Poesie di Valentina Marzulli “Anche su Marte crescono i fiori”
Eretica Edizioni -L’Altrove-
Recensione –“Anche su Marte crescono i fiori” di ValentinaMarzulli (Eretica Edizioni, 2024) percorre la trasformazione e la rigenerazione della sensibilità poetica lungo il tragitto carezzevole e persuasivo dell’anima. Valentina Marzulli trasferisce su carta i propri pensieri evocativi, trascina la scia suggestiva dei propri ricordi, traduce l’incantevole natura delle emozioni e i mutamenti della propria esistenza, nell’offuscata e impercettibile visione del tempo, nella intenzionalità autobiografica, compie un viaggio iniziatico, attraverso una maturazione spirituale che irradia il coraggio e la passione della propria crescita evolutiva.
Valentina Marzulli-Poetessa
Il percorso poetico di Valentina Marzulli opera una conversione interiore, attinge alla conoscenza dell’ispirazione letteraria per avvicinare e comprendere l’essere nel mondo, rivela l’accidentalità e la consistenza dell’esistenza, collegando la prospettiva di ogni tentativo vitale di riflessione e di rinascita alla realtà del vissuto. Risveglia l’entità preziosa dell’energia rigeneratrice, arricchisce il desiderio delle esperienze di rinnovamento attraverso il passaggio necessario e inesorabile del rifugio spirituale, inteso come espressione di allontanamento e raccoglimento volontario, pausa appartata dalla vita, estende la capacità di cogliere lo spazio sconfinato e disarmante di ogni ritrovamento d’intimità, delle proprie ragioni, la proiezione della cura, tra l’invisibile affermazione del cuore e i tangibili strumenti di interpretazione.
Valentina Marzulli
Valentina Marzulli nomina il pianeta Marte come metafora, così come l’anno marziano si protrae quasi per il doppio di un anno terrestre, così la poetessa affronta l’orbita delle proprie inquietudini, dichiarandosi aliena a se stessa e al mondo, nella sorprendente e sconcertante sensazione di estraneità, in cui il conflitto indistinto e confuso, tra ciò che è l’origine e il centro dei sentimenti e ciò che si riscontra fuori di noi, intimorisce i nostri confini relazionali, non riconosce l’appartenenza della nostra vita, percepisce un’istintiva e immediata esigenza di protezione. Ma la resistenza adottata da Valentina Marzulli spiega la profonda connessione tra la scrittura e la coscienza, insegue l’approvazione del suo cammino, lo spunto della ricognizione delle reazioni umane e la meraviglia di riuscire a trovare nuove stagioni di fioritura, la ricchezza simbolica dei fiori, come germogli originari nobili di bellezza, congiungere alla disgregazione emotiva del passato il ripristino del presente, nella sua differenza significativa. Il libro analizza l’accattivante allegoria delle opportunità, comunica il ritorno dell’accoglienza oltre la desolazione dell’immobilità. La previsione degli anni accumula le coincidenze della celerità e dell’indugio, scorre intorno alla superficie fondamentale della quotidianità e permette all’autrice di distinguere inequivocabilmente la partecipazione comportamentale ed empatica verso luoghi e situazioni in apparenza ostili, disagevoli e inadeguati ma che nascondono una vicinanza favorevole, incrociano l’orientamento rivelativo del benessere e della serenità.
Valentina Marzulli
Valentina Marzulli riceve il dono della consapevolezza, in cammino dal principio di ogni avventura, ne riscopre il valore e ritrova, nell’alleanza temporale la direzione della salvezza, accoglie la generosità di ogni alterità donata con il riconoscimento dell’attualità esistenziale e ricompone l’identità verso se stessa.
NOTTE STELLATA
Il cielo notturno come specchio dell’anima. Ogni stella che cade è un ago nel cuore. Ogni punto di luce un bacio che non ti ho dato.
IL TUO SILENZIO
Il tuo silenzio è stato un insegnante severo. Io la sua allieva migliore.
DARKNESS
Mi trovo su questo volo circondata da luci e stelle, eppure non vedo la luce.
HIGH CONTRAST
E mentre altrove stanotte esplodono bombe, intorno a me le stelle.
CORRISPONDENZE
Non per il tuo tedio né per il mio volto. Non per il tuo ego né per il mio corpo. Non per farmi male né per soffocarmi. Non per possedermi solo per amarmi.
LA PRIMA NEVE
Dolore liquido, abeti a strapiombo sull’anima. La neve incanta, il ghiaccio pietrifica. Solo un passo e tutto si infrange. Fa’ attenzione, il cuore si spezza in un istante.
INVERNO
Come fiocchi di neve danzanti nuove parole arrivano e scaldano l’anima.
A cura di Rita Bompadre – Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Valentina Marzulli-Poetessa
L’AUTRICE
Valentina Marzulli nasce a Taranto nel 1990. Ingegnere civile, vive attualmente in Germania, dove si è dedicata nell’ambito del dottorato di ricerca allo studio dei materiali lunari. Autrice della silloge poetica Divenire pubblicata a cura di Eretica Edizioni e creatrice del blog di poesia Lady Margot Stories, parallelamente alle sue attività scientifiche, si dedica allo studio della lingua e della letteratura tedesca e inglese, e coltiva la sua passione per la scrittura e per la traduzione letteraria.
Rivista L’Altrove
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Francesco Piga:Sperimentalismo ed etica nella poesia di Cesare Ruffato-
“Il messaggio che Cesare Ruffato ci consegna con ostinazione, un messaggio che sembra talvolta sibillino, o addirittura sconnesso, è invece una chiamata alla coscienza, lungo un processo che non può non essere traumatico”
Andrea Zanzotto, “Poesia, letteratura e scienze”, in “Libera stampa”, 2 dic. 1978.
Cesare Ruffato-Francesco Piga Libro letteratura veneta- Quarta parte
Francesco Piga dal libro “Letteratura veneta”- Quarta parte.(2016)-La prima raccolta poetica di Cesare Ruffato è Tempo senza nome, pubblicata nel 1960 dall’editore padovano Bino Rebellato.
L’autore, nato a Padova nel 1924, aveva compiuto gli studi classici e nel 1949 si era laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Padova, dove era rimasto come Libero Docente in Radiologia e in Radiobiologia. Svolgeva attività letteraria e scientifica con vari volumi, numerosi articoli e recensioni su riviste.
Il volume si colloca in una collana, “ Le quattro stagioni ”, diretta da Aldo Camerino, ricca di proposte molto interessanti, da Esperimento di magia di Dino Buzzati a Vita militare di Aldo Palazzeschi, a La mia scuola di Manara Valgimigli, alle prose di Diego Valeri e ai racconti di Giorgio Vigolo.
La poesia di Ruffato si mostra in sintonia con le maggiori esperienze culturali, italiane e straniere, sia per i temi che per gli effetti linguistici e stilistici.
In queste prime liriche il poeta esprime la dolorosa condizione di chi è costretto a vivere una realtà priva di armonia, un’oggettività che trasmette soltanto sensazioni inquiete costringendo a cercare oltre e diversamente.
E’ sufficiente lo stormire del vento tra gli ulivi intercalato col silenzio a scompaginare e ad intimidire le cose: sono “ vaghi ” gli orizzonti e “ incerte ” le colline. Nasce un leopardiano desiderio di perdersi, di annullarsi con il cuore confuso nell’infinito.
L’anelito del poeta è di risalire, oltre la realtà, ad un tempo senza nome, da dove sono scaturite le origini sconosciute dell’uomo, dove c’è tutta una memoria da recuperare.
Ci si affida ai gesti di una “lei” che sembra “purificata da lontananze estreme”, trasparente come una vergine astrale: i suoi gesti rimandano alle memorie antiche, in un fluire di tempo senza riferimenti di luoghi. Ma è soltanto un’illusione, un sogno momentaneo, perché la divinità scopre il proprio aspetto umano, “ sono breve e mi consumo”, e restano soltanto le impressioni di ciò che avrebbe potuto essere e non è: “Le membra sono ulivi / la bocca è una valle / le mani un vento”.
Non è dunque più possibile recuperare la perduta armonia, ricucire lo strappo fra l’io e le cose, per reinscriversi in un eterno ritorno dell’esistente, per tornare a far parte di un tutto originale. E’ precluso ogni accesso: “Buio e terra son ora simboli vuoti / e gelide le mie mani”.
Non resta che un languore, un sommesso colloquio sul filo di una memoria che ormai può soltanto seguire il ritorno delle stagioni. Fino a quando anche il colloquio che implica la dualità non è più possibile: “Ora m’accorgo d’essere solo, / nel moto dei rumori, delle parole, / svenato d’ogni fibra / come vecchio torrente / a rivoli fra i sassi”.
Nella solitudine, nei vicoli ciechi dell’esistenza, il poeta non può che reinventarsi un linguaggio per una nuova introspezione e per un’ulteriore analisi della dissociazione dall’altro e dalle cose.
L’uso di un linguaggio aperto, ampliato di neologismi, espressioni gergali e straniere e di terminologie tecno-scientifiche, è la caratteristica della seconda raccolta di poesie dal titolo La nave per Atene, pubblicata nel 1962 nella raffinata collana “All’insegna del pesce d’oro” dell’editore milanese Scheiwiller.
Il nuovo lessico, in cui prevalgono gli aggettivi che evidenziano la condizione di dissociazione e di lacerazione e le serie verbali che indicano i tentativi di “scavo” interiore, invece di segnare possibili percorsi alla conoscenza, scompaginano ulteriormente le apparenze della realtà, sezionano gli oggetti materiali, creando solchi più profondi di insoddisfazione e di incomprensione.
I versi sono ora pennellate di un quadro surrealista: “Affonda il mare nei tuoi capelli, / le voci nubi di sale, nell’onda / il lampo del gabbiano nella / conchiglia”.
L’affannosa ricerca nel deserto dell’esistenza , che la nave solca verso una mitica Atene, dove le dualità verrebbero ricomposte, fa scorgere soltanto tracce, ombre e silenzi: “Nella sera / esausti coglieremo sulla sabbia / i solchi, gli stampi di sguardi / radenti, il refluire del vento, / il silenzio del mimo”.
Oasi o miraggi di memorie possibili tengono accesa la speranza del viaggiatore solitario di poter giungere alla méta. E’ un viaggio nel deserto dei significati e delle sostanze, sotto lo stesso cielo di Lucrezio e di Queneau: “Nel mondo delle apparizioni / inconscia è la notte, stillicidio / d’atolli, un declinare, / exobiologia / negli interstizi dei pianeti / ove la luce polarizza e specula / il cosmo; pulviscolo pesante / trasuda alle mie ciglia: sintetizzo / periodi leggeri, voli accumuli / d’energia metabolica”.
Sulla terra restano le scorie di una società che progredisce nel degrado. Il mesenchima di un verso è lo smog anche morale che intride i tessuti vitali.
L’ancoraggio alle cose e l’armonia con la natura rimangono soltanto un desiderio: “vorrei gelare in midollo di bambù”. Subentra lo stupore che si somma alla tristezza.
Al di là dell’ermetismo e delle neoavanguardie imperanti, Ruffato avvia uno sperimentalismo e dà la prima impronta innovativa e del tutto personale proprio con l’immissione del linguaggio tecnico-scientifico, applicato senza particolare reverenza, fondendolo con i lessici della tradizione letteraria (1).
Il poeta teorizza questa funzione dei due codici linguistici evidenziando, in sintonia con le acquisizioni della semiotica, che le analogie e le sincronie fra i ritmi vitali dell’uomo e della natura alla base delle scienze umanistiche e naturali comportano di conseguenza anche elementi linguistici simili.
Nella terza raccolta, dal titolo Il vanitoso pianeta, Ruffato lavora su questo tessuto linguistico nuovo e inconsueto nel panorama letterario, lo plasma e deforma, lo reinventa elevandolo a momento importante della propria lingua poetica.
Il volume è pubblicato a Roma nel 1965 dalla Casa Editrice Salvatore Sciascia, nella collana “Sintagma”, diretta da Gianni Toti, che nella retrocopertina definisce sconcertante il sistema linguistico usato da Ruffato. L’introduzione è di Giorgio Bárberi Squarotti che, fra l’altro, osserva come il nuovo organismo poetico creato da Ruffato sia aperto ad imprevedibili esiti. Il disagio dell’esistenza è patito sia dall’uomo che dalla natura. Nel rapido alternarsi dei giorni, nel giro delle stagioni il paesaggio resta gelido: la terra ha sete e i colli “spenti” sono “curvati alla fatica” mentre l’inverno sidera i muschi e l’estate ha colori aridi.
L’uomo è al tempo stesso indifeso nel buio e nei silenzi, anch’essi “aridi”, e violento quando, con le sue industrie e i suoi “plasticati disumani”, rende più grigio il paesaggio, quando distrugge persino i vicoli e le corti delle borgate secolari. Rimane soltanto, “fra sterpi d’acciaio, agavi / valve immonde di coscienze arenate”, qualche fiore che “gioca ancora d’astuzia / con il bulldozer e il bazuca / planimetrico …”. Il poeta cerca di farsi custode di memorie, mostra il suo impegno civico denunciando le menzogne degli uomini violenti, il consumismo e il degrado ambientale, si illude di poter ancora trovare certezze oltre la frammentarietà del reale, oltre le cose che “son fatte di nebbia e finzione”. Di certo ci sono l’incomprensione fra gli individui, “solco fra il mio e il tuo pensiero”, la solitudine e il timore di non sapere mai la vera consistenza di ciò che si ha di fronte: “…ancora cerchiamo il peso / reale, i piani esatti d’ogni forma / e funzione, pure candele porose, / noi che almeno sappiamo giungere / soli e temiamo la nostra insapienza”. Più il poeta applica il linguaggio esatto, preciso, della scienza e tenta altre alchimie con lessici diversi, più l’ “insapienza” mostra gli sbarramenti della conoscenza, consentendo soltanto altre sperimentazioni, altri artifici letterari.
I due libri successivi sono Cuorema, edito da Rebellato nel 1969 nella collana Secondo Novecento, libro singolare pertinente alle problematiche tecniche, etiche, religiose dei trapianti nell’uomo e motivato dal primo trapianto cardiaco eseguito da Barnard in America, e Caro ibrido amore, pubblicato nel 1974 dall’editore Lacaita di Bari, con sperimentazioni che coinvolgono ormai tutti i piani di lingua, metrica, sintassi e stile. Il verso si flette, si allunga e si restringe al ritmo, ora debordante ora breve, delle parole che sembrano frenetiche alla ricerca di significati sfuggenti. Le disarticolazioni e le disgregazioni del lessico, della struttura sintattica e del verso rispecchiano le distorsioni delle cellule umane, le degenerazioni dei tessuti e le deformazioni delle membra. I casi clinici poeticizzati in Caro ibrido amore sono in effetti casi umani, implicati tra vita e non vita, che si ripetono all’infinito, e sono anche in sintonia con la natura, la incorporano: “Transatlantica nella dolce scoliosi / contieni la nuda calotta della terra / finalmente in foto”. L’equilibrio, turbato dalle anomalie, è definitivamente compromesso e pertanto la percezione della realtà è ormai possibile soltanto attraverso strumenti naturali e culturali falsati. In quest’ottica deformata e deformante, Ruffato tritaparole fornendoci anche un poliedro scheggiato che riflette i residui lasciati dagli anni che vive: la violenza dello sterminio per fame nel mondo, le verbosità della politica, le “mandrie hippies”, i “cortei rinoceronti”.
Traspare il senso etico del poeta contro la civiltà dei consumi, i riti borghesi, gli edonismi massificati, le ipocrisie di “mostrucati latrones”. Sono evidenti il suo scontento per una “lei” che ha perduto “l’odore poetico” ormai ingannata da “un sipario musicaltribaleamoroso”, e la sua insofferenza per una società che anela ad un progresso tecnologico disdegnando l’arte. Sono costanti dunque il richiamo ad un impegno culturale, oltre “la plasticità della pagina”, e la certezza, forse la sola, di “sapere che ciò che è impenetrabile / per noi esiste davvero”. Nel dialogo discordante di “uno – due – coro” della pièce teatrale “Caro ibrido amore”, ultima sezione del libro omonimo, è teorizzato in versi il senso della ricerca di Ruffato che lo porta a “ibridare scienza e coscienza”, e così a “violare simmetrie”. Ciò è una copia della stessa sperimentazione naturale nell’umano-scientifico: “i due granai cromosomici sono funzionali / perdono alcuni grani in varia combinazione / con passaggi in serie sino al clone / miracolismo temporale dolce sacralità sperimentale”. Nell’ibrido dunque di linguaggio e di forme, amore acquisito, continua a svolgersi la ricerca del poeta, con una esortazione: “Soffiami i cromosomi più nobili”. La massima tensione sperimentale è nei testi poetici che compongono Minusgrafie, edito nel 1978 da Feltrinelli.
Nella prefazione Aldo Rossi evidenzia il particolare contesto letterario in cui si è collocato Ruffato con la creazione e l’applicazione di un linguaggio particolarissimo. Il poeta ha conquistato un territorio da cui tiene lontano per mezzo di scelte etiche tutto quanto è prefissato e precostituito, e con ironia e autoironia distanzia anche la stessa materia del suo poetare. E’ la condizione indispensabile per tentare di ricomporre “con storica pietas” i frammenti di una oggettività che si credeva sistematica e che invece è esplosa, di una interiorità che sembrava interamente scrutabile e che invece si mostra a intermittenze. L’analisi del critico si conclude nel “laboratorio nonsensico” di Ruffato dove, con un linguaggio impazzito che cerca di portare alle estreme conseguenze le contraddizioni di ogni espressione artistica, sono ricostituiti, seppure momentaneamente, “brandelli di liaisons”. Mentre ironizza con le accademie letterarie, “… va restaurata / la reticolazione della parola / con intellettuali / contributi attivi”, il poeta abbatte ogni reticolato linguistico per una sperimentazione ulteriore. Più il linguaggio si allarga e si fa tentacolare, più sono sfuggenti gli oggetti da definire e il senso delle cose mentre i punti fermi e le certezze invece di aumentare diminuiscono, mostrano la loro insignificanza, le loro falsità. Perdono ogni consistenza anche gli interrogativi e i problemi, costretti a smascherarsi e a segmentarsi “in uno spazio di storia coincidente”, di quella storia accidentale che “mostra il sistema produttivo capace di recupero”. Sull’abisso dell’esistente è in eclissi perfino “la luna di laforgue” e dunque, senza luce, neppure la poesia può seguire possibili tracce di illusorie presenze.
Il poeta è afflitto nel constatare le ambiguità delle espressioni linguistiche, l’inconsistenza del lessico che scivola sui sensi come su fittizie parvenze. Ci attestano questo scoramento le pagine di Proposizione ellittica (L’arzanà, 1982): “Piene le tasche di fraintesi e linguaggi costipati / descrizioni ribelli filogenìa sommersa / in planiversi promiscui parodici”. Nella frammentarietà del linguaggio si riflettono comunque le intermittenze del pensiero, le trame delle riflessioni su una dolorosa e problematica condizione esistenziale, su una società di ingiustizie e di frastuoni. E’ nel linguaggio defragrato, frammentario, delle poesie di Parola bambola, edite da Marsilio nel 1983, il particolare e complesso de rerum natura di Ruffato (2). Le parole senza più legami grammaticali e sintattici, e pertanto impossibilitate a rappresentare, sono segni sospesi nel vuoto di un universo inconoscibile, su un abisso che risucchia altri capovolti abissi. Le nevrosi del pensiero e della scrittura riflettono contraddizioni e opposizioni, una realtà disgregata e impazzita, con la natura malata e con le figure umane indifferenti. In questi riflessi tutto è fuori centro, in contraddizione, sono falsate le prospettive delle apparenze e dell’introspezione, c’è dissonanza fra ciò che appare e le “acrobazie dei motti” che “non incontrano / radure simili a loro”, e così divengono illeggibili o tutt’al più si dissolvono in figure allusive. La desolazione caratterizza lo spazio infinito che incombe sul tempo storico. L’intensa rarefazione dell’io lascia il posto a “loro” come coralità poetica globale. Nel cielo cupo di questi testi, aperti e sospesi anche per l’avvio di versi a brandelli e per il perdersi inconclusi, gli squarci di altre esplosioni del linguaggio non possono che far trasparire più fitti misteri, che disvelare l’ampiezza sempre maggiore dell’enigma dell’esistenza. Il compito del poeta è ora quello di far sì che le misteriose “trasparenze” divengano “trasparenze luminose”.
Trasparenze luminose è infatti il titolo della successiva raccolta poetica, pubblicata dalla “ Società di poesia” nel 1987, con presentazione di Enrico Testa dalla quale si enuclea: “Ascoltare ciò che “non ha corpo” e che pur s’affaccia, per varchi e fessure, sulla scena della parola diviene il compito necessario a cui obbedire”. Il poeta-detective cerca di decifrare i misteri dietro le trasparenze, deve vagliare e cogliere segnali fra false apparenze, miraggi spettrali, fuochi d’artificio, cassandre, frastuoni di cavilli e disquisizioni, fra nebbie e vapori. Con le invenzioni letterarie, con le parole, è possibile tendere trappole ai sensi sempre cangianti delle cose, seguire tracce e imprevedibili traiettorie, i “percorsi deboli attraenti della materia”. Ma tutto si confonde quando anche la parola incerta, incapace di definire, deflagra in schegge infinite ingannando sui significati: “…ad alta quota / il testo maschera una scrittura misteriosa / la ragnatela del senso nelle nuvole”. La parola che doveva rivelare si fa essa stessa scrigno di segreti. L’indagine del poeta ha portato ad individuare qualche inizio di trama, la parola sembra aver irretito un dato oltre la superficie, a recuperare una iniziale dicibilità. Già si può concentrare l’attenzione su un reperto, sulla pietra come elemento primario. Il Floema della pietra, che dà il titolo al poemetto del 1988, nelle edizioni Panda, è il tessuto vascolare della linfa all’origine dei tempi e dei linguaggi. Nel floema è forse conservato qualche significato ancora decifrabile, qualche enigma svelabile rivelando verità segrete, o anche questo risulterà un tentativo illusorio nell’inesausta ricerca del senso delle cose, dell’esistenza? Non c’è sicura risposta, la poesia non può concedere scorrevole svelamento, ma uno spostamento di prospettiva: la pietra su cui riflettere è ora quella della città natale.
In Padova diletta, edita dalle edizioni Panda nel 1988, la pietra moltiplica le proprie valenze di significati: segnata dal tempo fa scaturire sogni e ricordi, e riscoprire gli affetti più cari, ferita dall’ignoranza e dal degrado fa scattare lo sdegno, consapevole dello splendore passato cerca un riscatto suggerendo al poeta “la prima voce bioritmica”, il dialetto. Il poeta, solitario nel cerchio della sua città, fra le mura, riconsidera tutto in una meditazione che è anche auto-analisi e analisi della scrittura, ed ogni riflessione esclude “la dialettica rischiosa della materia” e conferma il dubbio sulla possibilità di un vero senso e sui modelli della significazione, l’impossibilità conoscitiva, la consapevolezza che tutto è relativo, asistematico e frammentario per i nostri sensi. Non per questo il poeta cede e rinuncia e nei versi finali di Padova diletta ipotizza nuove possibilità, ad occhi chiusi: “da orbo forse podarìa sorbire coi pori / el sesso del tempo el stramassimo / de la sensibilità podarìa squasi sentire / la tinta dei pensieri la stima / de giustissia e carità, el parlamento dei nuclei / e particele, el segreto del segreto / el senso del senso”.
Padova diletta è di particolare rilievo nella produzione poetica di Ruffato sia perché vi convergono molte delle tematiche precedenti sia perché vi si dispongono complementari il lessico italiano e quello dialettale, rimarcando la molteplicità del linguaggio che è anche la complessità dell’esistente. Non è consentito a Ruffato chiudere gli occhi. La realtà, la sempre dolorosa realtà, lo incalza inesorabilmente: muore la giovane figlia Francesca per intossicazione da stupefacenti. Il libro che il padre avrebbe voluto scrivere con lei, estremo tentativo per salvarla, è ora da solo a comporlo e già il titolo, Prima durante dopo (Marsilio 1989), esplicita i tempi della sua via crucis, del “saliente morire” della figlia. E’ il padre che porta la croce, affranto da un dolore ancora più lancinante per non essere riuscito a salvarla, ma anche fiducioso in una resurrezione. Con espressività addolcite fa riaffiorare dalla coscienza e traduce in versi scene dell’infanzia serena di lei, che però hanno la fugacità di barlumi subito persi nelle pieghe del tempo. I versi recuperati di Francesca dipingono le nubi grigie che già si sono addensate ed hanno incupito l’intero suo mondo di adolescente. Nella sezione “Durante” si colgono le tappe più dolorose: l’incapacità di entrare nei segreti della figlia, la mancanza di dialogo, l’incrinarsi di un rapporto che si fa sempre più “acrobatico” e “sconcertante”, gli ultimi vani tentativi per salvarla dai vortici del caos. Il “Dopo” sopravvive nella dimensione fantastica di prospettive stravolte, in cui soltanto si può sperare la rinascita, estrema illusione: il colloquio ritrovato, ormai pacato, con la figlia assente, che può conversare dell’universo, ritoccare le albe, farsi un’idea del perenne nulla, un dialogo continuo con lei rinata, da affidare “ai nonni per sublimi / passeggiate nel celeste”.
E’ anche la redenzione della parola, della poesia che, se prima alimentava la complessità, ora nella parabola del “dopo”, addita i valori della cultura e della morale. La ricerca di un rifugio e il tentativo di filtrare la memoria e di ricreare porta Ruffato, nel periodo più infelice della propria esistenza, a scoprire dunque nuovi valori della parola. Questa attenzione al linguaggio e alle sue potenzialità avviene mentre si fanno più che mai pressanti certi interrogativi esistenziali, ai quali anche le parole redente non trovano i segni di risposte mostrando i limiti dei propri codici logori. Il poeta intuisce che quel dialetto, già applicato in “Minusgrafie” di Padova diletta, polivalente e soggetto ad infinite possibilità di invenzioni e sperimentazioni, è capace di andare oltre le strutture linguistiche determinate della lingua, e cogliere e rendere dicibili realtà nascoste, sondare i più profondi sentimenti. Il dialetto, comunque strumento all’interno della lingua, messo da Ruffato in sintonia con le tematiche e i contenuti dei precedenti testi, rende ora più complessa ed “altra” e più ricca di segni linguistici la ricerca poetica (3).
Con i versi in dialetto, che sono editi dal 1990 a scadenza annuale, Parola pìrola e El sabo (entrambi nella Biblioteca Cominiana di Rebellato), I bocete (Campanotto) e Diaboleria (Longo), si allarga, affina e rinnova la sperimentazione avviata in lingua, si tenta con una forza espressiva più incisiva di decifrare realtà e sensi nascosti, enigmatici. Il poeta si fa dio ermeneuta e ominide sperduto fra grafie e fonemi apparentemente insignificanti ma nel filtro noumenico: “Davanti a ’sta pratica de parole / femene, a ’sti arzigogoli soranatura / me trovo labirinto imbranà / come scaltrìo da l’orlo del sublime” (Parola pìrola).
La ricerca poetica di Parola pìrola avviene in un registro metapoetico sovraccarico di aggressioni al corpo poetico, con allitterazioni e neologismi, con assonanze e dissonanze in una continua riflessione sul confronto parola-cosa, parola-poesia. A tali impegni sono sottesi temi culturali, etico-sociali e mitici.
Il poeta è cosciente di operare in una struttura linguistica indeterminata, ad infinite dimensioni, labirintica ed abissale, sa che è impossibile far calare o far aderire completamente le parole alla presunta realtà. Con un linguaggio spinto alle punte dell’espressionismo, il poeta si può illudere di irretire e catturare minimi spostamenti di visione, frammenti variabili di realtà: “la parola poetica che inventa pitura / iuta la realtà pelegrina donà / nomina in sordina i malani de l’anema / darente la metafora che zonta tanti / consieri ne la sostanza del mondo”.
Nell’esperire un nuovo linguaggio, il poeta è attento in particolare alle voci del dialetto arcaico, al prelinguismo, come lingua segreta, incerta.
Il mistilinguismo di Ruffato è ora rivestito di una certa classicità per quei termini tratti dalla grande tradizione romanza, in prevalenza latini e provenzali, tributo d’amore per una lingua madre che avvicina alla realtà costruita dal nostro sguardo, e trova connubi ideali fra parole forbite e parole dialettali.
Un linguaggio così composito, a più valenze, ha una grande autonomia creativa, ha la capacità di liberarsi da quelli che Ruffato chiama i “paneséi streti”, e può concedersi licenze e sfizi stonati per la lingua: “na lengua estuaria a toni / alti quasi vocalese che se perde / nei boschi de la nostra vera sostansa”.
Nella raccolta El sabo la composizione idiomatica determina una forte tensione espressiva dai toni cupi rammemoranti, di una tragica coralità. Il discorso poetico è infatti ancora dettato dall’amara vicenda famigliare della morte, avvenuta un sabato, di Francesca, alla quale il libro è dedicato. El sabo svolge una galleria grigiomemoriale di quadri, luoghi di osservazione e riflessione, ove “capita el dialeto no come motivo / de carghe nucleari o trapeli / dirompenti ma come i spasemi / e i cucociae de la vose / co un fià de prima e de malissia / nel farse viva a dire / la so fedeltà de no sparire”.
Verso dopo verso, il testo si riflette nello specchio tenebroso di un’umanità frantumata e insensibile ai valori, di una gioventù che si misura con riti di morte, mentre il potere “melina (…) ponsiopilaterie / gargarismi ganzi co la parola / prevenzione sensa el costruto / de cultura e carità”.
L’interesse di Ruffato per i problemi sociali e per la condizione umana è imperativo e costante, anzi sale di tono il senso etico nella raccolta I bocete.
I bocete è dedicato alle problematiche dell’infanzia e si potrebbe quasi definire, per la stratificazione dei sentimenti, emozioni ed enunciati, un cantico di passione e di amore rivolto alle piccole creature.
Qui il dialetto, l’idioletto personale che è una specie di provenzale, un oggetto del desiderio nel rincorrere l’infanzia senza afferrare nulla, diviene lingua “messaggera” degli “angeli” per parlare di una dimensione particolare che sfugge a qualsiasi norma poetica. E’ nella lingua materna un’ispirazione genuina con una significazione più intensa, di silenzi, enigmi ed ascolti.
Alcune poesie sono programmatiche del dialetto come sperimentazione, come dilatazione linguistica: “I bambini ideogrammi vari / de onomatopea, alone / sluseghin torno a le parole / bocete puteleti pupeti cei / pulsini picinini ninini bei / fregolete de subieti pargoleti / trabacolini schissoti tatarete / radeghini agnelini pierini / …”. Così tutta la raccolta viene ad essere anche una ricerca sulla “lingua-bambina”, una ricerca continua mai disgiunta da un ulteriore approfondimento dei temi delle liriche precedenti. Diaboleria rafforza il “raccordo dialogico” fra i testi riproponendo le prime liriche, insieme a due sillogi più recenti, così da disegnare l’intero percorso di una poetica assai complessa, in cui il dialetto sempre più si vivifica.
Nelle poesie iniziali, raccolte sotto il titolo “El dialeto”, Ruffato liricizza addirittura la propria teoria poetica, la concezione che ha del dialetto. Prende le distanze dal dialetto artificiale, che molti costruiscono in laboratorio per sperimentalismi fine a se stessi, e gli contrappone il dialetto viscerale, la voce materna, e poi “focolare fisiologico e del sapere della comunità” (4).
Quello amato da Ruffato, e qui esaltato, è “el dialeto corporeo”, atavico che con i suoi presignificati, entra in modo naturale nel pensiero e nella scrittura, come dice il poeta “nel pensiero della scrittura”. Le paleoparole e le neoparole sono reinventate nella lingua spontanea e fantastica della poesia.
Il disagio era nato sui banchi delle elementari quando era costretto a comporre in italiano, una lingua che faceva fatica ad usare. Il poeta , che oggi si serve del dialetto per i suoi bagliori espressivi, può capire come fosse allora istintivo per l’alunno “… desmentegarse fra le righe / coèghe mus-ciose del dialeto / che concede license e libertà / negae a la lengua rompibale”.
La seconda sezione di Diaboleria comprende le poesie che, sotto il titolo “Minusgrafie”, facevano parte di Padova diletta.
Ci riporta al momento in cui le luci, i colori e le trasparenze del paesaggio cantate con un lieve velo di malinconia, le festose partecipazioni con gli altri, in fraternità e in perfetta armonia, alla vita ritmata dal ciclo naturale dei mesi, si offuscavano e la realtà non mostrava più contorni precisi ma ambigue forme che avevano bisogno di essere decifrate, la conoscenza si faceva enigma. Da qui scaturivano le grafie e i fonemi presignificanti che Ruffato continua a mettere in campo, pienamente consapevole delle valenze linguistiche che contiene il dialetto materno, fiducioso nella loro possibilità di afferrare uno spessore di realtà a più sensi.
Nelle due sezioni successive, “Specio smemorà” e “L’evoluzione”, una maggiore elaborazione del dialetto materno in funzione letteraria permette al poeta di fare aderire con più incisività paziente il linguaggio ai molti travagli interiori che la vita non si stanca di procurare.
Così accanto ai persistenti ricordi di un lontano eden famigliare, “un canton dulcor de intimità”, i dispiaceri personali si sommano allo scontento per una società “trufalda” che ha una cultura “boara” e pensa soltanto ai propri bisogni materiali.
Il poeta accusa le scienze che vorrebbero spiegarci tutto della natura “baroca”, rivoluzionare l’inconscio dell’individuo; disilluso crede nel proprio dialetto, crede in qualche libro serio che va “digerio par inventare mondi / diversi più beli”.
Lo sperimentalismo linguistico è per Ruffato un’opera di intelletto e di fantasia, fra le ambiguità verbali, “le ombre significanti” e i silenzi, oltre le norme del linguaggio, un’avventura imprevedibile a cui il poeta non si può sottrarre se vuol spingere all’estremo grado la ricerca di un possibile senso nascosto delle cose, la disamina delle lacerazioni interiori, la riflessione su un mondo “intossicato” (5).
In Etica declive (Manni, 1996) l’impegno poetico che sembrava rivolto tutto al dialetto, ritorna inaspettatamente alla lingua. Il poeta, dopo una ricerca protratta e puntigliosa, nei vari campi semantici, sceglie le parole che accostandosi si contaminano ed impreziosiscono, le soppesa come un orafo, le modella come un vetraio di Murano, sceglie le più dotate di valenze espressive, mentre altre sono trainate, si insinuano, si frammischiano. Il linguaggio così concepito è soltanto in parte controllato dal poeta. Sono i versi di più agevole lettura, in cui è ribadito lo sdegno per le ingiustizie “irriducibili”, per le “bugie etiche”, come di chi prova risentimenti soltanto quando vede immagini televisive di morte e di miseria mentre si riempie per bene la pancia di cibo. Gli strali si abbattono ancora contro le dittature e la pena di morte, contro le mode letterarie e i critici che, assunta una rinomanza all’interno di un “ghetto”, pontificano onnipotenti come “piccoli capobastoni”.
Rispetto ai libri precedenti, qui il controllo verbale è maggiore con termini per lo più abituali nel linguaggio comune e più disponibili a fornire la sicurezza di un ordine logico, di una descrizione, a stoppare sulla carta, come coleotteri con lo spillo, vari aspetti della realtà, della vita quotidiana e comunitaria: “Il soggetto prudente rivuole / un bagno demetafisico fresco / … afferra la mano di parole / che mantengano in vita”. Ma la realtà è “in caduta libera” e altre parole, che sembravano frammenti a cui potersi aggrappare, segnali su prospettive labirintiche e complesse, su tempi evanescenti, premono e sbilanciano quelle usuali. Piuttosto si ribellano come fossero “squilli inconsci”, “lessico isterico mero segno dell’io”, si avvalgono della stessa forza inventiva del poeta che le ha evocate, per contorsioni ambigue su se stesse, per innervarsi in geroglifici, arabeschi ardui, in interrogativi sempre più angosciosi. In questo corpo poetico destabilizzato e destabilizzante, sfuggente perché esilia nel silenzio quando gli si chiedono risposte, in vuoti che il lettore è stimolato a riempire, non c’è dunque redenzione né salvezza ma una “scena che non si lascia capire”, senza rivelazioni, orizzonti e domani luminosi, una logica misteriosa, la consapevolezza che con i nostri sensi non si possono avere certezze. Il poeta, ingannato dalle sue stesse parole, non crede più a ciò che vede, avrebbe bisogno di “lenti più veloci”. La realtà gli appare deformata, surreale: “…triangolano nella schiuma / ideografica su e giù pesci luna” e “le colombe tubano salute metafisica”. Inutilmente l’ “opera d’intelletto” tenta di “captare dalle cose / odori verbali miniature”, inutilmente “el metro fondo del dialeto”, nell’ultima parte del libro, cerca di ridare misura alle “s-cese de vita fantasia”. Le parole hanno ancor più distanziato le cose creando un nuovo spazio senza prospettive; il senso è altrove e ogni artificio della memoria e dell’ironia è condannato a cadere in un gorgo afasico. In un “labirinto di sintomi e di fantasmi”, “l’essere è per certo vertigine / indelebile presenza bianca disputa / ai margini del tutto, non ha pace”. Oltre le vane apparenze, resta come unico ed estremo valore soltanto l’etica, nella quale l’uomo è completamente responsabile, ed è quindi colpevole se l’etica in questa “vastità decadente” è “declive”. Il titolo stesso del libro contiene il messaggio morale di Ruffato, per una morale che non sia più “declive”.
La ricerca espressiva del poeta è così intensa e continua da verificarsi anche quando i testi poetici già editi sono riuniti in volume. Così le raccolte in dialetto prima di confluire nel volume Scribendi licentia (Marsilio, 1998) sono, come scrive lo stesso autore nella prefazione, “oggetto di assillante revisione e selezione consona ad un mio costante rovello del dire e del comunicare, sia in ambito scientifico che letterario”. Il poeta, mai appagato della propria pagina, pressato dalla fantasia inventiva e dall’urgenza etica, rinnuova sistematicamente linguaggi, sintassi e stili (6), si immerge in inusuali fondali, fra insoliti polisensi, simboli e metafore, dove la complessità delle forme espressive e strutturali è specchio delle lacerazioni interiori, dei polimorfismi estetici, del vortice misterioso di vita e morte (7).
Le poesie inedite del volume, nelle sezioni “Smanie” (1995), e “Sagome sonambole” (1993-’97), sono nella forma di uno stralunato diario, di un calendario in cui sul tessuto sbrindellato del divenire, si intersecano complicate teorie sulla lingua, irreali rivisitazioni di luoghi conosciuti, distorsioni memoriali, esplosioni barocche di simboli e metafore. Tutto resta sulla soglia di porte che celano misteri. Nelle successive poesie inedite dal titolo “Vose striga” (1990-’97) la voce da protagonista è l’unica interlocutrice possibile, la complementarietà, come recita un verso: “Ma mia vose la xe cussì fata: / né tu senz mei, né jeo senz ti”.
La voce è la certezza dell’esserci, l’imput che nasce nel cervello e poi si propaga accendendo “… tuti i segnali / co s-ciantisi imaginativi”.
Inglobata nella materia, riesce a liberarsi imponendo il suo dire spirituale; strega o gitana può creare bagliori e fuochi d’artificio, o può sprofondare, e far sprofondare, nel silenzio e nel buio. Senza la voce non esisterebbero né l’uomo né il poeta perché è nella fonè la linfa per la vita e per le invenzioni letterarie. Specchio d’una interiorità ad infinite dimensioni, di una letterarietà aperta ad ogni sperimentalismo, la voce “pantagruelica” tutto ingloba, dagli echi dell’origine dell’universo e del mito, allo stormire del vento su “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”, ai fremiti delle città dei morti. Anche le morti eterne, come le nascite, alternanze di buio e luce, sono per Ruffato “divaganti suoni”.
Le poesie conclusive, “Giergo mortis” (1997), riflettono sul “… el morir, ’na vecia corona / de sentimenti e venture …”. Il poeta, crucciato da tutto e “appassito” nella materia ma non nell’anima, è così sempre più rivolto a quei “sentimenti e venture” che la morte per lui ha la presenza di una voce, di “ ’na cogitassio spirituale de ceni / ’na condensa sita d’un anzolo speciale / che suna peso e sembiansa in cadavare / novo a oci bassi stuai par tuti” (“un pensiero spirituale di cenni / una condensazione zitta di un angelo speciale / che assume peso e sembianza in cadavere / nuovo ad occhi bassi spenti per tutti”). La morte è per Ruffato il flettersi alla materia dell’anima, che poi ritrova la propria “genuina” immortalità , e torna a “…suniare / col spirito cosmico…”, quasi armonia virtuale. Resta il mistero, il limite sconosciuto, là dove parole e figure non hanno accesso.
E’ uno dei tanti limiti che il poeta aveva cercato di superare anche con le sperimentazioni logoiconiche de Lo sguardo sul testo (Campanotto, 1995). In quelle nuove creazioni le parole assumevano maggior consistenza e determinazione agendo con le immagini e nelle immagini, ma nonostante ciò i confini della conoscenza rimanevano invalicabili. Dopo quaranta anni di alchimie linguistiche, troviamo Ruffato alla fine del millennio nel suo laboratorio ad inventarsi ancora nuovi linguaggi. Le strutture metriche alterate di Saccade (Libritaliano, 1999) sperimentano e confondono latinismi e neologismi, parole auliche e gergali, termini botanici e anatomici, inglesismi e spagnolismi. Con questo ulteriore “branco di parole effettuali / che sfiorano la verità…”, altri geroglifici sono decifrati, altri segnali captati, altre superfici smosse. Si è disposta una diversa ragnatela di polisensi per una riflessione sempre più penetrante sulle distorsioni fra tempo mentale e biologico, sui paesaggi “rovesciati”, sui progressi “velenosi”. Il risultato è il ritratto della decadenza del secolo: la nostra interiorità, fatta di “vuoti e barlumi incoerenti”, è sconosciuta a noi stessi che a fatica esprimiamo emozioni. Incomprensibili e senza senso sono le apparenze, impossibili le alterità, false le certezze, mentre il destino è di inquietudini e sofferenze, di inganni e solitudini, in attesa della morte. Nella meditazione di Ruffato non ci sono consolazioni, c’è un severo richiamo alla “fantasia intensa” incastonata di “pietre preziose” che si chiama anima, c’è la fedeltà incondizionata all’“avventura incessante”, perigliosa e senza oasi, della letteratura, dell’invenzione poetica. Soltanto questi valori, mentre la scena aperta è sospesa, possono far sì che non resti un “disegnosogno” l’etica armonia. Nella sua continua tensione esperenziale e sperimentale il poeta ha costantemente indicato una vita “ad maiora drita”, un’esistenza tesa a cose superiori. Racchiuso sempre più in se stesso, ora “senex stanco al tramonto”, il poeta confabula con il vuoto e il silenzio, tiene lontana la morte con la forza della memoria che resiste ancora, con la vitale lucentezza dei ricordi. Così si svolgono le ulteriori liriche di Ruffato, riunite in Sinopsìe (2002) e pubblicate nella pregevole collana “Elleffe”, che lo stesso Ruffato dirige per l’editore Marsilio. E’ poesia di evanescenze, mentre il buio incalza e sibila la morte, si fa consapevole il sentimento della fine, senza più speranze e attese. Ma è anche poesia di meraviglie perché il viaggio iniziato più di quaranta anni prima con Tempo senza nome “verso le sorgenti dei grandi fiumi cosmici e del mito”, ora, prima della morte e del nulla, fa intravedere lampi e bagliori, schegge di luce su cui sono impresse immagini del passato, affetti ed emozioni. Questi spazi di memoria, che lasciano senza corporeità, riportano al poeta incanti, volti e voci delle persone amate, pure essenze, ma al tempo stesso sono ulteriori riflessioni sui propri rimorsi, smarrimenti e tormenti, su malinconie e solitudini, un rimuginare sulla propria coscienza inquieta, sull’immaginario ormai disincantato. I semi delle parole, cercate dal poeta, si tritano in “polvere muta confusa”, in “buio essenziale di segni”.
Come al solito la poesia, illusorio sogno creato dall’immaginazione e dalla fantasia, e che qui fa parlare anche il nulla, si rivela un’arte che non consola né rassicura: non è permesso “Potersi oscillare nell’azzurro / (…) / ed inseguire odori buoni”. Al contrario proietta ombre di fantasmi e dà la vera consistenza della condizione umana: “Mi ritrovo misera stalagmite / di nostalgia e parole cineree”, in attesa de “l’urlo ultimo del silenzio, la nostra monocorde / cenere d’oblio …”.
Benché così tutta la raccolta venga ad essere un ‘elaborazione del lutto, della morte, e prevalga l’ombra mentre il buio contrasta la luce, il poeta non riesce a nascondere le proprie nervature polemiche, contro gli egoismi per riscoprire con “coscienza etica” la vera umanità, contro le tecnologie che degradano la dignità umana, contro il “narcisismo culturale” e “l’inanità” dei premi letterari e dei libri senza valore.
Con l’ormai caratteristico linguaggio sperimentale con l’attenzione particolare alla musicalità dei versi come aderenza alla sostanza, con richiami “all’idioma materno primo alimento / bioritmico e fonte di gioia e di libertà”, il libro sembra chiudere un lungo percorso, di fronte al silenzio e al nulla. Ma proprio laddove le chiusure sembrano definitive, il poeta continua a discettare sulle funzioni dell’”azione poetica” che deve essere sempre tesa alla ricerca dei “veri sensi dell’essere”, continua a richiamare verso i “veri valori della vita”, ad etiche addirittura “inedite”, ideate dalle voci del silenzio, “nel vento e nei colori del vuoto”. E’ evidente l’originalità del percorso poetico di Ruffato, del suo cimento in territori inesplorati. Nessun compagno di strada dunque se non un antecedente che lo stesso Ruffato ci indica con La medicina in Roma antica (Utet, 1996), dove traduce il Liber medicinalis di Quinto Sereno Sammonico. E’ un testo – osserva lo stesso traduttore – “talora oscuro e retrattile con arguto uso dei luoghi comuni, con varianti grammaticali e sintattiche in una lingua petrosa che ha il peso delle cose e della verità ed è temperata talora di magia”. Si rispecchiano a distanza di secoli lo sperimentalismo linguistico che si avvale di termini scientifici, medici e letterari e della molteplicità dei livelli semantici, e quello stilistico con licenze metriche e sintattiche rispetto alle norme della lirica classica. Si riflettono la dedizione alla poesia e l’esigenza di messaggi civili ed etici. E’ inoltre da osservare il particolare rigore che Ruffato riserva alla traduzione in lingua delle sue poesie dialettali, nel rispetto dell’ordine delle parole così da conservare ritmi e cadenze. L’importanza della poesia di Cesare Ruffato nella letteratura italiana e straniera è sottolineata dall’enorme bibliografia, di saggi, intere riviste, volumi, su ogni suo libro, e dalle traduzioni delle sue poesie in molte lingue, dal castellano al croato, dal tedesco allo svedese, dallo spagnolo al portoghese e neerlandese, dal francese all’inglese.
*
NOTE
1) Questo tipo di applicazione, fatta di botto in poesia da Ruffato, consapevole che il linguaggio è ormai “tutto, tuttissimo” tecnico-scientifico, stupisce e irrita qualche lettore e critico. E’ “un’operazione al limite dell’aridità e della totale chiusura a un pubblico” scrive Zanzotto che considera il linguaggio di riferimenti scientifico-tecnologici in rapido movimento il più inventivo e più in sintonia con certi aspetti focali della realtà. Ruffato è per Zanzotto “erede, in qualche modo,di una lontana tradizione sperimentalistica di ambiente padovano e veneto che aveva dato frutti estremi nei secoli scorsi”, “Cesare Ruffato: Nous e paranoia” (1974), pp. 93-96, in Aure e disincanti, Mondadori, 1994.
2) “Parola bambola è un libro ancor più significativo dei precedenti in quanto li riassume tutti e nello stesso tempo li supera e li annulla, quasi in una retrocessione, o in una carrellata indietro della macchina da presa”, A. Zanzotto, “Nuovi orizzonti di Cesare Ruffato”, in “Poliorama”, n. 3, pp. 186-189, dic. 1984.
3)Si matura nel 1989, con la morte della figlia, una svolta linguistica. Dice lo stesso Ruffato: “In una fase di lutto, disperazione e senso di colpa con ridotta confidenza e credibilità in tutto, l’idioma mi ha innescato una urgenza di scarto e di curiosità altra, di maggior aderenza alle essenze delle cose e di accrescerne i segreti, un proposito di raccontare l’illeggibile verità poetica ad elevata termica antropologica e di coscienza. Come un rivivere atteso navigato da parole giunte da mondi lontani con respiro altro in una complessità nebulosa di forme espressive e strutturali, oniriche e sinestetiche del caos originale e del silenzio bianco. Una metamorfosi della vita e del sentire la fine, a poco a poco confluenti nella quiete della solitudine e del ritorno preverbale”, cfr. l’intervista a Cesare Ruffato di Achille Serrao in “Pagine”, n.25, gen.- apr.1999.
4) Ruffato in “L’eroica fenice. Otto domande sulla poesia a Cesare Ruffato”, a cura di L. Morandini, in “Campi immaginabili”, fascicoli III-1993 / I-1994.
E ancora Ruffato: “Il dialetto continuerà a custodire in sé la cripta epistemologica, il fantasma del mistero, il forte rapporto del nome con le cose, l’anima della parola. Il dialetto è luogo franco di metafore verbali, ogni parola è un cuore di sinestesie e di fluttuazione di senso”, p.86, in Marin Mincu, I poeti davanti all’apocalisse, Campanotto, 1997.
Inoltre, come scrive Giuseppe Marchetti “il poeta usa il dialetto come il verso libero lo usavano Lucini e Marinetti, cioè per dissacrare l’aulicità della poesia in lingua, cosa che non è mai accaduta in un poeta italiano di questo secolo”, “Il percorso della poesia di Ruffato”, pp. 17-24, in AAVV., Steve per Ruffato, a cura di C. A.Sitta, Edizioni del Laboratorio, 1997.
5) Pier Aldo Rovatti aggancia lo sperimentalismo poetico di Ruffato alla linea “un po’ bizzarra che ha il suo luogo d’origine nel grande puzzle joyciano Finnegan’s Wake e che scende a quote accessibili nella prosa di Gadda”, “Le parole di Ruffato”, in “La Battana”, pp. 75-81, n. 130, a. XXXV, ott.-dic. 1998.
6) Per un’analisi delle unità foniche e dei componenti sintattici e semantici cfr. Franco Musarra, “Le “elastiche combinazioni””, in AA.VV., Poetica di Cesare Ruffato, Quaderno di Testuale, pp. 74-89, n.5, Verona, 1997-98.
7) Una approfondita analisi testuale di varianti e contenuti è nel volume di Elettra Bedon, Al di là della veste, Hebenon, Milano, 2000.
Vedere lo studio esegetico, di particolare rilievo e cura, che di Scribendi licentia fa Alfredo Stussi in “Tutta la “poesia in volgare padano” di Cesare Ruffato”, in “Belfagor”, pp. 439-452, n.322, a.LIV, luglio 1999. Di Stussi si segnala inoltre “Aspetti della poesia dialettale contemporanea”, pp.89-97, in AA.VV., Poesia. Tradizioni, identità, dialetto nell’Italia postbellica, Le Lettere, Firenze, 2000.
Gli atti del Convegno “Cesare Ruffato. La poesia in dialetto e lingua”, tenuto a Padova nel 1999, sono nel volume edito dagli Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali di Pisa-Roma a febbraio del 2001.
Cesare Ruffato è nato a San Michele delle Badesse[2], in provincia di Padova nel 1924, ma trasferitosi fin dai primi anni nel capoluogo. Dopo gli studi classici, ha conseguito la laurea in Medicina e le libere docenze in Radiologia (1958) e Radiobiologia (1964), per le quali ha scritto varie opere scientifiche. Il suo impegno nella poesia comincia a partire dagli anni sessanta, con prove sempre più significative, sino ad essere considerato un poeta sperimentale tra i più originali del Secondo Novecento italiano (Vd Francesco Muzzioli, La poesia di Cesare Ruffato, Ravenna, Longo, 1998). Molte le traduzioni in altre lingue, tra cui spagnolo, portoghese, tedesco, croato, inglese, fiammingo, francese.
Nella poesia di Cesare Ruffato è presente il lessico della scienza; nonostante l’uso sovrabbondante dei tecnicismi, l’intento e l’esito non è esclusivamente decorativo. Nei testi poematici, i residui tecnoscientifici giocano un ruolo funzionale, che non è gioco linguistico, ma indagine, ricerca che tende alla gnoseologia.
La propensione all’accumulo lessicale e il gusto per la divagazione, conferiscono alla poesia di Ruffato una forte spinta narrativa; e didattica, data dall’uso del metalinguaggio e dalla razionalità analitica che permette di verificare l’attendibilità dei risultati, prodotti dai suoi processi cerebrali. Il cerebralismo priva i versi di echi lirici e intimistici, inibisce ogni soluzione utopica o fantastica a favore della ironia e della scomposizione dei casi e dei corpi.
Come l’ingegnere Gadda, il medico Ruffato, attraverso l’intreccio dei registri linguistici, rappresenta una complessità caotica; che assume toni eruditi dai risvolti satirici, “petrosi” e demistificanti.
La sua poesia indaga i corpi umani con un piglio che non appartiene alla tradizione teoretica o morale della filosofia; il piglio, epistemologico, s’interessa di anatomia e di biologia, e delle allegorie che queste possono suscitare. Attraverso la diagnosi del medico poeta; il parallelismo corpo/organismo collettivo, malattia/male; denuncia le patologie e le deformità di una società che a ogni costo insegue il benessere. Le invettive della sua poesia si scagliano contro i miti del progresso indefinito; denunciano la disastrosa politica e economia ecologica; sottolineano le manipolazioni che possono attuare i mass media; in breve s’interessano di società, esistenza e resistenza.
Altritaliani-Exposition Artemisia Gentileschi – organise pour ses lecteurs deux visites-guidées en italien de l’exposition “Artemisia, héroïne de l’art” au Musée Jacquemart-André, Paris 8e, le lundi 31 mars et le mardi 29 avril 2025 à 16h30. Notre guide-conférencière sera Barbara Musetti, docteur en histoire de l’art. Les inscriptions pour cette sortie culturelle à Paris sont ouvertes! Voir comment procéder en bas de page.
Présentation de l’exposition « Artemisia, héroïne de l’art »
Le Musée Jacquemart-André met à l’honneur à partir du 19 mars et jusqu’au 3 août 2025 l’artiste romaine Artemisia Gentileschi (1593 – vers 1656). Personnalité au destin hors norme, cette protagoniste de la peinture caravagesque est l’une des rares artistes femmes de l’époque moderne ayant connu de son vivant une gloire internationale et qui put vivre de sa peinture. Elle sera la première femme académicienne de Florence. À cette distinction, elle devra sa gloire et surtout la liberté – essentielle pour elle – de créer et construire sans répit son œuvre.
À travers une quarantaine de tableaux, réunissant aussi bien des chefs-d’œuvre reconnus de l’artiste, des toiles d’attribution récente, ou des peintures rarement montrées en dehors de leur lieu de conservation habituel, cette exposition met en valeur le rôle d’Artemisia Gentileschi dans l’histoire de l’art du XVIIe siècle et de l’Italie baroque.
L’exposition tend notamment à démontrer la profonde originalité de son oeuvre, de son parcours et de son identité, qui demeurent encore aujourd’hui une source d’inspiration et de fascination. L’histoire d’Artemisia traverse les siècles, et la lecture que l’on peut faire de son oeuvre – reflet de son vécu et de sa résilience – s’avère intemporelle et universelle.
Certaines de ses œuvres seront mises en regard de tableaux d’artistes avec qui elle entretenait des liens professionnels ou familiaux, notamment son père Orazio Gentileschi ou le peintre français Simon Vouet.
[ Le musée Maillol lui avait consacré une exposition en 2012. Domenico Biscardi avait alors réalisé pour Altritaliani une interview-son du commissaire de cet événement. Nous vous proposons de la ré-écouter ICI ou ci-dessous. ]
Visites-conférence Altritaliani en langue italienne ouvertes à tous et toutes sur inscription (15 personnes maximum). Durée autorisée 1h15.
DATES :
Lundi 31 mars à 16h30 – rendez-vous à l’entrée du musée à 16h15
Ou
mardi 29 avril à 16h30– rendez-vous à 16h15
INSCRIPTIONS:
Si vous êtes intéressés, prière d’envoyer un mail à evolena@altritaliani.net
Après sa confirmation de disponibilité, votre chèque de validation devra être libellé à l’ordre d’Altritaliani et adressé au siège de l’association: 51, avenue de La Motte-Picquet, 75015 Paris. Prix global 35€ (comprenant le billet d’entrée, les audiophones, participation au droit de parole et conférence de Mme Musetti ). Le chèque sera encaissé après la visite.
Lucy Maud Montgomery nacque a New London, in Canada, nel 1874 e morì a Toronto nel 1942. Nella sua vita pubblicò numerosi libri per ragazzi, raggiungendo l’apice della popolarità nel 1908 con Anna dai capelli rossi, primo di una serie di otto romanzi, tutti pubblicati da Gallucci con una nuova traduzione di grande successo. Stampate in decine di lingue, le storie di Anna hanno continuato ad avere seguito fino a oggi, grazie anche alla celebre serie animata giapponese che la tv italiana ha trasmesso a partire dal 1980 e alla recente fiction distribuita da Netflix in tutto il mondo. La produzione letteraria della Montgomery, che va ben oltre Anna dai capelli rossi, è oggetto negli ultimi anni di una meritata riscoperta. Tra le sue opere più note ci sono la trilogia di Emily di New Moon, interamente pubblicata da Gallucci, e i due romanzi di Pat di Silver Bush, intenso omaggio al sentimento profondo che legò per tutta la vita Lucy Maud Montgomery all’Isola del Principe Edoardo, dove la scrittrice trascorse la sua infanzia.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Anne of Green Gables is a beloved book. Readers fell in love with the story and main character right from the very beginning, when it was first published in 1908. Since then, the book has become a literary classic, captivating generations of readers with charm and spirit. It has even helped shape young adult literature, introducing a heroine whose imagination, intelligence, and determination resonated across time.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Born on Prince Edward Island in 1874, Lucy’s childhood was shaped by both tragedy and imagination. Her mother died of tuberculosis before Lucy turned two, and her grief-stricken father left town alone, placing his young daughter in the care of her strict grandparents in the rural town of Cavendish.
There, in a house overlooking the island’s rolling fields and red cliffs, Maud, as she preferred to be called, found solace in books and the natural beauty around her. Often left alone, she developed a deep inner world, filling her solitude with stories she created in her mind.
By teenage years, Maud had begun writing in earnest, filling notebooks with poetry and short stories. She later wrote in her autobiography that storytelling ran in the family and that she had inherited the talent from her relatives. But Maud was also encouraged by a teacher, and as a result, submitted her first poem for publication at the age of 16. It was accepted by a local newspaper.
After high school, Maud pursued higher education, enrolling in Prince of Wales College, where she completed the two-year teaching program in just one year, graduating with honors. Then, she worked as a schoolteacher in small rural communities, a common path for educated women of her time.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Teaching provided financial independence, but her true passion remained writing. In the evenings, after long days in the classroom, she filled pages with poetry and prose, submitting stories to magazines across Canada and beyond. The rejection letters piled up, but so did her determination.
In 1895, Montgomery took a bold step and enrolled at Dalhousie University in Halifax, Nova Scotia, to study literature. But after a year, financial constraints forced her to return to Cavendish. There, she continued teaching while also caring for her ailing grandmother. And just as before, she continued writing, publishing hundreds of short stories and poems in literary magazines, building a reputation as a skilled storyteller.
In 1905, she wrote a novel inspired by a childhood anecdote about an orphaned girl mistakenly sent to a family expecting a boy. She expanded on that small idea, bringing to life the spirited Anne Shirley in Anne of Green Gables. Confident in her work, Maud submitted the manuscript to several publishers, only to receive rejection after rejection.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Undeterred, she set the manuscript aside in a hatbox for two years before trying again. In 1907, she sent it to L.C. Page & Company in Boston, and this time, the response was different. The publisher saw potential in the novel and agreed to print it. When Anne of Green Gables was released in 1908, it became an immediate success, selling over 19,000 copies in its first five months. It was just the beginning.
Ironically, though, Maud didn’t consider Anne of Green Gables her best work. That honor went to Emily of New Moon. “It is the best book I have ever written—and I have had more intense pleasure in writing it than any of the others—not even excepting Green Gables. I have lived it, and I hated to pen the last line and write finis,” Maud wrote about it.
Years later, Maud would be asked by an editor to write her autobiography. She obliged and began the story with the following:
“WHEN the Editor of Everywoman’s World asked me to write ‘The Story of My Career,’ I smiled with a little touch of incredulous amusement. My career? Had I a career? Was not — should not — a ‘career’ be something splendid, wonderful, spectacular at the very least, something varied and exciting? Could my long, uphill struggle, through many quiet, uneventful years, be termed a ‘career’? It had never occurred to me to call it so; and, on first thought, it did not seem to me that there was much to be said about that same long, monotonous struggle. But it appeared to be a whim of the aforesaid editor that I should say what little there was to be said; and in those same long years I acquired the habit of accommodating myself to the whims of editors to such an inveterate degree that I have not yet been able to shake it off. So I shall cheerfully tell my tame story. If it does nothing else, it may serve to encourage some other toiler who is struggling along in the weary pathway I once followed to success.”
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Lucy Maud Montgomery nasce il 30 novembre 1874 ma la madre muore 21 mesi dopo e lei viene affidata e cresciuta dai nonni materni che vivono in una piccola comunità rurale sull’Isola del Principe Edoardo, Cavendish.
Vicino alla scuola di Cavendish che Maud frequentava c’era un boschetto di abeti rossi attraversato da un ruscello dove gli scolari riponevano le proprie bottiglie di latte, come abbiamo visto fare nel cartone animato “Anna dai capelli rossi”.
Scrisse la prima poesia a 9 anni intitolata Autumn.Con il primo denaro guadagnato dalla vendita di un racconto a una rivista, acquistò 5 volumi di poesia: Tennyson, Byron, Milton, Longfellow, Whittier.
Spesso mi capita di identificarla con Anne, il suo alter ego ma è proprio lei a confessare: “Non fosse stato per gli anni da me trascorsi a Cavendish, Anne of Green Gables non sarebbe mai stata scritta”.
Durante la sua breve carriera di insegnante, Montgomery ha insegnato in tre scuole dell’isola: Bideford, Belmont e Lower Bedeque rispettivamente. Lasciò l’insegnamento per un anno (1895-1896) per studiare corsi selezionati di letteratura inglese presso la Dalhousie University di Halifax, in Nuova Scozia, diventando una delle poche donne del suo tempo a cercare un’istruzione superiore. Fu durante il suo soggiorno a Dalhousie che ricevette i primi pagamenti per i suoi scritti.
Nel 1898, mentre Montgomery insegnava a Lower Bedeque, suo nonno Macneill morì improvvisamente. Tornò subito a Cavendish per prendersi cura di sua nonna che altrimenti avrebbe dovuto lasciare la sua casa. Rimase con sua nonna per i successivi tredici anni, ad eccezione di un periodo di nove mesi nel 1901-1902, quando lavorò come correttore di bozze per The Daily Echo ad Halifax.
Non vi ricorda qualcosa?
Nel 1905 scrisse il suo primo e più famoso romanzo, Anne of Green Gables . Inviò il manoscritto a diversi editori, ma, dopo aver ricevuto rifiuti da tutti, lo ripose in una cappelliera. Non si lasciò abbattere e ci riprovò; fu pubblicato finalmente nel 1908 e divenne immediatamente un best-seller!
La proposta dell’editore di scrivere la storia della sua carriera, a 42 anni e dopo aver pubblicato Anne of Green Gables, le diede la certezza di aver raggiunto una di quelle vette sublimi e di essere considerata quindi una scrittrice di successo. Lucy Maud Montgomery scelse come titolo della sua autobiografia un verso di una poesia, Alla Genziana a frange, letta per caso in un giornale e conservata tra i libri di scuola, che recita:
Poi un sussurro fiorisce dal tuo sonno
Come posso scalare
Il sentiero alpino, così duro, così impervio,
Che conduce a vette sublimi;
come posso raggiungere il lontano traguardo
di una vera e onorata fama,
e scrivere sulla sua lucente pergamena,
un umile nome di donna.
Lucy Maud Montgomery-Scrittrice canadese-Biblioteca DEA SABINA
Nel libro ripercorre soprattutto gli anni della sua infanzia e ci confessa che lei era una ragazzina dalla fervida immaginazione con l’abitudine di dare un nome a tutte le cose che la circondano. Lucy Maud svela spontaneamente i retroscena che hanno suggerito alcuni degli episodi più esilaranti che vedono Anne come protagonista (come l’incidente della torta farcita), e soprattutto i riferimenti autobiografici tra l’autrice e la sua eroina sui quali spesso ci si interroga. Così veniamo a sapere che come Anne anche la piccola Lucy entrò in classe con il cappello ancora indosso suscitando l’ilarità generale e sprofondando in un tremendo imbarazzo e che anche lei aveva paura di attraversare da sola, specialmente verso sera, il boschetto infestato. Aveva un quadernino Lucy, in cui annotava idee per trame, avvenimenti e personaggi e proprio lì andò a scovare quella relativa a una “Coppia di anziani fa domanda a un orfanatrofio per un bambino. Per errore viene inviata loro una bambina”.
Una passione di Lucy Maud Montgomery erano gli scrapbooks. Lucy ha realizzato e composto tantissimi album, ognuno a tema diverso; in una mostra organizzata sugli scrapbooks che le sono appartenuti, sono stati rintracciati degli evidenti collegamenti con Anna di Tetti Verdi: le foto di giovani donne sembrano corrispondere ad alcuni dei personaggi descritti nel romanzo; le descrizioni di piante e fiori possono essere collegate a ritagli dai cataloghi di semi di John Lewis Childs.E poi ci sono le maniche a sbuffo, ci sono molte foto di ragazze in abiti bianchi con maniche a sbuffo, magari quelle pubblicizzate sulla rivista Ladies ‘Home Journal. Al link li potete sfogliare
A proposito dei suoi romanzi Lucy Maud Montgomery dichiarava che: Anne era la realizzazione di un sogno, La ragazza delle storie era il suo preferito “la ragazza che più di ogni altra è me stessa è Pat di Silver Bush”. E poi, Enrico De Luca, studioso e traduttore del ciclo intitolato ad Anne di Tetti Verdi, ci rivela che terminato Emily di Luna Nuova, nel febbraio del 1922 Lucy scrisse che Emily era il miglior romanzo che aveva scritto.
A questo punto non sappiamo quale suo romanzo ella amasse di più!
Dopo la morte di nonna Macneill nel marzo del 1911, Montgomery sposò il reverendo Ewan Macdonald, con cui era segretamente fidanzata dal 1906. Da sposati si trasferirono a Leaskdale, in Ontario, dove Macdonald era ministro della chiesa presbiteriana. Ebbe tre figli: Chester (1912), Hugh (nato morto nel 1914) e Stuart (1915); assisteva il marito nei suoi doveri pastorali; curava la loro casa; e ha continuato sempre a scrivere romanzi, nonché racconti e poesie.
Ha continuato a scrivere nonostante il suo dolore per la morte del figlio neonato Hugh, gli orrori della prima guerra mondiale, la morte del suo amato cugino Frede Campbell e la scoperta che suo marito soffriva di malinconia religiosa.
Maud Montgomery Macdonald morì a Toronto, Ontario, il 24 aprile 1942; Ewan Macdonald morì nel novembre del 1943. Morta, Montgomery tornò nella sua amata Isola del Principe Edoardo, dove fu sepolta nel cimitero di Cavendish, vicino al sito della sua vecchia casa. Tutti i suoi 20 libri tranne uno, sono ambientati sull’isola del Principe Edoardo.
da “Stige. Tutte le poesie. (1990-2002)”, Progetto Cultura Edizioni, 2018
Stige (1992)è l’opera che rivelò il talento di questa straordinaria poetessa. Il libro appare estraneo al clima culturale dei primi anni Novanta, si presenta come un susseguirsi di fotogrammi in una lingua inventata («inventata et invetriata»). C’è un personaggio femminile che parla un idioma inventato che oscilla tra il sacro e l’osceno; il personaggio è recluso «nel monasterio» di un lontanissimo medioevo che parla un latino ingobbito, una «neolingua», lo definisce Amelia Rosselli.
Sì, mio caro lettore, dobbiamo amare le stelle
Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
altro bene, non per questo
avremo più o meno male, più o meno bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…
Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wermacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione nel lager.
Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
***
A giudicare dal lento movimento
dei corvi che in alto nel cielo disegnano
vortici di strida
non ci resta che imitare la conversazione degli Angeli,
invetrare e invetriare una lingua tutta nostra
che sia monda degli stilemi del peccato
e dall’usura delle stelle.
Annunci
Segnala questo annuncioPrivacy
E se il candido Abele è stato ucciso
il giusto Salomone e la corrotta corte
di Babilonia caddero
e il lusso di Creso disparve
quid juris?.
Aeternitas est merum hodie.
Non erubesco meae miseria
plango non esse quod fuerim.
***
La luna splende di un lilla sempre più tenue
un cono di luce intenso e fragile.
Io sono nuda davanti allo specchio.
Sono l’amante del Faraone, le ancelle mi preparano
all’udienza con il dio vivente.
La sfera della luna rotola nel cielo
come un carro trainato da schiavi fenici.
Forse anch’io sono intensa e fragile.
Tra me e il dio c’è una distanza d’aria.
C’è soltanto aria che puoi toccare come una palla da basket.
Tra me e il dio non ci sono parole.
Non c’è bisogno di parole.
Isotopi delle parole i sospiri
come ondate successive di un mare sconosciuto.
*
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.
Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.
*
È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.
*
Con rumore di carrucola venne giù il temporale.
Città lituana, nitida e trasparente come un merletto di Murano.
«Ricordi?»; «sì, la ricordo come un altoparlante
che abbia inghiottito la voce… non più
di un secolo di luce fa. Forse più, forse meno…».
*
Sono arrivati i barbari
«Sono arrivati i barbari, console! – dice un messaggero
che è giunto da luoghi lontani – sono già
alle porte della città!».
«Sono arrivati i barbari!», gridano i cittadini nell’agorà.
«Sono arrivati, hanno lunghe barbe e spade acuminate
e sono moltitudini», dicono preoccupati i cittadini nel Foro.
«Nessuno li potrà fermare, né il timore degli dèi
né l’orgoglio del dio dei cristiani, che del resto
essi sconoscono…».
E che farà adesso il console che i barbari
sono alle porte? Che farà il gran sacerdote di Osiride?
Che faranno i senatori che discutono nel senato
con il mantello bianco e le dande di porpora?
Che cosa chiedono i cittadini di Costantinopoli
al console? Chiedono salvezza?
Lo imploreranno di stipulare patti con i barbari?
«Quanto oro c’è nelle casse?»
chiede il console al funzionario dell’erario
«e qual è la richiesta dei barbari?».
«Quanto grano c’è nelle giare?»
chiede il console al funzionario annonario
«e qual è la richiesta dei barbari?».
«Ma i barbari non avanzano richieste, non formulano pretese»
risponde l’araldo con le insegne inastate.
«E che cosa vogliono da noi questi barbari?»,
chiedono i senatori al console.
«Chiedono che gli si aprano le porte
della città senza opporre resistenza»
risponde il console avvolto nella sua toga scarlatta.
«Davvero, tutto qui? – si chiedono stupiti i senatori –
e non ci sarà spargimento di sangue? Rispetteranno le nostre leggi?
Che vengano allora questi barbari, che vengano…
Forse è questa la soluzione che attendevamo.
Forse è questa».
*
La luna splende di un lilla sempre più tenue
un cono di luce intenso e fragile.
Io sono nuda davanti allo specchio.
Sono l’amante del Faraone, le ancelle mi preparano
all’udienza con il dio vivente.
La sfera della luna rotola nel cielo
come un carro trainato da schiavi fenici.
Forse anch’io sono intensa e fragile.
Tra me e il dio c’è una distanza d’aria.
C’è soltanto aria che puoi toccare come una palla da basket.
Tra me e il dio non ci sono parole.
Non c’è bisogno di parole.
Isotopi delle parole i sospiri
come ondate successive di un mare sconosciuto.
*
Era lì, sotto una pila di giornali vecchi,
album, atlanti in disuso. Una lettera,
la calligrafia minuta, assiepata, disordinata, irregolare
come di chi abbia fretta di prendere l’autobus;
mi dicevi, tra le altre cose, che avevi dimenticato
gli occhiali in frigorifero, le chiavi
di casa nell’oblò della lavatrice
e altre sciocchezze senza importanza.
C’era scritto
che eri andato in America (una sorta di esilio!)
e che lì avevi preso una moglie americana
e poi eri ritornato da dove eri partito.
«Beh, davvero un bel periplo», mi sono detta…
tra l’altro, c’era scritto che lavoravi
per i servizi segreti di non so quale nazione
e altre corbellerie…
«Sei sempre stato un buffone», ho pensato.
In fondo alla lettera c’era una cancellatura:
tutto un rigo. «Ecco, tutte quelle parole cancellate!
– mi sono chiesta –
che cosa c’è dietro, sotto le parole
che tu non volevi far vedere? E perché?
Perché?».
*
Sai, nel dottor Zivago c’è il protagonista
chiuso nella casa gelida immersa nella neve…
fuori delle finestre l’ululato dei lupi.
È un poeta. – che cosa fa? –
fa quello che fanno tutti i poeti: scrive poesie.
Scrive poesie, poesie, poesie.
Si deve sbrigare perché tra poco le guardie rosse
lo verranno a prendere. Davvero,
c’è così poco tempo per scrivere poesie.
*
Dicono i più che la poesia debba attingere
al dizionario delle parole morte.
Ecco, ci sono parole impossibili:
– difficili da pronunciare –
una di queste è anima
altre sono: amore, cuore, dolore
– con annesse rime –
altre ancora: bello, brutto, sole, primavera,
mare azzurro…
(con tutto ciò che di sordido
c’è al loro interno… )
e poi… numerose altre: infinito, empireo, angeli
cherubini farseschi, santità, diavoli…
ma sarebbe ben lungo l’elenco.
Se tu lettore vuoi sincerartene non c’è che aprire
a caso il dizionario delle parole morte
e gettarci un’occhiata.
*
Tutto questo favellare, tutto questo balbo
balbutire, mi è ostico – lo capisci?
La lingua dei famuli – lo capisci?
La detesto.
*
In quella posizione del quadrante
tra la lancetta delle ore e quella dei minuti
è convenuto il destino con la sua strada ferrata
dove passano i convogli dei treni merci.
*
C’è chi dice che il mondo
sarà salvato dai ragazzini
c’è chi dice che sarà salvato dai santi
c’è chi dice che il mondo sarà
salvato da una poesia…
Io invece penso che il mondo non sarà
salvato affatto.
Non ci sarà nessuno a salvare il mondo.
E questa sarà la sua salvezza.
*
Gli angeli sono come gli uccellini
volano via al primo battere delle mani,
i dèmoni invece stanno immobili
appollaiati sui rami degli alberi
emettono il loro singhiozzo disperato.
Essi non possono fuggire… maledetti
dall’eternità sono condannati a star fermi.
Per sempre.
*
Ci sono parole che dormono
il loro sonno eterno e non è bene
svegliarle. Ci sono altre parole invece
che improvvisamente risorgono
a vita nuova dopo un sonno eterno…
magari in un’altra lingua, un altro mondo…
E questa è la vera resurrezione
della carne… la sola, unica e vera.
*
Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, ed io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
aggiungiamo altro bene, non per questo
avremo più male o più bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…
Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wermacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione in un lager.
Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
E così sia.
Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002)mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. […] Alcune sue poesie inedite sono apparse nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016) (Nota di Giorgio Linguaglossa da http://www.giorgiolinguaglossa.com/index.php/giorgio-linguaglossa-critica301 )
*Giorgio Linguaglossa
Caro Ennio Abate
non è qui in questione il problema, come tu affermi, di un «determinismo» che minaccerebbe la posizione critica di un Pedota e mia, il vero problema è che in Italia la «riforma moderata» introdotta da Giovanni Giudici con “La vita in versi” (1965) e da Sereni con “Gli strumenti umani” (1965), hanno portato la poesia italiana in un collo di bottiglia dal quale ne fuoriesce soltanto il talqualismo e il turismo poetico delle ultime generazioni. È ovvio che nelle condizioni di generale mimetismo e omologismo della poesia italiana degli ultimi decenni, venga rimossa la «grande riforma» del parlato introdotta da poeti come Helle Busacca con la trilogia de “I quanti del suicidio” (1972) e di Angelo Maria Ripellino. La vera questione è, schematicamente:
1)vogliamo veramente uscire dal collo di bottiglia?
2)C’è una poesia che non adotta la corriva equazione del quotidiano visto dal punto di vista del quotidiano?
3) la vittoria del minimalismo è un problema politico oltre che estetico?
4) l’idea di una poesia modernista che attraversa il secondo Novecento (e arriva fino ai giorni nostri) che vanta poeti di grande spessore come Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Luigi Manzi, lo stesso Giuseppe Pedota, è una categoria percorribile?
L’importanza del mio lavoro di critico (e di quello dello scomparso Pedota) è tutto qui: nella valenza di una idea di poesia “altra” rispetto a quella, questa sì “deterministica” (perché determinata dall’alto, dalle Istituzioni deputate).
Ma, in fin dei conti, il generale disinteresse per la poesia epigonica di un Giudici, divenuto manifesto alla scomparsa del poeta lombarda non significa qualcosa? Che quella poesia non ha più nulla da dire ai contemporanei? Non è questa una riprova della scarsa importanza di un poesia, diciamolo, politicamente corretta come quella di Giovanni Giudici?
Tu mi chiedi di fornire una prova di quando vado dicendo? Ecco allora alcuni inediti di Maria Rosaria Madonna che ha pubblicato in vita un solo libro Stige nel 1992 e della quale sto cercando un editore disposto a pubblicare Tutte le poesie 1985-2022).
Adam Zagajewski: Alla scoperta di questo grande poeta polacco –
Adam Zagajewski nasce nel 1945 a L’vov (attuale Leopoli, in Ucraina), ma non ci rimane a lungo: la sua famiglia, infatti, viene costretta, insieme a molte altre famiglie polacche tra il 1944 e il 1946, a trasferirsi nella Polonia centrale. Cresce e studia nella città di Gliwice prima, a Cracovia poi.
La città in cui vorrei abitare
È una città silenziosa al crepuscolo,
quando pallide stelle riprendono i sensi,
e a mezzogiorno sonora per le voci
di ambiziosi filosofi e mercanti
che hanno portato velluti dall’Oriente.
Vi ardono i fuochi delle conversazioni
non certo i roghi.
Le vecchie chiese, le pietre muscose
di antiche preghiere sono la sua zavorra
e il suo razzo diretto verso il cosmo.
È una città imparziale
che non condanna gli stranieri,
una città che rapida ricorda
e lentamente scorda,
che tollera i poeti e perdona ai profeti
la mancanza di humour.
È una città eretta
in base ai preludi di Chopin,
da cui ha preso solo la gioia e la tristezza.
Un largo anello di colline
la circonda; vi crescono
i frassini campestri e il pioppo slanciato
che è il giudice del popolo degli alberi.
Un fiume vivace che vi scorre in mezzo
notte e giorno sussurra
saluti incomprensibili
delle sorgenti, delle montagne, del cielo.
Ciò che
Ciò che pesa troppo
e trascina in basso
che fa male come il dolore
e brucia come uno schiaffo,
può essere pietra
o àncora.
A maggio
Camminando nel bosco, in un’alba di maggio,
chiedevo, dove siete, anime
dei morti. Dove siete, giovani
scomparsi, dove siete, ormai del tutto
mutati.
Un grande silenzio regnava nel bosco
e udivo le foglie verdi sognare,
udivo i sogni della corteccia da cui nascono
barche, navi e vele.
Poi a poco a poco gli uccelli si fecero
sentire, cardellini, tordi e merli nascosti
nei balconi dei rami; ognuno parlava a suo modo,
con voce diversa, senza chiedere nulla, senza
amarezza o rimpianto.
E capivo che voi siete nel canto,
inafferrabili come la musica, indifferenti come
le note, lontani da noi quanto noi
da noi stessi.
All’alba
All’alba dai finestrini del treno vedevo città
disabitate, spopolate dal sonno,
aperte e indifese come grandi
animali sdraiati sul dorso.
Per le vaste piazze camminavano
solo i miei pensieri e un vento freddo,
sulle torri perdevano i sensi bandiere di lino,
nelle chiome degli alberi si svegliavano gli uccelli,
nelle folte pellicce dei parchi scintillavano
occhi di gatti selvatici,
nelle vetrine dei negozi si specchiava
la timida luce del mattino, eterno debuttante,
le giostre, finalmente assorte,
pregavano il loro invisibile centro,
i giardini fumavano come le rovine di Varsavia,
e alle mura brune del macello
ancora non era arrivato il primo camion.
All’alba le città non sono di nessuno,
non hanno nomi
e neppure io ho un nome,
sul far del giorno, quando svaniscono le stelle
e il treno corre sempre più veloce.
La bandiera
La mattina mi sveglio e cerco di appurare
con l’aiuto di un binocolo da teatro
quale bandiera sventoli sulla mia città
nera, bianca o grigia come il terrore,
se la mia città è già stata conquistata
o ancora si difende, se implora
la clemenza dei vincitori oppure
porta il lutto per alcuni secondi
di oblio, o forse io stesso sono
la bandiera solo che non so
vederla, così come non vediamo
il nostro cuore.
Biografia di Adam Zagajewski nasce nel 1945 a L’vov (attuale Leopoli, in Ucraina), ma non ci rimane a lungo: la sua famiglia, infatti, viene costretta, insieme a molte altre famiglie polacche tra il 1944 e il 1946, a trasferirsi nella Polonia centrale. Cresce e studia nella città di Gliwice prima, a Cracovia poi.
Insegna filosofia all’università e pubblica alcune poesie, ma si schiera pubblicamente contro la propaganda comunista e questo fa sì che le sue opere vengano messe al bando. Nel 1982 si trasferisce a Parigi; tornerà a vivere in Polonia solo vent’anni dopo.
A oggi è considerato uno dei più grandi poeti contemporanei polacchi ed è stato più volte candidato al Nobel.
Vent’anni fa la scomparsa di Mario Luzi- Il Poeta che visse nel giusto della vita.Articolo di Luigi Oliveto-
Mario Luzi il Poeta che visse il giusto della vita-Vent’anni fa, il 28 febbraio 2005, nella sua casa fiorentina in via di Bellariva, moriva Mario Luzi, voce tra le più significative della poesia del Novecento. Una poesia connotata dall’incessante limìo attorno al mistero dell’esistenza umana: tanto luminosa nei suoi aspetti di compartecipazione al creato, quanto esperienza dolorosa di ombre e tenebre. Un universo lirico, quello luziano, ove stupore, inquietudine, meditazione, pronunciamento, si innervano nella parola («vola alta parola») a dire comunque la «maestà del mondo». Tale, infatti, è stato l’insistito scandaglio della riflessione poetica di Luzi: cogliere il continuo divenire del mondo nella sua osmosi drammatica e stupefacente di vita e morte, luce e ombre, creato e incompiuto. Ecco, allora, uomo, cosmo, natura, come sospesi tra il presente e il non-ancora, tra l’espresso e l’inesprimibile, tra la precarietà del presente e la definitiva pienezza.
Giusto qualche giorno prima della sua scomparsa, egli aveva licenziato alcuni versi che parlavano di un termine, di una vetta che si approssimava e di cui «ne davano un chiaro avvertimento / i magri rimasugli / di una tappa pellegrina». «Lì – scriveva il poeta – avrebbe la sua impresa / avuto il luminoso assolvimento / da se stessa nella trasparente spera / o nasceva una nuova impossibile scalata… / Questo temeva, questo desiderava».
Quei versi sembrarono, allora, andare a sigillare non solo la fine di una vita, ma, ancora di più, la conclusione di un percorso poetico instancabilmente contrassegnato dal dubbio, dalla domanda, dall’invocazione, dalla ricerca dell’essenza eterna delle cose. Lo stesso sublime tormento che il poeta aveva trasferito nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), laddove in una sorta di cammino penitenziale ed iniziatico, si cercava di ricomporre, in parole nuove, tutti i contrari dell’esperienza umana: vita-morte, eternità-finitezza, sogno-realtà, la concretezza e l’insondabile, l’esistenza e l’arte. La poesia di Mario Luzi ha di continuo indagato questi opposti, intendendo così – lo confidava nella premessa al Libro di Ipazia (1978) – «attivare dei punti di assillo e di sofferenza presenti anche se latenti nel tempo e nell’umano. Come fontane che riprendessero a versare acqua, o piaghe a sanguinare».
E quando al poeta occorse dare un luogo per contemplare un siffatto tormento, non allestì scene fittizie, ma trasfigurò a metafora geografie reali: quelle delle terre toscane, delle Crete senesi, della Val d’Orcia, dell’Amiata. Sono i luoghi che il poeta – ebbe a scrivere Lorenzo Mondo – intese ridisegnare in «un universo purgatoriale di ombre ansiose in paesaggi aspri e desolati […] dove agisce la lezione dell’onnipresente Dante e di Eliot». Del resto Luzi – e qui fu Andrea Zanzotto ad affermarlo – è da ritenersi «grandissimo poeta del paesaggio e del dramma che la natura porta con sé e dell’uomo che vive in questa dimensione». Mentre Alberto Asor Rosa non mancò di cogliere una specie di «universale panpsichismo» che si manifesta proprio attraverso «l’energia affettuosa e in ultima analisi tutta mondana con cui Luzi ha cantato fino all’ultimo terre e paesaggi della sua Toscana».
In quelle plaghe – sosteneva il poeta – sembra racchiuso il ‘divenire’ della vita e della morte. È dunque terra che richiama gli scomparsi o i venturi? Forse entrambi – si rispondeva – perché è terra che assorbe morte, ma per restituirla in vita. Dunque, essere dentro quel paesaggio non è solo trovarsi nel tormentoso scorrere del tempo, ma anche compartecipare a una pietas comune, ad una memoria ad infinitum che è misura – appunto infinita – del tempo e del dolore. E a proposito di condivisa pietas verso l’esperienza umana, avrebbe scritto ancora: «Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così».
Del resto Luzi restò sempre fedele alla dichiarazione di poetica enunciata, poco più che ventenne, nella sua opera d’esordio (La barca, 1935), con l’immagine di quello scafo che, nel flusso dell’esistenza, conduce, in ascesa, dal delta alla sorgiva: «Amici dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede / intrepida, un sospiro profondo / dalle foci alle sorgenti».
Evidenziò lo stesso Asor Rosa come il dettato poetico di Luzi, sempre così alto e nobile, mai, però, risultò disgiunto da una profonda umanità: «era sembrata stupenda e ammirevole quella sua sintesi fra una purissima, persino aristocratica voce di poesia e il coraggio etico-politico delle opinioni. E alla fine era non solo stimato e apprezzato ma amato: con quel consenso concorde, che riconosce la grandezza umana quando c’è».
È vero. Si ricorderanno, ad esempio, certi suoi versi di poesia civile come quelli, sferzanti e indignati, scritti durante gli anni di piombo, poi confluiti nella raccolta Al fuoco della controversia (1978): «Muore ignominiosamente la repubblica. / […] Tutto accade ignominiosamente, tutto / meno la morte medesima – cerco di farmi intendere / dinanzi a non so che tribunale / di che sognata equità. E l’udienza è tolta.» Oppure le accorate parole formulate il 7 gennaio 1997 a Reggio Emilia per il bicentenario del Tricolore (cento anni prima la prolusione era toccata a Giosuè Carducci): «Per la nostra nazione sono oggi necessari due sentimenti, come l’amore e la speranza, che l’hanno sorretta nelle grandi prove a cui è stata chiamata, dalle guerre del Risorgimento alla lotta della Resistenza alle difficili vicissitudini attuali. Bisogna fondare la nostra scommessa sulla mai soddisfatta aspettativa di un paese giusto, attraverso un invito toccante a riesaminare il nostro stato reale nel nome della solidarietà, della volontà comune e della speranza».
Anche nel discorso preparato per la nomina a senatore a vita (discorso che non fece in tempo a pronunciare) Luzi aveva ripreso questi concetti parlando di un’Italia «in fieri come le sue cattedrali». La nazione – avrebbe detto il neo nominato senatore a vita – «si unisce e ascende a se stessa, la sanzione di quella ascesa è lo Stato, per il quale penso si debbano avere, data la nostra storia, speciali riguardi». Per poi concludere che «revolution e amelioration» possono equamente curare lo Stato, «ma tradirlo e spregiarlo non dovrebbe essere consentito a nessuno».
È desolatamente ovvio dire che nel frangente storico in cui ci troviamo, nell’emergenza di una crisi di civiltà che pare non avere idee, volontà, intelligenze e sensibilità in grado di fronteggiarla, vorremmo tanto poter sentire la voce di Mario Luzi – voce flebile, elegantemente misurata, parsimoniosa ma efficace nell’andare all’osso delle cose – per ricordarci che «le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza». Insomma, una voce che abbia, tantomeno, autorevolezza e pietas per consolarci.
Luigi Oliveto
Luigi Oliveto
Luigi Oliveto-Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita dapoeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poetadelle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004), Mario Luzi. Un segno indelebile (2016). Esce nel 2020 la raccolta di racconti Le rose di Kathryn. Nell’album Indy e Lib (cinque ristampe) adatta, per i bambini della scuola primaria, il testo della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo», edizione patrocinata dalla Federazione Italiana dei Club Unesco. È autore di trasmissioni culturali per la televisione e di docufilm pubblicati in Dvd. È direttore del portale toscanalibri.it.
a cura di Roberto Nencini e Luigi Oliveto
Un segno indelebile è quello lasciato da Siena nella poesia di Mario Luzi, che fu legato alla città del Palio e al suo territorio fin dall’adolescenza. I contributi, accompagnati da immagini e documenti rari – tra cui anche corrispondenze epistolari inedite – definiscono un quadro il più possibile completo del rapporto del poeta fiorentino con una città e un terra che hanno profondamente inciso nella formazione del suo immaginario, della sua estetica, della sua morale. “La testimonianza letteraria di tale legame”, scrive Luigi Oliveto, “può far dire che Luzi sia stato l’ultimo scrittore del novecento a sostenere un racconto di Siena in chiave mitica. Egli, infatti, asseriva che la città è, allo stesso tempo, una realtà urbana (umana) e un mito. In forza del fatto che essa riesce a operare miticamente non solo nella memoria, ma anche nella immaginazione di chi la viva nel presente”.
Testi di Roberto Barzanti, Luigi Oliveto, A. Nino Petreni, Carlo Fini, Stefano Carrai, Roberto Nencini, Luca Lenzini, Elisabetta Nencini, Stefano Verdino, Paola Lambardi, Cesare Viviani.
Erich Fried nato a Vienna nel 1921, nel 1938 lasciò l’Austria e si trasferì a London. Tra i suoi volumi di poesia: Germania (Deutschland, 1944), Contestazioni (Anfechtungen, 1967), Cento poesie senza patria (100 Gedichte ohne Vaterland, 1978). Tra i romanzi e racconti: Figli e pazzi (Kinder und Narren, 1957), Un soldato e una ragazza (Ein Soldat und ein Mädchen, 1960), Quasi tutto il possibile (Fast alles Mögliche, 1975). Nei suoi testi la sperimentazione formale si unisce all’impegno politico.
50
Scarna povertà, fradicia povertà,
coi calzoni laceri al cavallo e al ginocchio.
Si scalda le mani su cocenti infamie,
chiama il destino Lui e Loro
e si delizia con cose dai nomi duri:
stracci e piedi, cibo e mani –
non t’ingozzare, che non ce n’è più!
Fradicia povertà, oscena povertà,
ronza con spietata fedeltà
come legno marcio con accenno di orifizio,
umido giornale ficcato nei vuoti dell’artifizio,
e ci disgusta fino alla feroce lealtà.
Non è mai colpa di quelli che ami:
la povertà discende dai cieli.
Lascia che balli su sedie, che sfondi la porta,
sorge da tutto quello che è venuto prima,
e ogni outsider è il nemico –
il bastone di Cristo rovesciò tutto questo
cavalieri e filosofi rimisero tutto a posto.
Oscena povertà, scarna povertà,
croste tra le gambe e piaghe tra i capelli
una finestra fatta d’aria è pulita,
non l’argento sporco di una manica.
Bada se ciò faccia bene alla scuola
e debba andare e desideri andare:
qualcuno, un giorno, dovrà pagare.
Raditi con il sapone, corri alla carne,
stupisci la nazione, governa l’esercito,
aspetti ancora il giorno in cui sarai rispedito
dove libri o giocattoli sono rifiuti sul pavimento
e nessuno ha il permesso di venire a giocare
perché la tua casa si chiama baracca
e l’acqua calda sfrigola nel piatto sporco di latta.
Traduzione di Roberto Cogo e Graziella Isgrò
Poesia n. 181 Marzo 2004
Les Murray. Poesie del vuoto falciato
A cura di Paolo Ruffilli
15
Ed è chiaro che, alla fine, lei è caduta giù
dalla luna, non come una
snella Cinzia a Delfi, dopotutto
non è diciassettenne, ma con la grazia
sensuale e l’implacabilità personale
di una dea dei nostri tempi; così lui dice a
se stesso di notte vedendo il bagliore
del sonno di lei nella metà (due-terzi a rigore)
del loro letto, il claire de lune della spalla
e della fronte dietro le nuvole scure
dei capelli. Lui beve il suo vino
e ingoia più pillole. Gli uccelli
cantano la loro prima mattinata, piccoli cinguettii e
frinire di insetti, e fuori la prima luce
vela la finestra. Il giorno sarà orribile,
nervoso, cupo e pieno di tensione. L’ultima
sigaretta, il sorso finale di chardonnay,
e si stringe contro il caldo bagliore di lei,
pensando a quando dodicenne
nuotava nel caldo laghetto oltre
gli olmi e gli alberi di noce al limite
del prato. Si rigirava come una carpa assonnata
tra le ninfee, sotto le libellule
e le nuvole roventi dei vecchi giorni d’estate.
Traduzione di Fiorenza Mormile
Poesia n. 323 Febbraio 2017
Hayden Carruth. Il primato dell’etica
a cura di Fiorenza Mormile
Erich Fried
Neve in ufficio
Jürgen Theobaldy
Una certa nostalgia di palme. Qui
è freddo, ma non soltanto. I tuoi baci
al mattino sono pochi, poi sto seduto
otto ore qui in ufficio. Anche tu sei
una reclusa e non possiamo
telefonarci. Alzare il ricevitore
e origliare? Telefono, perché il tuo
polso batte solo per altri? Qualcuno chiede:
“Come stai?”, e senza attendere risposta
è già fuori dalla stanza.
Che cosa può muovere l’amore? Io calcolo
i prezzi e vengo calcolato. Tutti i pezzi di ricambio,
le parti di caldaia, i bruciatori a olio, tutti passano
per la mia testa come numeri, nient’altro.
E anch’io passo attraverso qualcuno
come un numero. Ma alla sera vengo da te
con tutto quello che sono. Scienziati
scrivono che anche l’amore è
una relazione produttiva. E dove sono
le palme? Le palme si mostrano sulla spiaggia
di una cartolina illustrata; e noi, supini,
le contempliamo. Al mattino ritorniamo
in ufficio, ognuno al suo posto.
Con un numero, come il telefono. Traduzione di Gio Batta Bucciol
Poesia n. 285 Settembre 2013 Jürgen Theobaldy La neve e le palme
a cura di Gio Battta Bucciol
Fondazione Poesia Onlus 2013
Erich Fried
Thomas Bernhard 18
Le parole – bambine piccole, molestano, fanno male,
se le accarezzi ridono, poi subito si ostinano,
han fretta di dir tutto, s’imbrogliano, sanno amare,
diventan grido, tacciono, nascostamente svelano.
Le parole – bambine piccole, a volte si ribellano,
sanno dire le lacrime, il riso sanno scrivere.
Agnelle si sacrificano, belve nella passione,
ansiose di dipingere l’intero mondo azzurro.
Le parole – bambine piccole. Flessuosi corpicini
che agguerriti si levano, mettono le ali, volano.
Sognano, si spaventano, si alleano, si separano,
animelle cui è stato dato di avere sempre sete.
Le parole – bambine piccole. Bianco per loro il tempo,
pagine su cui scrivere, vele che il vento gonfia
per fare viaggi nella gioia, far viaggi nel dolore.
L’amore sa trasformare in sacro la tempesta.
Traduzione di Nicola Crocetti
Poesia n. 298 Novembre 2014 Pandelìs Bukalas. Dal Mito alla Storia
a cura di Massimo Cazzulo e Nicola Crocetti
Poesia notturna
(…)
In un vestito di fiamme che rotolano nel cielo è così
che mi sentii la notte che mi disse
che aveva un’amante e con timido orgoglio
tirò fuori una foto.
Non posso vederne la faccia ho detto con rabbia,
buttandola a terra. Mi ha guardata.
Eravamo alla finestra (di un ristorante) in alto sulla
strada,
sposati da poco più di un anno.
Un lavoro veloce dissi io. Sarai maligna disse lui.
Ruppi il vetro e saltai.
Adesso certo sai
che non è questa la verità, ciò che si ruppe non era vetro,
ciò che cadde a terra non era corpo.
Tuttavia quando ricordo quella conversazione questo è
ciò che vedo – me stessa come il pilota di un caccia
che si salva sul canale. Me stessa come preda.
Oh no non siamo nemici disse lui. Ti amo! Vi amo
entrambe.
Non sembra il Signor Rochester che digrigna i denti e dice
in meno di due minuti con il suo strisciante verde sibilo
la gelosia può divorarci fino al cuore, una formula che
gli si presenta
mentre sedeva nel muschio e nell’ambra
del suo balcone parigino
e guardava la sua bella da operetta al braccio di un
cavaliere sconosciuto?
Rimanere umani è rompere un limite.
Partenza
Le nubi persero ogni ritegno
accorse in volo il vento piú disperato
e tentò di sospingere
in alto le ciocche d’acqua
su di loro scivolai in basso
la tua mano per sempre
tra collo e guancia
Traduzione di Riccarda Novello
Christoph Wilhelm Aigner Prova di stelle
a cura di Riccarda Novello
Crocetti Editore 2001
Poesia d’amore per la libertà e poesia di libertà per l’amore
Mattino infine: là nella neve le tue
lievi impronte d’arrivo e di ritorno.
Null’altro ci ha lasciato la notte di visibile,
non la candela, il vino bevuto a metà,
né il tocco della gioia; soltanto questo segno
della tua vita che alla mia cammina.
Finché la pioggia le cancelli, e resti
la verità cui ci svegliò il mattino;
felicità o dolore non sappiamo.
Traduzione di Silvio Raffo
Poesia n. 294 Giugno 2014 Philip Larkin. Lettere dall’esilio
a cura di Silvio Raffo
Come ti si dovrebbe baciare
Quando ti bacio non è solo la tua bocca non è solo il tuo ombelico non è solo il tuo grembo che bacio. Io bacio anche le tue domande e i tuoi desideri bacio il tuo riflettere i tuoi dubbi e il tuo coraggio il tuo amore per me e la tua libertà da me il tuo piede che è giunto qui e che di nuovo se ne va io bacio te così come sei e come sarai domani e oltre e quando il mio tempo sarà trascorso.
Erich Fried
Quel che è
È assurdo dice la ragione È quel che è dice l’amore
È infelicità dice il calcolo Non è altro che dolore dice la paura È vano dice il giudizio È quel che è dice l’amore.
Chi ha nostalgia di te quando io ho nostalgia di te?
Chi ti accarezza quando la mia mano ti cerca?
Sono io o sono i resti della mia gioventù?
Sono io o sono gli inizi della mia vecchiaia?
È il mio coraggio di vivere o la mia paura di morire?
E perché la mia nostalgia dovrebbe dirti qualcosa?
E che cosa ti dà la mia esperienza che mi ha solo reso triste?
E che cosa ti dànno le mie poesie in cui dico soltanto
come è diventato difficile essere o dare?
Eppure brilla nel giardino il sole nel vento prima della pioggia
e profuma l’erba che muore e il ligustro
e io ti guardo e la mia mano tastando ti cerca.
Che cosa sei per me? Che cosa sono per me le tue dita e che cosa le tue labbra? Che cos’è per me il suono della tua voce? Che cos’è per me il tuo odore prima del nostro abbraccio e il tuo profumo nel nostro abbraccio e dopo?
Che cosa sei per me? Che cosa sono per te? Che cosa sono?
Erich Fried
Breve biografia di Erich Fried nato a Vienna nel 1921, nel 1938 lasciò l’Austria e si trasferì a London.Tra i suoi volumi di poesia: Germania (Deutschland, 1944), Contestazioni (Anfechtungen, 1967), Cento poesie senza patria (100 Gedichte ohne Vaterland, 1978). Tra i romanzi e racconti: Figli e pazzi (Kinder und Narren, 1957), Un soldato e una ragazza (Ein Soldat und ein Mädchen, 1960), Quasi tutto il possibile (Fast alles Mögliche, 1975). Nei suoi testi la sperimentazione formale si unisce all’impegno politico.
Fulvio Ferrario-Gli scritti dal carcere di Bonhoeffer-Editore Claudiana
Descrizione del libro di Fulvio Ferrario–Resistenza e resa si può leggere e amare senza alcuna introduzione: così hanno fatto milioni di uomini e donne, compreso, per un tempo, l’autore di questo libro. Di solito, però, chi lo legge vuole saperne, e capirne, di più. Questa è una guida, una parafrasi, un inquadramento e, da ultimo, un tentativo di commento. L’intento è solo, ancora una volta, quello di ascoltare Bonhoeffer, ma possibilmente ascoltarlo bene. Dopo una ventina d’anni di letture bonhoefferiane, chi lo ha scritto è convinto che ne valga la pena.
Fulvio Ferrario-Gli scritti dal carcere di Bonhoeffer-
«Resistenza e resa è uno dei libri più importanti del xx secolo. Non è solo un testo di teologia: forse, anzi, non è nemmeno anzitutto questo. Eppure la teologia del Novecento sarebbe molto diversa senza questo libro. Non è solo un testo di spiritualità: ma è una delle più significative testimonianze spirituali di tutta la storia del cristianesimo. Essa è anzitutto autobiografica: ma in poche testimonianze personali come in questa, Dio e il mondo, la storia e la politica, l’arte e la cultura, la vita e la morte, vengono a parola».
Fulvio Ferrario
Fulvio Ferrario
Biografia di Fulvio Ferrario è pastore valdese e ordinario di Dogmatica e discipline affini presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma; è professore invitato presso l’Istituto di Studi Ecumenici S. Bernardino di Venezia e la Facoltà Teologica Marianum di Roma.Tra le sue pubblicazioni su Dietrich Bonhoeffer ricordiamo: D. Bonhoeffer, Viaggio in Italia (a cura di F. Ferrario e M. Kromer), Claudiana, 2010; Bonhoeffer, Carocci, 2014; L’Etica di Bonhoeffer. Una guida alla lettura, Claudiana, 2018.
Indice testuale
Premessa
1.Dalla cospirazione al carcere
1. Il cerchio si stringe
2. Manfred Roeder
3. L’arresto e gli interrogatori
4. «Chi sono?» L’impatto con il carcere
5. Fasi
2.La spiritualità di Tegel
1. Disciplina
2. La Scrittura
3. La preghiera
4. Paul Gerhardt, la Provvidenza, la teologia della musica
5. L’anno liturgico
6. Antico Testamento
3.Maria von Wedemeyer
1. Profonda Prussia
2. Genesi di un amore
3. La predica matrimoniale dal carcere
4. Fidanzamento epistolare
5. Crisi
4.Non solo lettere
1. Che cosa significa dire la verità?
2. Bonhoeffer e la dimensione letteraria
3. Witiko 4. Dramma e romanzo
5. Il caporale Berg
5.La teologia di Tegel: genesi e orizzonte
1. La fine della religione
2. Pregare e fare ciò che è giusto fra gli uomini (e le donne…)
3. Il «Dio tappabuchi» e il «mondo adulto»
4. L’ánthropos téleios 5. Cristianesimo inconsapevole
6.Mondo adulto e teologia della croce
1. «Ora è completamente finita»
2. Genealogia della modernità
3. La forza del Dio debole
4. 21 luglio
5. Progetto per uno studio
7.L’inizio della vita
1. Prinz Albrecht Strasse, 8
2. Da Buchenwald a Schönberg
3. La decisione di Hitler
4. Flossenbürg
5. La strage impunita
8.Vicende di un classico
1. La memoria vivente
2. Bonhoeffer nella Germania Est
3. Bonhoeffer nel mondo anglosassone
4. Due pilastri della ricezione
5. Il gruppo di Heidelberg
6. Il Bonhoeffer «politico»
7. La prospettiva «post-Olocausto»
8. In Italia
EXCURSUS
Excursus 1. Bonhoeffer, Barth e il «positivismo della rivelazione»
Excursus 2. Bonhoeffer e Bultmann
Excursus 3. Stazioni sulla via della libertà
Excursus 4. Bonhoeffer e la theologia crucis Excursus 5. Potenze buone
-Grazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVES
-Recensione di Pietro NARDI scritta per la Rivista PEGASO N°12 del 1931
Breve Biografia di Grazia Deledda è stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Grazia Deledda nacque a Nuoro, in Sardegna, nel settembre del 1871. Apparteneva a una famiglia benestante ed era la quinta di sette fratelli e sorelle. Ebbe un’istruzione intermittente – un po’ a scuola e un po’ con un insegnante privato – e iniziò a scrivere molto giovane, per conto suo. Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895. Pochi anni dopo, nel 1899, Deledda conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò pochi mesi più tardi trasferendosi con lui a Roma.
A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903, ottenne subito un buon successo e Deledda poté dedicarsi con grande intensità alla scrittura. In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento. Il suo successo fu tale che il marito si licenziò dal lavoro come funzionario al ministero delle Finanze per diventarne l’agente di sua moglie. In tutto Deledda pubblicò 56 opere in circa 40 anni di carriera e fu apprezzata e tradotta anche all’estero.
Nel 1927, Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Il Nobel di Deledda fu tecnicamente quello del 1926, che la commissione del premio aveva deciso di trattenere per un anno non avendo trovato un candidato adatto a riceverlo. Deledda fu la prima donna italiana a vincere un Nobel e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura, dopo Giosué Carducci nel 1906. Deledda morì per un tumore al seno, il 15 agosto 1936. Cosima, quasi Grazia un racconto autobiografico rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo con il titolo Cosima.Inizio modulo
Grazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDA il Romanzo “Il Paese del Vento “-Editore TREVESGrazia DELEDDAGrazia DELEDDA
Breve Biografia di Grazia Deleddaè stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Grazia Deledda nacque a Nuoro, in Sardegna, nel settembre del 1871. Apparteneva a una famiglia benestante ed era la quinta di sette fratelli e sorelle. Ebbe un’istruzione intermittente – un po’ a scuola e un po’ con un insegnante privato – e iniziò a scrivere molto giovane, per conto suo. Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895. Pochi anni dopo, nel 1899, Deledda conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò pochi mesi più tardi trasferendosi con lui a Roma.
A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903, ottenne subito un buon successo e Deledda poté dedicarsi con grande intensità alla scrittura. In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento. Il suo successo fu tale che il marito si licenziò dal lavoro come funzionario al ministero delle Finanze per diventarne l’agente di sua moglie. In tutto Deledda pubblicò 56 opere in circa 40 anni di carriera e fu apprezzata e tradotta anche all’estero.
Grazia DELEDDA
Nel 1927, Deledda fu insignita del premio Nobel per la Letteratura “per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Il Nobel di Deledda fu tecnicamente quello del 1926, che la commissione del premio aveva deciso di trattenere per un anno non avendo trovato un candidato adatto a riceverlo. Deledda fu la prima donna italiana a vincere un Nobel e la seconda italiana a vincerlo per la Letteratura, dopo Giosué Carducci nel 1906. Deledda morì per un tumore al seno, il 15 agosto 1936. Cosima, quasi Grazia un racconto autobiografico rimasto incompiuto, fu pubblicato postumo con il titolo Cosima.
Fonte Il Post- direttore Luca Sofri
Grazia DELEDDAGrazia DELEDDARivista PEGASO diretta da Ugo OjettiN°12 del 1931
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.