Jorge Luis Borges-Storia della notte-A cura di Francesco Fava-ADELPHI EDIZIONI
Risvolto del libro di Jorge Luis Borges-Storia della notte-L’enigma del tempo che ci plasma, di un presente «fugace particella del passato», della memoria custodita dalla «vasta Biblioteca», dei nostri gesti ligi alle regole di un gioco oscuro diretto da un dio indecifrabile sono motivi familiari a chi ama Borges. Mai come in Storia della notte, tuttavia, hanno trovato un’espressione più vivida, diretta e, soprattutto, intima, tanto che l’infinita, imperscrutabile catena delle cause e degli effetti può ora tendere verso un luminoso punto di fuga, incarnato dalla donna amata: «La Torre di Babele e la superbia. / La luna contemplata dai Caldei. / Le sabbie innumerevoli del Gange. / Chuang Tzu e la farfalla che lo sogna. / … / Sono servite tutte queste cose / perché le nostre mani si incontrassero». Ma c’è di più: oltre che l’oscurità della morte e della cecità, la «notte» del titolo evoca la capacità dell’uomo di forgiare parole e miti («Lungo il corso delle generazioni / gli uomini eressero la notte. / … / La resero madre delle tranquille Parche / che tessono il destino»), sicché questa raccolta poetica del 1977, inframmezzata da brevi prose, andrà letta anche come un emozionante (e autobiografico) riepilogo dell’ininterrotto sforzo di «significar per verba» – di dare senso alla vita attraverso le parole.
A cura di Francesco Fava.
Jorge Luis Borges
Jorge Luis Borges -Lo scrittore che rese possibile l’assurdo e assurde le certezze
Jorge Luis Borges -Scrittore argentino del Novecento dalla vastissima cultura, era dotato di una prodigiosa memoria che neppure la cecità poté attenuare. Nelle sue poesie e soprattutto nei racconti trasporta il lettore, grazie a fantastiche invenzioni, in un mondo di inquietanti e sorprendenti illusioni, dove ogni certezza si trasforma in dubbio.
Jorge Luis Borges (1899–1986)
Una lunga vita
Jorge Luis Borges nasce in Argentina, a Buenos Aires, nel 1899 e da adolescente si trasferisce con la famiglia in Europa, dove subisce il fascino della cultura del vecchio continente. Ritornato in patria, dal 1923 scrive poesie ispirate comunque alla sua città, alle storie fatali e tragiche dei compadritos, teppisti di periferia dal coltello facile, e dei gauchos, cavalieri della pampa, innalzati al ruolo di eroi mitici (Fervore di Buenos Aires, Luna di fronte, Quaderno San Martín). Nel 1930 conosce Adolfo Bioy Casares con cui scriverà molte opere, tra le quali antologie di racconti fantastici e polizieschi. Nel 1938 inizia ad avere problemi di vista che diciotto anni dopo lo porteranno a diventare completamente cieco. Nel corso degli anni, lavora in una biblioteca municipale, dirige la Biblioteca nazionale, diviene professore di Letteratura inglese all’università di Buenos Aires. Muore nel 1986 a Ginevra.
La biblioteca infinita
Borges sin da giovanissimo fu un lettore curioso e appassionato: i libri, la scrittura, la lettura sono anche temi della sua opera. Per Borges la realtà è ciò che è scritto nei libri; di conseguenza la biblioteca, luogo dove questi sono raccolti e conservati, è immagine dell’Universo. Con il suo spazio ordinato geometricamente in lunghe serie di scaffali e corridoi tutti uguali, la biblioteca è simile a un labirinto dove è facile perdersi; i suoi angoli sempre identici ricordano una galleria di specchi dove le immagini si moltiplicano e creano effetti illusori.
Nel racconto intitolato La biblioteca di Babele un anziano bibliotecario descrive questo luogo dove ha trascorso l’intera vita alla ricerca del libro che desse senso alla sua esistenza: ma nella biblioteca, come nella biblica torre di Babele, si mescolano tutte le lingue, vi sono libri indecifrabili scritti in codici misteriosi e libri che a ogni diverso lettore svelano differenti significati. Essa contiene tutti i libri possibili, tutto il sapere e quindi tutta la realtà, ma è impossibile poter conoscere tutti i libri o trovare nell’illimitata biblioteca il libro che contenga il senso di tutti gli altri; dunque la conoscenza della realtà non è che un’illusione.
Le ambiguità della realtà
Anche la condizione umana può rivelarsi ingannevole: per esempio, nel racconto Le rovine circolari un asceta crea in sogno un essere che ha l’aspetto di un uomo ma che rivela la sua natura fantastica perché è capace di resistere al fuoco. Un giorno, l’asceta sognatore è minacciato da un incendio e scopre, con sollievo e terrore, di sopravvivere alle fiamme: capisce allora di essere nato dal sogno di qualcun altro che, a sua volta, potrebbe essere un’illusoria creazione, e così via all’infinito.
Non solo l’esistenza dell’uomo è messa in dubbio dalla fantasia di Borges, ma anche la natura dello spazio e del tempo: in un altro suo racconto, Il giardino dei sentieri che si biforcano, ogni volta che si è davanti a un bivio ‒ cioè a una possibile alternativa ‒ non si sceglie una strada a esclusione dell’altra, ma è possibile percorrerle entrambe simultaneamente. Da una storia nascono così molti sviluppi, contemporanei nello spazio e nel tempo, che a loro volta, a ogni nuova biforcazione, si moltiplicano e offrono infinite soluzioni possibili, persino in contraddizione tra loro.
La veglia e il sogno, la verità e la finzione, la vita e la letteratura si confondono in un inestricabile intreccio. Le storie ingegnose di Borges rendono plausibile ciò che crediamo assurdo, mentre le certezze della nostra civiltà si sgretolano sotto i colpi della sua fantasia.
I grandi fotografi. Ediz. illustrata di Juliet Hacking
C. Spinoglio (Traduttore)- Editore Einaudi
I grandi fotografi. Ediz. illustrata di Juliet Hacking
Descrizione del libro di Juliet Hacking- “Ridurre circa 180 anni di produzione fotografica (si pensi che il solo Cartier-Bresson produsse di più di mezzo milione di negativi in un’unica vita) a meno di quaranta nomi, significa che le biografie presentate qui appartengono a coloro che sono passati alla posterità. I trentotto artisti rappresentati in queste pagine hanno tutti creato immagini straordinarie servendosi della fotografia. Ma non sono assolutamente i soli grandi fotografi esistenti. Lo scopo di raccontare queste vite è quello di rammentare al lettore alcuni dei piaceri e dei valori della biografia nel suo rapporto con la storia dell’arte: non solo la sua accessibilità e il suo interesse, ma anche il suo ruolo di correttivo alla moda attuale delle cronologie (con la loro natura sedicente fattuale). Spero che questi brevi saggi aiutino a controbilanciare l’idea dominante secondo cui la biografia è anti intellettuale. Anche se l’aforisma classico ars longa, vita brevis continua a essere attuale, ora siamo meno inclini a concepire la vita e l’opera di un artista in opposizione tra loro, e le vediamo entrambe come l’arena in cui si modellano, si forgiano e si creano forme nuove con il loro irresistibile slancio vitale”.
Juliet Hacking Faculty London Sotheby’s Institute of Art
L’Autrice. Juliet Hacking, dopo aver diretto per tre anni il Dipartimento di fotografia di Sotheby’s di Londra, dal 2006 dirige il Master in fotografia (storica e contemporanea) del Sotheby’s Institute of Art. Ha curato e scritto il catalogo per la mostra «David Wilkie Wynfield: Princes of Victorian Bohemia» per la National Portrait Gallery. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il volume, da lei curato, Photography. The Whole Story (Thames & Hudson 2012) e, in italiano, I grandi fotografi (Einaudi, 2015).
Juliet Hacking
Program Director, MA Contemporary Art, London
PhD, MA and BA (Hons), Courtauld Institute of Art, London.
Juliet Hacking began her academic career as a Visiting Lecturer (at the Universities of Derby and Reading, and the Courtauld Institute). In 1999 she took on a year-long research post at the National Portrait Gallery, London, where she also curated the exhibition and wrote the book ‘Princes of Victorian Bohemia: Photographs by David Wilkie Wynfield’ (Prestel, 2000). From 2000 to 2003 she was a junior specialist in the Photographs Department at Sotheby’s auction house in London; becoming, in 2003, Head of the department. She joined Sotheby’s Institute of Art, London, in 2006, and was the Programme Director of the MA in Photography for 10 years. In 2016 she became a member of the MA in Contemporary Art faculty, and was recently appointed its Programme Director. She is the author of ‘Lives of the Great Photographers’ (2015), general editor of ‘Photography: The Whole Story’ (2012) [both Thames & Hudson], author of ‘Photography and the Art Market’ (Lund Humphries, 2018) and the co-editor of ‘Photography & the Arts: Essays on 19th-Century Practices and Debates’ (forthcoming, Bloomsbury). She is also co-series editor of ‘Hot Topics in the Art World’ with Lund Humphries.
Descrizione del libro di Simona Colarizi per “Le smanie per la villeggiatura”Il caldo dell’estate del 1968 riusciva laddove aveva fallito la forza pubblica: alla spicciolata gli studenti lasciavano le aule dell’università dove si erano barricati dopo la prova di forza in difesa della facoltà di architettura a Roma. Sgomberata dalla polizia per ordine del rettore D’Avack e di nuovo rioccupata, per gli studenti era diventata un simbolo della contestazione che ormai da due anni aveva messo a soqquadro gli atenei di tutta Italia. Così nel marzo un corteo di 4000 giovani si avviava in due direzioni: una parte raggiungeva la Facoltà di Architettura a Valle Giulia, un’altra forzava i cancelli dell’Università centrale. Era però tra Villa Borghese e le vie adiacenti dei Parioli, il quartiere privilegiato dalla borghesia benestante della capitale, l’epicentro degli scontri con i “celerini”, i reparti della PS dalla mano pesante, i più odiati dagli studenti.
Nell’immaginario dell’epoca era stata una vera battaglia, la “battaglia di Valle Giulia”, con lanci di sassi e manganellate, cariche della polizia e fughe dei dimostranti. D’altra parte della città si scatenava la rissa nella sede centrale sotto le finestre di Giurisprudenza, occupata dagli studenti dell’estrema destra, e sulla scalinata della Facoltà di Lettere, quartier generale degli studenti di sinistra; gli uni e gli altri decisi a difendere i propri spazi che la fazione opposta voleva conquistare. Queste giornate della primavera 1968 avevano suscitato clamore in tutto il paese anche per la condanna contro gli studenti “figli di papà”, lanciata da Pier Paolo Pasolini nella famosa poesia “Il Pci ai giovani”. E tra quei giovani della sinistra c’erano ragazzi destinati a diventare intellettuali ed editorialisti di peso nella vita politica italiana nei decenni successivi.
Da mesi non c’era stato un giorno di tregua negli atenei di tutta Italia dove si sperimentavano lezioni alternative ai vecchi corsi, si sospendevano le sedute di laurea e gli esami, si mettevano al bando i professori che resistevano alle innovazioni didattiche imposte dagli studenti. Si chiedeva in sostanza un rinnovamento profondo nei saperi, un ricambio dei docenti, una trasformazione delle vecchie strutture insufficienti a contenere la crescita della massa studentesca, soprattutto si voleva abbattere il vecchio Gotha accademico che esercitava un potere assoluto, autoritario e opaco. Insomma, gli studenti chiedevano la riforma delle università rimaste quelle dell’epoca fascista, con le stesse regole e con gli stessi professori; università elitarie dove accedevano solo i figli della borghesia, mentre restava ferma al 3% la percentuale degli studenti provenienti dai ceti sociali più bassi.
Riforme non rivoluzione dunque: il cuore della contestazione sessantottina era ancora democratico, ottimista, dissacrante e allegro, una fase speciale nella vita delle giovani generazioni – e persino delle studentesse – che sperimentavano nuove libertà e trasgressioni, violando codici familiari e accademici consolidati nei secoli. Così sarebbe stata anche la lunga estate del 1968, “l’ultima estate dell’innocenza”, prima che prendessero la direzione del movimento i nuclei politici di estremisti votati alla rivoluzione e nell’estrema destra si cominciasse a teorizzare la strategia della tensione. In pochi si erano resi conto che i primi semi della violenza avevano già cominciato a mettere radici quanto più gli obiettivi della riforma universitaria si sommavano alla critica dell’intero sistema politico italiano e internazionale occidentale, quelle democrazie nate dopo il secondo conflitto mondiale ma rimaste prigioniere della guerra fredda; fredda in Europa, ma calda in altre parti del mondo, e le dimostrazioni contro l’intervento americano in Vietnam erano state l’incubatrice dell’aggregazione studentesca già negli anni precedenti il Sessantotto.
Al salto di qualità nella politica aveva concorso un evento chiave per capire l’evoluzione della contestazione. Nel 1968, due mesi dopo gli scontri a Valle Giulia, era esploso il “maggio francese” che aveva fatto del quartiere latino parigino la meta prediletta dei più avventurosi contestatori italiani ed europei. Un vero e proprio “pellegrinaggio”, in realtà l’anticipo di vacanze all’estero mai sperimentate fino a quel momento dai tanti giovani che si raccoglievano davanti a “Sciences Po” scandendo in una confusione di lingue gli stessi slogan: “L’immaginazione al potere”, “Tutto e subito”, “Joussiez sans entraves” e tanti altri dipinti a grandi lettere sulle pareti delle università, come la scritta “Il est interdit d’interdire” che campeggiava sulla facciata della Sorbonne.
Per quasi un mese agli occhi dei giovani, Parigi era apparsa l’epicentro di una vera e propria rivoluzione che aveva allarmato anche le autorità francesi già in allarme per le continue manifestazioni delle masse operaie alle quali si univano adesso i cortei degli studenti. Da tempo in Francia il mondo del lavoro era percorso da agitazioni sempre più incontenibili, culminate appunto nel maggio in uno sciopero generale di tale portata da riportare alla memoria i moti del ’34. Barricate per le strade, banlieue in rivolta, fabbriche chiuse da Calais a Marsiglia. Studenti e operai avevano sfidato insieme il potere del generale De Gaulle, il quale non sarebbe però arretrato di un passo, soffocando rapidamente le scintille incendiarie.
Col passare dei giorni l’ondata di protesta rifluiva ovunque pacificamente, complice l’arrivo dell’estate. I giovani partivano per i luoghi canonici di villeggiatura al mare, in montagna, in collina; ma questa volta in tanti sceglievano mete oltre frontiera, ancora largamente sconosciute dagli studenti italiani rimasti alquanto provinciali, come il resto della popolazione. Adesso però partivano in gruppo, quasi non volessero spezzare il filo di continuità con la vita collettiva sperimentata nelle occupazioni; una vita intensa e gioiosa, la stessa che avrebbe caratterizzato tutti i mesi estivi. Giugno, luglio, agosto e settembre – quella calda estate che sembrava non avesse mai fine – passavano così, all’insegna delle nuove amicizie strette nel corso delle lotte nelle università. Sarebbe stata per tutti una tappa importante nell’esistenza privata e nella crescita civile e culturale dei sessantottini che rompevano i rituali delle tradizionali vacanze trascorse con le famiglie nelle case al mare o in montagna. La parola d’ordine diventava il viaggio in Europa dove in tutto l’Occidente e persino a Praga nell’impenetrabile mondo sovietico, i loro coetanei stavano anch’essi ribellandosi contro il vecchio mondo accademico e più in generale contro l’intera struttura di società classiste, rimaste ancorate a poteri autoritari nel pubblico e nel privato.
Certo, il sogno sarebbe stato quello di varcare l’oceano e arrivare fino alla West Coast degli Stati Uniti, dove tutto aveva avuto inizio. Ma con un sacco a pelo sulle spalle si poteva arrivare ovunque nelle capitali europee e nei luoghi più ameni ancora sconosciuti, sentendosi un po’ hippies e un po’ i motociclisti di “Easy rider” – un film cult per la generazione del ‘68. In assenza della moto, c’erano i treni o le automobili dei compagni prestate dai papà dei più ricchi, che venivano caricate fino all’inverosimile: cinque sei persone, pigiate una sull’altra, insieme a poche magliette di ricambio e tanti viveri, in genere una quantità di pacchi di pasta che i compagni degli altri paesi imparavano adesso a gustare usando il cucchiaio, incapaci di arrotolare sulla forchetta i famosi spaghetti.
L’intero mondo della contestazione europea si incontrava in queste vacanze con gli stessi rituali già messi in atto nelle università occupate: discussioni interminabili in tutte le lingue alla ricerca di un idioma comune – in genere il francese, rimasta ancora la lingua più conosciuta in Europa come all’epoca delle generazioni precedenti; tante letture da condividere, ma soprattutto i testi marxisti diventati la nuova Bibbia, e i saggi dei sociologi di Francoforte e di Marcuse, eletto a vate dell’anti consumismo. Non tutti ne comprendevano il significato, ma nessuno voleva confessare di non averlo letto. Tutti invece conoscevano le canzoni intonate a sera negli accampamenti in riva al mare, nei boschi e nelle valli dove si alzavano le tende, si accendevano i fuochi e risuonavano alti i cori partigiani – su tutti “Bella ciao” – che davano l’illusione ai giovani di rinverdire la missione dei resistenti in lotta contro il nazi-fascismo.
Gli “spinelli” enfatizzavano l’allegria contagiosa e i tanti amori sbocciati nel clima gioioso e irresponsabile della nuova libertà sessuale. Le ragazze italiane misuravano la repressione subita da sempre guardando le coetanee dei paesi del Nord, così disinibite nei rapporti con i maschi. Le imitavano indossando jeans – da allora una divisa d’ordinanza – ma anche tuniche folcloristiche orientaleggianti dai mille colori; si mostravano senza reggiseno sulle spiagge in un estremo gesto di sfida al pudore che le voleva sottomesse alle regole dettate dai padri, dalle madri, dalla Chiesa. La rivoluzione femminista, anche se non ancora ufficialmente dichiarata, in Italia cominciava in questa estate del ’68 che nessuno avrebbe voluto finisse mai. In questi mesi i giovani avevano costruito in miniatura un mondo senza confini geografici, né barriere culturali dove regnava una nuova fratellanza e c’erano sempre sole e caldo, dove si viveva con poco, ci si divertiva un sacco e sembrava scomparso l’universo dei doveri, degli obblighi, delle responsabilità.
Eppure l’autunno si avvicinava inesorabile. Il 1969 non sarebbe stato identico all’anno precedente: il ricambio nelle file degli studenti è sempre rapido. La permanenza all’università per chi intendeva concludere i suoi studi, durava meno di cinque anni e i più maturi che da tempo guidavano la contestazione, si avviavano sulla strada del lavoro dove avrebbero portato il vento del cambiamento e della modernizzazione. Alcuni però restavano in campo, decisi a continuare una battaglia i cui connotati politici acquistavano una valenza ideologica sempre più estrema. Il mito della classe operaia rivoluzionaria che dopo il maggio francese si era diffuso oltre i circoli intellettuali marxisti-leninisti e operaisti, avrebbe alimentato nei gruppuscoli extra parlamentari l’illusione di una rivoluzione sociale possibile. Una sfida immediatamente raccolta dall’estrema destra che da tempo si preparava a una contro-rivoluzione preventiva, come già era affiorato nel ‘64 con la vicenda del SIFAR. Con il nuovo anno si sarebbe aperta un’altra stagione di cortei e di occupazioni nelle Università; ma qualcosa era cambiato: c’era più rabbia, meno allegria, meno improvvisazione. Il sole dell’estate si era oscurato, il freddo aveva cominciato a mordere, e, nel dicembre del ‘69, con la strage di Piazza Fontana a Milano iniziava la notte della Repubblica.
Simona Colarizi
Simona Colarizi è ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma La Sapienza. Tra le sue ultime pubblicazioni, Storia del Novecento italiano (Milano 2000). Per i nostri tipi, tra l’altro, L’Italia antifascista dal 1922 al 1940 (a cura di, 1977), Dopoguerra e fascismo in Puglia. 1919-1926 (19772), Biografia della prima Repubblica (19982), L’opinione degli italiani sotto il regime. 1929-1943 (20002) e, con M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi , il partito socialista e la crisi della Repubblica (20062).
Max Ernst-Una settimana di bontà-Tre romanzi per immagini
A cura di Giuseppe Montesano-ADELPHI EDIZIONI
Risvolto del libro di Max Ernst-Una settimana di bontà-Tre romanzi per immagini -Con il romanzo, com’è noto, i surrealisti non ebbero fortuna. Sicché, alla distanza, i più rapinosi potrebbero rivelarsi proprio quei romanzi per immagini che Max Ernst elaborò fra il 1929 e il 1934 ritagliando illustrazioni di feuilleton dell’Ottocento e dei primi del Novecento, e assemblandole poi in collage a cui aggiungeva didascalie di sua mano, destinate a essere, scrive Giuseppe Montesano, «segnali devianti e pervertimenti del senso comune». Sono immagini folte di fanciulle sensuali e innocenti insidiate da tenebrosi allievi di Sade, e di messieurs in abito nero e ghette che nascondono manie vergognose, mentre sullo sfondo freme «la città piena di sogni» di Baudelaire e ancora «lo spettro adesca il passante in pieno giorno». Un allestimento onirico ereditato dai romanzi d’appendice, dunque, ma che Ernst ha saputo trasformare, non senza un tocco di germanico unheimlich, in vessillo della sommossa perenne del desiderio. Si installa così in queste pagine perturbanti il più cupo e luminoso erotismo mai evocato dai surrealisti, dove un seno è un giocattolo e una capigliatura un sesso palpitante, dove i fantasmi del piacere hanno scollature abissali e le ossessioni si mutano in animali da preda, dove un lenzuolo su un corpo nudo è una cascata letterale e i rivoltosi dell’amore volano dalle finestre degli abbaini.
In copertina-Immagine tratta da Una settimana di bontà (1934).
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Max Ernst-Una settimana di bontà
Biografia di Max Ernst-Pittore e scultore tedesco (Brühl, Colonia, 1891 – Parigi 1976). Importante esponente del movimento surrealista: dalla commistione di immagine e parola poetica negli esperimenti di ‘scrittura automatica’ nacquero i suoi collages e i romanzi-collage (La femme 100 têtes, 1929; Une semaine de bonté, 1934), tra le opere più rappresentative delle teorie dell’arte surrealista. Produsse anche sculture (Capricorne, 1948) e objects trouvés e realizzò composizioni e paesaggi fantastici. Primo premio per la pittura della Biennale di Venezia (1954).
Vita e opere
Studiò filosofia a Bonn (1909-14) e si formò alla pittura nell’ambito dei movimenti tedeschi d’avanguardia; nel 1913 partecipò alla esposizione del gruppo “Der Sturm”, nel 1918 fondò a Colonia, con J. Th. Baargeld e H. Arp, un gruppo dadaista; dal 1922, a Parigi, ebbe una parte rilevante nel movimento surrealista. Illustrò i poemi di P. Éluard, collaborò a Littérature, compì, con Breton, Crevel, Éluard, Picabia e altri, i primi esperimenti di “scrittura automatica”. Oltre ai molti collages, ai frottages (Histoire naturelle, 1926; Rêveries surréalistes, 1927), ai romanzi-collages (La femme 100 têtes, 1929; Rêve d’une petite fille qui voulut entrer au Carmel, 1930; Une semaine de bonté, 1934), alle sculture e agli objects trouvés, spesso pieni di allusioni ironiche, dipinse paesaggi fantastici e composizioni, un mondo di immagini che riflettono la sua ansia per la degenerazione della civiltà moderna, (serie sul tema della Forêt, della Ville, del Jardin gobe-avions, dei Barbares marchant vers l’ouest, ecc.). Nel 1938-39 eseguì sculture e affreschi per la sua casa a Saint-Martin d’Ardèche (Avignone). Nel 1939 fu internato in campo di concentramento; raggiunse gli Stati Uniti nel 1941 e vi restò fino al 1949, mantenendo contatti con i surrealisti ivi rifugiati (curò con M. Duchamp e A. Breton la rivista VVV), dipingendo opere come Europe after the rain II (1940-42, Wadsworth Atheneum, Hartford), Napoleon in the wilderness (1941, New York, Museum of modern art), Euclid (1945, Houston, Menil Foundation) e realizzando, nella sua casa di Sedona (Arizona) una delle sue sculture più significative, il gruppo monumentale Capricorne (1948; esemplare in bronzo, 1964, Parigi, Centre Pompidou). Stabilitosi di nuovo a Parigi, continuò a elaborare con sensibilità assai ricca verso la materia, composizioni in cui gli elementi intellettualistici del surrealismo si sciolgono in associazioni e dissociazioni dettate da un acuto sentimento poetico. Nel 1954 ottenne il primo premio per la pittura della Biennale di Venezia. Fonte Istituto della Enciclopedia Italiana
Daria Menicanti è stata una Poetessa, insegnante e traduttrice italiana. In lei si mescolano il registro sarcastico e ironico e quello più sottile della malinconia. Per Lalla Romano la sua era “una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
ESTIVA
*
Ogni sera le madri dai balconi
chiamano i figli con urli soavi.
Cadono i nomi gridati nel buio
come stelle filanti. Ad uno ad uno
tornano con le bluse a quadrettini
le gonnellette alte una spanna i teneri
re,le regine.
Daria Menicanti, il “grillo” che ha cantato Milano
“Io mi sento il palloncino fuggito dal suo grappolo”
Da bambina la chiamavano grillo, un soprannome che ha conservato per tutta la vita e che a volte disegnava accanto alla sua firma. Un nomignolo profetico per chi del canto ha fatto la sua voce. Daria Menicanti è una delle poetesse italiane dimenticate da riscoprire.
A Piacenza c’è nata “per caso” in quel 6 aprile del 1914 perché sentiva di avere un destino legato al mare viste le origini livornesi e fiumane dei genitori. Il padre aveva studiato con Pascoli che nutriva speranze nel promettente poeta. Lui scelse però di studiare legge e lavorare prima come assicuratore a Trieste e poi come bancario in diverse città del Nord. In seguito fu costretto a cambiare molti lavori per le difficoltà dovute al suo antifascismo e la famiglia si spostò spesso seguendolo.
Daria era la sesta figlia, l’ultima, la più vezzeggiata, la più capricciosa, mingherlina ma con un carattere molto risoluto. I rapporti con la famiglia furono sempre burrascosi, specie col padre spesso assente. Non disse a nessuno che si laureava e nessuno invitò al suo matrimonio, pochi mesi dopo. Dopo le nozze in Comune tornò semplicemente a casa, riempì una borsa e se ne andò dicendo “stasera non vengo a casa perché mi sono sposata”, ricorda la nipote Lucia.
A mano a mano quale ero ritorno:
una che va vestita come càpita,
contenta del poco, di rari
amici scontrosi,
una dispari
felice di bere alla brocca
della sua solitudine.
Daria è una persona schiva e solitaria e i primi anni li vive nella stessa “campana di vetro” di cui parla Sylvia Plath, che avrebbe poi tradotto nel 1968. È di salute cagionevole perciò non va a scuola e studia a casa seguita dalla sorella maggiore Trieste. Inizia a frequentare la scuola pubblica solo alle superiori iscrivendosi al Liceo Ginnasio Berchet di Milano. Continua gli studi alla Facoltà di Lettere e Filosofia e ha come compagni di corso Antonia Pozzi, Luciano Anceschi, Vittorio Sereni, Enzo Paci. Si laurea in estetica con Antonio Banfi e una tesi sulla poetica di Keats. Proprio quel Banfi che creerà intorno a sé la “scuola di Milano”.
Lo sbocco naturale della sua formazione è l’insegnamento e per tutta la vita Daria Menicanti insegna nella scuola media, diventando in seguito anche preside. Ma il suo lavoro culturale è più ampio. Dagli Anni 30 in poi compone poesie, scrive sulle riviste letterarie e traduce, traduce moltissimo, specialmente dall’inglese e dal francese: John Henry Muirhead, Paul Nizan, Betty Smith, Noel Coward, Nelly Sachs, Paul Geraldy, Sylvia Plath. Le traduzioni servono da laboratorio per la definizione della lingua poetica anche se Daria ha tradotto soprattutto prosa, e specialmente filosofia. “La vita dello scriba è una manciata / di sillabe e vocali e consonanti / e di allitterazioni”.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Dopo tanto silenzio
mi arriva di lontano
festante, fragorosa
una banda di rime,
di assonanze.
Le corro incontro
felice
fino sull’angolo.
L’impronta filosofica resta sempre forte nella sua scrittura. La sua poesia non si lascia andare mai al sentimentalismo ma è sempre frutto della lucida riflessione propria della filosofia. Eppure non è mai fredda, distante, anzi si interessa alla più piccola realtà, inclusi animali e piante, tanto cari alla poetessa.
È ancora capace di infanzia
il tronco ficcato sul cuore
della città. Una luce d’alba gli esce
dai rami, ai piedi gli si affolla
un subbuglio di verde.
A un vento improvviso lo zampillo
della fontana gira verso il tronco
assentendo approvando: – D’accordo,
sussurra, la vita
può essere ancora bella
“Il razionalismo per me è sempre stata una vocazione. Pensa che tempo fa mi dicevo che ero una illuminista” dice in una intervista parlando della sua poesia come dell’“irrazionale espresso razionalmente”. A radicare la sua opera creativa nel razionalismo filosofico ha contribuito l’amore per Giulio Preti, anche lui filosofo della scuola banfiana. Si sposano nel 1937 ma il matrimonio è burrascoso. Finisce nel 1954 ma restano legati da una profonda amicizia.
Poeta
In giro me ne vado come un cirro
silenzioso color ombra. Mi piace
stare alto sui tetti a galleggiare
guardando. Io mi sento il palloncino
fuggito dal suo grappolo: una cosa
ironica leggera e all’apparenza
felice
Le amicizie di Daria si contano sulle dita di una mano ma sono per sempre. Lalla Romano, collega a scuola, diventa la sua più cara amica e di lei dice che “aveva maturato una voce nuova, moderna e classica, per niente alla moda, ma libera e anche audace”. Anche Vittorio Sereni è un punto di riferimento importante, sia personale che professionale. Ogni domenica la poetessa va a pranzo dai Sereni e dà alle loro figlie lezioni private di greco e latino.
Alla poesia si avvicina già negli anni dell’Università ma è ancora qualcosa che tiene per sé. È negli Anni 50, e soprattutto dopo il definitivo trasferimento a Milano, che si dedica alla poesia innestandola a fondo nella sua città.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Con la tazzina stretta tra le dita,
ben calda tra le dita,
sola, in pace,
in un tiepido alone
di vapori,
di aroma di caffè,
indugio presso il banco
insaziata di calore
tra gli urti continui
e i pardons.
Nel 1964 esce per Mondadori la prima raccolta, Città come, che vince il premio Carducci. Nella prestigiosa collana Lo Specchio saranno pubblicate anche Un nero d’ombra nel 1969 e Poesie per un passante nel 1978. Il direttore della collana era Sereni e nel 1982 aveva già approvato un volume in attesa di pubblicazione, Ferragosto. Ma nel 1983 l’amico muore improvvisamente e Mondadori fa un passo indietro comunicandole per lettera che non sarà più pubblicata. Uno sgarbo che Daria non digerirà mai. Da allora in avanti la poetessa affida le sue raccolte a editori più piccoli: Altri amici, un bestiario poetico dedicato agli animali da Daria tanto amati, esce nel 1986; Ferragosto, considerata dall’autrice la sua opera migliore, vede le stampe nello stesso anno; Ultimo Quarto nel 1990.
Daria Menicanti Poetessa, insegnante e traduttrice italiana
Lucciola
Fu per come esitava che l’amai
subito
e colsi quel seme di luce
stringendo le due palme.
Ma come ci guardai gelosa, buio
era tornato il bel fuoco,
ombra con ombra
pace
Dopo l’ultima raccolta continua a scrivere anche se le sue condizioni fisiche e psichiche vanno peggiorando rapidamente, fino alla morte appena 5 anni dopo. Sulle poesie inedite ha lavorato febbrilmente, correggendo e limando continuamente i versi come testimoniano i taccuini scritti a matita. Un lavorio continuo che passa al setaccio della ragione tutti i moti dell’animo e li distilla.
Di qua la vita e da quell’altra parte
la morte e in mezzo l’uomo
in stato di assedio
La sua poesia si è nutrita di minime situazioni quotidiane, di silenzi e inquietudini, piccole epifanie, di vissuto cittadino popolato da personaggi che qualche volta Daria sembra orchestrare sulla scena come una abile regista. Quando parla di se stessa si definisce un “camaleont poet” come il suo amato Keats.
Ma sono – oltre che me – sono sul guscio
d’un fiore il mite grillo
dell’estate inquilino –
o l’urlo abbandonato dell’ossesso
sul marciapiede riverso –
Nella sua opera si passa dal tratto nostalgico e struggente a quello ironico e tagliente, dalla riflessione filosofica sulla vita al ritratto dei reietti metropolitani. La città è sempre presente, se non da protagonista come sfondo attivo.
Me ne vo con un gran coltello infisso
nel petto, il manico fuori.
Me ne vado tranquilla e bianca. Un vigile
col fischio mi richiama: – Il coltello,
mi grida, il coltello! –
Par proprio che la lama
superi le misure della legge.
Così mi fermo e pago
l’ennesima contravvenzione
E spesso presente è il cuore, anche se non viene quasi mai nominato direttamente ed è sempre mediato dall’intelletto. Non c’è sentimentalismo fine a se stesso ma riflessione lucida e acuta sulle ragioni del cuore.
Se il cuore è innamorato
il fracasso che fa.
L’hanno paragonata a Umberto Saba e Sandro Penna ma a lei piaceva di più far riferimento ai poeti classici, specialmente a Orazio e Marziale, a cui si ispirano anche i suoi fulminanti epigrammi.
Dopo tanto odio ti ricordo infine
con animo fraterno
e ti perdono
il bene che mi hai fatto
(Le poesie e le citazioni sono tratte da Il concerto del grillo: l’opera poetica completa con tutte le poesie inedite, Mimesis)
Poesie scelte di Mario Luzi |Da Le Poesie– Garzanti Editore-
-L’Altrove Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-
Mario Luzi nasce a Castello, vicino a Firenze, nel 1914. Nel 1932 si iscrive alla facoltà di Lettere all’università di Firenze, dove stringe amicizia con Carlo Bo e altri giovani, che si ritrovano al caffè San Marco e che costituiscono il nucleo originario della rivista “Il Frontespizio”, voce del movimento ermetico. Entra, inoltre, in contatto con i letterati della rivista “Solaria”, tra i quali si trovano Montale, Vittorini, Gadda e Bilenchi. L’esordio letterario di Mario Luzi risale proprio a quegli anni; nel 1935, infatti, pubblica la sua prima raccolta poetica, La barca. Luzi, dopo la laurea in letteratura francese, inizia a insegnare in un istituto magistrale di Parma, ma poco tempo dopo si trasferisce a Roma, dove lavora alla rassegna bibliografica per conto dei ministeri dell’Educazione e della Cultura. Dal ’43 fino alla fine della Seconda guerra mondiale si sposta con la moglie Elena, sposata un anno prima, in Val d’Arno, interrompendo momentaneamente la sua attività lavorativa. Pubblica nel 1940 la raccolta Avvento notturno, che presenta le poesie composte tra 1936 e 1939, profondamente influenzate dal Simbolismo francese di Mallarmé, Rimbaud e Paul Éluard. Nel 1945 torna a Firenze e negli anni successivi pubblica le raccolte poetiche che lo consacreranno artisticamente in Italia e all’estero: Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Dal fondo delle campagne (1956), Nel magma (1963), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978). Negli anni Ottanta Luzi riceve diversi premi e riconoscimenti: nel 1985 gli viene conferito il Premio Montale, e nel 1987 gli viene consegnato il Premio Feltrinelli per la poesia all’Accademia dei Lincei a Roma. Nel 1989 esce la raccolta dei suoi saggi, Scritti. Negli anni ‘90 pubblica Frasi incise di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999). Nel 2004 al suo novantesimo compleanno viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi; pubblica nello stesso anno la raccolta Dottrina dell’estremo principiante. Nel 2005 muore a Firenze, dove viene seppelito nella Basilica di Santa Croce. Nel 2008 viene pubblicata postuma la raccolta Lasciami non trattenermi.La poetica di Mario Luzi può essere suddivisa in tre fasi: la prima comprende la produzione degli anni ‘30-’40, quindi dalla prima raccolta La barca fino al Quaderno gotico, si tratta di poesia ermetica influenzata dal Simbolismo francese, anche se nella raccolta del 1947 si trovano già le premesse per la seconda fase. Questa comprende tre raccolte Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), e Dal fondo delle campagne (1965) e quella del 1971 Su fondamenti invisibili; aumenta l’inquietudine e l’amarezza dei testi, in cui vengono descritti paesaggi angosciosi e tetri, in cui il poeta sembra aggirarsi nella ricerca vana del senso della vita; nell’ultima fase Luzi adotta uno stile più prosastico nei suoi componimenti e si concentra in particolare sul ricordo nostalgico della giovinezza.
Di chi è mancanza questa mancanza
Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno? di che? Rotta la diga t’inonda e ti sommerge la piena della tua indigenza… Viene, forse viene, da oltre te un richiamo che ora perché agonizzi non ascolti. Ma c’è, ne custodisce forza e canto la musica perpetua… ritornerà. Sii calmo
Mario Luzi
La notte viene col canto
La notte viene col canto prolungato dell’assiuolo, semina le sue luci nella conca, sale per le pendici umide, trema un poco. La forza in lunghi anni acquistata a soffrire viene meno e la piccola scienza si disarma, il sorriso virile non ha più la sua calma.
Tu chi sei che aspettavi invisibile, appostata a una svolta dell’età finché fosse la tua ora? Ti devo questo tempo di gratitudine e d’altrettanto dolore.
Ed ora l’inquietudine s’insinua, penetra queste prime notti estive, invade il muro ancora caldo, segue il volo delle lucciole sulle aie, s’inselva nelle viottole ove a un tratto nell’abbaglio dei fari la lepre saetta.
Cara, come ho potuto non intendere? La vita era sospesa tutta come questa veglia. C’è da piangere a pensare come ho sciupato questa lunga attesa con tante parole inadeguate, con tanti atti inconsulti, irreparabili, e ora ferito dico non importa purché il supplizio abbia fine.
«La salvezza sperata così non si conviene né a te, né ad altri come te. La pace, se verrà, ti verrà per altre vie più lucide di questa, più sofferte; quando soffrire non ti parrà vano ché anche la pena esiste e deve vivere e trasformarsi in bene tuo ed altrui. La fede è in te, la fede è una persona».
Questa canzone non ha più parole.
Mario Luzi
Vola alta, parola
Vola alta, parola, cresci in profondità, tocca nadir e zenith della tua significazione, giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami nel buio della mente – però non separarti da me, non arrivare, ti prego, a quel celestiale appuntamento da sola, senza il caldo di me o almeno il mio ricordo, sii luce, non disabitata trasparenza…
La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?
Aprile-Amore
Il pensiero della morte m’accompagna tra i due muri di questa via che sale e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo di primavera irrita i coloni, stranisce l’erba, il glicine, fa aspra la selce; sotto cappe ed impermeabili punge le mani secche, mette un brivido.
Tempo che soffre e fa soffrire, tempo che in un turbine chiaro porta fiori misti e crudeli apparizioni, e ognuna mentre ti chiedi che cos’è sparisce rapida nella polvere e nel vento.
Il cammino è per luoghi noti se non che fatti irreali prefigurano l’esilio e la morte. Tu che sei, io che sono divenuto che m’aggiro in così ventoso spazio, uomo dietro una traccia fine e debole!
E’ incredibile ch’io ti cerchi in questo o in altro luogo della terra dove è molto se possiamo riconoscerci. Ma è ancora un’età, la mia, che s’aspetta dagli altri quello che è in noi oppure non esiste.
L’amore aiuta a vivere, a durare, l’amore annulla e dà principio. E quando chi soffre o langue spera, se anche spera, che un soccorso s’annunci di lontano, e in lui, un soffio basta a suscitarlo. Questo ho imparato e dimenticato mille volte, ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità.
La mia pena è durare oltre quest’attimo.
Questa felicità
Questa felicità promessa o data m’è dolore, dolore senza causa o la causa se esiste è questo brivido che sommuove il molteplice nell’unico come il liquido scosso nella sfera di vetro che interpreta il fachiro. Eppure dico: salva anche per oggi. Torno torno le fanno guerra cose e immagini su cui cala o si leva o la notte o la neve uniforme del ricordo.
Mario Luzi
-L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera-
La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Traduzione di Roberta Scarabelli- Neri Pozza Editore
Un bar nella Vienna degli anni Sessanta: i suoi avventori e le loro storie di vita, speranze, amori e illusioni.
Sinossi del libro di Robert Seethaler-Nell’estate del 1966 Robert Simon ha poco piú di trent’anni e un sogno: aprire un bar. Cresciuto in un istituto per orfani di guerra gestito dalle suore della Carità, per qualche tempo ha lavorato come aiuto cameriere e garzone nei locali all’aperto del Prater, e forse è stato proprio lí – mentre girava fra i tavoli alla luce delle lanterne colorate, alla ricerca di bicchieri vuoti e mozziconi di sigaretta – che si è acceso in lui il desiderio di stare, un giorno, dietro il bancone della propria osteria. Quando il bar all’angolo del mercato chiude i battenti, Robert capisce che la sua occasione è arrivata. Il locale, cupo e fatiscente, si trova in uno dei quartieri piú poveri e sporchi di Vienna, ma da qualche tempo spira un vento nuovo e l’aria è pervasa da uno strano fermento: sui giornali con cui i pescivendoli avvolgono i salmerini e le trote del Danubio si legge di grandi cose a venire, di un futuro radioso pronto a sorgere dal pantano del passato. Infiammato da questi cambiamenti, Robert rimette a nuovo il bar, imbiancando le pareti, verniciando i mobili e lucidando le piastre dei fornelli. Non ha molto da offrire, ma i clienti arrivano comunque, portando storie di passioni, amicizie, abbandoni e lutti. Alcuni sono in cerca di compagnia, altri desiderano ardentemente l’amore, o soltanto un luogo dove sentirsi compresi, e mentre la città diventa sempre piú affollata, anche la vita di Robert si trasforma. Combinando l’incanto di una prosa malinconica a una tenera comicità, Robert Seethaler ha scritto un romanzo animato da personaggi indimenticabili, un caleidoscopio di storie che si fa parabola dell’esistenza umana.
Andreas Heimann:«L’autore traccia un quadro non sentimentale dei suoi personaggi, ma con molta empatia. È un’arte che padroneggia alla perfezione: quella di raccontare grandi storie di piccole persone».
Brigitte:«La narrazione di Robert Seethaler è cosí toccante che si ha voglia di sedersi personalmente in questo “bar senza nome”».
Robert Seethaler
Breve biografia di Robert Seethaler – nato a Vienna nel 1966 e vive tra questa città e Berlino. Autore e sceneggiatore, nel 2007 ha ricevuto il prestigioso premio del Buddenbrookhaus per il suo romanzo d’esordio. Ha ottenuto numerose borse di studio, tra cui la Alfred Döblin dalla Akademie der Künste, e il film tratto dalla sua sceneggiatura (Die zweite Frau) ha ricevuto un importante riconoscimento al Festival del Cinema di Monaco di Baviera nel 2009. Una vita intera (Neri Pozza 2016) è stato selezionato per l’International Booker Prize e diventerà un film diretto da Hans Steinbichler, con Stefan Gorski nei panni di Andreas Egger. Presso Neri Pozza sono apparsi anche Il campo (2019) e L’ultimo movimento (2021). I libri di Seethaler sono tradotti in piú di 40 lingue.
Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, Marco Saya Edizioni –Articolo di Ernesto Jannini-
Articolo di Ernesto Jannini-Nella nuova raccolta di Poesie di Elena Mearini, “A molti giorni da ieri”, edita per i tipi di Marco Saya, la poesia diventa gesto etico e linguistico che unisce l’individuo alla comunità, tra verità e finzione, memoria e desiderio, Si ritorna al tema della Poesia, già affrontato su queste pagine, del suo rapporto con la comunità, su cui esercita la potenza trasformatrice. Si parla non soltanto dei versi scritti, cantati o declamati, ma anche di ciò che si esprime in musica, in pittura, in teatro e finanche nello sport, quando il gesto dell’atleta si fa “arte” attraverso l’unità psico-fisica del linguaggio del corpo. Pertanto il poeta, chiunque artefice esso sia, si trova impegnato a risolvere il gigantesco problema del linguaggio, le cui implicazioni sono strettamente legate al momento storico, al proprio tempo.
E quindi coniugare il proprio personale “sentire”, con ciò che accade ed è accaduto nella storia, richiede un super sforzo che contraddistingue le dinamiche di tutti i veri processi creativi. Di questo si può e si deve parlare; di questo impegno reale che il poeta, con i suoi frutti, offre alla comunità di appartenenza; un impegno che tocca la dimensione morale dell’io.
Così si esprimeva Giuseppe Ungaretti in una prolusione ai Corsi di Cultura per Adulti dell’Unione Coscienza tenuta a Milano nel lontano 1957: «Uno scrittore, il poeta, è sempre, secondo me, impegnato indagando i propri tempi per conoscerli e in rapporto ad essi indagando sé per conoscersi, impegnato a far ritrovare all’uomo le fonti della vita morale che le strutture sociali, di qualsiasi costituzione siano, hanno sempre tendenza a corrompere ed a disseccare».
Ora, qui si accenna al corruttibile, che porta al disseccamento delle fonti, riducendo la coscienza individuale e sociale a un arido cretto argilloso. E dunque si parla di poesia, che porta l’acqua che manca, che salva i semi condannati all’arsura: un frutto che l’artefice pazientemente elabora ed offre a sé stesso e alla comunità. Egli è sempre in ansia di verità, quella che gli è data vedere ed esprimere attraverso la “menzogna” del linguaggio.
«È una bugia per dire la verità». In tal modo rispondeva Pablo Picasso, a coloro che gli chiedevano che cos’è la pittura. Il processo che porta dal subiettivo all’obiettivo, a mettere nero su carta, questo sforzo immane, implica l’accettazione cosciente dei cardini su cui si fonda l’esistenza; una “tensione” esistenziale sempre tesa all’ascolto profondo della parola che vede, che si immerge nei piani profondi della coscienza quando più naviga in superfice, tra le cose del mondo, tra il sorriso e il dolore degli uomini nello scorrere del tempo. Uno sforzo da compiere ogni volta; come se si cominciasse sempre da capo. E questo perché all’origine di ogni poesia c’è un punto origine da sviluppare, nelle coerenze che esso stesso contiene in nuce e che, se maturato, può portare alla realizzazione di un’opera autentica, che diventa “una realtà d’anima” per l’artefice e per chi l’ascolta (Ungaretti, 1957).
E dunque ritornano al pettine i nodi cruciali del destino individuale e delle sorti dell’intero mondo; in quel recinto “sacro” in cui si spendono le nostre esistenze per cercare un senso all’esistenza che, inevitabilmente si intreccia con l’alterità, con quel TU, (fosse anche quel tu che emerge quando l’io interroga se stesso) come emerge con molta chiarezza dalle bellissime poesie di Elena Mearini raccolte nel volume A molti giorni da ieri, uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni.
Autrice di poesia e narrativa (vincitore premio Gaia Mancini-vincitore Premio Università di Camerino con Undicesimo comandamento, Perdisa Editore) da diversi anni insegna scrittura creativa. Ha lavorato sui percorsi di scrittura autobiografica nelle carceri e istituti di riabilitazione psichiatrica. Fondatrice della Piccola Accademia di Poesia di Milano, insieme allo stesso editore Marco Saya e a Angelo De Stefano, filosofo e poeta, Elena Mearini con A molti giorni da ieri dà corpo a un florilegio composto da 66 poesie, alcune delle quali volutamente ripetute per sottolineare i gangli nodali tra passato e presente.
È un invito all’ascolto profondo, quello della Mearini; ad aprire i pori della nostra sensibilità verso un mondo che lancia il suo “grido di fondo”; a vedere la perdizione sui volti dei giovani, a sentire che qualcosa di essenziale “ci manca” e per questo la “parola rifiuta di fiorire in voce”; a uscire dall’ombra e dal “chiuso della stanza”; ad aprire i dubbi sulla consapevolezza dell’esserci veramente, quando, al contrario, si ha la certezza della «nostra falcata/quando l’osso/bussava alla carne/ e tu aprivi/ la porta del pane». Insomma, un invito, forse anche una esortazione, a imparare «l’avvio delle cose/ il piccolo punto di partenza/ che fa silenzio/ che fa risveglio/impara l’esordio del tremore/quando la prima luce/nella casa s’accende/la prima foglia/sull’albero oscilla/metti a memoria la nota minore/ripetila quando la voce muore».
La poesia indica, ci accompagna al risveglio, e ciò accade perché l’artefice lavora instancabilmente con le parole perché, come lucidamente scrive Lello Voce nel suo noto Piccola cucina cannibale, «La poesia è fatta di parole e soprattutto delle loro reciproche relazioni. La poesia non inventa solo neologismi, ma neogrammatiche e neosintassi, essa stira la lingua, ne sfrutta tutte le possibilità, fa del fraintendimento, dell’ambiguità del codice, dell’errore, una via per scoprire scampoli di verità, non realizza i sogni, ma dando loro un nome, ci permette di immaginarli, non compie rivoluzioni, ma inventando nuove parole per la rabbia e per il desiderio, ci suggerisce, ogni giorno, che esse sono possibili, immaginabili».
Elena Mearini a questo ci introduce, all’apertura spirituale attraverso il linguaggio poetico. Tutto ciò non è semplice. Come affermava Ugaretti, «Avere luce nel cuore è difficile, soffrire e morire non sono che la sorte di tutti».
Elena Mearini
Elena Mearini
Elena Mearini
Nata nel 1978 e vive a Milano. Si occupa di narrativa e poesia, conduce laboratori di scrittura in comunità e centri di riabilitazione psichiatrica. Nel 2009 esce il suo primo romanzo 360 gradi di rabbia, edito da Excelsior 1881, e nel 2011 pubblica per Perdisa pop il romanzo Undicesimo comandamento. A gennaio 2015 pubblica il romanzo A testa in giù (Morellini editore). Firma due raccolte di poesie: Dilemma di una bottiglia (Forme Libere editore) e Per silenzio e voce (Marco Saya editore). Il suo ultimo romanzo è Bianca da morire (Cairo Publishing 2015).
Nel 2011 nell’ambito della rassegna “Umbria Libri” ha ricevuto il Premio giovani lettori “Gaia di Manici-Proietti” per il romanzo 360 gradi di Rabbia, e lo riceve anche l’anno successivo per Undicesimo Comandamento. Nel 2012 le viene assegnato il Premio UNICAM – Università di Camerino, per il romanzo Undicesimo comandamento, terzo classificato al Concorso Nazionale di Narrativa “Maria Teresa di Lascia”.
Traduzione di Monica Pareschi- titolo originale: The Mountain Lion
-In copertina-Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
Descrizione del libro di Jean Stafford-Qualcosa di morboso e strisciante, che è del paesaggio, delle presenze che lo animano, degli interni di case occasionalmente trasformate in camere ardenti, accoglie il lettore di questo paradossale romanzo di formazione, in cui all’impossibilità di abbandonare l’infanzia si accompagna quella di rimanere bambini. Ralph e Molly, fratelli malaticci e simbiotici, alleati contro l’universo stereotipato degli adulti – l’ottusa routine scolastica e quotidiana, una madre perbenista e due affettate sorelle maggiori, il fronte compatto delle autorità –, dividono il loro tempo tra la casa di famiglia nei sobborghi di Los Angeles e un ranch in Colorado appartenente al fratellastro della madre. Qui ogni estate i piccoli vengono in contatto con un mondo selvaggio e brutale, che contrasta con l’inautentico ordine della vita suburbana. Ma se dapprima la rudezza e la libertà dell’Ovest affascinano entrambi, poi è solo Ralph a entrare nell’orbita in cui lo attirano lo zio e la sua cerchia, e ad accettare i riti di passaggio necessari a trasformarlo in giovane uomo. E mentre il fratello si sposta sempre più verso un immaginario virile fatto di battute di caccia e di grandi bevute, e vive di pari passo l’inevitabile risveglio della sessualità, Molly, bambina puntuta e sarcastica che anticipa alcuni personaggi di Shirley Jackson, si aggrappa disperatamente al mondo surreale dell’infanzia. L’apparizione nei dintorni del ranch di un puma femmina – animale elusivo e archetipico, nel segno della tradizione letteraria americana – sancirà la scissione definitiva del legame fraterno, precipitando la storia verso un impensabile epilogo.
Jean Stafford ritratta allo zoo del Bronx. Fotografia di Jean Speiser apparsa su «Life» nel giugno 1947-
CAPITOLO PRIMO
Ralph aveva dieci anni e Molly ne aveva otto quando si ammalarono di scarlattina. La malattia aveva lasciato a entrambi una specie di disfunzione ghiandolare che, pur non essendo maligna, provocava in loro uno stato di intossicazione quasi perenne, dando spesso origine a e- pistassi così copiose che dovevano mandarli a casa da scuola. In genere succedeva a tutti e due contemporanea mente. Ralph si precipitava nel corridoio sanguinando a profusione dal naso e trovava Molly che usciva proprio in quel momento dalla terza, con un fazzoletto appallot- tolato e fradicio premuto sulla faccia. La madre non sop- portava la vista del sangue e la sua angoscia, nel vederli arrivare l’uno dopo l’altra sul vialetto d’accesso, non si attenuò mai, nemmeno quando quei ritorni a casa nel bel mezzo della giornata diventarono una consuetudi- ne. Ogni volta li implorava di telefonarle in modo da po- ter mandare Miguel, il factotum, a prenderli con la mac- china. Ma loro non lo facevano mai, perché si divertiva- no a tornare a casa a piedi, e per tutto il tragitto provava- no un piacevole senso di rivalsa nei confronti delle sorel- le, Leah e Rachel, ancora rinchiuse a scuola senz’altro da fare che masticare paraf$na di nascosto.
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Nel settembre successivo alla malattia, il giorno in cui era previsto l’arrivo del nonno Kenyon, il patrigno della madre, per la sua visita annuale, si ritrovarono fuori dal- l’aula di educazione artistica con il sangue che usciva a $otti dal naso, e vedendo oltre la porta socchiusa
la signorina Holihan alle prese con la taglierina e un fascio di carta manila, si misero a camminare in punta di piedi soffocando le risate $nché, giunti alle scale, comincia- rono a correre. Una volta fuori, nel cortile deserto, si congratularono l’uno con l’altra: Molly non sarebbe sta- ta costretta a disegnare una mela sul foglio della signori- na Holihan e Ralph si sarebbe risparmiato non solo cal- ligra$a, ma anche canto. In realtà non ci avrebbero gua- dagnato niente a rientrare qualche ora prima del pul- mino della scuola, visto che il nonno non sarebbe arri- vato alla stazione di Los Angeles prima di metà pome- riggio e Miguel ci avrebbe messo un’altra ora a portarlo a casa con la Willys-Knight. E così cincischiarono più del solito, per nulla sicuri che a casa avrebbero trovato qual- cosa di interessante da fare, ma sicurissimi, d’altra par- te, che la madre, oltre ad agitarsi e a non star zitta un momento come faceva ogni volta che aspettava visite, vedendoli sarebbe montata su tutte le furie.
Era una strada di campagna stretta e tortuosa quella che facevano per tornare. Su entrambi i lati correva un piccolo fosso d’acqua limpida, che biascicava come una bocca. Di tanto in tanto si fermavano a tuffarci i fazzolet- ti e si ripulivano il sangue dalle mani e dalle braccia. Sulla destra c’era un aranceto da cui, in ogni stagione dell’anno, arrivava un profumo opprimente, e dove qualche volta vedevano stormi di uccelli così strani e va- riopinti che dovevano arrivare dai mari del Sud o dal Giappone. Alcuni degli alberelli piramidali erano sem- pre $oriti e altri erano sempre carichi di frutti. Quel giorno nell’aranceto c’era un uomo arrampicato su una scala, che si girò sentendoli arrivare. Si levò il cappello asciugandosi la fronte con la manica della camicia nera e gridò: « Ciao, ragazzi », ma dato che era messicano lo-
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ro non risposero e anzi allungarono il passo, atterriti, $nché non sentirono più la sua risata di scherno.
Poi passarono davanti al grande casei$cio immacola- to del signor Vogelman. Il signor Vogelman era un tede- sco grasso che indossava una tuta bianca e che una volta era stato preso a sassate da un gruppo di scolari di se- conda quando avevano saputo cosa avevano fatto i cruc- chi ai belgi. Le madri, nel timore che potesse vendicarsi esponendo il latte ai bacilli della tubercolosi, gli aveva- no scritto per scusarsi, ma visto che l’episodio era suc- cesso a Halloween, il signor Vogelman aveva frainteso tutto senza capire il senso di quella lettera. Allevava mucche di razza Guernsey col manto che al sole emana- va un luccichio metallico, non proprio giallo banana e nemmeno della sfumatura azzurrina del latte, ma una via di mezzo. Quel giorno vicino alla staccionata c’era un vitello appena nato e, quando vide i piccoli umani che lo $ssavano, il suo muso di cerbiatto prese un’e- spressione di malinconico stupore. La madre muggì stizzita, con le enormi froge nere dilatate, e loro corsero via perché avevano paura delle mucche, anche se non si sarebbero mai sognati di ammetterlo. Conoscevano una barzelletta su un vitello che avevano letto su « The Amer- ican Boy » e, quando furono a distanza di sicurezza dal pascolo, la recitarono come se fosse un dialogo:
ralph: Sono di vitello le tue scarpe| molly: Come no, è pelle conciata. ralph: Lo conciano male|
molly: Per le feste! Col pugnale!
Risero tanto che dovettero sedersi per terra e tenersi la pancia; per via delle risate il sangue usciva molto più in fretta, e allora, torcendosi dal dolore, si tamponavano disperatamente il naso, urlando: «Ahi! Ahi!». In$ne, quando si furono un po’ calmati, Ralph disse: « Mi sa che questa la racconto al nonno» e Molly disse: «Anch’io». Negli ultimi tempi, lei ogni tanto gli dava sui nervi: spes-
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so, quando Ralph aveva $nito di raccontare una barzel- letta o una storia, lei immediatamente la ripeteva pari pari, senza dare agli altri il tempo di scoppiare a ridere o di rimanere sorpresi. Non solo, innumerevoli volte aveva raccontato i sogni del fratello $ngendo che fossero i suoi. Ralph non voleva che la barzelletta sul vitello si rive- lasse un $asco e così, dopo un attimo di tentennamento, accettò di recitarla insieme alla sorella come avevano ap- pena fatto. Non era lunga come una di quelle storielle sui negri che raccontavano Leah e Rachel, ma era molto più divertente, ed erano sicuri che il nonno non avrebbe potuto fare a meno di scoppiare in quella sua risatona fragorosa, dandosi una manata sul ginocchio mentre e- sclamava: « Perbacco, buona questa! ».
Proseguirono pensando al nonno, strascicando alle- gramente i piedi nella polvere della strada $no a im- biancarsi completamente le scarpe, stringhe comprese. Vicino al casei$cio c’era un arroyo profondo e del tutto prosciugato, che da quelle parti chiamavano « Rio ». Era il risultato di un’inondazione che aveva avuto luogo nel- la primavera in cui Leah aveva tre anni, ma Ralph e Mol- ly avevano sentito raccontare così spesso i particolari del- la catastrofe da esser certi che le loro impressioni derivas- sero dal ricordo, e non dai discorsi della madre e dei suoi amici quando non avevano niente di nuovo da dire ed e- rano costretti a rintuzzare le emozioni del passato. Du- rante l’alluvione il signor Fawcett aveva attraversato un torrente in piena su un cavallo di nome Babe, ormai mor- to da tempo, per soccorrere un’anziana la cui casa era stata spazzata via subito dopo. Si era caricato la donna in sella come un sacco di mangime e le aveva fatto la respira- zione arti$ciale sul pavimento della cucina. Dalla pioggia scrosciante erano sbucati migliaia e migliaia di fringuelli, che si erano posati sulla veranda; erano così tanti che sembrava di essere in una riserva, aveva detto il papà; Fus chia stava preparando una crostata di ciliegie e lui le ave- va chiesto se per caso non voleva aggiungerci anche due dozzine di fringuelli. Dal vialetto d’accesso era arrivato
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galleggiando un albero di pompelmo, con le radici e tut- to, e il papà l’aveva piantato in giardino accanto al collet- tore solare. Ogni anno dava un unico frutto, più piccolo di una pallina da golf e quasi altrettanto duro.
Sul letto del Rio Ralph e Molly trovavano sassi colora- ti, rosa, verdi, gialli e azzurri. A volte, nelle pozze che si formavano dopo un acquazzone, si vedeva luccicare l’o- ro degli stolti. Le sponde ripide erano tutte ricoperte di strani $ori ispidi dalle radici poco profonde e da mac- chie di malva che stillava un latte amaro. C’era un punto in cui il fango si seccava sbriciolandosi come pastafrolla e da piccola Molly era convinta che con quello si prepa- rassero i biscotti del gelato. Tutto ciò che di misterioso e malvagio c’era al mondo veniva dal Rio. Quei sassi lisci e colorati erano in realtà gioielli rubati e il ladro era uno Skalawag nero come il carbone che di giorno dormiva nel deposito del mais del signor Vogelman, ma la notte rimaneva sveglio. Ralph e Molly non si azzardavano a scendere nel Rio col naso sanguinante, perché lo Skala- wag sentiva l’odore del sangue a qualunque distanza e di sicuro avrebbe dato loro la caccia. E così passavano veloci, guardando il Rio con la coda dell’occhio. L’au- tunno precedente, quando ci avevano portato il nonno Kenyon, lui aveva detto: « Ah, ecco, così si ragiona. C’è troppo verde in quest’accidente di California, per la mi- seria. Ma quel $umiciattolo secco lì, quello sì che è un posto come Dio comanda ». Aveva fatto correre gli oc- chi neri sul paesaggio respirando appena, come se la fragranza dei $ori d’arancio lo offendesse, e aveva det- to: «Ma pensa tu, neanche l’inverno avete, da queste parti! Diamine, meglio andarsene in carretta all’inferno che perdersi i primi $occhi di neve che cade ». I bambi- ni erano un po’ indignati e un po’ intimiditi; rendendo- sene conto, lui aveva spiegato – anche se loro non ci ave- vano capito niente – che lì la natura non rappresentava nessuna s$da per l’uomo. « Prendete il mio ranch nel Panhandle. Non c’è posto al mondo dove la natura sia bizzosa come da quelle parti, ma ogni volta che si arrab-
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bia è uno schianto di ragazza, eh! ». Quando aveva com- prato il terreno, su ventimila ettari non c’era una sola goccia d’acqua, nemmeno un ruscello, uno stagno. Da- vanti alla sua intenzione di acquistarlo, gli avevano dato tutti del babbeo. Ma lui era andato avanti per la sua stra- da e l’aveva comprato lo stesso, poi aveva preso una ver- ghetta biforcuta di agrifoglio e aveva scelto un punto su un’altura subito a ovest di dove intendeva costruire la casa. Era rimasto fermo lì con la sua bacchetta di agrifo- glio, tenendo la forcella con entrambe le mani. Dopo un po’, la verga si era piegata verso il basso: nella dire- zione indicata c’era una sorgente profonda di acqua po- tabile che non si era mai prosciugata.
Da quel momento il Rio aveva assunto un nuovo signi$cato per Ralph e Molly, e si erano convinti che lo Skalawag fosse così circospetto perché temeva che potes- se arrivare qualcuno con una bacchetta divinatoria, e a quel punto l’acqua avrebbe trascinato via tutti i suoi gio- ielli. Anche adesso, ogni volta che passavano davanti all’arroyo, pensavano al ranch del nonno nel Panhandle e Ralph, sospirando, diceva: « Accipicchia, come mi pia- cerebbe andare nell’Ovest ». Perché credeva al nonno Kenyon quando gli diceva che la California non era l’O- vest ma una cosa a sé, come la Florida o Washington D.C.
Per esempio, nell’Ovest non si trovavano mica tutte quelle carabattole che piacevano tanto alla signorina Runyon. La signorina Runyon abitava vicino al Rio in una casetta bianca con le persiane verdi e begonie a tut- te le $nestre, che a Molly piaceva tanto prima che il non- no la de$nisse « una roba che non sta né in cielo né in terra ». Il giardino arrivava $no alla strada e tra le aiuole di phlox, $ordalisi e acetosella c’erano strane creature d’ogni sorta: una rana verde gigante, tre nanetti, una papera con quattro paperette, due uccellini azzurri grossi come gatti, un’olandesina con la sua cuf$etta e un palo totemico. Sulla porta di casa c’era un’insegna che diceva « Locanda Passapure ». Accanto alla casa c’e- ra la cuccia del cane, costruita esattamente come la lo-
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canda Passapure, e sopra l’apertura c’era scritto « Il rifu- gio del pastorello », perché la signorina Runyon aveva un pastore tedesco di nome Rover. Sotto la grondaia, sulla veranda, c’era una casetta per gli uccelli costruita come le altre due, ma il nome era meno evocativo: si chiamava semplicemente « Casa degli scriccioli ».
La signorina Runyon era la direttrice dell’uf$cio po- stale e a detta di tutti era proprio un personaggio. Gui- dava da sola un’automobile che chiamava «Mac», ab- breviazione di « macchina », anche se lei per ridere l’a- veva soprannominata « Macchiappa ». Non mangiava né carne né spezie, perché era una seguace del dottor Kel- logg. Di tanto in tanto invitava i Fawcett a un picnic sera- le nel suo giardino e serviva hamburger fatti con i cerea- li della colazione tenuti insieme da una $nta gelatina di piedini di vitello. La domenica pomeriggio andava sem- pre a casa loro a leggere il giornale e non faceva mistero del fatto che, come a tutti i bambini, le piacesse la pagi- na dei fumetti. Li leggeva con la stessa serietà e la stessa concentrazione di Ralph, Molly, Leah e Rachel. Una volta aveva detto che era stufa marcia di Elmer Tuggle e del suo eterno guantone da baseball; il suo preferito era Happy Hooligan. A dispetto di quell’aggressiva bono- mia, era molto paurosa e non se la sentiva di dormire in casa da sola, perciò aveva invitato a stare da lei una don- nina giapponese, la signora Haisan. Se per caso la signo- ra Haisan doveva assentarsi, andavano a dormire da lei Leah e Rachel, che tuttavia lo facevano malvolentieri perché, la prima volta che si erano fermate a casa sua, lei nel bel mezzo della serata aveva alzato improvvisa- mente gli occhi dalla rivista femminile che stava leggen- do e aveva detto in tono nervoso: « Avete sentito| Qual- cuno ha inghiottito qualcosa! ». Secondo Ralph e Molly era stato lo Skalawag, e le cose che poteva aver inghiotti- to erano così numerose e terri$canti che bastava la sola parola a farli tremare come foglie.
La signora Follansbee, la moglie del pastore, aveva a- vanzato scherzosamente l’ipotesi che la signorina Run-
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yon avesse messo gli occhi sul signor Kenyon, e in parte la supposizione si basava sul fatto che i loro cognomi fa- cevano rima; è vero che in diverse occasioni, durante le visite del nonno, lei li aveva invitati ad andare a casa sua «accontentandosi di quel che passa il convento», ma loro non ci erano mai andati, perché, come disse la si- gnora Fawcett nel segreto familiare, « non oso pensare a cosa farebbe una buona forchetta come il signor Ken- yon se gli servissero cereali per cena, per quanto abil- mente camuffati ».
Ralph pensò che forse avrebbe potuto raccontare al nonno una storiella sulla signorina Runyon, una storia inventata ma usando il suo nome, e rimase lì a ponzare appoggiato alla palizzata, lasciando gocciolare il naso sulle assi, $nché due non assunsero l’aspetto di lance andate a segno. O forse avrebbe potuto raccontarne una sulla signora Haisan. La signora Haisan aveva due $gli più o meno della stessa età sua e di Molly, e i bambini vivevano con la zia Hana, un donnino minuscolo che la- vorava dalla signora Fawcett come lavandaia. Si chiama- vano Maisol e Maisako e uno era nato il 4 luglio, l’altro il 1° aprile. C’era stato un episodio terribile quando erano venuti a casa loro con Hana e avevano costretto Ralph e Molly a seguirli nel campo di cocomeri, e non solo aveva- no tagliato un cocomero acerbo con una spatola per lo stucco, ma avevano detto e insinuato cose così orribili che Ralph e Molly erano stati costretti a picchiarli. Natu- ralmente avevano vinto in quattro e quattr’otto, perché i musi gialli erano molto meno robusti di loro.
Ralph non riuscì a farsi venire in mente nessun’altra storiella a parte la barzelletta sul vitello. Allora, facendo marameo alla casa della signorina Runyon, cantilenò: « Postina beduina babbuina truffaldina, non mi fai nien- te, faccia di serpente, non mi fai male, faccia di maia- le!». E poi, prendendo per mano la sorella, si mise a correre veloce come il vento perché la signora Haisan e Rover erano comparsi simultaneamente sulla porta dei rispettivi alloggi e, sebbene Rover fosse innocuo come
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una coccinella e con ogni probabilità la signora Haisan volesse solo offrire loro un kumquat candito, era più di- vertente pensare che fossero inferociti come lo Skala- wag. Appena la casa non fu più visibile, Ralph si inginoc- chiò a terra, accostò l’orecchio alla strada e balzò in pie- di esclamando: «Ehi! Arrivano!». A quel punto, non smisero più di correre $nché non ebbero imboccato la via di casa.
Dopo un centinaio di passi videro le palme che deli- mitavano la loro proprietà. In quell’ultimo tratto, per un motivo o per l’altro, Molly pensava sempre a Redon- do Beach, dove avevano trascorso qualche settimana alla $ne dell’estate. Alzando gli occhi verso il cielo az- zurro e vuoto, aveva ancora la sensazione di essere a pie- di nudi nella sabbia rovente, a caccia di stelle marine e ricci, e di sentire le urla terrorizzate delle madri e quel- le petulanti dei $gli che, avanzando nell’acqua, rispon- devano che le onde non erano poi così alte. Pensare al- la spiaggia la rendeva irrequieta e nostalgica, e di tanto in tanto le strappava un gemito sommesso, perché ogni volta le tornava in mente lo strano fremito d’orrore mi- sto a piacere provato quando un gabbiano le aveva striz- zato l’occhio e lei si era accorta che muoveva solo la pal- pebra inferiore, mentre l’altra rimaneva immobile. Quel giorno però non pianse: Ralph era troppo allegro – lo sapeva – per consolarla, e quando Molly piangeva l’uni- co piacere era proprio farsi abbracciare da lui, inalare il suo odore pungente di serge e bretelle di cuoio, e senti- re, rabbrividendo, le sue mani piene di verruche che le s$oravano la faccia. Molly poteva sempre imporsi di pensare con tristezza non al mare bensì a suo padre, che era morto; di lui non aveva ricordi, ma sapeva che era in cielo con Gesù e l’avrebbe miracolosamente rico- nosciuta quando lei lo avesse raggiunto, anche se al mo- mento della sua morte non era ancora nata. Era il pen- siero più elettrizzante che avesse mai avuto in vita sua, e la mandava in visibilio dal giorno in cui lei e Ralph ave- vano concordato di non morire $nché lui non avesse a-
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vuto novantanove anni e lei novantasette: in quel modo al loro arrivo in cielo sarebbero apparsi molto più vec- chi del padre, che invece era morto all’età di trentasei anni.
Appena imboccarono il vialetto d’accesso, Ralph attac- cò con le tabelline: « Sei per tre| ». « Diciotto » rispose Mol- ly. E Ralph: «Asino cotto». Continuarono: «Otto per ot- to|». «Sessantaquattro». «A Sophia è morto il gatto». «Due per dieci|». «Venti». «Ho perso tutti i denti», e a quel punto Molly strillò, sbellicandosi dalle risa: « Mam- maaa! Ralph ha perso tutti i denti! ». Ma la mamma non era seduta sulla veranda come al solito, e Ralph e Molly rimasero a guardarsi come due ebeti, pieni di imbarazzo.
Avrebbero dovuto saperlo che era in cucina, indaffa- rata con i preparativi per l’arrivo del nonno. La sentiro- no accorrere alla porta nelle sue pantofoline col tacco, gridando, in previsione della scena che si sarebbe trova- ta davanti: « Oh, non ditemi che è successo di nuovo! ». Poi si fermò al di là della zanzariera, le mani sui $anchi, il vitino da vespa nella gonna grigio perla, incerta se ar- rabbiarsi o preoccuparsi, per un attimo troppo sconvol- ta anche solo per aprire bocca. I bambini rimasero in attesa sul primo gradino come cani perfettamente adde- strati e la madre, vedendoli così umiliati, decise di angu- stiarsi e corse loro incontro, abbracciandoli ma allo stes- so tempo facendo attenzione a non macchiarsi la cami- cetta bianca. Profumava di giaggiolo e pan di zenzero, e i bambini, annusandola, ebbero la netta sensazione che l’ospite sarebbe arrivato di lì a poco, una sensazione an- cor più netta di quella che avevano provato al mattino, quando avevano visto Miguel uscire in macchina per an- dare alla stazione. Era partito presto per acquistare ogni sorta di prelibatezze ai mercati di Los Angeles: tra le al- tre cose, avrebbero mangiato amarene e lokum.
«Oh, poveri pulcini!» esclamò la signora Fawcett, e gli occhi azzurri le si riempirono prontamente di lacri- me. « Oh, cari, perché non avete telefonato| Perché dovete sempre far arrabbiare la mamma| ».
Maurizio Degl’Innocenti-Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Editore Franco Angeli-
Questo saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza, avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale. Il testo offre inoltre molteplici spunti di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di un’intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
GIACOMO MATTEOTTI E IL SOCIALISMO RIFORMISTA
Giacomo Matteotti e il socialismo riformista – Dalla scheda del volume sul sito dell’editore FrancoAngeli
Il saggio propone un’originale rilettura di Giacomo Matteotti (1885-1924) lungo i binari paralleli della biografia individuale e dell’analisi del gruppo politico di afferenza avvalendosi delle categorie interpretative di socialismo di vicinanza o territoriale e di democrazia orizzontale.
Nel rapporto essenziale con il territorio evidenzia la persistente forza delle periferie, lungo le quali si riscrivono le gerarchie sociali e politiche, tra continuità e rottura dei codici etici e di prestigio. Nel ricostruire il cursus honorum di Matteotti da organizzatore nel Polesine a figura di spessore nazionale fino all’ingresso a Montecitorio e infine a segretario del Partito socialista unitario impegnato nella lotta al fascismo e al bolscevismo, fa emergere una concezione della politica come pedagogia individuale e collettiva per una cittadinanza diffusa e inclusiva; tecnica gestionale in una strategia “costruttiva” della società di lungo periodo; prassi fondata sul ruolo imprescindibile dei partiti nazionali in una democrazia rappresentativa e conflittuale nel rispetto dello Stato di diritto; visione delle problematiche interne in connessione con gli equilibri internazionali in una prospettiva di libera e pacifica convivenza dei popoli e, perfino, già europeista. Il saggio offre molteplici motivi di riflessione su problemi della società italiana ed europea di lungo periodo, fino all’attualità, a ulteriore testimonianza del lungimirante orizzonte del pensare e dell’agire di intera generazione politica in linea con l’evoluzione della socialdemocrazia europea tra le due guerre.
Premessa
La formazione e il “motore dell’energia pratica”
(L’ambiente familiare e il “vaso migliore”; I “tempi lunghi” degli studi e la “fame d’azione”; “Non si gettava, ma andava a passo regolare contro il periglio supremo: il che è infinitamente di più”; La costruzione evolutiva e “il socialismo dentro di noi”; Il “sobillatore”)
La “campagna senza fine”
(Il cursus honorum; La titolarità politica dell’ente locale; Spazio fisico e culturale. Per un sistema di istruzione integrato e permanente; Dalla lega all’azienda cooperativa; “Noi demandiamo di restituire alla nostre terre le libertà”)
“Difendiamo insieme la causa del socialismo, la causa del nostro Paese e quella della civiltà”
(Matteotti a Montecitorio; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Matteotti, il “fermo ai contrabbandieri del pubblico bene” e il debito buono; “La forza operante dei lunghi periodi di tempo”: Turati e un programma “serio e concreto” per rifare l’Italia; La crisi dello Stato di diritto e l’Esecutivo Giolitti; Nella tenaglia fascista; “La rielaborazione dei Partiti” e il situazionismo; Il Governo di coalizione e il mancato incontro con il Partito popolare)
“I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti”
(“Ricominciamo daccapo, ringiovaniremo nel ricostruire”; Matteotti e il frazionismo socialista; Alla segreteria del PSU; Il blocco per la libertà; La guerra, la “pace senza pace” e la ricostruzione dell’Europa)
Turati, Matteotti e il rinnovamento socialista
(Le vie nuove della socialdemocrazia europea; Le Direttive socialiste (1923) e “il partito di realtà”)
Indice dei nomi.
Maurizio Degl’Innocenti, ordinario di storia contemporanea, è direttore di collane editoriali, condirettore della rivista “Storiaefuturo”, membro di diversi istituti di ricerca. Presiede la Fondazione di studi storici “Filippo Turati”. Annovera tra le ultime pubblicazioni La società volontaria e solidale (2012); Giacomo Matteotti. Eroe socialista (2014); La Patria divisa. Socialismo, nazione e guerra mondiale (2015); Giovanni Pieraccini la politica e l’arte (2016); L’età delle donne. Saggio su Anna Kuliscioff (2017).
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