Quello che non si è soliti sapere su il Popolo dei Sabini , passato alla storia come gli ingenui che si son fatti fregare le donne dai romani, un fatto che macchia per sempre la narrazione nella storia di questo popolo, è che le ruggini con i futuri romani iniziarono già molto prima ovvero quando Enea sbarcò sui lidi laziali; infatti, il giovane principe Sabino Clauso (capostipite della futura e nobile gens Claudia) aiutò Turno, Re dei Rutuli, nella lotta contro gli esuli troiani.
Nonostante lo sgarro ricevuto e il misterioso omicidio del Re Tito Tazio, che inizialmente divideva il trono di Roma con Romolo e lasciò al solo Romolo il trono del nuovo regno, i Sabini si fusero con i Romani e da loro usciranno Re e famiglie potenti nella stessa storia romana… insomma una sorta di grande rivincita, perciò forse tanto ingenui non erano.
In realtà i Romani non solo si presero le donne ma copiarono e adottarono persino i loro tipi di scudi e di armature e per effetto di tale fusione l’esercito romano raddoppiò e divenne il più potente esercito dell’area, incoraggiando, come abbiamo visto, il rissoso Romolo ad ingrandire i propri confini.
Pertanto I Sabini divennero assai potenti all’interno delle mura romane, anche grazie all’appoggio delle numerose mogli dei giovani romani che erano, al tempo stesso, le loro figlie e le mogli, diciamo così … usurpate, rubate o furbescamente prestate? del resto si sà che in casa, come sempre capita, a comandare sono le donne e a Roma, per la maggior parte erano di origine Sabina.
Pertanto potremmo affermare che il popolo Sabino fu il più astuto popolo antico che raggiunse un enorme potere senza essere notato, anzi addirittura sottovalutato e grazie alle proprie donne … altro che ingenui!
“Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David–Particolare Bambini“Le Sabine” è un dipinto Jacques-Louis David-Particolare Romolo
Gertrud Kathe Sara Chodziesner nasce a Berlino nel 1894, in una famiglia ebrea.Lavora come insegnante in una scuola femminile e coi bambini disabili e, nel mentre, scrive varie poesie con lo pseudonimo di Gertrud Kolmar.La poetessa esprime, nelle opere, il suo modo di essere e la struggente richiesta di essere ascoltata dagli altri, lontana da qualsiasi ambizione mondana.Le sue poesie giungono al grande pubblico nel 1938, ma vengono subito cancellate dalle leggi razziali. Gertrud le consegna a familiari emigrati, poi è costretta a prendere la dimora, con il padre, nella “Casa degli Ebrei”.Il padre nel 1941 viene inviato al campo di Theresienstadt, Gertrud il 2 marzo 1943 viene caricata sul treno senza ritorno con Auschwitz come destinazione finale.
L’animale
Vieni qui. E vedi la mia morte e vedi questo
eterno patire,
L’ultima onda che tremando si perde sul mio
pelo,
E sappi che il mio piede con gli artigli fu
debole e sfuggente,
E non chiedere se sono lepre, scoiattolo, o
topo.
Perché non importa. Sempre ti voglio male
o bene;
Sei il tiranno che inventa la legge,
E la misura secondo le sue membra, come fosse il suo mantello,
il suo cappello.
E tra le mura della sua città lo straniero
stringe e offende.
Muto ti adagi sulle tombe degli uomini
Fatti a pezzi da te;
Soffrendo, diventarono santi, cinti d’oro.
Porti la pelle della madre morta e la metti addosso
a tuo figlio,
Regali giochi sbocciati dalla fronte insanguinata
dei martiri.
Perché in vita siamo bestiame e selvaggina; cadiamo:
preda, carne e pasto –
Non rugiada di mare, né raccolto di terra che voi senza riserva
concedete.
Con l’inferno ed il cielo vi addormentate; quando
crepiamo siamo carogne,
Ma il vostro cruccio è che non ci potete più
ammazzare.
A chi un tempo pregasti, io diedi le mie
immagini,
Finché riconoscesti il dio dell’uomo, non più
il dio degli animali,
Ed estirpasti la mia prole e chiudesti tra pietre
la mia fonte
E ciò che scrisse la tua brama chiamasti
una frase dell’Altissimo.
E tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là, e ancora hai
del soffrire la ricompensa
Che si rifugia inviolabile nella tua anima;
Ma in una veste di piume e squame, io sopporto
mille volte,
E se tu piangi, sono il tappeto, sopra cui s’inginocchia
la tua pena.
Gertrud Kolmar – Das Tier
(Traduzione di Adelmina Albini e Stefanie Golish)
Das Tier
Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses
ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen
Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig
war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine
Maus.
Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse
oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel,
seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt
und kränkt.
Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern
liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem
Kinde um,
Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter
entsproß.
Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen:
Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr
gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir
verrecken , sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr
morden könnt.
Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet
hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr
Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell
in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde
schrieb.
Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast
noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im
Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein
Jammer kniet.
“La città è per me un vino colorato in un levigato
calice di pietra
che sta e brilla
davanti alla mia bocca
e specchia la mia immagine nella sua cavità.
Esso riflette il suo cerchio
più profondo che ognuno conosce, ma nessuno sa perché, ciechi,
ci colpiscono tutte le cose
a noi quotidiane e usuali.
Davanti a me
la rigida parete
delle sagge case con il suo «Qui da noi…» sicuro di sè;
il volto di vetro
della piccola bottega
si chiude riservato:
«Io non t’ho chiamata.»
II selciato ascolta
e cerca a tentoni
il mio passo
pieno di sospetto e di curiosità
e dove il legno
si unisce con la colla,
là si parla una lingua
che non è mia.
La luna palpita rossastra
come un assassinio
sopra il corpo lontano,
sopra la parola smarrita, quando, la notte,
contro il mio petto
s’infrange il respiro
d’un mondo straniero.”
L’ABBANDONATA
A K. J.
Ti sbagli. Credi di esser lontano,
e che ti cerchi ansiosamente e non riesca più a trovarti?
Ti tocco con i miei occhi,
con questi occhi, che sono buio e una stella.
Ti trascinai sotto questa palpebra,
la chiusi e sei per sempre prigioniero.
Come credi di poter fuggire ai miei sensi,
alla rete del cacciatore, a cui mai sfuggì una preda?
Non mi lasci più cadere dalle tue mani
come un mazzo di appassiti fiori,
per strada gettati, e sulle soglie
calpestati e da tutti infangati.
Ti ho voluto bene. Tanto bene.
Ho pianto tanto…con preghiere ardenti…
E ti amo ancora di più, perché per te soffrii,
quando la tua penna non scrisse più lettere, non più lettere per me.
Ti chiamavo amico e signore e guardiano del faro
sul sottile tratto d’isola,
tu, il giardiniere del mio frutteto,
e ce n’erano mille buoni, e nessuno era quello giusto.
Non mi accorsi che mi si infranse il vaso
che conteneva la mia giovinezza – e piccoli soli,
gocce ch’essa stillava, si dispersero nella sabbia.
Ero in piedi e ti fissavo.
Il tuo passaggio rimase nei miei giorni,
come profumo sta attaccato ad un abito,
che inconsapevolmente lo accoglie solo
per portarlo sempre addosso.
*
DIE VERLASSENE
Du irrst dich. Glaubst du, dass du fern bist
Und dass ich dürste und dich nicht mehr finden kann?
Ich fasse dich mit meinen Augen an,
Mit diesen Augen, deren jedes finster und ein Stern ist.
Ich zieh dich unter dieses Lid
Und schliess es zu und du bist ganz darinnen.
Wie willst du gehen aus meinen Sinnen,
Dem Jägergarn, dem nie ein Wild entflieht?
Du lässt mich nicht aus deiner Hand mehr fallen
Wie einen welken Strauss,
Der auf die Strasse niederweht, vorm Haus
Zertreten und bestäubt von allen.
Ich hab dich liebgehabt. So lieb.
Ich habe so geweint…mit heissen Bitten…
Und liebe dich noch mehr, weil ich um dich gelitten,
Als deine Feder keinen Brief, mir keinen Brief mehr schrieb.
Ich nannte Freund und Herr und Leuchtwächter
Auf schmalen Inselstrich,
Den Gärtner meines Früchtegartens dich,
Und waren tausend weiser, keiner war gerechter.
Ich spürte kaum, dass mir der Hafem brach,
Der meine Jugend hielt – und kleine Sonnen,
Dass sie vertropft, in Sand verronnen.
Ich stand und sah dir nach.
Dein Durchgang blieb in meinen Tagen,
Wie Wohlgeruch in einem Kleide hängt,
Den es nicht kennt, nicht rechnet, nur empfängt,
Um immer ihn zu tragen.
NOI EBREI
Solo la notte è in ascolto: ti amo, ti amo popolo mio,
voglio abbracciarti forte,
come una donna fa col suo compagno alla gogna, nella fossa,
la madre non lascia il suo figlio ingiuriato precipitare da solo.
E se un bavaglio ti soffoca in gola il grido straziato,
e – crudeli – ti legano le braccia tremanti,
lasciami essere la voce che cade nell’abisso dell’eternità,
la mano che si tende a toccare Dio in cielo.
Dalle rocce delle montagne il Greco trascinò giù i suoi pallidi dei,
e Roma lanciò sulla terra uno scudo di ferro,
un turbinio vorticoso dal cuore dell’Asia, orde di mongoli si sollevarono,
gli imperatori da Aquisgrana seguivano il sud con lo sguardo.
E la Germania e la Francia portano un libro e una spada fiammeggiante,
sulle navi l’Inghilterra percorre un sentiero d’argento e d’azzurro,
e la Russia è un’ombra che incombe, una fiamma arde sul suo focolare,
e noi, noi siamo nati dal patibolo e dalla forca!
Questo cuore che scoppia, trasudare di morte, senza lacrime gli occhi,
e al palo della tortura il gemito eterno che il vento, ululando, consuma,
e la mano scarna – le vene come vipere verdi – la povera mano
che lotta contro la morte fra roghi e capestri.
L’inferno ha bruciato la barba canuta, gli artigli del diavolo l’han fatta a brandelli,
l’orecchio mutilato, le ciglia strappate; gli occhi, velati, si offuscano:
Oh, voi ‘ Quando giunge l’ora fatale, qui ed ora, io voglio alzarmi,
voglio essere il vostro arco trionfale attraverso il quale passano le pene e i tormenti!
Non bacerò la mano che agita il turgido scettro dei pieni poteri,
non bacerò il ginocchio di bronzo, ne il piede d’argilla del dio d’un tempo crudele;
Oh, potessi – io, fiaccola ardente – levare la voce
nell’oscuro deserto del mondo: giustizia! giustizia! giustizia!
Caviglie. Ho trascinato catene, risuona il mio passo di prigioniero.
Labbra. Serrate, sigillate da cera incandescente.
Cuore. Una rondine in gabbia che supplica di volare.
E sento la mano che trascina su un mucchio di cenere il mio viso piangente.
Solo la notte è in ascolto: ti amo popolo mio, vestito di stracci:
come il figlio di Gea, terra dei pagani, si trascina spossato verso la madre,
tu ora buttati in basso, sii debole, abbraccia il dolore,
un giorno il tuo piede di viandante, stanco, calpesterà il capo dei potenti!
15.9.1933
Traduzione Germana Carlino
Tratta dall’opuscolo GERTRUD KOLMAR. LA STRANIERA 1894 – 1943 che trovate qui
Wir Juden
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, ich liebe dich, mein Volk,
Und will dich ganz mit Armen umschlingen heiß und fest,
So wie ein Weib den Gatten, der am Pranger steht, am Kolk
Die Mutter den geschmähten Sohn nicht einsam sinken lässt.
Und wenn ein Knebel dir im Mund den blutenden Schrei verhält,
Wenn deine zitternden Arme nun grausam eingeschnürt,
So lass mich Ruf, der in den Schacht der Ewigkeiten fällt,
Die Hand mich sein, die aufgereckt an Gottes hohen Himmel rührt.
Denn der Grieche schlug aus Berggestein seine weißen Götter hervor,
Und Rom warf über die Erde einen ehernen Schild,
Mongolische Horden wirbelten aus Asiens Tiefen empor,
Und die Kaiser in Aachen schauten ein südwärts gaukelndes Bild.
Und Deutschland trägt und Frankreich trägt ein Buch und ein blitzendes Schwert,
Und England wandelt auf Meeresschiffen bläulich silbernen Pfad,
Und Russland ward riesiger Schatten mit der Flamme auf seinem Herd.
Und wir, wir sind geworden durch den Galgen und das Rad!
Dies Herzzerspringen, der Todesschweiß, ein tränenloser Blick
Und der ewige Seufzer am Marterpfahl, den heulenden Wind verschlang.
Und die dürre Kralle, die elende Faust, die aus Scheiterhaufen und Strick,
Ihre Adern grün wie Vipernbrut dem Würger entgegenrang.
Der greise Bart, in Höllen versengt, von Teufelsgriff zerfetzt,
Verstümmelt Ohr, zerrissene Brau und dunkelnder Augen Fliehn:
Ihr! Wenn die bittere Stunde reift, so will ich aufstehn hier und jetzt,
So will ich wie ihr Triumphtor sein, durch das die Qualen ziehn!
Ich will den Arm nicht küssen, den ein strotzendes Zepter schwellt,
Nicht das erzene Knie, den tönernen Fuß des Abgotts harter Zeit;
O könnt ich wie lodernde Fackel in die finstere Wüste der Welt
Meine Stimme heben: Gerechtigkeit! Gerechtigkeit! Gerechtigkeit!
Knöchel. Ihr schleppt doch Ketten, und gefangen klirrt mein Gehn.
Lippen. Ihr seid versiegelt, in glühendes Wachs gesperrt.
Seele. In Käfiggittern einer Schwalbe flatterndes Flehn.
Und ich fühle die Faust, die das weinende Haupt auf den Aschenhügeln mir zerrt.
Nur Nacht hört zu. Ich liebe dich, mein Volk im Plunderkleid:
Wie der heidnischen Erde, Gäas Sohn entkräftet zur Mutter glitt,
So wirf dich zu dem Niederen hin, sei schwach, umarme das Leid,
Bis einst dein müder Wanderschuh auf den Nacken des Starken tritt!
(Das Lyrische Werk S.101)
Gertrud Kolmar (pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner, Berlino 1894 – Auschwitz 1943?), nata in una famiglia ebrea, studiò da maestra e lavorò come insegnante e istitutrice tra Germania e Francia. Nel 1915 l’amore infelice per un militare la condusse a un aborto e a un tentativo di suicidio, esperienza che segnò profondamente la sua vita e la sua scrittura. Costretta a trasferirsi nel 1939 in una “casa per ebrei” e nel 1941 al lavoro forzato in una fabbrica di armi, nel marzo 1943 fu deportata ad Auschwitz, da dove non fece ritorno. La sua opera, già apprezzata dal cugino Walter Benjamin, fu conosciuta soprattutto a partire dagli anni Novanta del Novecento. Il 27 febbraio del 1943 a Berlino anche Gertrud Kathe Sara Chodziesner subisce l’Azione nelle fabriche: migliaia di ebrei come lei vengono prelevati dai posti di lavoro e ‘smistati’ in campi di raccolta. da qui, il 2 marzo parte il ‘ 32° trasporto all’est’: è il convoglio della deportazione finale a Auschwitz dell’autrice, nota con lo pseudonimo di ‘Gertrud Kolmar’, dove ‘Kolmar’ è la germanizzazione del polacco ‘Chodziesen’, città d’origine della famiglia paterna.
Gertrud Kolmar
Poesia. Gertrud Kolmar: il silenzio in versi salva inizio e fine
Morì ad Auschwitz nel 1943. Rimase sconosciuta ai più fino al 1947, quando uscì la raccolta “Mondi” ora tradotta in italiano: un insieme di “sinfonie” dove le pause giocano un ruolo decisivo-
Della poetessa ebrea tedesca Gertrud Kolmar, pseudonimo di Gertrud Käthe Chodziesner (1894-1943), si sono conservate solo poche tracce: alcune fotografie dell’infanzia, una fotografia ritratto del 1928, una foto con un’amica, una con la famiglia scattata nel 1937, e poco altro, oltre alle sue opere, la maggior parte delle quali edite solo dopo la sua morte. Walter Benjamin, cugino da parte di madre, ebbe molta considerazione dei suoi componimenti e tentò in più occasioni di favorirne la pubblicazione, perché le sue erano tonalità, scrisse, che «non sono più state percepite nella poesia femminile tedesca dopo Annette von Droste». Dopo che il padre nel 1917 si era speso per l’uscita di una prima raccolta, Benjamin riuscì a far pubblicare su rivista solo alcune sue poesie, perché Kolmar era aliena da qualsiasi avanguardia e nulla nei suoi componimenti era concessione ai parametri dettati da mode e sensibilità artistiche contemporanee.
Del resto l’indifferenza verso la sua opera rimase praticamente intatta anche quando nel 1947 venne pubblicata da Suhrkamp la raccolta Mondi. Un’indifferenza motivata certo dalla sua adesione alla tradizione letteraria, ma anche dalla sua decisione di rimanere accanto al padre malato, un ebreo convintamente assimilato, finché quello, nel 1942, non venne rinchiuso nel lager di Theresienstadt, dove sarebbe morto un anno dopo. Nell’estate 1941 Kolmar accettò il lavoro forzato nelle fabbriche berlinesi di Lichtenberg e Charlottenburg, perché perfettamente consapevole del suo destino. «Voglio andare incontro al mio destino, che sia alto come una torre, o che sia scuro e gravoso come una nuvola», scrisse allora alla sorella Hilde, esule in Svizzera.
Arrestata in fabbrica il 27 febbraio 1943, alcuni giorni dopo venne trasportata ad Auschwitz, dove morì. Scritto nel 1937, il ciclo poetico Mondi (Mondadori, pagine 112, euro 16,00) è una grande sinfonia di componimenti consistente ciascuno per lo più di quattro parti, nelle quali un ruolo significativo è giocato dal silenzio, proposto in forma di pausa. Kolmar apprezzava molto il silenzio, il suo come quello degli altri, anche nella vita, tanto che nelle lettere a Hilde ripete spesso che il silenzio è quanto vi è di più vicino al suo cuore.
La conclusione di ogni sinfonia è silenzio che si fa vuoto. I suoi mondi respirano una vacuità che significa inizio e fine: il mondo inizia nel vuoto e finisce in esso. Come un suono dalle profondità, da quel vuoto sorge una natura incomprensibile: le isole Mergui. Il loro potere nascosto fa nascere il desiderio di altri mondi. Meglio, di due mondi, quello dell’uomo e quello della natura, popolato da animali e piante. Le parole della poesia (ed ogni parola è per lei una scoperta) sono per Kolmar lo strumento per ricercare il primordiale dell’umanità, cioè del proprio io. Attraverso la memoria e l’evocazione dell’infanzia cerca tracce, ma è un evento vissuto da giovane donna a rappresentare la traccia evidente e dominante del suo poetare.
In Mondi, come anche in altri componimenti, ricorre ed è evocata con frequenza la figura di un bambino, evidentemente quel bambino desiderato e amato, ma mai partorito, abortito all’età di 21 anni per volontà dei genitori. La sua intera opera poetica palpita del desiderio di riempire quel vuoto rimasto nel suo grembo: «Con le mie piccole opere, mi sento come una madre con il suo bambino appena nato; una madre che certo è felice dell’entusiasmo del padre e dei nonni, delle congratulazioni dei parenti, ma la gioia più grande è averlo partorito ». Così scrisse alla sorella, a motivo della raccomandazione di prendersi cura dei suoi componimenti.
Articolo di Vito PUNZI –Fonte Avvenire del 14 aprile 2023-
ROMA- Musei Capitolini -Agrippa Iulius Caesar, l’erede ripudiato. Un nuovo ritratto di Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto.
Nella Sala degli Arazzi dei Musei Capitolini di Roma viene presentato al pubblico per la prima volta il ritratto di Agrippa Postumo della Fondazione Sorgente Group che dialoga idealmente con altri due ritratti di Agrippa: uno proveniente dalle Gallerie degli Uffizi di Firenze ed un altro dalle Collezioni Capitoline. Aperta al pubblico fino al 27 aprile 2025, la mostra riunisce per la prima volta insieme questi tre capolavori marmorei che raccontano la storia dello sfortunato erede di Augusto, Agrippa Postumo, ultimo figlio di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia, unica figlia di Augusto.
Agrippa Postumo, figlio adottivo di Augusto
L’esposizione, a cura di Laura Buccino, Eugenio La Rocca e Valentina Nicolucci, è promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali con l’organizzazione di Fondazione Sorgente Group e il sostegno del Gruppo Sorgente e Condotte 1880. Servizi museali Zètema Progetto Cultura. Le tre sculture esposte, tra cui la testa di recente acquisizione della Fondazione Sorgente Group, rappresentano le repliche migliori conservate di un tipo di ritratto che la critica attribuisce ad Agrippa Postumo. I ritratti sono databili tra l’adozione del 4 e la condanna del 7 d.C., nel periodo in cui Agrippa Postumo ricevette onorificenze e dediche statuarie a Roma ed in tutti i territori soggetti all’impero. I ritratti di Agrippa Postumo ci riportano alle vicende della storia dell’Impero romano, quando, dopo il 4 d.C. e numerosi lutti per la morte precoce dei successori designati alla successione di Augusto, prima Marcello (figlio della sorella di Augusto Ottavia) e poi Lucio e Gaio Cesari (anch’essi figli di Marco Vipsanio Agrippa e di Giulia), l’imperatore fu costretto a rivedere la sua linea di successione adottando Tiberio Claudio Nerone, figlio di primo letto della moglie Livia, e Agrippa Postumo, l’ultimo dei cinque figli di Marco Vipsanio Agrippa, il più grande collaboratore di Augusto e di Giulia, sua figlia. Il nome “Agrippa” fu scelto dallo stesso Augusto, in quanto era nato poco tempo dopo la morte del padre, da cui il cognomen Postumus. Al momento dell’adozione, il giovane cambiò il suo nome in Agrippa Iulius Caesar, poiché era entrato a far parte della famiglia di Augusto, la Iulia, ed era così divenuto uno degli eredi designati (Caesar) alla successione. Nonostante Agrippa Postumo fosse l’unico nipote rimastogli, Augusto lo ripudiò ben presto, pare per ragioni caratteriali, allontanandolo da Roma e facendolo esiliare prima a Sorrento e poi a Pianosa, come riferiscono le fonti antiche, ma forse anche per le lotte di potere che animavano la corte negli ultimi anni di vita dell’anziano princeps. I tratti fisionomici delle tre sculture in mostra sono inconfondibili – la fronte accigliata, gli occhi stretti e allungati profondamente infossati, gli orbitali enfiati, la piccola bocca serrata, segnata da rigonfiamenti ai lati, le due fossette incavate, tra il naso e il labbro superiore e tra il labbro inferiore e il mento sporgente – e contribuiscono a conferire al volto giovanile un’espressione seria e concentrata, resa ancora più incisiva dalla torsione della testa. La principale caratteristica del ritratto è lo sguardo “torvo”, particolarmente evidente nella replica ai Capitolini, ma presente anche nelle altre. Il tipo ufficiale del ritratto di Agrippa Postumo della Fondazione Sorgente Group fu realizzato verosimilmente in occasione della sua adozione da parte di Augusto nel 4 d.C., quando Agrippa Postumo aveva 16 anni, e utilizzato per le onorificenze dedicategli in quanto erede designato, con il nome di Agrippa Iulius Caesar, almeno fino al suo allontanamento dalla famiglia e all’esilio nel 7 d.C. “Ci riempie di orgoglio l’aver promosso la Mostra monografica dedicata alla presentazione, per la prima volta al pubblico, del volto del giovane principe giulio-claudio, identificato dal prof. Eugenio La Rocca con Agrippa Postumo” – ha dichiarato Valter Mainetti, Presidente della Fondazione Sorgente Group –. “L’esposizione dei tre ritratti, riuniti per la prima volta, è un’importante occasione di conoscenza e di studio, e soprattutto un’opportunità che vede coinvolta la nostra Fondazione, quale istituzione privata, e la prestigiosa sede dei Musei Capitolini, guidati dal Sovrintendente Capitolino, Claudio Parisi Presicce, il cui rapporto di stima e di collaborazione ha consentito la realizzazione di molti progetti culturali”. “Una parte importante della collezione archeologica della nostra Fondazione – ha dichiarato Paola Mainetti, Vicepresidente della Fondazione Sorgente Group – riguarda proprio la ritrattistica dei protagonisti della gens giulio-claudia, in modo particolare degli eredi designati da Augusto alla sua successione imperiale. La Fondazione Sorgente Group ha proseguito in questi anni la sua attività con l’obiettivo di implementare la collezione dei ritratti imperiali, promuovendoli e valorizzandoli attraverso esposizioni e studi scientifici, così come è avvenuto anche per i volti di Lucio Cesare e Gaio Cesare, fratelli dello stesso Agrippa Postumo in mostra; poi Germanico, figlio di Druso e Antonia Minore, il cui ritratto è presente in collezione”.
Info:
Musei Capitolini – Sala degli Arazzi, fino al 27 aprile 2025
Ufficio Stampa Fondazione Sorgente Group
Ilaria Fasano (+39) 339 6409259 i.fasano@sorgentegroup.com
Beatrice Forti (+39) 345 2485682 – b.forti@sorgentegroup.com
Gustavo Zagrebelsky-Il diritto mite – Legge diritti giustizia- Piccola Biblioteca Einaudi
Breve descrizione del libro di Gustavo Zagrebelsky-La prima edizione di questo libro risale a trent’anni fa. Oggi si propone una nuova edizione corredata da un’Introduzione dove si cerca di rispondere alle critiche suscitate dalla novità controcorrente della tesi sostenuta.
Gustavo Zagrebelsky-il-diritto-mite
Questa è la tesi: chi maneggia il diritto sa che ciò che è davvero fondamentale sta non nella Babele dei codici, delle leggi, dei regolamenti, ma nelle concezioni della giustizia, in cui il diritto è immerso. I giuristi consapevoli della funzione sociale del diritto non possono ignorare queste radici complicate della loro professione. Il «diritto mite» è una proposta di apertura culturale indirizzata a loro. Ripercorrendo la storia europea fino allo Stato costituzionale di oggi, il libro mostra come le norme di diritto non possano più essere espressione di interessi di parte né formule imposte e subite. L’autorità della legge, infatti, come mostrano tanti esempi in materie che toccano la vita di tutti, entra in contatto con i casi della vita, illuminati dai principî di libertà e di giustizia. L’applicazione della legge da parte dei giudici è oggi ben altro compito che quello di semplici «bocche della legge».
Gustavo Zagrebelsky.Presidente Onorario Libertà e Giustizia
Gustavo Zagrebelsky
Presidente Onorario Libertà e Giustizia
Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.
Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.
Dal 1995 al 2004, giudice della Corte costituzionale, per nomina del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro e, nell’anno 2004, Presidente della Corte medesima, per elezione dal parte dei suoi componenti Alla scadenza del mandato, è stato nominato giudice e presidente emerito della Corte costituzionale.
Attualmente, è rientrato alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dove insegna Giustizia costituzionale.
Collaboratore, prima della nomina a giudice costituzionale, del quotidiano La Stampa e, dopo la scadenza, del quotidiano La Repubblica. Socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei; socio corrispondente della Accademia delle scienze del Cile. Dottore honoris causa all’Università di Toulon et Vars.
Componente e collaboratore di numerose riviste scientifiche italiane e straniere, tra cui Giurisprudenza costituzionale, Quaderni costituzionali e Revista Iberoamericana de Derecho Procesal Constitucional.
Socio fondatore del Gerjc (Gruppo di ricerca internazionale sulla giustizia costituzionale) con sede a Aix en Provence.
Federigo Tozzi Ecco i calici d’oro delle rime
si accendono e si spengono, a vicenda,
nel tepore dell’anima sublime,
che parmi, adesso, come una leggenda.
Federigo Tozzi è noto principalmente come narratore, in particolare con i romanzi Con gli occhi chiusi, Tre croci e Il podere. Esordì tuttavia come poeta e tra le sue raccolte compare Specchi d’acqua, di cui recentemente Gianfranco Lauretano ha curato per noi la pubblicazione, affiancata da uno studio sull’autore (G. Lauretano, Federigo Tozzi. Una rivelazione improvvisa, Raffaelli, 2020).Riportiamo alcuni esempi di queste liriche di Tozzi, composte probabilmente tra il 1909 e il 1911, che si addensano intorno a temi presenti anche nella sua prosa: la donna, la natura e il costante dialogo con l’anima. Buona lettura.
Di quando in quando, vedo la tua faccia
come un riflesso bello e inafferrabile,
che si dilegui senza alcuna traccia.
E l’anima diviene quasi labile.
[17].
V’erano sogni troppo sparsi e cose
sempre da dirti, che tu non sapevi.
Ma chi cogliere può tutte le rose?
Amica, i giorni nostri sono brevi;
e mentre che t’illude la bellezza
e l’anima tua trepida rilevi,
né men posso finire la carezza
che nella bocca aspetta e nelle mani.
Noi conosciamo poco l’allegrezza.
T’illudi più se credi che domani
avremo quel che non abbiamo ancora.
I nostri sogni sono più lontani.
L’autunno, lentamente, si scolora
e ci lascia avveduti del destino.
Noi sogneremo, forse, per un’ora.
Tu senti che, se vengo a te vicino,
come una volta più non mi puoi credere.
E diviene il tuo cor quasi indovino.
E tu di mano in mano devi cedere
a qualche cosa che è di noi più forte.
Labili son gli abbracci di queste edere.
È forse il velo eterno della morte,
che s’avvicina senza scampo a noi;
sì che anche le memorie sono corte.
Amica, non ritorna quel che vuoi.
[20]. PIOGGIA AUTUNNALE NEL BOSCO
Poi ch’io aspettavo ogni parola vostra,
ogni goccia su l’anima batteva;
e il bosco intorno, a modo di una chiostra,
il suo silenzio a intervalli schiudeva.
Io vi coglievo tutti i ciclamini,
per toccare così le vostre dita;
ma la pioggia tremava sopra i pini,
come ascosa tremava la mia vita.
Ed il silenzio mi parea una soglia
per l’indugio dell’anima dispersa;
e vidi distaccarsi qualche foglia
come una cosa mia che avessi persa.
[48].
Fra le selci il mio cuore ho ritrovato
sì che appena conoscere lo posso.
Ma quando nella mano mi ha aggravato
ben ho sentito il suo sorriso rosso
come una corsa dentro le mie vene.
Ma come lo perdei non mi sovviene.
Era forse una strana primavera,
ond’egli si sentiva più commosso
plasmandosi sì come fosse cera
sotto il sole che gli scendeva addosso.
Ma non m’avvidi quando si disfece
né di quando il Signore me lo fece.
È il mio cuore da vero, oppure sbaglio?
Io non lo so. Mi pare un cuore nuovo;
e per farmi rispondere, lo taglio
e lo trapasso tutto con un rovo.
Se fosse il cuore mio, con una rosa
io mi farei risponder d’ogni cosa.
Ed ecco che risponde: io sono il cuore,
che come un fiume limpido mi muovo;
io mando, quando voglio, un grande odore;
io sono il cuore che dolcezza piovo.
Ti sembro il cuore tuo che non t’è noto,
il cuore tuo sì inutile e sì vuoto?
Rifatti selce tacita, gli grido.
A me bastano gli alberi ondeggianti
nel vento allegro sì che io pure rido.
Mi bastano le stelle fiammeggianti
nel cielo che mi sembra tutto mio.
Tu non guastar questo sublime oblio.
Sbattiti con le selci quanto vuoi;
a me basta sognare fra i giganti;
e invece, cuore umano, tu mi annoi
e d’essere il mio cuore invan ti vanti.
L’anima è qualche cosa che si perde
e si rinnova come un ramo verde.
Federigo Tozzi
Federigo Tozzi-Scrittore italiano (Siena 1883 – Roma 1920). Dotato di una formazione letteraria da autodidatta, riportò nelle sue opere, spesso ambientate in un mondo provinciale e caratterizzate da accenti autobiografici, i sintomi di quella stessa crisi descritta dai contemporanei I. Svevo e L. Pirandello. Dopo le prose liriche Bestie (1917), pubblicò il romanzo Con gli occhi chiusi (1919) e le novelle poi riunite in Giovani e L’amore (entrambi del 1920), mentre molta parte della sua produzione venne pubblicata postuma.
Vita e opere
Perduta la madre, fece studi irregolari ed ebbe un’adolescenza e una giovinezza inquiete, soprattutto per i violenti contrasti col padre, gestore di una nota trattoria senese (cfr. la raccolta post. delle lettere alla fidanzata, Novale, 1925). Nel 1908 fu impiegato delle ferrovie a Pontedera e poi a Firenze, ma alla morte del padre tornò a Siena per vivere sulle poche terre ereditate. Aveva frattanto cominciato a scrivere poesie (pubbl. in due raccolte: La zampogna verde, 1911, e La città della Vergine, 1913) e racconti (uno dei quali, Ricordi di un impiegato, più tardi rielaborato, sarebbe apparso post. nel 1927) e a collaborare a riviste di provincia. Nel 1913 fondò a Siena, con l’amico D. Giuliotti, una rivistina, La Torre, durata pochi numeri (rist. anast. a cura di L. Giorgi, 1977), ispirata a posizioni spiritualiste e di cattolicesimo reazionario, cui T. era approdato dopo una giovanile adesione al socialismo. Nel 1914, costretto a vendere l’ultimo podere, si trasferì a Roma, dove visse anni assai duri (solo nel 1918 entrò nella redazione del Messaggero della Domenica, conoscendovi O. Vergani e L. Pirandello) ma di intensa creatività: la pubblicazione di Bestie, del romanzo Con gli occhi chiusi (1919, scritto nel 1912-13) e di alcune novelle gli procurò finalmente consensi e autorevoli appoggi, fra cui quello di G. A. Borgese. Un altro romanzo, Tre croci (1920), uscì subito dopo la sua morte, dovuta a un’improvvisa polmonite. Postumi apparvero anche i romanzi Il podere (1921) e Gli egoisti (1923) e il dramma L’incalco (1923). Pur essendosi formato fuori dalle correnti letterarie più vive (culminanti in quegli anni nel movimento della Voce) e su disordinate letture, che dagli antichi scrittori senesi giungevano fino a Verga, Dostoevskij e soprattutto D’Annunzio (i cui echi sono frequenti nelle sue poesie), T. fu tra i primi della sua generazione ad avvertire la necessità di uscire dal dilettantismo delle sensazioni per scavare nella propria coscienza e interrogarsi sul senso delle cose; così come, pur essendo portato a un impressionismo lirico a fondo paesistico (felicemente testimoniato dalle prose di Bestie), per molti aspetti vicino al frammentismo dei vociani, meglio e prima di questi egli sentì che occorreva trasporlo in forme oggettive, in narrazione e personaggi (donde la rivendicazione che del significato della sua opera farà la successiva generazione di narratori). Ma se è vero che un residuo di rancoroso autobiografismo contrasta talvolta con tale ricerca di oggettività, è altresì vero che, nel chiuso mondo provinciale da lui descritto, dove gli antichi valori contadini ancora confliggono con quelli della piccola borghesia cittadina e si soffre per meschini interessi e inconfessabili passioni, nel disagio e nel fallimento esistenziale dei suoi personaggi è possibile cogliere i sintomi di quella stessa crisi, inettitudine e smarrimento che, da altri angoli visuali, venivano scoprendo i contemporanei Svevo e Pirandello. Significativi dei suoi gusti e interessi letterari sono altri lavori di T. (Antologia d’antichi scrittori senesi, 1913; Mascherate e strambotti della Congrega dei Rozzi di Siena, 1915; Le cose più belle di Santa Caterina da Siena, 1918; gli scritti critici raccolti in Realtà di ieri e di oggi, post., 1928), mentre alla sua attività creativa vanno ancora ascritti i Nuovi racconti (1960) e Adele. Frammenti di un romanzo (1979), entrambi a cura del figlio Glauco, nonché i testi teatrali, le prose Cose e persone e altri inediti, riuniti, a cura dello stesso, nell’edizione completa e definitiva delle Opere (5 voll., 1961-81). Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Prof.Carlo Franza-L’Appia consolare (Roma-Brindisi) madre di tutte le vie-
La via Appia-E’ in Campania che staziona la bellissima mostra fotografica, non solo documentaria ma anche multimediale dal titolo “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi”; essa riscopre e racconta il percorso della prima grande via europea, da Roma a Brindisi, percorsa a piedi nell’estate 2015 da Paolo Rumiz, Riccardo Carnovalini, Alessandro Scillitani e Irene Zambon. Inaugurata a Roma nell’Auditorium, la mostra è ospitata nel Museo Archeologico dell’antica Capua fino al 25 marzo 2017, rievocando la prima tappa del percorso della Regina viarum. La via consolare fu il tramite per diffondere i principi della civiltà romana, lo strumento che fisicamente collegò il “centro del Potere” con i luoghi strategici della penisola. Appio Claudio nei cinque anni della sua censura tracciò la via da Roma a Capua per 132 miglia. L’Appia fu il tracciato lungo il quale marciò il temuto esercito romano, ma anche la via della condivisione, degli scambi culturali, dei traffici; ma è stata anche la triste strada lungo la quale giungevano a Capua gli schiavi e i gladiatori, dove i 6.000 compagni di Spartaco vennero crocifissi atrocemente e simbolicamente esposti a mo’ di monito. Ed è sempre lo stesso selciato calcato da Paolo di Tarso e dai primi apostoli che, con la loro testimonianza, segneranno la fine dei culti pagani e delle religioni misteriche. Un ulteriore invito a visitare la mostra è offerto da una selezione di iscrizioni, rilievi e sculture provenienti dalla città. Tra questi spicca la statua del Trittolemo, l’eroe ateniese che dispensava il dono dell’agricoltura all’umanità, unico esemplare a tutto tondo finora noto, a simboleggiare la straordinaria fertilità dell’Ager Campanus.
L’Appia consolare
Paolo Rumiz e compagni hanno intrapreso il loro viaggio – conclusosi il 13 giugno 2015 dopo 611 chilometri, 29 giorni di cammino e circa un milione di passi – con l’idea di tracciare finalmente il percorso integrale della madre di tutte le vie, dimenticata in secoli di dilapidazione, incuria e ignoranza. Ecco l’Appia. Ora sono essi stessi a raccontare un’avventura che definiscono “magnifica e terribile, terrena e visionaria, vissuta attraverso meraviglie ma anche devastazioni, sbattendo talvolta il naso contro l’indifferenza di un Paese cinico e prono ai poteri forti, ma capace di grandi slanci ospitali e di straordinari atti di resistenza “partigiana” contro lo sfacelo”. “È compito di ciascuno di noi, come cittadini, – spiegano – restituire alla Res Publica questo bene scandalosamente abbandonato, ma ancora capace – dopo ventitré secoli – di riconnettere il Sud al resto del Paese e di indicare all’Italia il suo ruolo mediterraneo. Appia è anche un marchio, un “brand” di formidabile richiamo internazionale. Un portale di meraviglie nascoste decisamente più vario e di gran lunga più antico del Cammino di Santiago de Compostela. La mostra ci accompagna sui Colli Albani, sotto i Monti Lepini con le fortezze preromane sugli strapiombi, lungo i boscosi Ausoni che hanno dato all’Italia il nome antico e ai piedi dei cavernosi Aurunci dalle spettacolari fioriture a picco sul mare. Ci guida nella Campania Felix, sui monti del Lupo e del Picchio e gli altri della costellazione sannitica, nell’Italia dimenticata degli Osci, degli Enotri e degli Japigi fino all’Apulia della grande sete. In questo itinerario, Paolo Rumiz e compagni non sono stati soli, ma hanno avuto altri compagni d’avventura, da citare in ordine di chilometri percorsi: Marco Ciriello, Sandra Lo Pilato, Michaela Molinari, Mari Moratti, Barsanofio Chiedi, Settimo Cecconi, Giulio e Giuseppe Cederna, Giovanni Iudicone, Franco Perrozzi, Cataldo Popolla, Andrea Goltara e Giuseppe Dodaro, con la partecipazione straordinaria di Vinicio Capossela. La mostra consente di rivivere questa affascinante riscoperta attraverso le fotografie di Riccardo Carnovalini integrate da un reportage di Antonio Politano realizzato per il National Geographic Italia e da istantanee estratte dai filmati “on the road” di Alessandro Scillitani. Nel percorso espositivo, curato da Irene Zambon, con testi e didascalie di Paolo Rumiz, anche alcune immagini dei viaggi di Luigi Ottani sui confini dei migranti e dei sopralluoghi di Sante Cutecchia sulla Regina Viarum, oltre ai filmati di Alessandro Scillitani e le musiche e le installazioni audio di Alfredo Lacosegliaz. Completano il percorso un apparato cartografico curato da Riccardo Carnovalini e Cesare Tarabocchia e il materiale documentario conservato negli Archivi della Soprintendenza Speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma – Capo di Bove e della Società Geografica Italiana, come fotografie, cartoline d’epoca, mappe antiche e moderne. La mostra è a cura della Regione Campania, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Polo museale della Campania, Scabec Spa, Società Geografica Italiana onlus e Festival della Letteratura di Viaggio. La mostra e le attività connesse, che interesseranno anche ulteriori siti lungo il percorso campano dell’antica Appia, sono realizzate nell’ambito del progetto “Itinerari culturali e religiosi” programmato e finanziato dalla Regione Campania con fondi POC.
Carlo Franza
Carlo Franza
Carlo Franza è Nato nel 1949, due lauree conseguite all’Università Statale La Sapienza di Roma. Allievo di Giulio Carlo Argan. Storico dell’Arte Moderna e Contemporanea, professore prima a Roma, poi a Torino, oggi a Milano.
Stefano Garzaro – “Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza “
Per un nuovo 25 aprile- Articolo di Gian Mario Gillo-Il libro Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza di Stefano Garzaro (edito da Piemme) è stato recentemente presentato nei locali della libreria Claudiana di Torino. L’ultima fatica editoriale dell’autore, professionista nel campo dell’editoria scolastica e saggista, è un antidoto alla riscrittura della storia. Ripercorre la tragedia delle ultime due guerre mondiali e si sofferma in particolar modo sulla Seconda, preceduta dal Ventennio fascista che aveva attuato in Italia persecuzioni contro gli oppositori con la promulgazione di leggi “fascistissime”, antiebraiche e razziali, razziste; racconta poi la lotta per giungere alla Liberazione.
Stefano Garzaro – “Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza “
Le circa duecento pagine sono anche un omaggio ai tanti martiri della giustizia e della libertà; soprattutto partigiani e partigiane, come ben ricorda nella prefazione la segretaria nazionale dell’Anpi, Michela Cella.
Il libro risponde a domande dirimenti: perché si festeggia il 25 aprile? Che cosa è stata la Resistenza? Chi furono e come operarono i partigiani? Perché l’Italia fascista decise di entrare in guerra? Soprattutto, consegna al lettore tante storie, alcune delle quali inedite. I nomi citati sono un mosaico narrativo dal quale emergono figure importanti legate all’antifascismo.
Dall’opposizione del torinese Gobetti (morto in Francia per le botte prese in Italia) si passa a quella di Giacomo Matteotti (di cui lo scorso anno ricorreva il centenario della morte), un uomo capace di essere la sintesi di qualità diverse in una persona sola: politico, intellettuale, pubblicista antiregime: per questo ucciso dai fascisti nel giugno 1924.
Cita Willy Jervis, il “traghettatore” di perseguitati su irti sentieri di montagna, che, ricercato nella zona di Ivrea, trovò rifugio in val Pellice, dove proseguì l’attività della Resistenza. Il volume ricorda anche aneddoti come quello di Sandro Pertini che, quand’era presidente della Camera dei deputati, non volle ricevere il fascista che lo teneva recluso in confino a Ventotene, all’epoca questore di Milano.
Garzaro racconta anche le tragedie belliche, sociali e antropologiche più dolorose: le stragi naziste contro i civili, come quella di Sant’Anna di Stazzema, e altre, dimenticate dalla storia; entra nell’abisso umano della Shoah, ricorda le deportazioni di politici e di dissidenti, e di coloro che erano considerati diversi.
Il libro è un omaggio al grande valore civile e umano di tante persone. Garzaro ricorda ad esempio Nunziatina, la staffetta partigiana «che visse due volte» perché sopravvissuta alla fucilazione (seppur fucilata), e ancora i due bambini napoletani, che persero la vita per liberare – impugnando le armi – la loro città.
Uno scrigno prezioso di pagine che dona nuova vita a coloro che la persero, proprio per difendere quella che oggi è la nostra libertà. Elenca nomi, fatti, storie che rischierebbero di perdersi. Partigiano della memoria, l’autore, ci regala questo piccolo manuale da leggere tutto d’un fiato come esercizio democratico in vista del prossimo 25 Aprile.
* S. Garzaro, Per la libertà – Raccontare oggi la resistenza. Milano, Piemme, 2022, pp. 192, euro 14,50.
Fonte- Riforma.it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste metodiste e valdesi in Italia.
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium compie 20 anni!-
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Per festeggiare questo traguardo del Museo Civico Archeologico Lavinium, Sabato 5 Aprile vi invitiamo a trascorrere il pomeriggio al Museo per la presentazione del catalogo della mostra “Frammenti di storia dalla Lavinium imperiale”.
L’appuntamento è alle ore 17:00 nella sala conferenze e numerosi gli interventi, oltre a quelli istituzionali del Sindaco, dell’Assessore alla Cultura e del Funzionario di Soprintendenza.
Entrando nel vivo ci saranno anticipazioni di progetti, idee e cambiamenti per il futuro, a cui farà cenno la Direttrice, Federica Colaiacomo.
Il Prof. Domenico Palombi presenterà il volume “Frammenti di storia della Lavinium imperiale” per dare seguito alla bellissima mostra da poco conclusa (il catalogo sarà a disposizione presso il book-shop del Museo), si concluderà con una visita in alcune sale del museo, accompagnati dal Prof. Alessandro Maria Jaia e naturalmente con un brindisi.
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium
Descrizione
Il Museo Archeologico “Lavinium” si trova a Pomezia (RM) in Via Pratica di Mare, a pochi metri dal Borgo medioevale che sorge sull’antica città di Lavinium fondata dal mitico eroe troiano Enea. Il Museo evidenzia lo stretto legame fra la città di Lavinium e il suo mitico fondatore. A Enea è dedicata un’intera sezione in cui sono illustrate le tematiche del suo viaggio e il tipo di imbarcazione utilizzata dai contemporanei dell’eroe troiano intorno al 1200 a. C. I reperti esposti e gli apparati illustrativi tendono, soprattutto, a sottolineare l’aura di religiosità che circondava l’antico centro laziale. Sono, infatti, i grandi santuari di Minerva e dei XIII altari i principali temi sviluppati nel percorso. Si tratta di un Museo assolutamente innovativo, dove l’esposizione tradizionale convive con le più alte tecnologie multimediali; gli strumenti tecnologici e le ricostruzioni plastiche riescono a mediare tutti i dati storici non visibili, rendendoli al contrario visibili e quindi comprensibili. Il mondo antico è in perfetta sinergia con quello moderno ed ogni reperto archeologico diventa il protagonista di una vera e propria opera di intrattenimento volta alla minuziosa conoscenza del passato.
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium
Museo Lavinium e Area archeologica
Realizzato nel 2005, il museo si trova in località Pratica di Mare nelle vicinanze del Borgo il cui insediamento medievale si erige sulle vestigia storiche dell’Antica Lavinium, Civitas Religiosa dei Popoli Latini la cui fondazione è legata alla figura leggendaria di Enea, figlio della dea Afrodite, considerato il capostipite della stirpe Latina, da cui nasceranno Romolo e Remo, fondatori di Roma.Il complesso espone una parte significativa dei reperti archeologici rinvenuti sul territorio a partire dagli anni ’50 del Novecento e presenta un percorso museale multimediale innovativo in cui la tradizione storica sposa l’alta tecnologia attraverso pannelli esplicativi, proiezioni video, effetti sonori ed ologrammiche contestualizzano i beni rinvenuti e ne specificano i significati, con il fine ultimo di catapultare il visitatore in un passato ambientato nell’antica terra dei latini che ha come protagonisti l’Eroe Troiano, gli abitanti della Città e le loro divinità.
Articolato in cinque sale tematiche, il Museo espone reperti databili tra il X sec. a.C. e l’Età romana. Di pregio e notorietà sono la grande Statua di Minerva Tritonia del V sec. a C. e le statue votive in terracotta provenienti dal santuario della Dea. Suggestiva l’ultima sala dedicata ad Enea ove sono esposti gli oggetti del corredo funerario rinvenuti nel monumento sepolcrale a lui dedicato: la spada, le lance e il coltello sacrificale.
Il museo è progettato per accogliere un pubblico diversificato grazie alle innumerevoli iniziative che si svolgono al suo interno: visite guidate, progetti didattici, mostre e conferenze.
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium
Pomezia-Pratica di Mare (Roma)-Il Museo Civico Archeologico Lavinium
Ricordiamo ai gentili utenti che dal 1° aprile al 30 settembre entrerà in vigore l’orario estivo:
Lunedì e festa patronale (11/7) chiuso Martedì e giovedì: 9.00-13.00 / 15.00 – 18.00 Mercoledì e venerdì: 9.00-13.00 Sabato, domenica e festivi: 10:00-13.00 / 16:00-19.00 La biglietteria chiude 45 minuti prima dell’orario di chiusura
Per restare aggiornati su tutte le attività vi invitiamo
a visitare il nostro sito internet http://www.museolavinium.it
e a seguirci sui nostri social!
Ponzano Romano (Roma)- PRAC –Centro per l’Arte contemporanea – Nel mese del vento-
Ponzano Romano (Roma)-Il PRAC – Centro per l’Arte contemporanea accoglierà il prossimo 30 marzo 2025, a partire dalle ore 10.00, il progetto espositivo dal titolo “Nel mese del vento”, a cura di Graziano Menolascina. La mostra vede protagonisti gli artisti Verdiana Bove, Francesca Romana Cicia, Emanuele Fasciani, Luca Di Terlizzi e Caterina Sammartino, che per la prima volta espongono insieme come collettivo CONDOTTO48.
Il titolo, ispirato al “mese del vento”, ovvero marzo, richiama la forza primordiale del vento, simbolo di rinnovamento e fertilità, capace di stimolare la natura e favorire la crescita e il rinascimento. Marzo è infatti considerato il mese della transizione, come ben sintetizzato da Charles Dickens: “Era uno di quei giorni di marzo in cui il sole splende caldo ed il vento soffia freddo: quando è estate nella luce e inverno nell’ombra”. In questo scenario di rinnovamento, il progetto espositivo si sviluppa attraverso tre installazioni spaziali nelle sale di Palazzo Liberati, dando vita a un viaggio evocativo che invita il pubblico a esplorare una dimensione interiore e spirituale, fatta di memoria e scoperta.
Gli artisti di CONDOTTO48, attraverso le loro opere, esprimono un’emotività comune, nata dalla consapevolezza di una sensibilità condivisa, che li spinge a ricercare o riscoprire una dimensione altra, spirituale e personale. Il percorso espositivo porta il pubblico a intraprendere un viaggio in un mondo lontano, riscoprendo parti di sé stessi o conoscendo nuovi aspetti della propria memoria emotiva.
“Nel mese del vento” non è solo una mostra d’arte contemporanea, ma una riflessione sulla bellezza della trasformazione, sul significato profondo della rinascita e sulla capacità dell’arte di guidare lo spettatore in un’esperienza di scoperta interiore.
Il titolo, ispirato al “mese del vento”, ovvero marzo, richiama la forza primordiale del vento, simbolo di rinnovamento e fertilità, capace di stimolare la natura e favorire la crescita e il rinascimento.
“Misura per misura” una delle commedie più celebri di William Shakespeare
Misura per misura (Measure for Measure) è una commedia di William Shakespeare, scritta nel 1603. A volte quest’opera viene catalogata anche come “problem play” (cioè “opera problematica”) in quanto ha in sé sia elementi di commedia che di tragedia.
“Misura per misura” di William Shakespeare
Trama
Vincenzo, Duca di Vienna, afferma di voler lasciare la città per svolgere una missione diplomatica e incarica Angelo, reputato da tutti un uomo austero e casto, di governare in sua vece.
Claudio, un giovane gentiluomo, è fidanzato con Giulietta, che però rimane incinta prima del matrimonio. Il giovane deve comparire davanti ad Angelo e, pur provandosi disposto a sposare Giulietta, viene condannato a morte. Lucio, amico di Claudio, fa perciò visita alla sorella di quest’ultimo, Isabella, novizia in un convento, e le chiede di intercedere presso Angelo: Isabella ottiene di essere ricevuta da Angelo, e gli chiede la grazia per il fratello. Angelo accetta, ma a una condizione: egli libererà Claudio se Isabella accetterà di avere un rapporto sessuale con lui, dandogli la sua verginità. Isabella rifiuta, e decide di andare a visitare Claudio in prigione, consigliandogli di prepararsi alla morte.
“Misura per misura” di William Shakespeare
Il Duca però non ha affatto lasciato la città. Travestito da frate, col nome di Fra’ Ludovico, è in grado di vedere come vanno le cose, e soprattutto di rendersi conto del modo di governare di Angelo. Il Duca (che Isabella crede un vero frate) diventa confidente di Isabella e le propone due sotterfugi per mandare in fumo i progetti di Angelo: quest’ultimo avrebbe dovuto sposare Mariana, ma si è rifiutato di farlo una volta saputo che la dote della ragazza era stata persa in un naufragio. Isabella perciò dovrà dire ad Angelo che acconsente, ma alla condizione che l’incontro si svolga nel buio più totale. Isabella esegue quanto suggerito; ma al suo posto manda invece Mariana, che ha un rapporto sessuale con Angelo, convinto di averlo avuto con Isabella.
Angelo ritira la parola data, e manda un messaggio alla prigione dicendo che vuole che Claudio venga decapitato. Il Duca dapprima cerca di far giustiziare un altro prigioniero, ma senza risultato; infine Angelo viene accontentato: ma la testa che viene portata ad Angelo non è quella di Claudio, bensì quella di un pirata, morto quel giorno stesso di febbre maligna. L’opera si conclude con il “ritorno” del Duca a Vienna, dove si fa riconoscere nel corso del processo sollevato per le accuse che Isabella e Mariana hanno porto contro Angelo, e condanna Angelo a morte. Mariana però chiede al Duca di avere pietà: egli decide così di graziare Angelo, a patto però che sposi Mariana.
Il Duca quindi propone a Isabella di sposarlo, ma lei non risponde. Al silenzio di Isabella vengono date diverse interpretazioni; la più comune è che si tratti di un assenso.
William Shakespeare
Un intreccio secondario riguarda Lucio, amico di Claudio, che è solito diffamare il Duca nelle sue conversazioni col frate, e nell’ultimo atto diffama invece il frate parlando col Duca. Ne consegue che Vincenzo ne rimane costernato, e mette Lucio nei guai quando si scopre che il Duca e il frate sono la stessa persona. La sua punizione, come per Angelo, è l’obbligo di contrarre matrimonio, nel suo caso con la prostituta Kate Keepdown.
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