Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
IL LAGER
“Visin dela città, soto coline
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ingarbuiate d’erba sgrendenà,
se quacia el campo di concentramento: tuto a torno na mura de cemento
e na corona rùsena de spine:
davanti, sul portòn de piombo e fero na gran parola impiturà de nero LAGER
E drento, su do file, blochi sgionfi
de slorda de fetori e de pioci.
In meso a le do file un largo spiasso,
in fondo de traverso, longo, basso, schissà par tera, el bloco dele cele
e, drio, la tore dele sentinele
pronte col mitra par spassar el campo.” Egidio Meneghetti, matr. 10568
EPITAFFIO PER UNA GIOVANE EBREA
Ela no l’è che du gran oci in sogno e quatro pori osseti
sconti da pele fiapa.
Ebreeta, cos’èlo che te speti
e ci vedeli mai quei oci grandi? forsi to mama? Forsi ti moroso? opura i buteleti
che mai te g’avarè?
Ebreeta, te vo’ morir de fame
e nela fame t’è desmentegado
quela note e sto mondo strangossado da tormenti e bisogni.
Te si scapà nel mondo dei to sogni: la fame ghe volea,
piccola ebrea,
per darte un poca de felicità. Ormai fora da l’onda
dei dolori,
lontàn te miri,
piàn piànin te mori
e caressa legera
de soriso
te consola la boca moribonda. Po’ te chini la facia
verso tera
sempre più,
sempre
più.
Stanote s’è smorsada l’ebreeta come ‘na candeleta
de seriola
consumà.
Stanote Missa e Oto ià butà
nela cassa
du grandi oci in sogno e quatro pori osseti sconti da pele fiapa.
E adesso nela cassa
ciodi i pianta
a colpi de martèl
e de bastiema
(drento ale cele tuti i cori trema
e i ciodi va a piantarse nel servèl).
Traduzione
Non è che due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia. Piccola ebrea, cos’è che aspetti? cosa vedono mai quegli occhi grandi? forse la mamma? forse il moroso? oppure i bimbi che non avrai? Piccola ebrea, vuoi morir di fame e nella fame hai scordato quella notte e questo mondo angosciato da tormenti e bisogni. Sei fuggita nel mondo dei tuoi sogni: ci voleva la fame, piccola ebrea, per darti un poco di felicità.
Ormai fuori dall’onda dei dolori, guardi da lontano, muori impercettibilmente e una carezza leggera di sorriso ti consola la bocca moribonda. Poi chini il viso verso terra, sempre più, sempre più. Stanotte s’è spenta la piccola ebrea, come una candelina di cera consumata. Stanotte Misha e Otto hanno gettato nella cassa due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia.
E adesso nella cassa piantano chiodi a colpi di martello e di bestemmia (dentro le celle ogni cuore trema e i chiodi si piantano nel cervello.
Professor Egidio Meneghetti
PER LA PICCOLA EBREA
Quel giorno che l’è entrada nela cela l’era morbida, bela
e parl’ amòr matura.
Ma nela facia, piena
de paura,
sbate du oci carghi de’n dolor
che’l se sprofonda in sècoli de pena.
I l’à butada
sora l’ tavolasso
i l’à lassada ‘
Sola, qualche giorno,
fin tanto che ‘na sera
Missa e Oto
i s’à inciavado nela cela nera
e i gh’e restà par una note intiera.
Te dala cela vièn par ore e ore
straco un lamento de butìn che more. Da quela note no l’à più parlà,
da quela note no l’à più magnà.
L’è la, cuciada in tera, muta, chiete, nel scuro dela cela
che la speta
de morir.
Traduzione
Quel giorno che entrò in cella era morbida, bella e per l’amore matura. Ma nel viso, pieno di paura, sbatte due occhi carichi di un dolore che si sprofonda in secoli di pena. L’hanno gettata sopra il tavolaccio, l’hanno lasciata sola, qualche giorno, finché una sera Misha e Otto si sono chiusi a chiave nella cella nera e ci sono rimasti una notte intera. E dalla cella viene per ore e ore un lamento stanco di bimbo morente. Da quella notte non ha più parlato, da quella notte non ha più mangiato. È là, accucciata in terra, muta, quieta, nel buio della cella che aspetta di morire.
Professor Egidio Meneghetti
Biografia di Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
Nel 1932, infine divenne direttore dell’istituto di farmacologia all’Università di Padova, dove rimase fino alla morte.
Il 16 dicembre 1943 perse la moglie e la figlia (Maria e Lina), morte nel bombardamento aereo della città di Padova. Entrambe si erano rifiutate di sfollare, nonostante il pericolo, per continuare ad aiutare Egidio nel lavoro segreto che aveva intrapreso. Fra le altre cose, proprio la sera precedente avevano distribuito manifesti clandestini a Padova nel quartiere Arcella. A loro dedicò il libro Scritti clandestini.
Fu rettore dell’Università di Padova nel periodo 1945 – 1947. Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche, diede contributi fondamentali nel settore dei chemioterapici. A lui è dedicata la biblioteca di medicina presso gli Istituti Biologici dell’Università di Verona.
Il 7 gennaio 1945 fu arrestato[1] assieme a Attilio Casilli, Giovanni Ponti, Angiolo Tursi, Luigi Martignoni e a don Giovanni Apolloni dai fascisti della Banda Carità, torturato e consegnato alla SS che lo portarono prigioniero dapprima a Verona presso il loro quartier generale e sede della Gestapo, in Corso Porta Nuova (presso l’ex Palazzo di I.N.A. Assicurazioni) e successivamente a Bolzano per l’invio ai lager di eliminazione in Germania.
Contemporaneamente erano presenti nelle celle di Verona altri partigiani fra cui il Prof. Ferruccio Parri, la signora Lidia Martini, il maggiore inglese Mc Donald e un giovane friulano studente di medicina presso l’Università di Bologna Ettore Savonitto, che diventò suo compagno di cella, fino alla loro liberazione avvenuta il 30 aprile 1945 presso il Campo di concentramento di Bolzano dove erano entrambi stati trasferiti. A causa dell’interruzione delle linee ferroviarie, pesantemente e frequentemente bombardate nel 1945, fu loro fortunosamente risparmiato il trasferimento verso i campi di sterminio tedeschi e polacchi.
A Ettore Savonitto ed altri due compagni di cella (il tipografo Mario e il fornaio Massimo) è dedicato il libro Lager-Bortolo e l’ebreeta, che descrive in dialetto veronese le brutalità del campo e del suo aguzzino Michael Seifert detto Misha e soprannominato “il boia di Bolzano”, successivamente arrestato dopo moltissimi anni di latitanza in Canada, da dove fu estradato nel 2008 per morire in detenzione al termine del 2010.
Giacomo Leopardi-Canti-A cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli
Giacomo Leopardi-Canti
Descrizione del libro-Giacomo Leopardi «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le piú terribili disperazioni, tuttavia ad un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggimento della vita, o nelle piú acerbe e mortifere disgrazie (sia che appartengano alle alte e forti passioni, sia a qualunque altra cosa); servono sempre di consolazione, riaccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta». Giacomo Leopardi
ET Classici
LXXIV – 448
€ 13,00
ISBN 9788806230043
A cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli
Giacomo LEOPARDI
La vita di Giacomo Leopardi in breve
Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798 da una famiglia nobile decaduta. Affidato dal padre Monaldo a precettori ecclesiastici, rivela doti eccezionali: a soli dieci anni sa tradurre all’impronta i testi classici e compone in latino.
Il rapporto coi genitori è molto difficile. Giacomo sta spesso da solo, studia nella grande biblioteca paterna, in dialogo muto con gli autori antichi. Tra il 1809 e il 1816 passa “sette anni di studio matto e disperatissimo”, durante i quali impara alla perfezione varie lingue, traduce i classici, compone opere erudite, studia poesia e filosofia. Questa vita solitaria e reclusa lo mina nel fisico e nello spirito.
Il 1816 è l’anno della “conversione letteraria”, passa dall’erudizione al bello e alla poesia. Invia le sue prime prove a Pietro Giordani, che lo incoraggia. Nel 1817 comincia a scrivere il suo diario infinito, lo Zibaldone (1817-1832) e scrive le prime canzoni civili.
Nel 1819 tenta di fuggire da casa, ma il padre lo ferma: Recanati è ora una prigione e il giovane cade in depressione. La produzione poetica però non ha sosta: compone gli Idilli (L’Infinito, Alla luna …) e le grandi canzoni civili.
Nel 1822 finalmente va a Roma dagli zii materni, ma il viaggio è deludente. Tornato a Recanati, nel 1823 scrive le Operette morali.
Nel 1825 è a Milano, dove lavora per l’editore Stella. In povertà, si sposta tra Bologna e Firenze, accolto nei circoli letterari e nei salotti mondani. Nel 1828 a Pisa ritrova la vena poetica che pareva perduta: inizia il ciclo dei Grandi Idilli.
Tra la fine del 1828 e il 1930 ritorna a Recanati. Ricorderà il periodo come “sedici mesi di notte orribile”, ma è allora che scrive alcuni tra i suoi canti più famosi: La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio…
Con l’aiuto di amici lascia per sempre il “natio borgo selvaggio” e va di nuovo a Firenze. Dall’amore non corrisposto con Fanny Targioni Tozzetti nasce Il ciclo di Aspasia. Nel 1832 sospende lo Zibaldone.
Nell’ottobre del 1833 si trasferisce a Napoli insieme all’amico Antonio Ranieri. Benché ormai molto provato nel fisico, partecipa alla vita culturale partenopea. A Torre del Greco, in fuga dal colera che imperversa in città, compone due tra le sue più grandi poesie: La ginestra o il fiore del deserto (1836) e Il tramonto della luna (1837), che costituiscono il suo testamento poetico e spirituale.
Muore a Napoli il 14 giugno 1837 e viene sepolto accanto all’amato Virgilio.
Quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31
La sera del 14 maggio 1931 a Bologna è in programma al Teatro Comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.
Lo schiaffo a Toscanini Bologna
Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Tra gli squadristi c’è il giovane Leo Longanesi (secondo I. Montanelli, ma per altri questa è “una leggenda senza conferma”).
Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità.
Il compositore Ottorino Respighi, media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa.
Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”.
Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nelle elezioni politiche del 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.
Il concerto in onore di Martucci sarà rifatto al Comunale sessanta anni dopo, il 14 maggio 1991, sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Approfondimenti
TOSCANINI, LA VERITA’ SUL FAMOSO SCHIAFFO -Archivio “la Repubblica”
BOLOGNA Due giorni di relazioni e concerti hanno infine riparato, a sessant’ anni dagli eventi, a quello schiaffo che Arturo Toscanini subì a Bologna, il 14 maggio del ‘ 31, ad opera di squadristi, per essersi rifiutato di dirigere al Teatro Comunale gli inni nazionali. Ch’ erano allora Giovinezza e Marcia Reale. Nel gesto riparatore si sono unite le due città di Bologna e di Parma. La prima ha ospitato martedì il convegno internazionale dedicato a Bologna per Toscanini, la seconda, nella giornata di ieri, una tavola rotonda. Entrambe, nei teatri Comunale e Regio, hanno ospitato il concerto che, diretto da Riccardo Chailly, ha visto Raina Kabaivanska e l’ Orchestra dell’ ente lirico bolognese interpretare quelle pagine di Giuseppe Martucci che Toscanini non poté eseguire. Punto di partenza dell’ indagine di storici e musicologi, alla quale si sono aggiunte le testimonianze di Walfredo Toscanini e Gottfried Wagner, è stato dunque l’ offesa al maestro. Luciano Bergonzini, che alla ricostruzione di quell’ ingiuria ha dedicato un saggio, pubblicato in questi giorni dal Mulino (Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’ inizio degli anni Trenta), ha esposto la sua tesi, che è sostanzialmente nuova. In sintesi, non furono i gerarchi del regime, primi fra tutti Leandro Arpinati, all’ epoca vicinissimo a Mussolini, e Mario Ghinelli, federale a Bologna, i promotori dell’ azione. Arpinati, piuttosto, tentò fino all’ ultimo di giungere ad una soluzione che sventasse lo scontro diretto, a un compromesso che permettesse il regolare svolgimento del concerto in memoria di Giuseppe Martucci, ben sapendo che Toscanini non avrebbe mai eseguito né la Marcia Reale, né Giovinezza, come prevedeva il protocollo. Di fatto, egli prese la decisione più semplice: Costanzo Ciano e lui non si sarebbero recati al Teatro Comunale. La serata avrebbe perso così il carattere ufficiale, liberando Toscanini da ogni obbligo. Inoltre, nonostante non sia tutt’ oggi facile giungere ad una conclusione definitiva sull’ argomento, tra gli aggressori non ci furono personalità di spicco del fascismo bolognese. Non c’ era certamente Ghinelli; assente probabilmente pure Leo Longanesi, che pure in seguito si sarebbe vantato d’ esser stato lui a colpire il musicista. Il suo ruolo, sempre secondo Bergonzini, sarebbe stato soltanto quello dell’ ispiratore attraverso articoli di giornale e discorsi. Rimane, invece, il sospetto che tutto abbia avuto origine all’ interno delle faide che andavano dividendo le gerarchie fasciste, e delle quali del resto sarà vittima lo stesso Arpinati. Se la proposta dello studioso bolognese fosse la ricostruzione più verosimile, allora lo schiaffo, la progettazione e l’ esecuzione dell’ aggressione sarebbero nate proprio da quel consenso al regime, che aveva trovato fertile terreno non solo nelle classi medie, ma anche in quelle subalterne urbane. Toscanini sarebbe loro apparso un vessillo da abbattere, incuranti di quanto si andava decidendo nelle sfere alte del regime. Constatazione questa che riaprirebbe una querelle mai risolta: quella del ruolo degli intellettuali, da un lato, e del sostegno che il fascismo seppe trovare, se pur distribuito in maniera disomogenea, nei più diversi strati della società italiana. Sul versante opposto, giustamente l’ accento è stato spostato dall’ offesa in sé, atto sempre vile, al gesto di Toscanini, a quel rifiuto del direttore d’ orchesta che costituisce, come ha sottolineato Harvey Sachs nel suo intervento conclusivo, un esempio raro, certamente poco imitato in quegli anni, di coraggio. Umanità della musica, definizione questa con la quale Sachs bene ha riassunto la forte componente etica dell’ arte toscaniniana, una componente che coniugava esigenze artistiche e convinzioni morali. Infine, l’ attenzione è tornata a volgersi alle pagine di Giuseppe Martucci, interpretate a Bologna e a Parma da Riccardo Chailly, sul podio dell’ Orchestra del Teatro Comunale, affidate alla voce di Raina Kabaivanska, La canzone dei ricordi. Pagine di un sinfonismo italiano ormai obliato che, Fiamma Nicolodi lo ha evidenziato tratteggiando l’ itinerario musicale del compositore, avvicina la tradizione tedesca romantica e tardo-romantica a quella francese, a Saint-Saens e a Franck. Difficile valutarne gli esiti. Nel ricostruire la storia dell’ Italia musicale non se ne può prescindere, però, giocando Martucci, e con lui gli Sgambati, i Mancinelli, i Bossi, un ruolo tutt’ altro che secondario.
Luciano Bergonzini, Bologna 14 maggio 1931: l’offesa al Maestro, in Toscanini. Atti del Convegno Bologna per Toscanini, 14 maggio 1991, a cura di L. Bergonzini, Bologna, CLUEB, 1992, p. 13 sgg.
Luciano Bergonzini, Lo schiaffo a Toscanini. Fascismo e cultura a Bologna all’inizio degli anni Trenta, Bologna, Il mulino, 1991
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Davide Daghia, Bologna insolita e segreta, Versailles, Jonglez, 2017, p. 229
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Le strade di Bologna. Una guida alfabetica alla storia, ai segreti, all’arte, al folclore (ecc.), a cura di Fabio e Filippo Raffaelli e Athos Vianelli, Roma, Newton periodici, 1988-1989, vol. 4., p. 902
Teatro Comunale di Bologna, testi di Piero Mioli, fotografie di Carlo Vannini, Bologna, Scripta Maneant, 2019, p. 146
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Viene considerato uno dei maggiori direttori d’orchestra di sempre, per l’omogeneità e la brillante intensità del suono, la grande cura dei dettagli, il perfezionismo e l’abitudine di dirigere senza partitura grazie a un’eccezionale memoria fotografica.[1][2] Viene ritenuto in particolare uno dei più autorevoli interpreti di Verdi, Beethoven, Brahms e Wagner.
Fu uno dei più acclamati musicisti della fine del XIX e della prima metà del XX secolo, acquisendo fama internazionale anche grazie alle trasmissioni radiofoniche e televisive e alle numerose incisioni come direttore musicale della NBC Symphony Orchestra. Refrattario in vita all’idea di ricevere premi e decorazioni di sorta (tanto da rifiutare la nomina a senatore a vita propostagli da Luigi Einaudi, vd. infra), a trent’anni dalla morte fu insignito del Grammy Lifetime Achievement Award.
Arturo Toscanini nacque a Parma, nel quartiereOltretorrente, il 25 marzo del 1867, figlio del sarto e garibaldinoClaudio Toscanini, originario di Cortemaggiore (in provincia di Piacenza), e della sarta parmense Paola Montani; il padre era un grande appassionato di arie d’opera, che intonava in casa con amici dopo averle apprese al Teatro Regio, che frequentava spesso da spettatore. Questa passione contagiò anche il piccolo Arturo; del suo talento si accorse non il padre, ma una delle sue maestre, una certa signora Vernoni, che, notando che memorizzava le poesie dopo una singola lettura senza mai più dimenticarle, gli diede gratuitamente le prime lezioni di solfeggio e pianoforte. Arturo dimostrò nuovamente memoria eccezionale, riuscendo a riprodurre al pianoforte musiche che aveva sentito anche soltanto canticchiare; la maestra Vernoni suggerì ai genitori l’iscrizione del figlio alla Regia Scuola di Musica, il futuro conservatorio di Parma.[2][4][5]
A nove anni Arturo Toscanini vi si iscrisse vincendo una borsa di studio non nell’adorato pianoforte, bensì in violoncello (divenendo allievo di Leandro Carini) e composizione (allievo di Giusto Dacci). Nel 1880, studente tredicenne, gli venne concesso per un anno di essere violoncellista nell’orchestra del Teatro Regio. Si diplomò nel 1885 con lode distinta e premio di 137,50 lire.[4][6][7][8][9][10]
Nel 1886 si unì come violoncellista e secondo maestro del coro a una compagnia operistica per una tournée in Sudamerica. In Brasile il direttore d’orchestra, il locale Leopoldo Miguez, in aperto contrasto con gli orchestrali abbandonò la compagnia dopo una sola opera (il Faust di Charles Gounod), con una dichiarazione pubblica ai giornali (che avevano criticato la sua direzione) nella quale imputava tutto al comportamento degli orchestrali italiani. Il 30 giugno 1886 la compagnia doveva rappresentare al Teatro Lirico di Rio de Janeiro l’Aida di Giuseppe Verdi con un direttore sostituto, il piacentinoCarlo Superti; Superti fu però pesantemente contestato dal pubblico e non riuscì neanche a dare l’attacco all’orchestra. Nel caos più totale Toscanini, incitato da alcuni colleghi strumentisti per la sua grande conoscenza dell’opera, prese la bacchetta, chiuse la partitura e incominciò a dirigere l’orchestra a memoria. Ottenne un grandissimo successo, iniziando così la carriera di direttore a soli 19 anni, continuando a dirigere nella tournée. Al ritorno in Italia, su consiglio e mediazione del tenore russo Nikolaj Figner, si presentò a Milano dall’editrice musicale Giovannina Strazza, vedova di Francesco Lucca, e venne scelto da Alfredo Catalani in persona per la direzione al Teatro Carignano di Torino per la sua opera Edmea, andata in scena il 4 novembre dello stesso 1886, ottenendo un trionfo e critiche entusiaste.[2][5][6][11]
Successivamente riprese per un breve periodo la carriera di violoncellista; fu secondo violoncello alla prima di Otello, diretta al Teatro alla Scala da Franco Faccio il 5 febbraio 1887, e per l’occasione ebbe modo di entrare in contatto con Giuseppe Verdi.[2][12][13]
Arturo Toscanini
Nel frattempo, prima di intraprendere a pieno ritmo la carriera di direttore d’orchestra, tra il 1884 e il 1888 Toscanini si era dedicato alla composizione di alcune liriche per voce e pianoforte. Si ricordano Spes ultima dea, Son gelosa, Fior di siepe, Desolazione, Nevrosi, Canto di Mignon, Autunno, V’amo, Berceuse per pianoforte.
Nel 1895, nel nome di Wagner, avvenne l’esordio da direttore al Teatro Regio di Torino, con il quale collaborò fino al 1898 e di cui, il 26 dicembre 1905, inaugurò la nuova sala con Sigfrido. Nel giugno 1898 iniziò a dirigere al Teatro alla Scala (fino al 1903 e nel 1906/1907), con il duca Guido Visconti di Modrone come direttore stabile, il librettista e compositore Arrigo Boito vice-direttore e Giulio Gatti Casazza amministratore. Toscanini divenne il direttore artistico del teatro milanese e, sulla scia delle innovazioni portate dal suo idolo Richard Wagner, si adoperò per riformare il modo di rappresentare l’opera, ottenendo nel 1901 quello che ai tempi era il sistema di illuminazione scenica più moderno e nel 1907 la fossa per l’orchestra;[15] pretese inoltre che le luci in sala venissero spente e che le signore togliessero i cappelli durante la rappresentazione, proibì l’ingresso agli spettatori ritardatari e rifiutò di concedere i bis; ciò creò non poco scompiglio, dato che i più consideravano il teatro d’opera anche come un luogo di ritrovo, per chiacchiere e far mostra di sé.[2][7] Come scrisse il suo biografo Harvey Sachs, “egli credeva che una rappresentazione non potesse essere artisticamente riuscita finché non si fosse stabilita un’unità di intenti tra tutti i componenti: cantanti, orchestra, coro, messa in scena, ambientazione e costumi”. Il 26 febbraio 1901, in occasione della traslazione delle salme di Giuseppe Verdi e di Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano a Casa Verdi, diresse 120 strumentisti e circa 900 voci nel Va, pensiero che non veniva eseguito alla Scala da vent’anni. Nel 1908 si dimise dalla Scala e dal 7 febbraio fu invitato a dirigere presso il teatro Metropolitan di New York, venendo molto contestato per la sua decisione di abbandonare l’Italia. Proprio durante tale esperienza Toscanini comincerà a considerare gli Stati Uniti d’America come la sua seconda patria.[7]
Schierato per l’interventismo, rientrò in patria nel 1915, all’ingresso dell’Italia in guerra, e si esibì esclusivamente in concerti di propaganda e beneficenza; dal 25 al 29 agosto 1917, per allietare gli animi dei combattenti, diresse una banda sul Monte Santo appena conquistato durante la battaglia dell’Isonzo; per tale atto venne decorato con una Medaglia d’argento al valor civile[16]. Subito dopo la fine della guerra, nel giro di pochissimi anni s’impegnò nella riorganizzazione dell’orchestra scaligera (con la quale era tornato a collaborare), che trasformò in ente autonomo.
Ancora per spirito patriottico, nel 1920 si recò a Fiume per dirigere un concerto e incontrare l’amico Gabriele D’Annunzio, che con i suoi legionari aveva occupato la città contesa dagli slavi e dal governo italiano[17].
Di idee socialiste, dopo un’iniziale condivisione del programma fascista, che lo aveva portato nel novembre 1919 a candidarsi alle elezioni politiche nel collegio di Milano nella lista dei fasci di combattimento con Benito Mussolini e Filippo Tommaso Marinetti senza venire eletto,[20] se ne allontanò a causa del progressivo spostamento verso l’estrema destra di Mussolini, divenendone un forte oppositore già da prima della marcia su Roma. Voce fermamente critica e stonata nella cultura omologata al regime, riuscì, grazie all’enorme prestigio internazionale, a mantenere l’Orchestra del Teatro alla Scala sostanzialmente autonoma nel periodo 1921-1929; al riguardo annunciò anche che si sarebbe rifiutato di dirigere la prima di Turandot dell’amico Giacomo Puccini se Mussolini fosse stato presente in sala (che invece poi diresse, in quanto il duce non si recò alla rappresentazione).
Per questi atteggiamenti di aperta ostilità al regime subì una campagna di stampa avversa sul piano artistico e personale, mentre le autorità disposero provvedimenti, come lo spionaggio su telefonate e corrispondenza e il ritiro temporaneo del passaporto a lui e famiglia; tutto ciò contribuì a mettere in pericolo la sua carriera e la sua stessa incolumità, come accadrà a Bologna.[21]
Il 14 maggio 1931, infatti, trovandosi nella città felsinea per dirigere al Teatro Comunale un concerto della locale orchestra in commemorazione di Giuseppe Martucci, Toscanini si rifiutò in partenza di far eseguire come introduzione gli inniGiovinezza e Marcia Reale al cospetto di Leandro Arpinati, Costanzo Ciano e vari altri gerarchi. Dopo lunghe negoziazioni, che il Maestro non volle accettare, si arrivò alla defezione di Arpinati e Ciano, alla perdita di ufficialità del concerto e, di conseguenza, alla non necessità di esecuzione degli inni. Toscanini, al suo arrivo in auto al teatro in compagnia della figlia Wally, in ritardo a causa delle negoziazioni, appena sceso, fu assalito da un folto gruppo di fascisti, venendo schiaffeggiato sulla guancia sinistra, si presume dalla camicia nera Guglielmo Montani, e colpito da una serie di pugni a viso e collo; fu messo in salvo dal suo autista, che lo spinse in macchina, affrontò brevemente gli aggressori e poi ripartì. Il gruppo di fascisti giunse poi all’albergo dove era alloggiato il Maestro e gli intimò di andarsene immediatamente; verso le ore 2 della notte, dopo aver dettato un durissimo telegramma di protesta a Mussolini in persona in cui denunciava di essere stato aggredito da “una masnada inqualificabile” (telegramma che non avrà risposta), avendo persino rifiutato di farsi visitare da un medico, partì in auto da Bologna diretto a Milano, mentre gli organi fascisti si preoccupavano che la stampa, sia italiana sia estera, non informasse dell’accaduto. Da quel momento Toscanini visse principalmente a New York; per qualche anno tornò regolarmente a dirigere in Europa, ma non in Italia, dove tornò in maniera saltuaria solamente dopo la seconda guerra mondiale, a seguito del ripristino di un governo democratico. Nondimeno, i dischi da lui incisi con orchestre statunitensi e inglesi per la casa discografica La voce del padrone non furono sottoposti a censura da parte del regime di Mussolini e rimasero regolarmente in catalogo fino al 1942 e oltre. [21][22][23][24][25]
Arturo Toscanini
Nel 1933 infranse i rapporti anche con la Germania nazista, rispondendo con un rifiuto duro e diretto a un invito personale di Adolf Hitler a quello che sarebbe stato il suo terzo Festival di Bayreuth.[26] Le sue idee avverse al nazismo e all’antisemitismo che esso perseguiva lo portarono fino in Palestina, dove il 26 dicembre 1936 fu chiamato a Tel Aviv per il concerto inaugurale dell’Orchestra Filarmonica di Palestina (ora Orchestra Filarmonica d’Israele), destinata ad accogliere e a dare lavoro ai musicisti ebrei europei in fuga dal nazismo, che diresse gratuitamente.[27] Nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria da parte della Germania, abbandonò anche il Festival di Salisburgo, nonostante fosse stato caldamente invitato a rimanere. Nello stesso anno inaugurò il Festival di Lucerna (per l’occasione molti, soprattutto antifascisti, vi andarono dall’Italia per seguire i suoi concerti); inoltre, quando anche il governo italiano, in linea con l’alleato tedesco, adottò una politica antisemita promulgando le leggi razziali del 1938, Toscanini fece infuriare ulteriormente Mussolini definendo tali provvedimenti, in un’intercettazione telefonica che gli causò un nuovo temporaneo ritiro del passaporto, “roba da Medioevo“. Ribadì inoltre in una lettera all’amante, la pianistaAda Colleoni: “maledetti siano l’asse Roma-Berlino e la pestilenziale atmosfera mussoliniana”.[21][28]
L’anno successivo, anche a seguito della sempre più dilagante persecuzione razziale, abbandonò totalmente l’Europa, spostandosi negli Stati Uniti d’America.
Dagli States continuò a servirsi della musica per lottare contro il fascismo e il nazismo e si adoperò per cercare casa e lavoro a ebrei, politici e oppositori perseguitati e fuoriusciti dai regimi;[27] l’Università di Georgetown, a Washington, gli conferì una laurea honoris causa. Per lui, inoltre, nel 1937 era stata appositamente creata la NBC Symphony Orchestra, formata da alcuni fra i migliori strumentisti presenti negli Stati Uniti, che diresse regolarmente fino al 1954 su radio e televisioni nazionali, divenendo il primo direttore d’orchestra ad assurgere al ruolo di stella dei mass media.
«(…) sento la necessità di dirle quanto l’ammiri e la onori. Lei non è soltanto un impareggiabile interprete della letteratura musicale mondiale (…). Anche nella lotta contro i criminali fascisti lei ha mostrato di essere un uomo di grandissima dignità. Sento pure la più profonda gratitudine per quanto avete fatto sperare con la vostra opera di promozione di valori, inestimabile, per la nuova Orchestra di Palestina di prossima costituzione. Il fatto che esista un simile uomo nel mio tempo compensa molte delle delusioni che si è continuamente costretti a subire”[29]»
Durante la seconda guerra mondiale diresse esclusivamente concerti di beneficenza a favore delle forze armate statunitensi e della Croce Rossa, riuscendo a raccogliere ingenti somme di denaro. Si adoperò anche per la realizzazione di un filmato propagandistico nel quale dirigeva due composizioni di Giuseppe Verdi dall’alto valore simbolico: l’ouverture della Forza del destino e l’Inno delle Nazioni, da lui modificato variando in chiave antifascista l’Inno di Garibaldi e inserendovi l’inno nazionale statunitense e L’Internazionale. Nel 1943 il Teatro alla Scala, sui cui muri esterni erano state scritte frasi come “Lunga vita a Toscanini” e “Ritorni Toscanini“, venne parzialmente distrutto durante un violento bombardamento da parte di aereialleati; la ricostruzione avvenne in tempi rapidi, grazie anche alle notevoli donazioni versate dal Maestro.
Il 13 settembre 1943 la rivista statunitense Life pubblicò un lungo articolo di Arturo Toscanini dal titolo Appello al Popolo d’America. L’articolo era in precedenza un’accorata lettera privata di Toscanini al presidente americanoFranklin Delano Roosevelt.
«Le assicuro, caro presidente, – scrive Toscanini – che persevero nella causa della libertà la cosa più bella cui aspira l’umanità (…) chiediamo agli Alleati di consentire ai nostri volontari di combattere contro gli odiati nazisti sotto la bandiera italiana e in condizioni sostanzialmente simili a quelle dei Free French. Solo in questo modo noi italiani possiamo concepire la resa incondizionata delle nostre forze armate senza ledere il nostro senso dell’onore. (…)»
Toscanini non aveva in simpatia la posizione ambivalente di Richard Strauss durante la seconda guerra mondiale e dichiarò al riguardo: “Di fronte allo Strauss compositore mi tolgo il cappello; di fronte all’uomo Strauss lo reindosso”.[30]
Il ritorno
Arturo Toscanini
L’11 maggio 1946 il settantanovenne Toscanini ritornò in Italia, per la prima volta dopo quindici anni, per dirigere lo storico concerto di riapertura del Teatro alla Scala, ricordato come il concerto della liberazione, dedicato in gran parte all’opera italiana, e probabilmente per votare a favore della Repubblica. Quella sera il teatro si riempì fino all’impossibile: il programma vide l’ouverture de La gazza ladra di Rossini, il coro dell’Imeneo di Händel, il Pas de six e la Marcia dei Soldati dal Guglielmo Tell e la preghiera dal Mosè in Egitto di Rossini, l’ouverture e il coro degli ebrei del Nabucco, l’ouverture de I vespri siciliani e il Te Deum di Verdi, l’intermezzo e alcuni estratti dall’atto III di Manon Lescaut di Puccini, il prologo e alcune arie dal Mefistofele di Boito. In quell’occasione esordì alla Scala il soprano Renata Tebaldi, definita da Toscanini “voce d’angelo”.
Alla Scala fu direttore di altri tre spettacoli: il concerto commemorativo di Arrigo Boito, comprendente la Nona sinfonia di Beethoven, nel 1948, la Messa di requiem di Verdi nel 1950 ed infine un concerto dedicato a Wagner nel settembre 1952.
Il 5 dicembre 1949 venne nominato senatore a vita dal Presidente della RepubblicaLuigi Einaudi per alti meriti artistici, ma decise di rinunciare alla carica il giorno successivo, inviando da New York il seguente telegramma di rinuncia:
«È un vecchio artista italiano, turbatissimo dal suo inaspettato telegramma che si rivolge a Lei e la prega di comprendere come questa annunciata nomina a senatore a vita sia in profondo contrasto con il suo sentire e come egli sia costretto con grande rammarico a rifiutare questo onore. Schivo da ogni accaparramento di onorificenze, titoli accademici e decorazioni, desidererei finire la mia esistenza nella stessa semplicità in cui l’ho sempre percorsa. Grato e lieto della riconoscenza espressami a nome del mio paese pronto a servirlo ancora qualunque sia l’evenienza, la prego di non voler interpretare questo mio desiderio come atto scortese o superbo, ma bensì nello spirito di semplicità e modestia che lo ispira… accolga il mio deferente saluto e rispettoso omaggio.»
Addio alle scene e morte
Toscanini si ritirò a 87 anni, ponendo fine a una straordinaria carriera duratane 68;[4] rese tuttavia nota la sua volontà di lasciare il podio solo a familiari e amici, volendo evitare di ricevere eccessive celebrazioni pubbliche.[31]
Per il suo ultimo concerto, interamente dedicato a Wagner, compositore sempre molto amato, diresse la NBC Symphony Orchestra il 4 aprile 1954 alla Carnegie Hall di New York, in diretta radiofonica. Proprio in occasione di quell’ultima esibizione il Maestro, celebre anche, come già accennato, per la sua straordinaria memoria ed il suo perfezionismo maniacale (caratteristiche che, insieme al suo carattere irascibile ed impulsivo, lo portavano regolarmente ad infuriarsi quando l’esecuzione non risultava esattamente come lui voleva), mentre dirigeva il brano dell’opera Tannhäuser, per la prima volta perse la concentrazione e smise di battere il tempo.
Ritratto di Arturo Toscanini, direttore d’orchestra (1867-1957). Foto di Leone Ricci, Milano.
Toscanini rimase immobile per ben 14 secondi ed i tecnici radiofonici fecero immediatamente scattare un dispositivo di sicurezza che trasmise musica di Brahms[31], una reazione a posteriori giudicata eccessiva e forse dettata dal panico, laddove l’orchestra in realtà non aveva mai smesso di suonare. Il Maestro si ricompose e riprese a dirigere normalmente fino alla fine del concerto, dopodiché si ritirò rapidamente nel proprio camerino, mentre in teatro gli applausi sembravano non smettere più.[32]
Nel dicembre del 1956, debilitato da problemi di salute legati all’età, espresse il desiderio di trascorrere il Capodanno con tutta la famiglia. Il figlio Walter organizzò quindi una grande festa a New York con figli, nipoti, vari parenti e amici; a mezzanotte il Maestro, insolitamente allegro ed energico, volle abbracciare tutti uno per uno, poi intorno alle due andò a letto. Al mattino di Capodanno del 1957, alzatosi attorno alle 7, si recò in bagno e quando ne uscì stramazzò al suolo, colpito da una trombosi cerebrale.[31]
Toscanini rimase in agonia per 16 giorni e morì alle soglie dei 90 anni, nella sua casa newyorkese di Riverdale, il 16 gennaio 1957; la salma ritornò il giorno dopo in Italia con un volo diretto all’Aeroporto di Ciampino, a Roma, e venne accolta all’arrivo da una folla di persone. Da lì fu traslata a Milano: la camera ardente e il funerale furono allestiti presso il Teatro alla Scala e la gente salì anche sui tetti degli edifici circostanti per poter vedere qualcosa.
Composto da una marea di persone, il corteo funebre si avviò verso il Cimitero Monumentale di Milano, dove il Maestro venne tumulato nell’Edicola 184 del Riparto VII, la tomba di famiglia precedentemente edificata alla morte del figlioletto Giorgio dall’architetto Mario Labò e dallo scultore Leonardo Bistolfi, con tematiche rappresentanti l’infanzia e il viaggio per mare (Giorgio era morto di una difterite fulminante a Buenos Aires mentre seguiva il padre in tournée ed era ritornato a Milano defunto in nave).[33][34][35][36][37] Nella stessa cappella hanno ricevuto sepoltura il padre del Maestro, Claudio, la sorella Zina, gli altri tre figli del Maestro (Walter, Wanda, Wally), la moglie Carla, l’insigne pianista Vladimir Horowitz (1903-1989), marito di Wanda, la loro figlia Sophie Horowitz (1934-1975), la ballerina Cia Fornaroli (1888-1954), moglie del figlio Walter, e il nipote Walfredo Toscanini (1929-2011), figlio di Walter e della Fornaroli e ultimo discendente diretto maschio del Maestro.
Il nome di Arturo Toscanini si è successivamente meritato l’iscrizione al Famedio del medesimo cimitero.[38]
Vita privata
Arturo era il primogenito e dopo di lui i genitori ebbero tre figlie: Narcisa (1868-1878), Ada (1875-1955) e Zina (1877-1900).[39][40]
Arturo Toscanini con la figlia Wally, 1955
Toscanini sposò la milanese Carla De Martini (nata nel 1877) a Conegliano il 21 giugno 1897; la moglie diverrà sua manager.[2][31] Ebbero quattro figli: Walter, nato il 19 marzo 1898 e morto il 30 luglio 1971, storico e studioso del balletto, che sposò la celebre prima ballerinaCia Fornaroli;[41][42] Wally, nata il 16 gennaio del 1900, chiamata come la protagonista dell’ultima opera dell’amico scomparso Alfredo Catalani, La Wally[43], nel corso della seconda guerra mondiale elemento importante della Resistenza italiana e successivamente fondatrice di un’associazione per la ricostruzione del Teatro alla Scala distrutto dai bombardamenti alleati, nonché moglie del conte Emanuele di Castelbarco e celebre animatrice del jet set internazionale,[43][44][45] morta l’8 maggio 1991; il predetto Giorgio, nato nel settembre 1901 e morto di difterite il 10 giugno 1906; Wanda Giorgina, nata il 7 dicembre del 1907, diventata celebre per avere sposato il pianistarusso e amico di famiglia Vladimir Horowitz, morta il 21 agosto 1998.[31][37][46][47]
Il 23 giugno 1951 la moglie morì a Milano e Toscanini rimase vedovo.[48]
Toscanini ebbe varie relazioni extraconiugali, ad esempio con il soprano Rosina Storchio, dalla quale nel 1903 ebbe il figlio Giovanni Storchio, nato cerebroleso e morto sedicenne il 22 marzo 1919,[49][50] e con il soprano Geraldine Farrar, che avrebbe voluto imporgli di lasciare moglie e figli per sposarla; il Maestro non gradì l’ultimatum e, per tale motivo, nel 1915 si dimise da direttore d’orchestra principale del Metropolitan e ritornò in Italia. Ebbe anche una relazione durata sette anni (dal 1933 al 1940) con la pianista Ada Colleoni, amica delle figlie e divenuta moglie del violoncellista Enrico Mainardi; tra i due, nonostante vi fossero trent’anni di differenza, nacque un profondo legame, come risulta da una raccolta di circa 600 lettere e 300 telegrammi che il Maestro le inviò.[51][52][53]
Era un appassionato intenditore e collezionista d’arte, nonché conoscente o amico di molti pittori; secondo il nipote Walfredo, la sua collezione nella casa milanese di via Durini arrivava a contare fino a 200 quadri[31].
Critica
Toscanini fu pressoché idolatrato dalla critica finché fu in vita; la RCA Victor, che l’aveva sotto contratto, non si faceva problemi a definirlo il miglior direttore d’orchestra mai esistito. Tra i suoi sostenitori non vi erano solo i critici musicali, ma anche musicisti e compositori: un parere d’eccezione viene da Aaron Copland.[54]
Tra le critiche che gli furono mosse spicca quella “revisionista”, secondo la quale l’impatto di Toscanini sulla musica americana è da giudicare in definitiva più negativo che positivo, poiché il Maestro prediligeva la musica classica europea a quella a lui contemporanea. Tale bacchettata venne dal compositore Virgil Thomson, il quale deprecò la poca attenzione di Toscanini per la musica “contemporanea”. Va tuttavia sottolineato come Toscanini abbia speso parole d’ammirazione per compositori a lui senz’altro contemporanei, quali Richard Strauss e Claude Debussy, di cui diresse e incise la musica. Altri compositori attivi nel XX secolo i cui brani furono eseguiti sotto la direzione di Toscanini furono Paul Dukas (L’apprendista stregone), Igor’ Stravinskij (Le rossignol e la Suite da Petruška), Dmitrij Shostakovich (sinfonie numero 1 e 7) e George Gershwin, del quale diresse i tre lavori maggiori (Rapsodia in Blu, Un americano a Parigi e il Concerto in Fa).
Un’altra critica spesso mossa a Toscanini è quella di essere troppo “metronomico”, cioè di battere il tempo fin troppo rigidamente, senza mai distaccarsi dalle partiture. Questa sua caratteristica gli valse la rivalità di Wilhelm Furtwängler, caratterizzato da un modo di dirigere totalmente opposto a quello del Maestro italiano; i due si detestarono per anni e non ne fecero mistero.
Nota è l’aspra discussione sorta fra Toscanini e Maurice Ravel in relazione ai tempi della partitura del celebre Boléro del compositore francese.[55] Alla prima esecuzione a New York, il 4 maggio 1930, infatti, il direttore affrettò il tempo, dirigendo due volte più velocemente di quanto indicato, per poi allargarlo nel finale. Ravel gli ricordò che il brano andava eseguito con un unico tempo, dall’inizio alla fine, e che nessuno poteva prendersi certe libertà (lo stesso compositore, dopo la prima esecuzione, aveva anche fatto preparare un avviso che imponeva di eseguire il Boléro in modo tale che durasse esattamente diciassette minuti), e Toscanini gli rispose: “Se non la suono a modo mio, sarà senza effetto”, risposta che Ravel commentò dicendo: “i virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.[56]
Francobollo emesso nel 2007 nel 50º anniversario della morte Francobollo della Repubblica di San Marino che celebra Arturo Toscanini, sempre per il 50° dalla morte
Toscanini registrò 191 dischi, specialmente verso la fine della carriera, molti dei quali sono ancora ristampati. Inoltre sono conservate molte registrazioni di esibizioni televisive e radiofoniche. Particolarmente apprezzate sono quelle dedicate a Beethoven, Brahms, Wagner, Richard Strauss, Debussy tra gli stranieri, Rossini, Verdi, Boito e Puccini tra gli italiani.
I beni che documentano la vita di Toscanini sono stati dati dai suoi eredi a istituzioni pubbliche italiane e statunitensi. A New York presso la New York Public Library si conservano molte delle partiture annotate e la rassegna stampa degli eventi che videro protagonista il Maestro; alcuni documenti sono invece conservati presso la Fondazione Arturo Toscanini di Parma; a Milano si trovano documenti presso l’archivio del Museo Teatrale alla Scala, l’Archivio di Stato e il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi”; il 19 dicembre 2012 vi fu un’asta su lotti di lettere e spartiti del Maestro: tutto ciò rischiava di andare disperso, ma 60 lotti su 73 andarono all’Archivio di Stato[61].
^ D’Annunzio gli aveva scritto: “Venga a Fiume d’Italia, se può. È qui oggi la più risonante aria del mondo e l’anima del popolo è sinfonia come la sua orchestra”.
^ Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get (i suoi resti attualmente riposano al Cimitero Maggiore di Milano nella celletta 729 del Riparto 211).
^ Enzo Restagno, Ravel e l’anima delle cose, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag.34
^ Da un’intervista di Dimitri Calvocoressi a Ravel per il Daily Telegraph dell’11 luglio 1931, in Maurice Ravel. Lettres, écrits, entretiens Ed. Flammarion, Parigi, 1989
^ Un singolare aneddoto è legato alla prima di quest’opera, che esordì incompleta e postuma alla morte di Puccini. Toscanini interruppe infatti l’esecuzione a metà del terzo atto, all’ultima pagina completata dall’autore; alcuni testimoni riportano che, voltatosi verso il pubblico, il direttore affermò: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». Toscanini non diresse mai più la Turandot, tanto meno nella versione completata da Franco Alfano (di cui egli fu, peraltro, promotore, nonché recensore avendone bocciata una prima versione, presso l’editore Ricordi di Milano). Vd. Julian Budden, Puccini, traduzione di Gabriella Biagi Ravenni, Roma, Carocci Editore, 2005, ISBN 88-430-3522-3, pp. 458s.
Marco Capra (a cura di), Toscanini. la vita e il mito di un Maestro immortale, Milano, Rizzoli, 2017
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Arturo Toscanini, Lettere (The Letters of Arturo Toscanini. Compiled, edited and selected by Harvey Sachs, Knopf, 2002), traduzione di Maria Cristina Reinhart, a cura di Harvey Sachs, Milano, Il Saggiatore, 2017 [col titolo Nel mio cuore troppo d’assoluto: le lettere di Arturo Toscanini, Saggi Garzanti, 2003], ISBN978-88-428-2344-5.
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Abbazia di FARFA -Abbazia benedettina situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’Abbazia di Farfa – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
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Archeologia
Il complesso medievale dell’abbazia di F. fu quasi completamente demolito poco prima del 1500, quando gli Orsini la ricostruirono. Agli inizi del Novecento, dell’epoca medievale si conservavano soltanto due strutture: un campanile, adiacente alla chiesa di età successiva, e una torre più robusta, il c.d. torrione.Il primo tentativo di recuperare i resti degli edifici di epoca medievale fu quello di Schuster (1921). Riconosciuto il campanile come una delle poche strutture medievali conservate in alzato, nel desiderio di ritrovare l’oratorio costruito dall’abate Sicardo (830-842) egli si persuase che il piano inferiore del campanile fosse una cripta.Altri scavi furono condotti nel 1927 (Markthaler, 1928) e nel 1936 (Croquison, 1938). Markthaler, partendo dall’identificazione di Schuster e dal fatto che l’oratorio era adiacente alla chiesa abbaziale, ipotizzò correttamente che l’antica chiesa si trovasse sul lato nordoccidentale del campanile; a una distanza di m. 30 ca. in direzione N-O scoprì poi una cripta. Invece di trarre le ovvie conclusioni (cioè che questa cripta e non la torre fosse il sito dell’oratorio), Croquison la ritenne estranea a Sicardo e pertinente invece a una chiesa ancora più antica, la cui navata doveva essere perpendicolare rispetto a quella della chiesa dell’epoca degli Orsini.I restauri del 1959-1962, effettuati dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio (Franciosa, 1964), hanno dimostrato come la muratura medievale si sia conservata in tutta la sua altezza all’estremità orientale della chiesa rinascimentale, adiacente al campanile, mentre i saggi al di sotto del pavimento dell’edificio attuale hanno rivelato i muri e un elaborato pavimento in opus sectile pertinente alla navata altomedievale, disposti perpendicolarmente a essa. Al di sopra del livello pavimentale si conserva una piccola parte del muro altomedievale con il ritratto dipinto di un abate, forse Altberto (m. nel 790 ca.). A S della navata sono state scoperte le fondazioni di un muro massiccio e una struttura turriforme, in origine con una scala a chiocciola. Poiché l’abate Ugo all’inizio del sec. 11° descrisse F. come una città munita di mura (Destructio monasterii Farfensis), si è ipotizzato che il muro e la torre facessero parte di una cinta difensiva a protezione dell’abbazia. I più importanti oggetti mobili portati alla luce dagli scavi sono un sarcofago in marmo con una scena di battaglia e l’epitaffio dell’abate Sicardo (Franciosa, 1964).Le fonti scritte, le scoperte archeologiche e le strutture dell’abbazia ancora conservate in alzato sono state più di recente analizzate da McClendon (1980) il quale ha tratto due importanti conclusioni. Innanzi tutto, il campanile non è del sec. 9°, ma dell’11°, come permette di stabilire il confronto con la torre campanaria di S. Scolastica a Subiaco, del 1053. In effetti McClendon ha reinterpretato la torre e le strutture adiacenti come terminazione orientale della chiesa medievale, consistente in un presbiterio rettangolare costruito nel sec. 11° e in origine fiancheggiato da campanili gemelli. Secondo l’archeologo, inoltre, la cripta non è del sec. 8°, ma del 9°, come testimonia la forte somiglianza tra la cripta (e il transetto al di sopra di essa) e la terminazione orientale di S. Prassede a Roma, costruita da papa Pasquale I (817-824) soltanto un decennio prima che Sicardo divenisse abate di F.: si tratterebbe dunque della cripta dell’oratorio di Sicardo.Il primo obiettivo dei più recenti scavi condotti dalla British School at Rome tra il 1978 e il 1985 è stato quello di studiare le due strutture immediatamente all’esterno dell’oratorio, scoperte da Croquison (1938): un muro curvilineo posto a m. 3 all’esterno dell’abside che conteneva la cripta e uno rettilineo emergente dall’angolo del transetto. Nell’ultima campagna è stata scavata quasi tutta l’area tra la cripta e il c.d. torrione, area nella quale attualmente mancano costruzioni, ma dove in precedenza si trovava un grande edificio identificato come il palazzo tardomedievale e rinascimentale del cardinale-abate che amministrava i beni dell’abbazia.Nelle prime fasi degli scavi sembrava che l’edificazione del palazzo avesse cancellato ogni altro edificio preesistente; fortunatamente però nella costruzione del palazzo erano state riutilizzate strutture dell’8° e 9° secolo.Il muro concentrico alla cripta della chiesa medievale scoperto da Croquison, nuovamente scavato, è risultato essere il muro esterno di un ambulacro semicircolare costruito intorno all’abside; realizzato in due periodi diversi, l’ambulacro conteneva alcune tombe, evidentemente di importanti personaggi seppelliti il più vicino possibile alla cripta. La terminazione nordoccidentale della chiesa abbaziale altomedievale quindi consisteva di un transetto con un’abside, al di sotto della quale si trovava una cripta anulare. Adiacente all’abside, a livello della cripta, era un ambulacro semicircolare contenente sepolture. L’ambulacro è elemento del tutto estraneo alla tradizione costruttiva architettonica romana e i confronti più diretti possono essere istituiti con esempi transalpini, come Fulda, dove l’abate Ratgerio (802-817) aveva progettato un transetto, con abside e ambulacro concentrici, consacrato nell’819; da questi esempi deriva la formulazione di F., dove, oltre alle connessioni politiche con l’ambiente carolingio, si erano succeduti alla fine del sec. 8° abati di origine transalpina, come Ragambaldo, Altberto e Mauroaldo, mentre gli abati Benedetto (802-815) e Ingoaldo (815-830) avevano soggiornato rispettivamente a Francoforte e ad Aquisgrana.L’area prospiciente l’oratorio ha una storia complessa: nel sec. 12° o 13° era adibita a giardino e in seguito a cortile della stalla del palazzo del cardinale, ma, prima del sec. 12°, era uno spazio aperto con al centro un pozzo o una cisterna e varie tombe. Dopo un periodo di abbandono, durante il quale subì alla sommità una sensibile erosione, il pozzo-cisterna fu riempito deliberatamente con terra e pietrisco in cui sono state ritrovate due monete dell’imperatore Enrico II (1002-1024).Per spiegare questi elementi si deve considerare il secondo muro scoperto da Croquison, che partiva dall’angolo nordoccidentale del transetto. Gli scavi del 1978-1985 hanno dimostrato che esso si estendeva a O per m. 23; questo provava che vi erano state tre fasi costruttive e che rimaneva abbastanza per mostrare che il muro più antico terminava a m. 18 dal transetto e quindi girava verso N; a m. 3 a N del muro di Croquison vi era una struttura parallela, per la quale potevano essere provate quattro fasi costruttive anteriori al 15° secolo. L’area tra le due strutture parallele presentava numerose tombe al di sotto di un pavimento di calcare.È importante notare che la prima fase di costruzione è più antica dell’edificazione dell’ambulacro esterno alla cripta. Ciò mostra come lo spazio aperto sia anteriore alla costruzione dell’oratorio di Sicardo, che emerge come una struttura monumentale aggiunta alla chiesa abbaziale, occupando negli anni trenta del sec. 9° un terzo dell’area aperta. A parziale compensazione la facciata originale dell’atrio fu sostituita da una nuova struttura spostata di m. 2 a O, testimonianza dell’estensione del portico.Non ci sono prove archeologiche per la datazione di questo spazio aperto; è possibile comunque che la Constructio monasterii Farfensis contenga un indizio nella notizia di una visita a F. nel 705 del duca Faroaldo di Spoleto, la cui scorta aveva scaricato il proprio bagaglio in atrio. Se la parola atrium ha in questo caso un significato letterale, ci si può chiedere se tale atrio facesse parte dell’originario edificio costruito da Tommaso di Morienna verso la fine del 7° secolo.L’interpretazione di queste strutture è ancora incerta. Lo spazio aperto di fronte all’ambulacro dovrebbe essere un atrio attraverso il quale, prima della costruzione dell’oratorio di Sicardo, si entrava nella chiesa. Le strutture parallele dovrebbero consistere in un portico racchiudente il lato sudoccidentale, costituito verso l’interno da un colonnato e verso l’esterno da un muro continuo. Secondo un’ipotesi diversa l’accesso alla chiesa altomedievale sarebbe avvenuto dall’altra estremità e lo spazio aperto sarebbe stato un chiostro o un analogo complesso situato non davanti, ma oltre la chiesa carolingia.Adiacente al lato sudoccidentale dell’atrio-chiostro era un ampio ambiente rettangolare, al quale si addossava un altro più stretto. Si tratta di una struttura in origine molto accurata, con pitture murali almeno sui lati nordorientale e sudoccidentale. All’estremità sudorientale si trovava un ampio ingresso assiale, la cui soglia si conserva al di sotto di ricostruzioni successive. Per quanto è possibile vedere non vi erano aperture nel muro nordoccidentale, né accessi dall’atrio-chiostro; un ingresso sul muro meridionale conduceva alla struttura adiacente. L’ambiente fu modificato in varie occasioni: la prima fase inglobava i resti di muri che sono tardo-romani o altomedievali; nella seconda fase i muri furono nuovamente decorati. In seguito venne costruita una coppia di pilastri contrapposti forse per sostenere un arco, mentre il muro occidentale fu rinforzato. Evidentemente i muri dovevano sostenere un ulteriore peso e la spiegazione più probabile è che sia stato costruito un piano superiore. Contemporaneamente venne aperto un passaggio sul muro nordoccidentale che metteva in comunicazione il grande ambiente con una struttura di dimensioni ancora maggiori, il c.d. torrione, a m. 5 più a O. A una data sconosciuta nell’ampia stanza venne aggiunto un pavimento a mosaico in opus sectile, del quale si è conservato un piccolo frammento.L’ambiente grande e quello più piccolo che vi si addossava, in comunicazione tra loro grazie a un passaggio, costituivano una struttura unica di cui non è accertata la data di costruzione. La decorazione dell’ambiente più piccolo comprendeva una figura stante e un’iscrizione, ora solo parzialmente leggibile; il panneggio della figura e le lettere dell’iscrizione trovano confronti nella fine dell’8° e nel 9° secolo. Le pitture presentano tracce di un incendio e l’intonaco è rossastro a causa del calore; esse sono considerevolmente erose anche dietro l’abside dell’11° secolo. Ciò può costituire la prova non soltanto di un incendio, ma anche di un’epoca di abbandono durante la quale l’ambiente rimase privo di copertura e i dipinti furono così esposti alle intemperie; se questa ipotesi è giusta, il danno potrebbe essere stato causato dall’incendio dell’897 e dal temporaneo abbandono che ne seguì. Inoltre la terminazione nordoccidentale del grande e del piccolo ambiente fu posta al livello della facciata originaria dell’atrio-chiostro, che fu demolito quando Sicardo costruì l’oratorio. Così, mentre i danni provocati dal fuoco e dall’erosione dimostrano che gli ambienti già esistevano nell’897, l’allineamento dei muri alle estremità con quelli del più antico atrio-chiostro prova la loro esistenza già negli anni trenta del 9° secolo. Ne consegue che gli ambienti adiacenti all’atrio-chiostro esistevano all’inizio del sec. 9° e che, come questo, essi subirono gravi danni nell’897.Le dimensioni dell’ambiente maggiore e la presenza delle pitture murali e del mosaico pavimentale fanno ritenere che si tratti di un luogo importante destinato alle riunioni. Si può escludere l’ipotesi della sala capitolare, che il Regestum Farfense (doc. nr. 1153) riferisce essere adiacente alla chiesa, mentre questo edificio non lo era; è più probabile che si tratti del refettorio, anche perché quello di Montecassino, contemporaneo a questa struttura, occupava la stessa posizione. Le firme su un documento di F. indicano però che la comunità comprendeva almeno cento monaci e questa struttura è troppo piccola per poter ospitare un numero così grande di persone. Una terza ipotesi potrebbe spiegare non solo gli ambienti legati tra loro, ma anche il c.d. torrione. Questa massiccia torre (m. 15 ´ 11) ha muri spessi più di m. 2; i lati sono paralleli a quelli dell’ambiente grande e le due strutture erano comunicanti tramite una porta; è quindi da ritenere che l’ambiente e la torre fossero in relazione. La forma e la posizione di quest’ultima – lontana dalla chiesa e all’interno della linea delle difese scoperte nel 1959 – mostrano che non si trattava né di un campanile né di una torre della cinta muraria. Nel piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), nell’area a destra e di fronte alla chiesa principale si trovano edifici destinati agli ospiti. È possibile che sia stata proprio questa la funzione degli ambienti di F.: quello maggiore sarebbe stato nel sec. 11° perfettamente adeguato agli ospiti più ragguardevoli dell’abbazia, compreso l’imperatore; se il c.d. torrione fosse stato compreso nel complesso, il palazzo avrebbe avuto dimensioni considerevoli, con alloggiamenti per il seguito dell’imperatore e una stanza fortificata per il suo tesoro. Non è forse un caso che proprio queste stanze nel sec. 15° fossero state trasformate in palazzo per il cardinale-abate.Il nucleo del palazzo (se si tratta del palazzo) fu costruito prima che Sicardo ampliasse la chiesa e il suo atrio nell’830. Mentre mancano prove dirette per la data della sua costruzione, se ne può trovare un indizio nell’archivio di F. in forma di registrazione di donazioni all’abbazia: i periodi in cui questa riceveva un maggior numero di elargizioni sono anche quelli in cui è più probabile che venissero costruiti nuovi ambienti. Un’analisi delle donazioni mostra che prima di Sicardo si ebbero altri due momenti molto favorevoli: negli anni ottanta del sec. 8°, sotto l’abate Probato, e tra l’810 e l’820, all’epoca degli abati Benedetto e Ingoaldo. Mentre delle attività di Benedetto e Ingoaldo come costruttori non si sa nulla, il registro testimonia che Probato fornì al monastero un nuovo condotto per l’acqua. Presumibilmente il sistema idraulico già esistente si era rivelato inadeguato, anche perché la comunità era divenuta più numerosa. Probato, sotto il quale F. ricevette la protezione di Carlo Magno, sembra quindi colui che con maggiore probabilità può essere indicato come costruttore di un palazzo per il suo più importante benefattore.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), V, Roma 1914, pp. 156-157; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; Constructio monasterii Farfensis, ivi, I, p. 9; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, p. 31.
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
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Fra gli interpreti della prima il baritono Giuseppe De Luca nella parte di Gianni Schicchi, il tenore Giulio Crimi in quella di Rinuccio, il soprano Florence Easton nella parte di Lauretta ed il tenore Angelo Badà come Gherardo. Fino al 2009 ha avuto 138 recite al Metropolitan.
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Giacomo Puccini
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Del Trittico, Gianni Schicchi fu l’opera che godette subito del successo maggiore[1] ed iniziò quindi ben presto ad avere vita autonoma, nonostante l’esplicita volontà di Puccini che le tre opere andassero sempre in scena assieme e mai in abbinamento con altri titoli.
In tempi recenti si sta consolidando la prassi d’abbinare Gianni Schicchi a Una tragedia fiorentina di Alexander von Zemlinsky[1] o ad Alfred, Alfred di Franco Donatoni. Le due opere sono difatti accostabili non solo per la comune ambientazione fiorentina medievale, ma anche per la scenografia (interno d’abitazione per entrambe) e per la complementarità dei soggetti: una tragedia notturna ed una solare commedia brillante. C’è infine un legame storico: Puccini stesso, nel 1912, aveva pensato di musicare A Florentine Tragedy di Oscar Wilde, uno scritto incompiuto dal quale Zemlinsky trasse pochi anni dopo ispirazione per la sua opera.
Gianni Schicchi opera comica di Giacomo Puccini
Trama
1299: Gianni Schicchi, famoso in tutta Firenze per il suo spirito acuto e perspicace, viene chiamato in gran fretta dai parenti di Buoso Donati, un ricco mercante appena spirato, perché escogiti un mezzo ingegnoso per salvarli da un’incresciosa situazione: il loro congiunto ha infatti lasciato in eredità i propri beni al vicino convento di frati, senza disporre nulla in favore dei suoi parenti.
Inizialmente Schicchi rifiuta di aiutarli a causa dell’atteggiamento sprezzante che la famiglia Donati, dell’aristocrazia fiorentina, mostra verso di lui, uomo della «gente nova». Ma le preghiere della figlia Lauretta (romanza «O mio babbino caro»), innamorata di Rinuccio, il giovane nipote di Buoso Donati, lo spingono a tornare sui suoi passi e a escogitare un piano, che si tramuterà successivamente in beffa. Dato che nessuno è ancora a conoscenza della dipartita, ordina che il cadavere di Buoso venga trasportato nella stanza attigua in modo da potersi lui stesso infilare sotto le coltri, e dal letto del defunto, contraffacendone la voce, dettare al notaio le ultime volontà.
Così infatti avviene, non senza che Schicchi abbia preventivamente assicurato i parenti circa l’intenzione di rispettare i desideri di ciascuno, tenendo comunque a ricordare il rigore della legge, che condanna all’esilio e al taglio della mano non solo chi si sostituisce ad altri in testamenti e lasciti, ma anche i suoi complici («Addio Firenze, addio cielo divino»).
Schicchi declina dinanzi al notaio le ultime volontà e quando dichiara di lasciare i beni più preziosi – la «migliore mula di Toscana», l’ambita casa di Firenze e i mulini di Signa – al suo «caro, devoto, affezionato amico Gianni Schicchi», i parenti esplodono in urla furibonde. Ma il finto Buoso li mette a tacere canterellando il motivo dell’esilio e infine li caccia dalla casa, divenuta di sua esclusiva proprietà.
Fuori, sul balcone, Lauretta e Rinuccio si abbracciano teneramente; mentre Gianni Schicchi sorridendo contempla la loro felicità, compiaciuto della propria astuzia.
Natalia Ginzburg -Vita immaginaria –Nuova edizione a cura di Domenico Scarpa
Tutto ciò che Natalia Ginzburg evoca e descrive succede in noi come per la prima volta: Vita immaginaria è un libro di sveglia e di veglia, una prima volta che dura per sempre.
Il libro-Il meno conosciuto fra i libri di Natalia Ginzburg – la sua terza raccolta di scritti non narrativi, apparsa nel 1974 e mai piú ristampata finora – è anche il piú multiforme di tutti, e il piú pervicacemente battagliero. A dargli il titolo è un memorabile esercizio di autobiografia, collocato in chiusura; ma quel titolo cosí assorto e sfumante, Vita immaginaria, è anche un titolo da interpretare a rovescio: perché, di fatto, in ciascuno dei trenta testi qui radunati Natalia Ginzburg interviene, con la esitante perentorietà che rende unica la sua voce, sulla vita reale dell’oggi, di un oggi che porta date di mezzo secolo fa ma sul quale ascolteremo cose che valgono per il nostro qui-e-ora, cosí diversamente complesso ma cosí simile nelle opzioni estetiche, nelle scelte morali, nei tragici dilemmi politici che impone a ciascuno di noi.
Natalia Ginzburg
La condizione delle donne negli anni del femminismo, e quella degli ebrei e dello Stato di Israele; la bellezza e l’orrore di Roma, e la fragilità di una democrazia (la nostra) sempre sotto minaccia; alcuni scrittori da amare (Goffredo Parise, Antonio Delfini, Biagio Marin, Tonino Guerra, Italo Calvino, Lalla Romano, Elizabeth Smart, ed Elsa Morante della Storia sopra tutti); alcuni film (Sussurri e grida, Amarcord, Domenica maledetta domenica) visti con l’occhio di scrittrice; le biografie di alcuni amici (Cesare Pavese, Felice Balbo); e poi, ancora, la nostra incertezza e la nostra necessità di scegliere; la memoria dell’infanzia, da decifrare, e la vita dei figli adulti, che suscita meraviglia e insicurezza. Infine, sempre presenti, quel senso di soddisfazione che ci può addormentare, le varie specie di linguaggio falso che vanno sempre piú proliferando, la libertà che si può perdere da un momento all’altro e gli orrori della storia contemporanea ai quali ci si abitua a poco a poco, senza rendersene conto, ed è su questo vertice negativo che culmina il tutto. Non per niente, infatti, Natalia Ginzburg aveva pensato, mentre andava costruendo Vita immaginaria, di scegliere un titolo completamente diverso: Il disumano.
Natalia Levi nacque il 14 luglio del 1916 a Palermo, figlia di Giuseppe Levi, illustre scienziato triestinoebreo, e di Lidia Tanzi, milanesecattolica, sorella di Drusilla Tanzi. Il padre era professore universitario antifascista e insieme ai tre fratelli di lei sarà imprigionato e processato con l’accusa di antifascismo. I genitori diedero a Natalia e ai fratelli un’educazione atea.
Formazione e attività letteraria
Natalia trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Torino. Della sua prima giovinezza raccontò lei stessa in alcuni testi autobiografici pubblicati soprattutto in età avanzata, fra cui I baffi bianchi (in Mai devi domandarmi, 1970). Compì gli studi elementari privatamente, trascorrendo quindi in solitudine la sua infanzia; sin dalla tenera età si dedicò alla scrittura di poesie. Si iscrisse poi al Liceo – Ginnasio Vittorio Alfieri,[2] vivendo come un trauma il passaggio alla scuola pubblica. Già nel periodo liceale si dedicò alla stesura di racconti e testi brevi, primo fra tutti Un’assenza (la sua «prima cosa seria»), poi pubblicato sulla rivista Letteratura negli anni Trenta. Abbandonò invece la poesia; a tredici anni aveva fra l’altro spedito alcuni suoi componimenti a Benedetto Croce, che espresse un giudizio negativo su di essi.[3]
Esordì nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato dalla rivista “Solaria“, e nel 1938 sposò Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà in seguito tutte le proprie opere. Dalla loro unione nacquero due figli e una figlia: Carlo (Torino, 15 aprile 1939), che diverrà un noto storico e saggista, Andrea (Torino, 9 aprile 1940 – Bologna, 4 marzo 2018) e Alessandra (Pizzoli, 20 marzo 1943). In quegli anni strinse legami con i maggiori rappresentanti dell’antifascismo torinese e in particolare con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933.
Nel 1940 seguì il marito, inviato al confino per motivi politici e razziali, a Pizzoli in Abruzzo, dove rimase fino al 1943.
Nel 1942 scrisse e pubblicò, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il primo romanzo, dal titolo La strada che va in città, che verrà ristampato nel 1945 con il nome dell’autrice.
In seguito alla morte del marito, torturato e ucciso nel febbraio del 1944 nel carcere romano di Regina Coeli, nell’ottobre dello stesso anno Natalia giunse a Roma, da poco liberata, e si impiegò presso la sede capitolina della casa editrice Einaudi. Nell’autunno del 1945 ritornò a Torino, dove rientrarono anche i suoi genitori e i tre figli, che durante i mesi dell’occupazione tedesca si erano rifugiati in Toscana.
Nel 1947 esce il suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario “Tempo”.
In quello stesso periodo, come ha rivelato Primo Levi a Ferdinando Camon in una lunga conversazione diventata un libro nel 1987 e poi lo stesso Giulio Einaudi in una intervista televisiva, diede parere negativo alla pubblicazione di Se questo è un uomo di Primo Levi. Il libro uscirà per una piccola casa editrice, la De Silva di Franco Antonicelli, in 2500 copie, e solo nel 1958 verrà riproposto da Einaudi diventando il grande classico che conosciamo.
Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra, con il quale concepirà la figlia Susanna (4 settembre 1954 – 15 luglio 2002) e il figlio Antonio (6 gennaio 1959 – 3 marzo 1960), entrambi portatori di handicap. Iniziò per Natalia un periodo ricco in termini di produzione letteraria, che si rivelò prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell’indagine psicologica. Nel 1952 pubblicò Tutti i nostri ieri; nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vinse il premio Viareggio,[4] e il romanzo Sagittario; nel 1961Le voci della sera che, insieme al romanzo d’esordio, verrà successivamente raccolto nel 1964 nel volume Cinque romanzi brevi.
Nel decennio successivo seguirono, nella narrativa, i volumi Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. In questo periodo Natalia Ginzburg fu anche collaboratrice assidua del Corriere della Sera, che pubblicò numerosi suoi elzeviri su argomenti di critica letteraria, cultura, teatro e spettacolo. Tra questi, una sua lettura critica, con uno sguardo al femminile, del film Sussurri e grida[6] ottenne un forte riscontro nel panorama letterario e culturale nazionale, divenendo un punto di riferimento per la critica bergmaniana.[7]
Nella successiva produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada di Swann di Proust, ripropose in modo più approfondito i temi del microcosmo familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del 1977, il romanzo epistolare La città e la casa del 1984, oltre al volume del 1983 La famiglia Manzoni, visto in una prospettiva saggistica.
È l’anno 1969 a costituire un punto di svolta nella vita della scrittrice: il secondo marito morì e, mentre cominciava in Italia, con la strage di piazza Fontana, il periodo cosiddetto della strategia della tensione, la Ginzburg intensificò il proprio impegno dedicandosi sempre più attivamente alla vita politica e culturale del Paese,[8] in sintonia con la maggioranza degli intellettuali italiani militanti orientati verso posizioni di sinistra.
Nel 1971 sottoscrisse, assieme a numerosi intellettuali, autori, artisti e registi,[9] la lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli,[10] documento attraverso cui si denunciano, riguardo alla morte di Giuseppe Pinelli, le presunte responsabilità dei funzionari di polizia della questura di Milano (con particolare riferimento al commissario Luigi Calabresi). Tale adesione verrà più volte ricordata dalla stampa in seguito al matrimonio della nipote della Ginzburg, Caterina, con Mario Calabresi, figlio del commissario nel frattempo assassinato. Nello stesso anno si unì ai firmatari di un’autodenuncia di solidarietà verso alcuni giornalisti di Lotta Continua accusati di istigazione alla violenza.[11]
Nel 1976 partecipò alla campagna innocentista in favore di Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono,[12] i due militanti di Potere Operaio che saranno poi condannati per i reati a loro imputati (tra cui l’omicidio dello studente nazionalista greco Mikis Mantakas).
Il 25 marzo 1988 scrisse per L’Unità un articolo divenuto famoso, dal titolo: Quella croce rappresenta tutti,[13] difendendo la presenza del simbolo religioso nelle scuole e opponendosi alle contestazioni di quegli anni.
Morte
Morì a Roma nelle prime ore dell’8 ottobre 1991. È sepolta al cimitero del Verano di Roma.
Opere
Raccolte
Cinque romanzi brevi, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1964 (contiene: La strada che va in città; È stato così; Valentino; Sagittario; Le voci della sera); col titolo Cinque romanzi brevi e altri racconti, Introduzione di Cesare Garboli, Collana ET, Einaudi, 1993; Collana ET Scrittori, Einaudi, 2005.
Opere, vol. I, Prefazione di C. Garboli, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1986, ISBN 978-88-042-5910-7. [contiene: La strada che va in città, È stato così, Racconti brevi, Valentino, Tutti i nostri ieri, Sagittario, Le voci della sera, Le piccole virtù, Lessico Famigliare, Commedie]
Opere, vol. II, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1987, ISBN 978-88-042-5910-7. [contiene: Mai devi domandarmi, Paese di mare, Caro Michele, Vita immaginaria, La famiglia Manzoni, Scritti sparsi, La città e la casa, Famiglia]
Marcel Proust, poeta della memoria, in Giansiro Ferrata e Natalia Ginzburg, Romanzi del ‘900, vol. I, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1956.
Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962; nuova ed., a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, 2005.
Mai devi domandarmi, Garzanti, Milano, 1970; poi Einaudi, Torino, 1989; dal 2002 con introduzione di Cesare Garboli [raccoglie articoli pubblicati su La Stampa e Corriere della Sera negli anni 1968-1970, con alcuni scritti inediti]
Vita immaginaria, Collana Scrittori italiani e stranieri, Milano, Mondadori, 1974; nuova ed., a cura di Domenico Scarpa, Collana Super ET, Torino, Einaudi, 2021, ISBN 978-88-062-0546-1. [raccoglie articoli pubblicati su La Stampa e Corriere della sera negli anni 1969-1974, con un inedito]
Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi, Torino, 1990.
È difficile parlare di sé. Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi, a cura di Cesare Garboli e Lisa Ginzburg, Einaudi, Torino 1999. [contiene un’intervista autobiografica andata in onda a Radio 3 nella primavera del 1991]
Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino, 2001. [raccoglie scritti di letteratura e di cinema, ricordi di amici scomparsi, pronunciamenti su questioni morali, interventi politici e una Autobiografia in terza persona]
Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2016. [contiene, tra le altre cose, alcuni reportage giornalistici, la poesia Memoria e il Discorso sulle donne]
Teatro
Ti ho sposato per allegria, Torino, Einaudi, 1966.
Ti ho sposato per allegria e altre commedie, Torino, Einaudi, 1968 [contiene: Ti ho sposato per allegria; L’inserzione; Fragola e panna; La segretaria]
Paese di mare e altre commedie, Milano, Garzanti, 1971 [contiene: Dialogo; Paese di mare; La porta sbagliata; La parrucca]
Teatro, Nota di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1990 [contiene i testi della raccolta Paese di mare e altre commedie preceduti da L’intervista e La poltrona]
Tutto il teatro, a cura di Domenico Scarpa, Nota di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 2005. [contiene i testi delle raccolte Ti ho sposato per allegria e altre commedie e Teatro, seguiti da Il cormorano]
Torino, Bologna e Castel Maggiore (BO), Pizzoli (AQ) le hanno intitolato una biblioteca.
Nel 2014, in occasione del XXIII anniversario della sua morte, la città di Torino ha posto sulla sua abitazione, al numero 11 di via Morgari, una lapide commemorativa, intitolandole, nel contempo, l’aiuola antistante, tra via Morgari e via Belfiore.
Nel 2016, per il centenario della sua nascita, la città di Palermo ha collocato una targa sulla sua casa natale, in via Libertà 101.
Natalia GinzburgLeone e Natalia GinzburgNatalia GinzburgNatalia Ginzburg
Giacomo Puccini-La Tosca,un melodramma in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica-
Giacomo Puccini-La Tosca-1964 – IL SOPRANO MARIA CALLAS NELLA “TOSCA”, PA, CANTANTE, OPERA, LIRICA, COSTUME, SCENA, TEATRO, TAVOLO, CANDELE, PUNTARE, BRACCIO, ANNI 60, ITALIA, B/N, 03-00007881
Tosca è un melodramma in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. La prima rappresentazione si tenne a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio 1900. A partire dal 1890 la scena del melodramma vide una fase di straordinaria vitalità; l’inizio di questa fase può farsi coincidere con il successo improvviso dell’opera Cavalleria Rusticana di Mascagni. A seguire esordì una nuova generazione di compositori (Leoncavallo, Franchetti, Cilea, Mascagni, Giordano e lo stesso Puccini), tanto da spingere a coniare il termine “Giovine Scuola“.
Tale terminologia non voleva indicare un’apparteneza culturale o anagrafica comune, quanto piuttosto un radicale cambiamento improntato alla ricerca di nuovi moduli drammaturgici e musicali che inaugurò una nuova stagione creativa.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Per abbracciare questa richiesta di novità, anche grazie a soggetti di forte impatto emotivo, Puccini aveva manifestato l’intenzione di scrivere un’opera basata sul dramma in cinque atti di Victorien Sardou “La Tosca“.
Puccini assistette ad una rappresentazione de “La Tosca” nel 1889 a Milano, rimanendone profondamente colpito: vi riconobbe subito il soggetto perfetto per un’opera lirica.
L’editore Giulio Ricordi si attivò per avere i diritti dell’opera, ma sorsero alcuni problemi con Victorien Sardou che spinsero Puccini a rinunciare.
Giacomo Puccini-La Tosca-Opera-Carlo-Felice-
Una confessione di Giuseppe Verdi al suo biografo (“Vi sarebbe un dramma che, se io fossi ancora in carriera, musicherei con tutta l’anima, ed è Tosca“) spinse l’editore Ricordi a ritentare la strada di un accordo per i diritti del dramma, questa volta con esito positivo.
Il primo destinatario dell’incarico di comporre l’opera fu Alberto Franchetti, reduce dal recente successo del suo “Cristoforo Colombo” (1892). Pochi mesi dopo aver ottenuto l’incarico (fine 1893) Franchetti decise però di rinunciare all’opera.
Fu così che gli subentrò Giacomo Puccini.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Nonstante la composizione dell’opera particolarmente travagliata, tra ripensamenti e modifiche dell’ultimo minuto, la Tosca di Puccini debuttò il 14 Gennaio 1900 al Teatro Costanzi di Roma.
Il ruolo di Tosca venne affidato a Hariclea Darclée, Emilio De Marchi fu il primo Cavaradossi e Eugenio Giraldoni ricoprì con successo il ruolo di Scarpia. L’orchestra venne diretta da Leopoldo Mugnone.
Il clima della prima era quello delle grandi occasioni: tutti gli esponenti della “Giovine Scuola” erano presenti (compreso Alberto Franchetti). Inoltre anche l’allora Regina e il Capo del Governo assistettero a parte della rappresentazione.
La Tosca di Puccini ottenne da subito un considerevole successo; il compositore riuscì così a scrollarsi definitivamente di dosso il cliché di “cantore delle piccole cose”.
Giacomo Puccini-La Tosca-
Floria Tosca, celebre cantante – soprano
Mario Cavaradossi, pittore – tenore
Il Barone Scarpia, capo della polizia – baritono
Cesare Angelotti, un prigioniero politico evaso – basso
Il Sagrestano – basso
Spoletta, agente di polizia – tenore
Sciarrone, Gendarme – basso
Un carceriere – basso
Un pastore – ragazzo,voce bianca
L’azione si svolge a Roma, il 14 Giugno 1800, data della battaglia di Marengo. La Repubblica Romana è caduta e feroci rappresaglie sono in corso verso gli ex-repubblicani simpatizzanti di Napoleone Bonaparte.
Giacomo Puccini-La Tosca-Maria Callas
ATTO I
Angelotti, già console della Repubblica e per questo prigioniero politico, riesce a evadere da Castel Sant’Angelo e trova rifugio nella Chiesa di Sant’Andrea Della Valle. Sua sorella, la Marchesa Attavanti, gli ha lasciato la chiave della cappella di famiglia, ove egli trova nascondiglio.
Arriva il sagrestano per ripulire i pennelli del pittore Mario Cavaradossi, impegnato nella realizzazione di un affresco raffigurante la Madonna. Il pittore entra poco dopo per rimettersi al lavoro. Quando toglie il telo dal suo affresco, il sagrestano ha un sobbalzo: nell’effige della Madonna riconosce un volto già visto. Cavaradossi confessa di essersi ispirato ad una devota della chiesa, non sapendo che si tratta proprio della Marchesa Attavanti.
Continua a dipingere il quadro guardando, di tanto in tanto, una foto della sua amata Floria Tosca.
Pur se inquieto, il sagrestano fa per uscire, quando nota che il paniere con il pranzo di Cavaradossi è ancora intatto; pensa ad un digiuno di penitenza, ma il pittore lo rassicura dicendo di non aver appetito.
Angelotti, pensando di esser rimasto solo, esce dal nascondiglio. Incontra però Cavaradossi, suo vecchio amico e anch’egli simpatizzante per Napoleone Bonaparte. I due vengono interotti bruscamente dall’arrivo di Tosca; Angelotti è costretto a nascondersi frettolosamente, non prima di aver preso il paniere di Cavaradossi.
Floria Tosca, cantante e amante di Cavaradossi è per sua indole molto gelosa. Ha sentito il suo amato parlare con qualcuno e teme la presenza di un’altra donna. Dopo essere stata rassicurata dal Cavaradossi di essere l’unica donna da lui amata, lo invita a passare la serata insieme nella villa del pittore. Prima di uscire però, riconosce nello sguardo della Madonna gli occhi della Marchesa Attavanti; di nuovo viene presa da un’impeto di gelosia, e di nuovo Cavaradossi le proclama il suo unico e incondizionato amore.
Allontanatasi Tosca, Angelotti può uscire di nuovo dal suo nascondiglio. Racconta che la sorella ha nascosto nella cappella per lui delle vesti femminili; aspetterà il tramonto per fuggire dalla caccia del barone Scarpia. Cavaradossi consiglia all’amico di recarsi subito alla sua villa e – in caso di pericolo – nascondersi nel pozzo. Un colpo di cannone sparato da Castel Sant’Angelo annuncia che la fuga di Angelotti è stata scoperta. Questi è dunque costretto alla fuga.
Entra il sagrestano circondato da una folla di chierici e confratelli, tutti festosi per la notizia dell’imminente (e presunta) sconfitta di Napoleone da parte degli austriaci.
Li interrompe bruscamente Scarpia, accompagnato da Spoletta, giunto nella chiesa per ricercar il fuggitivo. Trova il paniere vuoto e un ventaglio femminile con lo stemma Attavanti. Riconoscendo alfine il volto della Marchesa nell’effige della madonna, capisce che il piano di fuga di Angelotti è stato ordito con la complicità di Cavaradossi.
Tosca torna in chiesa per annunciare al suo amato un cambio di programma: dovrà presenziare ad un concerto a Palazzo Farnese quella sera stessa, quindi non potrà recarsi alla sua villa. Il barone Scarpia utilizza il ventaglio per instillare il dubbio nella mente di Tosca. Ella riconosce lo stemma sul ventaglio e crede che Cavaradossi abbia una relazione con la Marchesa; corre quindi alla villa del pittore per poter cogliere i due sul fatto.
Scarpia la fa seguire da Spoletta e da alcuni poliziotti. Il suo scopo è duplice: avere per sè Floria Tosca e catturare Angelotti.
Giacomo Puccini-La Tosca-Maria Callas
ATTO II
Interno di Palazzo Farnese, camera di Scarpia al piano superiore; dalla finestra provengono le note del concerto e – di lì a poco – la voce inconfondibile di Tosca. Il capo della polizia è in compagnia del gendarme Sciarrone.
Spoletta entra trascinando con sè Cavaradossi. Nella villa infatti vi era solo quest’ultimo, nessuna traccia del fuggitivo Angelotti. Scarpia cerca di fargli confessare l’ubicazione del suo amico, senza però riuscirvi.
Tosca entra nella stanza; vedendo Cavaradossi gli fa un cenno per fargli intendere d’aver capito tutta la situazione. Lui la implora di non dire nulla.
Cavaradossi viene portato nella camera di tortura mentre Scarpia, rimasto solo con Tosca, cerca di farle rivelare il nascondiglio di Angelotti. Per convincerla a parlare le fa sentire le urla di dolore di Cavaradossi, provenienti dalla stanza attigua.
Solo allora Tosca capisce cosa sta succedendo al suo amato. Cerca di resistere, sopportando le urla strazianti del pittore, finchè non cede: urla a Scarpia che Angelotti è nascosto nel pozzo del giardino.
Cavaradossi, sanguinante e fisicamente provato, viene condotto da Tosca, mentre Spoletta va a catturare Angelotti.
Irrompe nella stanza Sciarrone con una notizia preoccupante dal fronte: quella che sembrava essere una sconfitta pesante per Napoleone, in realtà si è trasformata in una vittoria decisiva. L’esercito austriaco è stato sconfitto a Marengo.
Cavaradossi ritrova le forze e urla alla vittoria, facendosi beffe di Scarpia. Quest’ultimo non tollera l’affronto del rivale e lo condanna a morte.
Rimasto di nuovo solo con Tosca, Scarpia le dice che potrebbe esserci un modo per salvare Cavaradossi: ella dovrà concedersi a lui.
Tosca rifiuta sdegnata la proposta, ma il barone alfine la convince, complice anche l’imminenza dell’esecuzione capitale.
Spoletta ritorna con la notizia della morte di Angelotti: il fuggiasco, pur di non farsi catturare, si è tolto la vita.
Sugellato il patto con Tosca, il barone finge di accordarsi con Spoletta per una finta fucilazione di Cavaradossi: in questo modo il pittore avrebbe salva la vita e il barone manterrebbe il suo rruolo di capo della polizia.
Tosca, non capendo l’inganno del barone, chiede inoltre un salvacondotto per poter fuggire da Roma con il suo amato. Scarpia le consegna il documento e chiede a Tosca di rispettare il patto; in tutta risposta lei prende un coltello dalla tavola imbandita e lo pugnala, uccidendolo.
ATTO III
Dalla sua cella di reclusione, Mario Cavaradossi chiede al suo carceriere di poter scrivere un’ultima lettera alla sua amata Tosca.
Mentre si strugge per trovare le parole adatte, Tosca fa il suo ingresso nella cella accompagnata da Spoletta (il quale ancora non è a conoscenza della morte di Scarpia). Quando i due amanti restano soli, Tosca confessa il suo crimine e mostra a Cavaradossi il salvacondotto firmato da Scarpia prima di morire.
Tutto ciò che dovrà fare Cavaradossi è cadere quando i soldati spareranno con i loro fucili caricati a salve. Tosca infatti non immagina che la messa in scena della finta fucilazione sia in realtà un inganno perpetrato da Scarpia per approfittare di lei.
Cavaradossi viene portato sul ponte di Castel Sant’Angelo per essere fucilato; quando i soldati sparano lui cade a terra.
Tosca attende che i soldati se ne siano andati, prima di accorrere verso il suo amato e aiutarlo a rialzarsi; solo allora capisce che, quella che avrebbe dovuto essere una simulazione, in realtà è stata una vera fucilazione.
Dalle stanze di Castel Sant’Angelo si odono le urla di Spoletta e dei soldati che hanno trovato il corpo di Scarpia.
Si recano in fretta sul ponte per arrestare Tosca. Lei sale sul parapetto del ponte e si getta nel vuoto, non prima di aver lanciato un’ultima maledizione a Scarpia.
-Rivista Collettivo R -Poesie –pubblicate sul N°unico 26/28-Giugno 1981/Maggio 1982
Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-
Rivista Collettivo R-La casa editrice venne fondata nel dicembre 1970 su inizativa di Luca Rosi, Ubaldo Bardi e Franco Manescalchi all’interno del movimento dell’underground culturale ed editoriale fiorentino in stretto collegamento con l’associazionismo politico culturale e ricreativo (Arci, Circoli culturali, Case del popolo, partiti della sinistra storica, sindacati e movimento studentesco). Lo scopo era di collegare la contestazione politica con orizzonti culturali più ampi attraverso la proposta della riflessione di scrittori e poeti, in particolare italiani e latinoamericani, poco noti al grande pubblico. L’iniziativa si concretizzò nella pubblicazione della rivista «Collettivo R», un nome derivato dalle unioni spontanee di quegli anni e una lettera simbolica R ad indicare un triplice richiamo: Resistenza, Ricerca, Rivoluzione.
La rivista mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-
La Rivista Collettivo R mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
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IN RICORDO DI LUCA ROSI direttore della rivista di poesia “COLLETTIVO R- ATAHUALPA”
Sabato 21 settembre u.s. è morto Luca Rosi. Quanti l’abbiamo conosciuto abbiamo perso non solo il poeta, ma l’amico leale e sensibile, sempre vicino nei problemi di vita quotidiana; tutti noi dopo la sua morte siamo orfani di qualcosa,sentiamo la sua assenza come un vuoto e siamo affranti, questo vuoto era la sua dolcezza nei rapporti con tutti e il suo impegno tenace, di una persona forte e resistente moralmente, con la sua orientazione a portare a termine impegni di traduzione dei testi della rivista, di redazione dei “quaderni” di poesia o della preparazione dei diversi numeri della rivista. In questo impegno in cui si riconosceva pienamente e attraverso esso comunicava con tutti noi ed era felice quando inviava la rivista e spesso aggiungeva in un foglio allegato un caro saluto. Luca, con me, che abito a Roma, spesso era presente con una telefonata o con una lettera. Qualche volta veniva a Roma per i suoi impegni nel sindacato dell’editoria,ed era un’occasione di incontro e di riflessione, ugualmente avveniva nei miei ritorni a Firenze, anche dopo la conclusione del periodo universitario.
Luca era nato settanta quattro anni fa. L’ho incontrato la prima volta a Firenze, nella sua abitazione, per una riunione della redazione della rivista “Collettivo R”, fondata da Franco Manescalchi insieme allo stesso Luca. Quella sera, ricordo ci fossero Silvano Guarducci, Ubaldo Bardi e Paolo Tassi. Ero stato invitato, dopo aver scritto una lettera alla redazione in seguito alla presa visione di uno dei primi numeri che era arrivato alla redazione dei “Quaderni Calabresi” di Vibo Valentia. Siamo nei primi anni ’70, molto ricchi di fermenti culturali, e io ero alla ricerca di un percorso personale, che coniugasse politica e poesia. Allora mi sembrò – e fu poi così – di averlo trovato nella rivista fiorentina e nel gruppo di persone che l’animava.
Quando i rapporti redazionali divennero più frequenti con Luca, si andava formando anche una sincera amicizia, che col tempo si è consolidata, diventando molto preziosa. Io lo apprezzavo molto e gli volevo bene, e lui non mancava di farmi sentire il suo affetto e la sua stima, giudicando positivamente non solo i miei primi testi poetici per la rivista, ma spesso mi incoraggiava tantissimo a continuare a scrivere durante i miei periodi di dubbi e di insicurezza nel trovare un mio percorso. Io intanto scorgevo in lui (anche in Franco e Silvano e Paolo) l’unione tra intelligenza e sforzo morale: cioè l’attenzione che riversava verso la storia coniugata con la poesia. Lui , figlio di emigranti italiani in Venezuela, ritornato in Italia per studiare all’Università, aveva cominciato con l’interesse per i problemi degli studenti stranieri in Italia, con la redazione di un giornale degli studenti immigrati. Nel frattempo aveva avviato con la scrittura di testi poetici una comprensione del mondo e della sua storia. Penso alle prime due raccolte: “TERRA CALCINATA” E “AMORE SENZA TEMPO”. Per la prima volta ho cominciato a sentire da lui ( e da Franco) l’espressione caratterizzante: la poesia comepoesia della tensione. Essa era il risultato di riflessioni sul giusto rapporto morale con il mondo di quella storia che allora era divisa tra oppressione e movimenti di rivolta e rivoluzione. In quella concezione della poesia mi sembrava abitasse qualcosa di spirituale unito al politico. Luca era così, racchiudeva l’uno e l’altro. Lo spirituale mi sembrava basato su ciò che chiamiamo scelta, responsabilità, disponibilità all’apertura al mondo della storia. Così era fatto il suo mondo di poeta e di intellettuale, di poeta-intellettuale. Lui proponeva una poesia fatta con la passione della politica e con una tensione spirituale verso le singole persone oltre che per i fatti storico-collettivi. In Luca era molto presente anche l’orizzonte esistenziale, credo per dare un senso maggiore alla storia e alla vita stessa. Luca, già nei primi numeri della rivista “Collettivo R” individuava il ruolo del poeta come politico, con una sensibilità e una “tensione” verso le classi sfruttate e oppresse. Lui pensava possibile una <<lunga marcia>> in cui i poeti avrebbero lasciato da parte le ambizioni piccolo-borghesi, ogni prestigio personale per identificarsi con i problemi storici dell’oppressione. Luca è stato un innovatore : attraverso i testi classici del marxismo, denunciava nei primi scritti l’alienazione del lavoro intellettuale nell’industria, tra cui quello del poeta, che avrebbe perso l’aureola, e proponeva l’uscita dall’editoria tradizionale, con l’esoeditoria e il ciclostile e la diffusione a braccio della poesia tra gli strati popolari (case del popolo, scuole, ecc), collegandosi con le forze sociali che agivano a livello di massa. Così individuava il ruolo del poeta come ruolo politico in senso lato, con una tensione verso le classi oppresse. La Sua presenza alle feste dell’Unità, in alcune scuole, presso le Case del Popolo, e altri luoghi pubblici era determinante e necessaria: lui non riservava le sue energie che a questa attività di pedagogo, di amante della poesia, per far altresì innamorare gli altri. Una sua grande gioia era quella di poter invitare in questi incontri il poeta Cardenal o Rafael Alberti, o di tradurre dallo spagnolo moltissimi poeti latino-americani, per poterli far conoscere ai lettori italiani, cominciando dall’ antologia collettivamente tradotta: “Poeti a Cuba”. Il suo amore intenso per la poesia lo portava spesso a organizzare cene di sottoscrizione per continuare la pubblicazione della rivista, o a passare giorni interi a correggere le bozze di più di 50 libri di poesia di altrettanti autori, o a interessarsi alla redazione dell’antologia “L’Utopia Consumata” (o Anti-Antologia),o a curare periodicamente e con assiduità la corrispondenza con i poeti della rivista , o a tener testa ai diversi progetti culturali, relativi alla fondazione del Centro Eielson per la conoscenza della poesia latino-americana, o alla fondazione dell’Associazione culturale “ATAHUALPA, o alla edizione della nuova serie della rivista a cominciare dal 2006, o a preparare presso la biblioteca Marucelliana di Firenze la mostra di tutti i materiali di “COLLETTIVO R” e i diversi incontri di presentazione di libri per il quarantesimo anniversario della rivista.In questo suo impegno tenace era sempre sostenuto da una famiglia molto generose e a lui vicina: dalla moglie Felis, dalle figlie e dai nipoti, a cui ha saputo trasmettere con molto affetto il valore della poesia. Ecco, quando prendiamo in mano o pensiamo un numero della rivista o uno dei libri editati da Colletttivo R, pensiamo a Luca, al suo grande amore perché la poesia giungesse a tantissimi, perciò pensiamo a Lui come poeta, intellettuale e pedagogo. Oraquesto suo mondo apparentemente trascorso vivrà nel futuro, nella misura in cui noi lo ricordiamo riproponendolo. (Luca un grazie infinito da parte mia e a nome anche di coloro che ti hanno conosciuto attraverso la Rivista).
Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni settanta, nonché figura a tratti controversa, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della società dei consumi allora nascente in Italia (in tal senso definì i membri della borghesia italiana “bruti stupidi automi adoratori di feticci”), così come anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti (definì questi ultimi “figli di papà” e il Sessantotto un evidente episodio di “sacro teppismo di eletta tradizione risorgimentale”). Il suo rapporto con la propria omosessualità fu al centro del suo personaggio pubblico.[8] Pier Paolo Pasolini, primogenito dell’ufficiale di fanteria bolognese Carlo Alberto Pasolini e della maestra friulana Susanna Colussi di Casarsa della Delizia, nacque nel quartiere Santo Stefano di Bologna il 5 marzo 1922,[9] in via Borgonuovo 4, dove ora c’è una foresteria militare e una targa in marmo che lo ricorda.[10]
Suo nonno Gaspare Argobasto Pasolini, nato nel 1845, era imparentato al ramo secondario dei Pasolini dall’Onda, un’antica famiglia nobile ravennate.[11][12][13][14] Sia il nonno Argobasto che il padre Carlo Alberto erano amanti del gioco d’azzardo, passione che porterà la famiglia alla rovina economica.[15]
Pier Paolo Pasolini
A causa dei frequenti trasferimenti del padre, la famiglia, che da Bologna si era già trasferita a Parma, nel 1923 si stabilì a Conegliano e nel 1925 a Belluno, dove nacque il fratello Guido Alberto. A Belluno venne mandato all’asilo dalle suore, ma dopo pochi giorni si rifiutò di andarci e la famiglia acconsentì.[16] Nel 1927 i Pasolini furono nuovamente a Conegliano, dove Pier Paolo venne iscritto alla prima elementare, non avendo ancora compiuto sei anni.
L’anno successivo traslocarono a Casarsa della Delizia, in Friuli, ospiti della casa materna, poiché il padre era agli arresti per alcuni debiti.[17] La madre, per far fronte alle difficoltà economiche, riprese l’insegnamento. Terminato il periodo di detenzione del padre, ricominciarono i trasferimenti a un ritmo quasi annuale. Fondamentali rimasero i soggiorni estivi a Casarsa.
Pier Paolo Pasolini
«… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana.[18]»
Nel 1929 i Pasolini si spostarono nella vicina Sacile, sempre in ragione del mestiere del capofamiglia, e in quell’anno Pier Paolo aggiunse alla sua passione per il disegno quella della scrittura, cimentandosi in versi ispirati ai semplici aspetti della natura che osservava a Casarsa.[19] Dopo un breve soggiorno a Idria, in Venezia Giulia (oggi in Slovenia), la famiglia ritornò a Sacile, dove Pier Paolo affrontò l’esame di ammissione al ginnasio. Venne rimandato in italiano, per poi superare la prova a ottobre.[19] A Conegliano cominciò a frequentare la prima classe, ma a metà dell’anno scolastico 1932-1933 il padre fu trasferito a Cremona, dove la famiglia rimase fino al 1935 e Pier Paolo frequentò il Liceo Ginnasio Daniele Manin.[20] Fu questo un triennio di intense fascinazioni e di un precoce ingresso nell’adolescenza, come testimonia il vibrante tratto autobiografico Operetta marina, scritto alcuni anni più tardi e pubblicato postumo insieme a Romàns.
Successivamente il padre ebbe un nuovo trasferimento a Scandiano, con gli inevitabili problemi di adattamento per il tredicenne, causati anche dal cambiamento di ginnasio a Reggio Emilia, che raggiungeva in treno.[19]
PIER PAOLO PASOLINI
In Pier Paolo crebbe la passione per la poesia e la letteratura, mentre lo abbandonava il fervore religioso del periodo dell’infanzia. Completato il ginnasio a Reggio Emilia, frequentò il Liceo Galvani di Bologna, dove incontrò il primo vero amico della giovinezza, il reggiano Luciano Serra. A Bologna, dove avrebbe trascorso sette anni, Pier Paolo coltivò nuove passioni, come quella del calcio, e alimentò la sua passione per la lettura comprando numerosi volumetti presso le bancarelle di libri usati sotto il portico della Libreria Nanni, circa di fronte a piazza Maggiore. Le letture spaziavano da Dostoevskij, Tolstoj e Shakespeare ai poeti romantici del periodo di Manzoni.[19]
Al Liceo Galvani di Bologna fece conoscenza con altri amici, tra i quali Ermes Parini, Franco Farolfi, Sergio Telmon,[21]Agostino Bignardi, Daniele Vargas, Elio Melli, e con loro costituì un gruppo di discussione letteraria. Intanto la sua carriera scolastica proseguiva con eccellenti risultati e nel 1939 venne promosso alla terza liceo con una media tanto alta da indurlo a saltare un anno per presentarsi alla maturità in autunno. Si iscrisse così, a soli diciassette anni, alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna e scoprì nuove passioni culturali, come la filologia romanza e soprattutto l’estetica delle arti figurative, insegnata al tempo dall’affermato critico d’arte Roberto Longhi,[22] laureandosi con lode.[23][24]
Pier Paolo Pasolini
Frequentava intanto il Cineclub di Bologna, dove si appassionò al ciclo dei film di René Clair; si dedicò allo sport e fu nominato capitano della squadra di calcio della Facoltà di Lettere;[22] faceva gite in bicicletta con gli amici e frequentava i campeggi estivi che organizzava l’Università di Bologna. Con gli amici – l’immagine da offrire ai quali era sempre quella del “noi siamo virili e guerrieri”, perché non percepissero nulla dei suoi travagli interiori – si incontrava, oltre che nelle aule dell’Università, anche nei luoghi istituiti dal regime fascista per la gioventù, come il GUF, i campeggi della “Milizia”, le competizioni dei Littoriali della cultura.[22] Procedevano in questo periodo le letture delle Occasioni di Montale, di Ungaretti e delle traduzioni dei lirici greci di Quasimodo, mentre fuori dall’ambito poetico leggeva soprattutto Freud e ogni cosa che fosse disponibile in traduzione italiana.[22]
Pier Paolo Pasolini
Nel 1941 la famiglia Pasolini trascorse come ogni anno le vacanze estive a Casarsa e Pier Paolo scrisse poesie che allegava alle lettere per gli amici bolognesi tra i quali, oltre l’amico Serra, erano inclusi Roberto Roversi e il cosentinoFrancesco Leonetti, verso i quali sentiva un forte sodalizio:
«L’unità spirituale e il nostro modo unitario di sentire sono notevolissimi, formiamo già cioè un gruppo, e quasi una poetica nuova, almeno così mi pare.[25]»
Il padre era stato richiamato in servizio ed era partito per l’Africa Orientale, dove verrà fatto prigioniero dagli inglesi.[26] I quattro giovani pensarono di fondare una rivista dal titolo Eredi alla quale Pasolini volle conferire un programma sovraindividuale:
«Davanti a Eredi dovremo essere quattro, ma per purezza uno solo.[25]»
La rivista non vedrà la luce a causa delle restrizioni ministeriali sull’uso della carta, ma quell’estate del 1941 rimarrà per i quattro amici indimenticabile. Cominciarono intanto ad apparire nelle poesie di Pasolini alcuni frammenti di dialogo in friulano, anche se le poesie inviate agli amici continuavano a essere composte da versi improntati alla letteratura in lingua italiana.
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini- da “Le ceneri di Gramsci”
“Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.”
– Pier Paolo Pasolini, da “Le ceneri di Gramsci”-Pier Paolo PASOLINI
La Storia, il più celebre e discusso tra i romanzi di Elsa Morante
Descrizione
A questo romanzo (pensato e scritto in tre anni, dal 1971 al 1974) Elsa Morante consegna la massima esperienza della sua vita “dentro la Storia” quasi a spiegamento totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative: da “L’isola di Arturo” a “Menzogna e sortilegio”. La Storia, che si svolge a Roma durante e dopo la seconda guerra mondiale, vorrebbe parlare in un linguaggio comune e accessibile a tutti.
Elsa Morante
RIASSUTO
A Roma, devastata dalla guerra, vive Ida Ramundo una maestra ebrea di trentasette anni, vedova e madre di Nino. Una sera di gennaio del 1941 Ida viene violentata da un soldato tedesco ubriaco. Frutto della violenza è Useppe, un bambino allegro e vivace.
Nel 1943 un bombardamento distrugge la casa di Ida che con i figli si trasferisce in un ricovero per sfollati a Pietralata. Tra stenti, disperazione e umana solidarietà trascorrono gli anni della guerra. Nino si arruola prima nelle camicie nere, poi partecipa alla lotta partigiana. Conosce l’ebreo e anarchico umanitario Davide Segre con cui ritorna a casa.
Nel 1945 alla fine del conflitto per Ida continuano le difficoltà e le sofferenze. Mentre Davide tenta l’inserimento con il lavoro in fabbrica al Nord, Nino non riesce a trovare una sua strada, si dà al contrabbando e resta ucciso in uno scontro con la polizia. Solo la presenza Useppe consente a Ida di superare il dolore. Anche Davide fallito il suo tentativo torna a Roma e diventa amico di Useppe.
Un giorno viene trovato morto nella baracca in cui vive, ucciso dalla droga. Intanto si manifesta l’epilessia, finora latente, di Useppe, di fronte alla quale Ida non può nulla. Una violenta crisi epilettica uccide il bambino. Ida non regge al dolore e perde la ragione. Ricoverata in manicomio muore nove anni più tardi.
Fonte: Wuz.it
Elsa Morante
Recensione del romanzo La Storia della scrittrice Elsa Morante,
con analisi precisa della storia e dei personaggi.
Articolo di Stefano Benucci
Questo non è un romanzo, è un mondo intero! C’è la grande letteratura, ci sono le drammatiche vicende di una famiglia romana negli anni del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra, l’amore, la disperazione la miseria, la fame, il dramma, la tenerezza e c’è la storia di Roma e dell’Italia di quegli anni ed anche la storia del resto del mondo che viene velocemente spartito dalle grandi potenze. Si tratta di un romanzo di ben oltre mille pagine molto articolato e pieno di sfaccettature con decine e decine di personaggi difficile da descrivere in poche righe. Il corso narrativo del romanzo si dipana intorno a Ida, giovane vedova e maestra elementare, di origine ebrea, che vive a Roma con l’irrequieto figlio adolescente Nino (detto Ninnuzzo). Ida, nel 1941, viene violentata da un soldato tedesco. Da questo drammatico evento nasce il piccolo Giuseppe (detto Useppe). Sono tempi durissimi, l’occupazione tedesca, la deportazione degli ebrei, i primi bombardamenti, i rifugi di fortuna, la fame. Mai in nessun libro ho trovato una descrizione così coinvolgente di quello che succedeva in quei giorni. Mai ho letto una così efficace rappresentazione della disperazione, della solitudine, della forza di volontà di una madre che lotta contro ogni avversità per la vita di un figlio. Ninnuzzo è sempre fuori, chissà dove, prima camicia nera e avanguardista, poi partigiano e stalinista, poi contrabbandiere. La povera Ida attraversa gli anni più duri della nostra storia in modo drammatico. Mi fermo qui per non spoilerare ma devo dire anche che il romanzo è infarcito di decine di personaggi credibilissimi, alcuni appena accennati, altri ben definiti che aiutano a capire l’Italia di allora. Una citazione particolare per il piccolo Useppe, personaggio tenerissimo, che nella seconda parte del romanzo diventa protagonista assoluto alla scoperta delle miserie della Roma appena uscita dalla guerra, sempre scortato dalla gigantesca cagna Bella che stravede per lui. Un libro consigliatissimo. L’unica controindicazione è che dà un po’ di dipendenza e che appena finite le 1.300 pagine si prova un senso di vuoto ma del resto con i veri capolavori succede.
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