M. Antonilli, M. Pietrangeli, “Storia dei vari sistemi di trasporto intorno a Roma, a Rieti, alla Sabina e la centrale ENEL di Farfa”, 2011.Fonte-Sergio Dotto 18/05/2014 Italia, Musei monumenti e parchi 2.
Storia della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna-
Editore Kappa Vu
Descrizione
La guerra di Spagna scoppiò nel luglio 1936 dopo un fallito tentativo di colpo di stato militare contro il governo democratico della Repubblica spagnola. In seguito all’intervento dell’Italia fascista e della Germania nazista in appoggio ai militari, si trasformò in una guerra internazionale, militare e politica, che vedeva coinvolte tutte le maggiori potenze dell’epoca. Gli antifascisti italiani combatterono nel corso di quella guerra in prima linea, inquadrati nel battaglione e poi brigata Garibaldi, in seno alle Brigate Internazionali, che rappresentavano gli antifascisti di tutto il mondo, di diverse idee politiche, uniti nella lotta al fascismo. Questo libro racconta quell’epopea, l’eroismo di quei combattenti, ma anche i problemi e le crisi che si trovarono ad affrontare, in una lotta che aveva una valenza assieme nazionale ed internazionale. Quelle vicende fornirono un insegnamento importante qualche anno dopo per la Resistenza italiana.
All’inizio di questo Diario, Etty è una giovane donna di Amsterdam, intensa e passionale. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. È ebrea, ma non osservante. I temi religiosi la attirano, e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, uccisi o imprigionati. Un giorno, davanti a un gruppo sparuto di alberi, trova il cartello: «Vietato agli ebrei». Un altro giorno, certi negozi vengono proibiti agli ebrei. Un altro giorno, gli ebrei non possono più usare la bicicletta. Etty annota: «La nostra distruzione si avvicina furtivamente da ogni parte, presto il cerchio sarà chiuso intorno a noi e nessuna persona buona che vorrà darci aiuto lo potrà oltrepassare». Ma, quanto più il cerchio si stringe, tanto più Etty sembra acquistare una straordinaria forza dell’anima. Non pensa un solo momento, anche se ne avrebbe l’occasione, a salvarsi. Pensa a come potrà essere d’aiuto ai tanti che stanno per condividere con lei il «destino di massa» della morte amministrata dalle autorità tedesche. Confinata a Westerbork, campo di transito da cui sarà mandata ad Auschwitz, Etty esalta persino in quel «pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato» la sua capacità di essere un «cuore pensante». Se la tecnica nazista consisteva innanzitutto nel provocare l’avvilimento fisico e psichico delle vittime, si può dire che su Etty abbia provocato l’effetto contrario. A mano a mano che si avvicina la fine, la sua voce diventa sempre più limpida e sicura, senza incrinature. Anche nel pieno dell’orrore, riesce a respingere ogni atomo di odio, perché renderebbe il mondo ancor più «inospitale». La disposizione che ha Etty ad amare è invincibile. Sul diario aveva annotato: «“Temprato”: distinguerlo da “indurito”». E proprio la sua vita sta a mostrare quella differenza.
In copertina-Etty Hillesum ritratta nella sua stanza (1937).
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Poesia di Pablo Neruda per la morte di Tina Modotti
“Riposa dolcemente sorella”
Tina Modotti, sorella, tu non dormi, no, non dormi:
forse il tuo cuore sente crescere la rosa
di ieri, l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa.
Riposa dolcemente, sorella.
La nuova rosa è tua, la nuova terra è tua:
ti sei messa una nuova veste di semente profonda
e il tuo soave silenzio si colma di radici.
Non dormirai invano, sorella.
Puro è il tuo dolce nome, pura la tua fragile vita:
di ape, ombra, fuoco, neve, silenzio, spuma,
d’acciaio, linea, polline, si è fatta la tua ferrea,
la tua delicata struttura.
Lo sciacallo sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l’anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.
Nella mia patria ti porto perché non ti tocchino,
nella mia patria di neve perché alla tua purezza
non arrivi l’assassino, né lo sciacallo, né il venduto:
laggiù starai tranquilla.
Non odi un passo, un passo pieno di passi, qualcosa
di grande dalla steppa, dal Don, dalle terre del freddo?
Non odi un passo fermo di soldato nella neve?
Sorella, sono i tuoi passi.
Verranno un giorno sulla tua piccola tomba
prima che le rose di ieri si disperdano,
verranno a vedere quelli d’una volta, domani,
là dove sta bruciando il tuo silenzio.
Un mondo marcia verso il luogo dove tu andavi, sorella.
Avanzano ogni giorni i canti della tua bocca
nella bocca del popolo glorioso che tu amavi.
Valoroso era il tuo cuore.
Nelle vecchie cucine della tua patria, nelle strade
polverose, qualcosa si mormora e passa,
qualcosa torna alla fiamma del tuo adorato popolo,
qualcosa si desta e canta.
Sono i tuoi, sorella: quelli che oggi pronunciano il tuo nome,
quelli che da tutte le parti, dall’acqua, dalla terra,
col tuo nome altri nomi tacciamo e diciamo.
Perché non muore il fuoco.
TINA MODOTTI, ARTE VITA LIBERTÀ
EMIGRANTE, OPERAIA, ATTRICE, FOTOGRAFA NEL MESSICO DEGLI ANNI VENTI, ANTIFASCISTA, MILITANTE NEL MOVIMENTO COMUNISTA INTERNAZIONALE, PERSEGUITATA ED ESULE POLITICA, GARIBALDINA DI SPAGNA.
Nata a Udine il 17 agosto 1896 e deceduta a Città del Messico il 5 gennaio 1942.
Dopo l’improvvisa scomparsa, il riconoscimento della personalità umana, artistica e politica di Tina Modotti fu quasi immediato e per alcuni anni la sua vita e la sua opera restarono vive in buona parte dell’America latina. Poi cadde l’oblio, lungo di almeno trent’anni. Inquietanti cause di questo silenzio/rifiuto si possono trovare nel mondo reazionario, nel provincialismo, nel dilagante moralismo di questo secolo, contrari alla valorizzazione di una donna libera e inserita nel grande filone della cultura laica.
L’opera di Tina, che si trova in buona parte negli Stati Uniti, venne tenuta nascosta nei cassetti dei Dipartimenti di fotografia per la nefasta influenza del maccartismo che rese impossibile, per molti anni e non solo in America, lo studio e la presentazione di un’artista che aveva creato immagini di qualità e militato nel movimento comunista internazionale.
Anche la Sinistra storica non è esente da disattenzioni nei riguardi di questa friulana d’eccezione.
Oggi sappiamo che non esiste un artista di qualità e un militante di valore, come Tina Modotti, che sia stato trascurato per così lungo tempo dagli storici della fotografia e dalla storiografia politica. Tutto ciò è avvenuto nonostante le novità e il fascino che caratterizzano la sua avventura umana:la sua complessa esistenza appare, con il solo raccontarla, un romanzo.
Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina, nasce nel popolare Borgo Pracchiuso a Udine, da famiglia operaia aderente al socialismo della fine Ottocento. Il padre Giuseppe lavora come meccanico e carpentiere, mentre la madre Assunta Mondini fa la cucitrice. Diventa emigrante all’età di soli due anni, quando la famiglia si trasferisce nella vicina Austria per lavoro. Nel 1905 rientrano a Udine e Tina frequenta con ottimo profitto le prime classi della scuola elementare. A dodici anni, per contribuire al sostentamento della numerosa famiglia (sono in sei fratelli), lavora come operaia in una filanda. Apprende elementi di fotografia frequentando lo studio dello zio Pietro Modotti.
Il padre decide di partire per gli Stati Uniti, presto raggiunto da quasi tutta la famiglia. Tina arriva a San Francisco nel 1913, dove lavora in una fabbrica tessile e fa la sarta, frequenta le mostre, segue le manifestazioni teatrali e recita nelle filodrammatiche della Little Italy.
Durante una visita all’Esposizione Internazionale Panama-Pacific conosce il poeta e pittore Roubaix del’Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con cui si unisce nel 1917 e si trasferisce a Los Angeles. Entrambi amano l’arte e la poesia, dipingono tessuti con la tecnica del batik; la loro casa diventa un luogo d’incontro per artisti e intellettuali liberal. Tina nel 1920 si trova a Hollywood: interpreta The Tiger’s Coat, per la regia di Roy Clement e, in seguito, alcune parti secondarie in altri due film, Riding with Death e I can explain. Si tratta di una esperienza deludente, che decide di abbandonare per la natura troppo commerciale di quanto il cinema propone. Per la sua bellezza ed espressività viene ripresa in diverse occasioni dai fotografi Jane Reece, Johan Hagemayer e, soprattutto da Edward Weston con cui ben presto nascerà un legame sentimentale.
Il 9 febbraio 1922 Robo muore di vaiolo durante un viaggio in Messico. Tina arriva in tempo per i funerali e scopre, in questa triste occasione, un paese che a lungo l’affascinerà. Rientra a San Francisco per l’improvvisa morte del padre Giuseppe. Alla fine dell’anno scrive un omaggio biografico in ricordo del compagno, che verrà pubblicato nella raccolta di versi e prose The Book of Robo. A fine luglio 1923 Tina Modotti e Edward Weston (con il figlio Chandler) arrivano in Messico, si stabiliscono per due mesi nel sobborgo di Tacubaja e, quindi, nella capitale. Uniti da un forte amore, vivono entro il clima politico e culturale post-rivoluzionario, a contatto con i grandi pittori muralisti David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e Clemente Orozco, che appartengono al Sindacato artisti e sono i fondatori del giornale El Machete, portavoce della nuova cultura e, in seguito, organo ufficiale del Partito Comunista Messicano.
A contatto con la capacità e l’esperienza di Weston, Tina accelera l’apprendimento della fotografia e in breve tempo conquista autonomia espressiva; alla fine del 1924 un’esposizione delle loro opere viene inaugurata nel Palacio de Minerìa alla presenza del Capo dello Stato.
Fra il 1925 e il 1926, in tempi brevi e diversi, tornano a San Francisco, dove Tina incontra la madre ammalata, conosce la fotografa Dorothea Lange, acquista una camera Graflex. Rientrati in Messico intraprendono un viaggio di tre mesi nelle regioni centrali a raccogliere immagini per il libro di Anita Brenner Idols Behind Altars. Il loro legame affettivo si deteriora e Weston torna definitivamente in California; i contatti continueranno per alcuni anni in forma epistolare.
Tina vive con la fotografia ed esegue molti ritratti, si unisce al pittore e militante Xavier Guerrero (che ben presto andrà a Mosca alla scuola Lenin), aderisce al Partito Comunista, lavora per il movimento sandinista nel Comitato “Manos fuera de Nicaragua” e partecipa alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conosce Vittorio Vidali, rivoluzionario italiano ed esponente del Komintern. Tina trasforma il suo modo di fotografare, in pochi anni percorre un’esperienza artistica folgorante: dopo le prime attenzioni per la natura (rose, calli, canne di bambù, cactus, …) sposta l’obiettivo verso forme più dinamiche, quindi utilizza il mezzo fotografico come strumento di indagine e denuncia sociale, e le sue opere, comunque realizzate con equilibrio estetico, assumono di frequente valenza ideologica: esaltazione dei simboli del lavoro, del popolo e del suo riscatto (mani di operai, manifestazioni politiche e sindacali, falce e martello,…). Sue fotografie vengono pubblicate nelle riviste Forma, New Masses, Horizonte. In questo periodo conosce lo scrittore John Dos Passos e l’attrice Dolores Del Rio, ed entra in amicizia con la pittrice Frida Kahlo.
Nel settembre del 1928 diventa la compagna di Julio Antonio Mella, giovane rivoluzionario cubano, con cui Tina vive un amore profondo e al cui fianco intensifica il lavoro di fotografa impegnata e di militante politica. Nel frattempo il clima politico é molto cambiato, le organizzazioni comuniste vengono messe fuori legge: il 5 febbraio 1930 Tina viene ingiustamente accusata di aver partecipato a un attentato contro il nuovo capo dello Stato, Pasqual Ortiz Rubio, arrestata ed espulsa dal Messico. Si imbarca sul piroscafo olandese Edam, compie il viaggio fino a Rotterdam assieme a Vittorio Vidali e raggiunge Berlino, dove conosce Bohumìr Smeral, fondatore del Partito comunista di Cecoslovacchia, lo scrittore Egon Erwin Kisch e la fotografa Lotte Jacobi nel cui studio espone le opere che aveva portato con se dal Messico. tenta di riprendere l’attività fotografica, viene a contatto con le grandi novità dell’informazione giornalistica, specialmente con la stampa popolare di Willy Münzerberg: quotidiani e periodici come il prestigioso “Arbeiter – Illustrierte – Zeitung” che pubblica fotografie di Tina in diverse occasioni. In ottobre decide di partire per Mosca, dove la attende Vidali.
Nella capitale sovietica allestisce la sua ultima esposizione, lavora come traduttrice e lettrice della stampa estera, scrive opuscoli politici, ottiene la cittadinanza e diventa membro del partito; abbandona la fotografia per dedicarsi alla militanza nel Soccorso Rosso Internazionale. Fino al 1935 vive fra Mosca, Varsavia, Vienna, Madrid e Parigi, per attività di soccorso ai perseguitati politici. Nel luglio del 1936, quando scoppia le guerra civile spagnola, assume il nome di Maria e si trova a Madrid assieme a Vittorio Vidali, suo compagno da anni, che diventa Carlos J. Contreras, Comandate del Quinto Reggimento.
Durante tre anni di guerra, lavora negli ospedali e nei collegamenti, stringendo amicizia con altre combattenti come Maria Luisa Laffita, Flor Cernuda, Fanny Edelman, Maria Luisa Carnelli; si dedica ad attività di politica e cultura: scrive sull’organo del Soccorso Rosso Ayuda, nel 1937 a Valencia fa parte dell’organizzazione del Congresso internazionale degli intellettuali contro il fascismo e, assieme a Carlos, promuove la pubblicazione di Viento del Pueblo, poesia en la guerra con le opere del poeta Miguel Hernandez. Ha occasione di conoscere Robert Capa e Gerda Taro, Hemingway, Antonio Machado, Dolores Ibarruri, Rafael Alberti, Malraux, Norman Bethune e tanti altri della Brigate internazionali. Nel 1938 è tra gli organizzatori del Congreso Nacional de la Solidariedad che si tiene a Madrid. Durante la ritirata, con la Spagna nel cuore, aiuta i profughi che si avviano alla frontiera e si trova in pericolo sotto i bombardamenti. Arriva a Parigi con Vidali. Nonostante sia ricercata dalla polizia fascista, chiede alla sua organizzazione il permesso di trasferirsi in Italia per svolgere attività clandestina, ma le viene negato per la pericolosità della situazione politica.
Maria e Carlos, come tanti altri esuli, rientrano in Messico, dove il nuovo presidente Lazaro Cardenas annulla la precedente espulsione. Conducono un’esistenza difficile e Tina vive facendo traduzioni, si dedica al soccorso dei reduci, lavora nell'”Alleanza internazionale Giuseppe Garibaldi” e frequenta pochi amici, fra cui Anna Seghers e Constancia de La Mora.
Nella notte del 5 gennaio 1942, dopo una cena con amici in casa dell’architetto Hannes Mayer, Tina Modotti muore, colpita da infarto, dentro un taxi che la sta riportando a casa. Come già era accaduto dopo l’assassinio di Julio Antonio Mella, la stampa reazionaria e scandalistica cerca di trasformare la morte di Tina in un delitto politico e attribuisce responsabilità a Vittorio Vidali. Pablo Neruda, indignato per queste polemiche, scrive una forte poesia che viene pubblicata da tutti i giornali e contribuisce a tacitare lo “sciacallo” che
…sul gioiello del tuo corpo addormentato
ancora protende la penna e l’anima insanguinata
come se tu potessi, sorella, risollevarti
e sorridere sopra il fango.
I primi versi sono scolpiti sulla tomba di Tina che si trova al Pantheon de Dolores di Città del Messico. Lungo i decenni dopo la sua scomparsa, in altre occasioni sono stati messi in discussione avvenimenti della vita della Modotti. Soprattutto le circostanze della morte hanno sollecitato interpretazioni diverse, tentativi di scoop giornalistici, ambigue ricostruzioni televisive,… Ciò nonostante la biografia di Tina è rimasta sostanzialmente invariata, perché quelle prese di posizione non sono mai state sostenute da rigorose ricerche, da prove o da obiettive e attendibili testimonianze.
Fonte biografia – TINA MODOTTI, Vita e Fotografia – Biografia di Tina Modotti
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