Poesie scelte di CRISTINA CAMPO pubblicate dalla Rivista Avamposto-
Cristina Campo, Poetessa itliana
Cristina Campo (pseudonimo di Vittoria Guerrini) nasce a Bologna nel 1923 e muore a Roma nel 1977. Il padre di Cristina Campo Guido è musicista. La madre appartiene a una famiglia della buona borghesia bolognese. Trascorre la prima infanzia a Bologna, all’Istituto Rizzoli del quale lo zio materno, Vittorio Putti, è direttore. Il difetto cardiaco (che l’accompagnerà per tutta la vita) le impedisce di frequentare regolarmente la scuola. Studia da autodidatta sotto la guida del padre e di alcuni insegnanti privati. Impara le lingue leggendo Cervantes, Proust, Shakespeare. È traduttrice e critica, in entrambi gli ambiti riuscendo a profondere originalità e acume non comuni. Fra le innumerevoli frequentazioni di rilievo: Luzi, Traverso, Turoldo, Bigongiari, Merini, Bemporad, Bazlen, Dalmati, Pound, Montale, Williams, Pieracci Harwell, Malaparte, Silone, Monicelli e Scheiwiller. La Tigre Assenza comprende tutte le sue poesie e traduzioni poetiche, edite e inedite.
Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.
Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…
O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».
***
Cristina Campo, Poetessa itliana
È rimasta laggiù, calda, la vita,
l’aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi…
Rimasta è la carezza che non trovo
più se non tra due sonni, l’infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.
Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi…
Torno sola
tra due sonni laggiù, vedo l’ulivo
roseo sugli orci colmi d’acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli
nella mia lieve tunica di fuoco.
***
Ora tu passi lontano, lungo le croci del labirinto,
lungo le notti piovose che io m’accendo
nel buio delle pupille,
tu, senza più fanciulla che disperda le voci…
Strade che l’innocenza vuole ignorare e brucia
di offrire, chiusa e nuda, senza palpebre o labbra!
Poiché dove tu passi è Samarcanda,
e sciolgono i silenzi tappeti di respiri,
consumano i grani dell’ansia –
e attento: fra pietra e pietra corre un filo di sangue,
L’aria di giorno in giorno si addensa intorno a te
di giorno in giorno consuma le mie palpebre.
L’universo s’è coperto il viso
ombre mi dicono: è inverno.
Tu nel vergine spazio dove si cullano
isole negligenti, io nel terrore
dei lillà, in una vampa di tortore,
sulla mite, domestica strada della follia.
Si stivano canapa, olive
mercati e anni… Io non chino le ciglia.
Mezzanotte verrà, il primo grido
del silenzio, il lunghissimo ricadere
del fagiano tra le sue ali.
Cristina Campo, Poetessa itliana
Estate indiana
Ottobre, fiore del mio pericolo –
primavera capovolta nei fiumi.
Un’ora m’è indifferente fino alla morte
– l’acero ha il volo rotto, i fuochi annebbiano –
un’ora il terrore di esistere mi affronta
raggiante, come l’astero rosso.
Tutto è già noto, la marea prevista,
pure tutto si ottenebra e rischiara
con fresca disperazione, con stupenda
fermezza…
La luce tra due piogge, sulla punta
di fiume che mi trafigge tra corpo
e anima, è una luce di notte
– la notte che non vedrò –
chiara nelle selve.
Elegia di Portland Road
Cosa proibita, scura la primavera.
Per anni camminai lungo primavere
più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi
sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli
le piccole madri nei loro covi d’acacia
l’ora eterna sulle eterne metropoli
che già si staccano, tremano come navi
pronte all’addio…
Cosa proibita
scura la primavera.
Io vado sotto le nubi, tra ciliegi
così leggeri che già sono quasi assenti.
Che cosa non è quasi assente tranne me,
da così poco morta, fiamma libera?
(E al centro del roveto riavvampano i vivi
nel riso, nello splendore, come tu li ricordi
come tu ancora li implori)
Testi selezionati da La Tigre Assenza (Adelphi, 1991)
Biografia di Cristina Campo-Bologna 1923 – Roma 1977-
Fonte Enciclopedia delle donne- scheda di Delia Demarco
Cristina Campo, Poetessa itliana
“Se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle, esse penetrano in me per sempre attraverso la penna e la mano come per osmosi”
Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, nasce il 29 aprile del 1923 a Bologna. Figlia del maestro di musica Guido Guerrini e di Emilia Putti.
Durante il suo percorso letterario usa numerosi altri pseudonimi: La Pisana, Bernardo Trevisano (personaggio realmente esistito e alchimista del 1400), Puccio Quaratesi, Giusto Cabianca, nascondendosi anche dietro la firma di Rodolfo Wilcock o di Elémire Zolla, suo compagno dalla fine degli anni ‘50 con cui collabora in traduzioni e progetti.
Per lei la scelta dello pseudonimo è un ritorno al gioco d’infanzia:
“Da bambini si giocava a darsi dei nomi, avevo 15 anni e giocavo con una mia dolcissima amica che morì sotto la prima bomba che cadde su Firenze. Da allora questo nome dato per gioco mi diventò più caro del mio, e questo è tutto”.
Una malformazione cardiaca, presente fin dalla nascita, le impedisce di frequentare le scuole con costanza, ripiegando su una formazione privata e sotto la guida paterna. Ben presto i libri diventano per lei compagni costanti e “pane sacramentale”. È impossibile, quindi, dividere la storia della vita di Cristina Campo dalla storia delle sue letture. Dalle prime letture profane, fiabe e poesia, a quelle più sacre dell’ultimo periodo della sua esistenza.
I suoi riferimenti culturali saranno per tutta la vita principalmente due: Simone Weil e Hugo Von Hofmannsthal, la “sua mano destra e la sua mano sinistra”, ama dire di loro agli amici.
Già da giovanissima conosce le opere di Shakespeare, Omero, Dante, Leopardi e la Bibbia. Le fiabe, in particolare, le svelano il potere del mondo dei simboli e la possibilità di dare senso all’esistenza:
“Insegnano a spiccarsi il cuore dalla carne…Poiché con un cuore legato non si entra nell’impossibile”
In casa Guerrini vige da sempre una regola alla quale Vittoria non si sottrae mai: i classici devono essere letti esclusivamente in lingua originale. Per Cristina Campo, quindi, non sarà difficile imparare la sottile arte della traduzione. Tradurre per lei significa non tradire né lo spirito e né l’intento dell’autore. Ciò le permette di diventare presto stimata traduttrice di autori della sfera anglosassone (John Donne, Emily Dickinson, Katherine Mansfield, Virginia Woolf, Thomas S. Eliot, Thomas E. Lawrence, Christina Rossetti), ma non solo. Traduce anche dallo spagnolo, dal tedesco, dal francese e dal latino.
Durante gli anni della guerra, l’intera famiglia Guerrini si trasferisce a Firenze per seguire il padre impegnato a dirigere il Conservatorio Cherubini. Ben presto il capoluogo toscano diventa la città complice della crescita letteraria di Cristina. Qui inizia a frequentare un ambiente culturale molto fertile: il poeta Mario Luzi, i germanisti Leone Traverso – con il quale avrà una relazione – e Gabriella Bemporad e le amiche Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell.
Risalgono a questo periodo le sue traduzioni dei racconti di Katherine Mansfield, ma non dimentica mai l’amatissima Simone Weil, impegno di vita e centro del suo vocabolario interiore. Su di lei scrive un breve saggio Introduzione a Simone Weil, Attesa di Dio e, con la determinazione di un’esperta consulente editoriale, si spende nel promuovere la diffusione dell’opera dell’autrice francese presso varie case editrici italiane.
Nel 1953 l’editore Casini di Roma la coinvolge nella preparazione di un’ antologia di poetesse ai vertici della poesia al femminile. Per l’occasione Campo seleziona alcune delle poetesse più geniali: Saffo, Vittoria Colonna<, Gaspara Stampa, Veronica Gambara, Emily Dickinson, Christina Rossetti, ma Il libro delle 80 poetesse non vedrà mai pubblicazione e il manoscritto sarà purtroppo perduto.
Nel 1955 si trasferisce a Roma, seguendo gli impegni lavorativi del padre assegnato a dirigere il Conservatorio di Santa Cecilia. L’anno successivo al trasferimento romano, viene pubblicato Passo d’addio, raccolta di poesie scritte tra il 1954 e il 1955.
Alla fine degli anni ‘50 collabora per la RAI come recensore di libri, specialmente di poesia. È di questi anni l’incontro con Elémire Zolla, noto orientalista e marito della poetessa Maria Luisa Spaziani. Il sodalizio lavorativo tra i due si trasforma presto in relazione sentimentale.
Nel 1959 torna a occuparsi della sua amata Simone Weil curando una sezione a lei dedicata su Letteratura e ne traduce due testi: Venezia salva e L’Iliade o il poema della forza. Mentre è del 1958 la poesia Elegia di Portland Road, ultimo indirizzo di residenza di Simone Weil prima di morire a Londra per tubercolosi.
Tramite Zolla scrive per la rivista Conoscenza religiosa da lui diretta e vengono pubblicate due sue poesie (Missa Romana e La Tigre Assenza). Dagli anni ‘60 in poi, scrive poco ma traduce molto. Sono del 1961 le traduzioni per Einaudi delle poesie di William Carlos Williams, incontrato nell’estate del 1957 a Manziana e nel 1971 l’Italia scopre John Donne grazie a Poesie amorose e teologiche, da lei tradotte per Einaudi. Nel 1963 traduce alcuni testi per I mistici dell’Occidente di Zolla con lo pseudonimo di Giusto Cabianca. La vicinanza a Zolla la spinge a interessarsi sempre di più a tematiche religiose e al mondo dei miti e dei simboli. È, infatti, del 1962 la pubblicazione del volume Fiaba e mistero.
Pur frequentando ambienti intellettuali vivissimi e raffinati – dalla Firenze di Mario Luzi alla Roma di Maria Zambrano, Elsa Morante e Maria Bellonci – preferisce riunire nella sua casa romana un piccolo gruppo di amici fidati. Dal salotto di Cristina Campo prenderà corpo il progetto di quella che sarà la casa editrice Adelphi: Bobi Bazlen e Luciano Foà, infatti, frequentano da sempre le serate a casa di Cristina. Nel 1963 nasce l’Adelphi, Bazlen e Foà decidono di portarsi con sé un altro amico e frequentatore del salotto di Cristina Campo: l’allora ventunenne Roberto Calasso. Tra le numerose e preziose pubblicazioni, L’Adelphi avrà anche il merito di diffondere l’opera di Cristina Campo in Italia.
Donna fragile come il vetro ma dura come il cristallo e dallo spirito guerriero, Campo legge e fa leggere, traduce, scrive. I suoi amori sono letterari: il germanista Traverso, il poeta Luzi, l’intellettuale Zolla, che la ricorda così:
“Aveva un carattere molto curioso. Da un lato c’era una volontà di comunicare i suoi entusiasmi, che era la sua grande carta, perché con questa si conquistava la simpatia di tutti coloro che fossero minimamente in vita. E ne aveva parecchi di entusiasmi. Per un paesaggio, per un quadro, per una persona, per un libro. Fissava su ciascuno questi fari potentissimi e suggestionava, faceva spiccare un volo. Era il suo lato seducente. Ma subito dopo poteva accendersi una fiammata di stizza(…) Accadeva era quasi fatale. Ed erano attacchi furibondi. Quando vuole, Cristina sa essere tagliente come un diamante. Può rompere un’amicizia per una piccola caduta di stile, disconoscere un poeta amato per un verso appena al di sotto dell’eccellenza”
Antimoderna e antiprogressista con simpatie politiche apertamente di destra, è, come tutte le personalità complesse, contraddittoria: ama uomini sposati (Luzi, Zolla), è apertamente di destra ma frequenta amici di sinistra, anche ex partigiani. È aristocratica, odia il consumismo e la mediocrità della società di massa, ma aiuta concretamente le persone ai margini, mostrandosi sensibile verso i perdenti e gli esclusi. Detesta l’avanguardia letteraria e l’impegno sociale e politico da parte dello scrittore. Per lei essere scrittore significa scrivere per sottrazione, tacere, dare la penna ad altri, “scrivere per nessuno”, da qui la complessità delle contraddizioni dell’essere Cristina Campo, da qui la sua inafferrabilità.
Da un parte c’è la poesia, la pratica della scrittura, dall’altra l’adesione alla chiesa bizantino-ortodossa. L’amore per la liturgia bizantina, in comune con la Weil, la spinge a prendere casa vicino all’Abbazia di Sant’Anselmo sull’Aventino di cui diventa assidua frequentatrice. Durante il decennio di proteste tra il 1960-1970, non è mai attivista per nessuna causa politica o sociale, ma manifesta aspre critiche verso l’introduzione della messa in italiano; per lei, da sempre amante della bellezza della liturgia latina, è un cambiamento talmente sconvolgente da rasentare l’oltraggio. Decide, così, di esporsi e di stendere un manifesto-appello in difesa della liturgia tradizionale. Il manifesto, reso pubblico il 5 febbraio del 1966, è firmato da trentasette artisti e intellettuali, tra i quali Auden, Borges, Bresson, De Chirico, Dreyer, Montale, Quasimodo, Zolla. Inizia a scrivere lettere di protesta e petizioni fondando l’associazione “Una Voce” che vede Eugenio Montale come presidente.
Nonostante il desiderio di scrivere poco e pubblicare meno, è invece molto generosa nella corrispondenza epistolare con amici, conoscenti, colleghi, come, ad esempio, la poetessa argentina Alejandra Pizarnik, conosciuta a Parigi negli anni ‘60 e alla quale scriverà fino al 1970.
Lascia così numerose lettere che vengono raccolte in libri postumi: da Lettera a Mita a Se tu fossi qui – Lettere a Maria Zambrano, da Lettere a un amico lontano a Il mio pensiero non vi lascia – Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino.
Su tutti, Lettere a Mita rimane il carteggio fondamentale per comprendere l’universo interiore di Cristina Campo: lettere paragonabili, secondo Cesare Galimberti, a quelle del Tasso e del Leopardi e destinate all’amica Margherita Pieracci Harwell, a testimonianza di un’amicizia – nata nel 1952 – tra due donne che si incontrano grazie alla passione comune per la sempre presente Simone Weil.
Leggere Cristina Campo non è quasi mai impresa facile: è come scalare “una montagna su cui si può cercare tutta la vita”, come sostiene giustamente Cristina De Stefano, autrice della biografia Belinda e il mostro. I suoi testi sono profondi e con continui rimandi ad altri scritti, ma l’originalità delle sue riflessioni, l’uso musicale della parola e il ritmo della lettura, ripagano di ogni sforzo compiuto per avvicinarla e in continua scoperta del valore sacrale della parola:
“La parola per me è una cosa terribile, è un filo scoperto, elettrico… con il verbo non si scherza… Possiamo fare un male terribile, dire immense sciocchezze di cui ci pentiremo dieci anni dopo. Possiamo educare, formare anime ancora tenere con una sicurezza bersagliera che dopo alcuni anni rimpiangeremo. Ho sempre avuto una gran paura della parola: ho scritto molte cose che non ho pubblicato e non me ne importa nulla. Domani, se stessi per morire, ne butterei nel fuoco molte. ‘Di ogni parola inutile sarà chiesto conto’, dice la Scrittura”.
Oggi critica e pubblico l’hanno finalmente riscoperta grazie a pubblicazioni postume, spesso curate dall’amica Margherita Pieracci Harwell, come la raccolta dell’intera opera saggistica in Gli imperdonabili (1987) e La Tigre assenza (1991), raccolta delle sue poesie e delle sue traduzioni poetiche.
Il volume Sotto falso nome (1998) raccoglie, invece, articoli, prefazioni e altri scritti sparsi e pubblicati con diversi pseudonimi.
È l’inizio di una seconda vita editoriale.
Scompare a Roma, a 53 anni, il 10 gennaio del 1977 nel silenzio di un ambiente letterario che non l’aveva ancora compresa.
Sarà Roberto Calasso a ricordarla in quell’inverno del 1977 su Il Corriere della Sera:
“Una scrittrice che ha lasciato una traccia di poche pagine imperdonabilmente perfette, del tutto estranee a una società letteraria che non aveva occhi per leggerle. Ma sono pagine che troveranno in futuro i loro lettori, e allora appariranno come una sorpresa davvero sconcertante”.
Fonti, risorse bibliografiche, siti su Cristina Campo
Cristina De Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Adelphi, 2002
Camillo Langone, Cristina Campo, in Italiane, a cura di E. Roccella – L. Scaraffia, III, Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale, Roma, 2004
La Rivista «Avamposto» è uno spazio di ricerca, articolato in rubriche di approfondimento, che si propone di realizzare un dialogo vivo rivolto allo studio della poesia attraverso un approccio multidisciplinare, nella consapevolezza che una pluralità di prospettive sia maggiormente capace di restituirne la valenza, senza mai sfociare in atteggiamenti statici e gerarchizzanti. Ma «Avamposto» è anche un luogo di riflessione sulla crisi del linguaggio. L’obiettivo è interrogarne le ragioni, opponendo alla tirannia dell’immediatezza – e alla sciatteria con la quale viene spesso liquidata l’esperienza del verso – un’etica dello scavo e dello sforzo (nella parola, per la parola). Tramite l’esaltazione della lentezza e del diritto alla diversità, la rivista intende suggerire un’alternativa al ritmo fagocitante e all’omologazione culturale (e linguistica) del presente, promuovendo la scoperta di autori dimenticati o ritenuti, forse a torto, marginali, provando a rileggere poeti noti (talvolta prigionieri di luoghi comuni) e a vedere cosa si muove al di là della frontiera del già detto, per accogliere voci nuove con la curiosità e l’amore che questo tempo non riesce più a esprimere.
Rivista Avamposto-
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Corso Siracusa 67, 10137 Torino (c/o Sergio Bertolino)
Poesie di Mary Carolyn Davies ,Poetessa statunitense
La poetessa statunitense Mary Carolyn Davies :la poetessa americana che sparì nel nulla.Figura stravagante e straziata della poesia americana, Mary Carolyn Davies nasce nel 1888 a Sprague, Washington, studia a Portland, nel 1911 la vediamo a Berkeley. Il talento poetico trova precoci riconoscimenti: è la prima ragazza a vincere un paio di premi letterari banditi da Berkeley.
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
Mary Carolyn Davies si sente parte del risveglio, non si limita ad osservarlo ma se ne fa interprete scrivendo la sua poesia sullo spartito già predisposto dalla natura
(Mary Carolyn Davies)
Morirò anch’io,
fiore, tra poco,
non essere così orgoglioso.
PRIMA CHE COMINCI APRILE
Il giorno che precede aprile,
sola soletta,
ho camminato per i boschi
e mi sono seduta su una pietra.
La pietra sembrava un leggio
e cantavano gli uccelli.
La melodia era opera di Dio
ma le parole erano mie.
(da Poetry. A Magazine of Verse, X, 5, agosto 1917)
La primavera è all’intorno ma anche dentro di noi: seduta in mezzo ai boschi, la poetessa statunitense Mary Carolyn Davies si sente parte del risveglio, non si limita ad osservarlo ma se ne fa interprete scrivendo la sua poesia sullo spartito già predisposto dalla natura
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
IL MATTINO
Il mattino è in piedi, alla finestra, guarda nella mia camera e dice:
“Cosa vuoi fare di me?
Sono il tuo schiavo,
ti porterò ciò che desideri:
dimmi cosa vuoi che faccia
e lo farò,
dimmi cosa vuoi
e sarà tuo”.
Un improvviso fruscio di lacrime ha scosso il cuore, e ho detto:
“Oh, mattino, non voglio nulla.
C’è una cosa che voglio. Moltissimo.
Ma non so dirti con esattezza.
Forse morire, forse vivere”.
ERO SOLA CON ME STESSA
Ero sola con me stessa, l’altra sera,
con il me che nessuno conosce,
il mio me, la persona più gentile che abbia mai incontrato
(direi, la più bella!)
Ero sola con me,
avevamo molto di cui parlare,
non ci eravamo mai incrociati prima
se non per scorci, per sbagli
(a volte, volevamo incontrarci,
altre, speravamo di non incontrarci mai).
Abbiamo avuto anni per discutere
e anni seguenti di cui sparlare,
e poi c’erano altre cose -noi, la vita-
e tutte quelle cose di cui parlare.
Così, ci siamo seduti, in silenzio,
senza dire una parola.
la poetessa americana che sparì nel nulla
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
<<Non ho paura del mio cuore. Non ho paura di ciò che accade nei luoghi in cui si dispongono le ombre.>>
*Versi di Mary Carolyn Davies (Sprague, 1888 – ? New York, 1940 o 1974), poetessa dalla vita misteriosa e dalla morte ancora più oscura.
Considerata una promessa della letteratura americana, l’autrice statunitense fu per alcuni anni una brillante animatrice degli ambienti culturali di New York e ricevette importanti riconoscimenti per le sue liriche, i suoi racconti ed il suo unico romanzo.
All’improvviso si eclissò dalla scena pubblica per motivi mai chiariti, forse per depressione, forse per malattia.
Sulla sua nebulosa scomparsa prova a far luce l’enciclopedia dell’Oregon Historical Society: “Nel 1940, il giornale quotidiano Oregonian riferì che Davies era indigente, malata ed emaciata, viveva in una squallida stanza piena di manoscritti e poco altro. Secondo quanto riferito, i medici la diagnosticarono come anemica e i vicini dissero che aveva poco cibo. Ethel Romig Fuller, poetessa di Portland ed editrice di poesie dell’Oregon, la visitò a New York e raccontò che era in uno ‘stato deplorevole’ da almeno due anni. Non spiegò come avesse raggiunto un tale stato. Non c’è traccia della sua morte in Oregon e nessun necrologio fu pubblicato né sull’Oregonian né sul New York Times”.
Secondo altre fonti, tuttavia, quando la sua condizione di estrema povertà e di malnutrizione fu segnalata pubblicamente, venne aiutata da amici e ritornò in salute, vivendo fino al 19 maggio 1974, giorno in cui sarebbe deceduta in una casa di cura di New York.
Il critico Davide Brullo, che definisce la scrittrice “figura stravagante e straziata della poesia americana”, commenta invece così la sua indecifrabile sparizione dopo l’iniziale successo mondano: “Pare sia morta nel 1940: nessun giornale ne ha dato notizia, nessuna lapide la ricorda. Enigma che cuce le palpebre. Forse è stata scambiata per un’altra, e con il nome di un’altra sepolta, tra preghiere in ricamo, chissà dove. Mary Carolyn Davies è scomparsa, del corpo ha fatto un incorporeo monile. Così muore un poeta: si fa invisibile, cioè eterno.”
I ‘Mary Carolyn Davies papers’, ovvero tutti i suoi manoscritti, le sue fotografie e le sue corrispondenze epistolari, sono oggi custoditi dall’University of Oregon.
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
Mary Carolyn Davies
Canti di ragazza
I
Forse,
mentre piantava l’Eden
a Dio è caduto per errore un seme
nella tessitura prossima al Tempo:
è sbocciato
in quest’ora?
II
Abbiamo preso in mano la Vita, fissandola con curiosità
senza sapere se prenderla per un giocattolo o meno.
Era bella da vedere, sembrava un petardo rosso
eravamo certi della sua scia luminosa.
L’abbiamo gettata mentre la miccia stava bruciando…
III
Morirò anch’io, fiore, tra poco
non essere così orgoglioso.
IV
Il sole muore
solo
su un’isola
nella baia.
Chiudete gli occhi, papaveri
non voglio che vediate la morte
siete troppo giovani!
V
Il sole cade
come la goccia di sangue
di un qualche eroe.
Noi
che amiamo il dolore
ne gioiamo.
Canti di ragazza
(versione pubblicata su “Others”, n.1, July 2015)
I
Il mattino è in piedi, alla finestra, guarda nella mia camera e dice:
“Cosa vuoi fare di me?
Sono il tuo schiavo
ti porterò ciò che desideri:
dimmi cosa vuoi che faccia
e lo farò
dimmi cosa vuoi
e sarà tuo”.
Un improvviso fruscio di lacrime ha scosso il cuore, e ho detto:
“Oh, mattino, non voglio nulla.
C’è una cosa che voglio. Moltissimo.
Ma non so dirti con esattezza. Forse morire – forse vivere –”
II
Non ho paura del mio cuore.
Non ho paura di ciò che accade
nei luoghi dove si appaltano le ombre.
Non ho paura – vieni, entra
e guarda ovunque.
Non ho paura – cos’è quello?
Un posto pericoloso su cui passeggiare – il cuore.
Soprattutto – il proprio.
III
Tornare giovani
abbastanza giovani per ridere di ciò di cui devi piangere.
IV
Io siamo in tre; la ragazzina che ero, la ragazza che sono, la donna che sarò. Ci consultiamo spesso riguardo al tessuto con cui vogliamo tessere il sogno che stiamo facendo.
A volte dicono che sogno ad occhi aperti,
ignorano che stiamo tenendo consiglio, la bambina, la ragazza che sono, la donna che sto diventando.
Ci sono molte cose che ignoro.
V
Ero sola con me stessa, l’altra sera
con il me che nessuno conosce
il mio me, la persona più gentile che abbia mai incontrato.
(Direi, la più bella!)
Ero sola con me
avevamo molto di cui parlare
non ci eravamo mai incrociati prima
se non per scorci, per sbagli
(a volte, volevamo incontrarci
altre, speravamo di non incontrarci mai)
Abbiamo avuto anni per discutere e anni
seguente di cui sparlare
e poi c’erano altre cose – noi, la vita –
e tutte quelle cose di cui parlare.
Così, ci siamo seduti, in silenzio, senza dire una parola.
VI
Un piccolo bacio trema sulle mie labbra
non esce di casa, ha paura.
“Vai, vai”, gli dico, ma piange e non si muove.
Un piccolo bacio è irrequieto sulle mie labbra
“Devo andare”, sibila, “devo andare”
“Aspetta ancora un attimo”, gli dico, “aspetta” –
VII
Lo sguardo di uno sconosciuto
a volte di avvicina a me.
Un colore,
un suono,
e sento il tuo respiro;
i tuoi occhi mi toccano.
La stanza oscura in cui muore il giorno,
e io che piango per te;
un uccello che grida contro chi gli ruba il nido,
un fiore appena nato, che trema –
e il mio cuore batte di gioia per te –
per te, che non conosco
che so soltanto amare.
VIII
Tra poco morirò anch’io, fiore,
non essere così orgoglioso –
*
La porta
La più piccola porta spalanco,
la porta interiore.
Ora il mio cuore non ha più nulla
da nascondere.
La più lontana porta – la serratura
è vinta, e puoi capirlo anche tu:
la sala è una fortezza fragile.
Che tu sia buono.
Mary Carolyn Davies-poetessa americana
*
Canto d’amore
Un muro ciclopico mi protegge:
è costruito con le parole che mi hai sussurrato.
Spade mi tengono al sicuro:
sono i baci delle tue labbra.
Davanti a me, uno scudo a guardia del male:
è l’ombra delle tue braccia tra me e il pericolo.
I desideri della mente sanno il tuo nome
i bianchi sentieri del cuore
sbocciano in te.
Il grido del mio corpo incompiuto
è consacrato a te.
Il sangue ritma il tuo nome
incessante, spietato,
il tuo nome, il tuo nome.
*
Claustrale
Questa notte la piccola suora è morta.
Le mani posate
sul petto; l’ultimo sole ha tentato
di baciare la sua treccia;
hanno ricavato una tomba
dove il fiume s’incassa, intimidito.
L’anima della piccola suora, ritratta
nel pudore, è andata in silenzio
da suo fratello Cristo
sotto l’Albero della Vita;
il Suo viso si è contratto in un sospiro
quando la vide piangere.
Ha posato le mani sulle sue
le ha benedette: “Cieco
chi ti ha fatto questo” – sorrise
anche il pianto va arguito
“D’altronde, nessuno si è accorto che Maria
cresceva un figlio in grembo”.
*
Prima che cominci aprile
Il giorno che precede aprile
sola, sola,
ho camminato nei boschi
mi sono seduta su una pietra.
La pietra sembrava un leggio
e cantavano gli uccelli.
Il ritmo è opera di Dio:
io metto le parole.
*
Stelle impaurite
Le stelle sono come noi bambini
che non vogliamo crescere.
Di notte, le piccole stelle impaurite
si raccolgono nella Via Lattea –
I coraggiosi stanno sempre da soli!
*
La fata solitaria
Una goccia di rugiada brilla
ancora sull’erba, il sole non
l’ha consumata: è una lacrima caduta
nella notte, il resto del pianto
della più solitaria fata.
*
L’abito
Sotto gli sguardi curiosi dei morti
per varcare i cieli (oh, i frutti immaturi
i peccati inconfessabili!)
vestivo
un abito tessuto delle tue promesse.
Potrei essere sola, spaventata
ma ogni donna si accorgerà di me.
* Paura dei morti
Pietà di noi: dobbiamo temere
i terribili morti.
Queste creature di carne e ossa
che ora ascendono al loro trono.
Da lì giudicano, senza giudizio, ciò che facciamo.
Non abbiamo altra legge che quella che hanno
forgiato per noi: i loro desideri sono i nostri
e con il loro metro distinguiamo il bene dal male.
Siamo liberi e in catene, ci ricordano.
Pietà di noi; dobbiamo temere
i terribili morti.
*
Canto notturno per un bimbo
Una volta, una donna, a Betlemme
ha avuto un bimbo, come me:
una volta, ha fissato la sua testa
insonne, l’ha tenuta sulle ginocchia
e con i giovani annebbiati occhi
ha pregato per lui.
Ogni vita è fatta di lotta e di dolore
ogni vita ha un portagioie:
che su quei sentieri interrotti
possa camminare, fiero,
così lei, ieri come oggi,
per il figlio prega.
Che il mio bambino, mentre gli anni
precipitano veloci, non abbia bisogno
di altre mani: tienilo con te
libero dal male, al sicuro dal dolore.
Mary Carolyn Davies
Mary Carolyn Davies-poetessa americana (Foto dl 1936)
Mary Carolyn Davies: la poetessa americana che sparì nel nulla
Fin dal primo numero, però, la figura più affascinante che transita per “Others” è Mary Carolyn Davies, a cui è dato l’onore di inaugurare il carosello poetico con Songs of a Girl, poemetto di ipnotica facilità.
Figura stravagante e straziata della poesia americana, Mary Carolyn Davies nasce nel 1888 a Sprague, Washington, studia a Portland, nel 1911 la vediamo a Berkeley. Il talento poetico trova precoci riconoscimenti: è la prima ragazza a vincere un paio di premi letterari banditi da Berkeley. Tuttavia, la vita universitaria non la conquista e poco dopo sbarca a New York, decisa a vivere di scrittura. Pare sia tenace, indomita: entra nei club di Greenwich, conosce Marianne Moore e Duchamp, è adorata da Kreymborg che ne fa una delle collaboratrici più assidue di “Others”. I suoi primi libri in versi, The Drums on our Street: A Book of War Poems (1918), Youth Riding (1919) e The Skyline Trail: A Book of Western Verse (1924), vengono paragonati a quelli di Edna St. Vincent Millay. I versi per bambini sono accolti in importanti antologie del tempo; nel 1921 pubblica il suo unico romanzo, The Husband Test.
Qualcosa, però, resta evidentemente irrisolto: un tarlo, la tenia del disgusto, un’affabile afflizione. Nel 1918 divorzia dal marito, Leland Davis; negli anni Venti torna a Portland dove, tra l’altro, diventa presidente della Northwest Poetry Society. Alcune rare fotografie del 1936 la vedono di fianco a un cavallo, in un bosco; è magra, minuta, sorride. Il ritorno a New York è devastante. Mary Carloyn Davies scompare dalla vita pubblica quasi subito. Non pubblica più, non frequenta più nessuno. Alcuni amici hanno detto di una malattia, che la inibiva a spostarsi; hanno detto della cupa indigenza, di una solitudine che si fa palude ma non abbastanza pena.
Tutti, infine, mollano Mary Carolyn Davies, la promessa della poesia americana. E lei, infine, infinitamente, scomparve. “Non esistono tracce della sua morte”, si limitano a scrivere i reperti biografici. La University of Oregon custodisce, in due scatole, i “Mary Carolyn Davies papers”: le poesie, una manciata di racconti manoscritti, una serie di atti unici, qualche fotografia, i taccuini, la smilza corrispondenza con gli editori.
Pare avesse tre fratelli, pare che qualcuno l’abbia messa al mondo, creatura di evanescenze e notti striate. Nessuno ha riscattato il corpo di Mary Carolyn Davies, in pochi ne ricordano il corpus. Estremità francescana, putredine della più pura povertà, veglia sulla cenere. Pare sia morta nel 1940, Mary Carolyn Davies: nessun giornale ne ha dato notizia, nessuna lapide la ricorda. Enigma che cuce le palpebre. Forse è stata scambiata per un’altra, e con il nome di un’altra sepolta, tra preghiere in ricamo, chissà dove. Mary Carolyn Davies è scomparsa, del corpo ha fatto un incorporeo monile.
C’era sempre l’attesa negli occhi di nostra madre,
Ansia, meraviglia e supposizione,
Durante le lunghe giornate, e nel più lungo, lento,
Ancora pomeriggi, che sembravano non andare mai,
E la sera, quando era solita sedersi
Ascolta il nostro discorso casuale e lavora.
Quando il giorno era buio e piovoso,
Non è in grado di essere all’estero, lei sarebbe in piedi
Accanto alla finestra, sbircia fuori e tremare,
Come piccole gocce di pioggia slegate per fare un fiume
Che si precipitò, tempestoso, giù per il vetro della finestra,
E di’: “Mi chiedo cosa fanno nella pioggia?
È bagnato lì nelle trincee, pensi?”
E lei si chiederebbe se avesse il suo inchiostro
E le lame e il dentifricio che ha mandato;
E se leggeva molto nel suo Testamento,
O lamentele pulite, alcune mattine, come lo faranno i ragazzi.
Ma sempre l’unica meraviglia nei suoi occhi
Era: “È che vive, vive, vive, è ancora
Vivo e gay? O giacere morto da qualche parte
E là lo troveranno a terra?».
Chiuse i coperchi ogni notte a quello sguardo
Di attesa, come una mano potrebbe chiudere un libro
Ma non cambiare mai le parole che c’erano dentro.
E quando i rumori del mattino iniziavano
Un nuovo giorno, e un giovane sole toccò il cielo,
Si svegliò di nuovo con l’attesa negli occhi.
Ma ora e’ finita. Lei non legge
Le liste di vittime, da quando è arrivato
Una o due settimane fa. Non c’è bisogno.
Sta facendo maglioni per altri uomini
E lavorare a maglia con la stessa attenzione di allora.
Non c’è cambiamento, tranne che mentre si veste
I suoi aghi, veloci e ritmici come prima,
Non c’è attesa agli occhi di nostra madre,
Ansia o meraviglia più.
Questa poesia è di pubblico dominio. Pubblicato in Poem-a-Day il 7 dicembre 2024, dall’Accademia dei poeti americani.
Poesie di Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Nedda Falzolgher –Il 2 marzo 1956 muore a Trento la poetessa Nedda Falzolgher – con Alessandro Tamburini. Repertorio: Corinna lo Castro legge alcune poesie tratte da Nedda Falzolgher , Fin dove il polline cade, Ubaldini, Roma 1949; Audio tratto da “Edda a Nedda. Poesie di Nedda Falzolgher recitare da Edda Albertini”, tratte da L’ora azzurra dell’ombra”, regia di Francesco dal Bosco, 2006. Alessandro Tamburini (Rovereto, 29 marzo 1954) è uno scrittore, insegnante e sceneggiatore italiano, autore di raccolte di racconti, romanzi e saggi. Di recente ha pubblicato “Ultimi miracolo”, otto racconti, Edizioni Pequod, 2022
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Poesie di Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
La Terra
Ti ho respirata con l’alba
per non destarmi sola,
e ti ho chiamata nelle notti amare,
sorda di pietre e giovane di stelle
sotto il cielo che scende e non consola.
Ho veduto nel mio pianto infantile
tutti i colli velarsi e lontanare;
ho udito cantare gli uomini
per non sentirsi morire.
E la mia carne ti ritrovi,
o benedetta nei fiori e nei rovi,
terra, unico amore.
*
T’amo per le cose della vita leggere,
le cose che sognano i morti la sera
dentro la terra calda,
sotto il limpido brivido degli astri.
Ma più t’amo, Signore, per la misericordia
delle tue grandi campane
che portano nel vento
verso l’anima della sera
la nostra povera preghiera.
*
Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore.
Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti.
Nedda Falzolgher, detta Nil (Trento, 26 febbraio 1906 – Trento, 2 marzo 1956), è stata poetessa e scrittrice. Le sue pubblicazioni: En piaza del Littorio, Trento, 1934 Fin dove il polline cade, Ubaldini, Roma, 1949 Il libro di Nil – Prosa e poesia, Rebellato Padova, 1957 (postumo)
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GLI ASSENTI
(Nedda Falzolgher, detta Nil)
Il nostro volto, come una lampada,
più non ci illumina.
Ora ognuno ha rivolto la fronte
verso un vento notturno
e, forse, ricorda.
Tu eri una fresca radice
ansiosa di poca terra assolata,
e tu quello che sempre partiva,
e tu l’altro,
che all’alba veniva cantando
con una rama gemmata.
E senza nome
dalle vuote pianure dei venti
qualche volta sgomenti ci chiamiamo,
e invano tentiamo di amarci
col nostro pallido cuore di stelle,
perchè nel tempo immobile ritorni
quel pianto che mutava coi giorni,
vivido nella nostra carne d’amore.
L’ONDATA
Di giorno la mia porta
è una chiglia affiorante che vibra
al respiro alto del mare:
l’universo la viene a inondare
fiorendo col sole.
E le cose vivide e innamorate
passano nella mia casa pura,
e dicono caldi nomi di creatura,
di piante, di stelle serene.
Nei giorni che nulla avviene
felicità è nel vento
e porta vite in cammino
dal silenzio raggiante.
E la gioia passa con l’onda
che la riva larga ribeve:
rinasce più oltre, più breve,
e il mare torna e la consuma.
LE PAROLE DEI FIGLI
Fammi ponte alla vita
col tuo vivido corpo d’amore,
madre che sei l’isola in fiore
dove il mio tempo è fermo tra due mari.
Tu che avevi sapore di rose
nella carne ferita,
lascia che io cammini e non ti veda.
E prega per la mia nuda fame
se il tuo cuore fosse pane
dal petto ancora te lo coglierei
per i giorni miei desiderosi.
*Mirabile definizione della poetessa e scrittrice Nedda Falzolgher (Trento, 1906 – Trento, 1956), contenuta in una lettera indirizzata nel 1951 all’amica d’infanzia Edda Albertini.
Colpita dalla poliomielite all’età di 5 anni, l’autrice atesina fu costretta a trascorrere su una sedia a rotelle tutta la vita, fino alla precoce morte avvenuta a soli 50 anni a causa di un tumore.
Nonostante la malattia, si dedicò sempre con pienezza alla passione letteraria. La sua prima raccolta importante fu pubblicata nel 1949 a Roma dall’editore Ubaldini, con la prestigiosa prefazione del critico teatrale Silvio D’Amico procurata dalla succitata Edda Albertini, divenuta nel frattempo una grande attrice drammatica.
Racconta la giornalista Marianna Malpaga sul magazine Vita Trentina: “Nedda scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. Nella sua poesia, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato.”
Per il critico Alberto Frattini, “la voce di Nedda Falzolgher merita ascolto per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia.”
Nel 1975 il Comune di Trento le dedicò una via cittadina. Nel 2006, inoltre, per onorarne la memoria nel centenario della nascita, l’amministrazione locale collocò una targa commemorativa sulla facciata della sua casa natale, che riporta un’epigrafe composta con frammenti delle sue liriche: “In questa ‘casa a specchio sul fiume così sola nell’urlo delle piene’ visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col ‘corpo segnato in croce’ e ‘il canto di allodola pura’.”
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
NEDDA FALZOLGHER, detta Nil (Trento, 26 febbraio 1906 – Trento, 2 marzo 1956), è stata una poetessa e scrittrice italiana.
Non ti darò contro il petto dolore
più che il rigoglio delle fronde sciolte.
Dammi tu spazio allora per questa morte:
io non ho solco per vivere
e non ho paradiso per morire;
e sento in me stormire
quest’agonia d’amore,
bionda, contro la zolla che la ignora…
Nedda Falzolgher
.
.
Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore.
Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti.
Nedda Falzolgher
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Articolo di Marianna Malpaga
Scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. La poetessa trentina Nedda Falzolghernacque a Trento il 26 febbraio del 1906. A soli cinque anni, l’evento che influenzerà tutta la sua vita negli anni a venire, una poliomielite che le colpisce gambe e braccio destro, costringendola in carrozzina.
Nella poesia di Nedda Falzolgher, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato. Ecco quindi che lo scorrere dell’acqua avviene “nell’urlo delle piene”, che il fremito del vento sconvolge le “umide chiome delle querce”, mentre “il sole passa e consuma la carne della terra amara”.
In molte poesie compare e ritorna il tema dei fiumi e dell’acqua, metafora della vita e del suo fluire e rifluire. Nedda fu costretta a rinunciare alla maternità, ma nella sua poesia questo tema si presenta sotto forma di un “amore per il creato e l’increato, per il visibile e l’invisibile, per tutte le vibrazioni che palpitano nel cosmo, dai grandi astri al cuore trafitto dell’uomo all’ultimo fremere di uno stelo”.
Compose la sua prima poesia nel 1917, a undici anni, e la dedicò alla madre, una figura importantissima nella sua vita. È lei che, fino alla sua morte, avvenuta nel 1950, si occuperà della figlia e le insegnerà francese e latino, lasciandole in dono una grande passione per la letteratura e per la poesia. È sempre lei che si sente dire da un medico: “La creatura non morirà perché ha il cuore troppo fondo e resiste. Ma questo male improvviso le taglierà le strade dalla terra”. Ed è ancora lei che, distrutta eppure risoluta, gli risponderà: “Non importa. Muterà cammino”.
Nella sua casa sul Lungadige, quindi, Nedda comincerà a scrivere e, a partire dagli anni Trenta, raccoglierà attorno a sé un gruppo di amici amanti dell’arte e della cultura, un cenacolo che l’accompagnerà negli anni a venire. Nel gruppo, ci sono anche nomi conosciuti come quello di Marco Pola.
Per Nedda scrivere è “pura arte che vive nella luce”. E, a Dio, al quale è legata da una forte spiritualità, chiede: “Datemi la forza di poter scrivere, Signore; fate ch’io possa chiudere in me e alimentarla sempre della più pura luce questa forza divina e indomita come una limpida fonte”.
La poetessa è forte ma, come per tutti i poeti, la scuote un’ansia vitale e una paura – che è al tempo stesso una consapevolezza – della sua solitudine. “Devo avere il coraggio di vivere sola, di pensare sola, di soffrire sola”, scrive. “Nessuno potrà capire che la mia strada è questa; nessuno dirà: vengo con te”.
In occasione di un incontro dedicato alla poetessa, l’amico Raffaele Gadotti ricorda che, a un certo punto, “non voleva più saperne di cose scritte: voleva vedere”. Nedda, insomma, voleva conoscere quel mondo che aveva scoperto attraverso le lettere d’inchiostro stampate sui libri; voleva “vivere fuori”, uscire dalla sua casa sul Lungadige. E dopo – ma solo dopo – scrivere. “Dicevamo che a mano a mano che usciva fuori – ha ricordato Gadotti – a vedere il mondo e a conoscere la natura direttamente, la Nedda cambiava; e cambiava anche la sua poesia, il suo modo di scrivere. Non erano più fiori di carta, fiori di cartapesta, sia pure molto colorati, o di stagnola: le sue poesie adesso erano fiori vivi; erano rami spezzati, ma vivi; erano frutti vivi; erano qualche cosa di naturale, di spontaneo. E nella sua poesia incominciò a sentirsi di più, perché scavava più dentro di sé”.
Nedda Falzolgher morì molto giovane, a cinquant’anni. Era il 2 marzo 1956. Nella vignetta di Giorgio Romagnoni, una poesia che parla del suo slancio vitale. È lei quell’”allodola pura” che si adagia sul “respiro del mondo”.
Articolo di Marianna Malpaga
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Spiritualità e canto in Nedda Falzolgher
In questa “casa a specchio sul fiume / così sola nell’urlo delle piene” visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col “corpo segnato in croce” e “il canto di allodola pura”. Queste parole sono incise sulla targa commemorativa che il Comune di Trento volle dedicare alla poetessa Nedda Falzolgher (1906-1956), per onorarne la memoria nel centenario della nascita. “Il caso di Nedda Falzolgher resta, per i più, ancora da scoprire”, scriveva nel 1966 il grande critico e poeta Alberto Frattini. “Eppure è una voce che meriterebbe d’essere ascoltata, per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia, equilibrando l’ansia disperata d’amore in placata letizia d’ascesi e d’offerta, entro un dolceamaro colloquio tra la creatura e il Creatore che solo può suggerirle parole di verità e di salvezza”. T’amo, Signore, per la muta passione delle rose. T’amo per le cose della vita leggere, le cose che sognano i morti la sera dentro la terra calda, sotto il limpido brivido degli astri. Ma più t’amo, Signore, per la misericordia delle tue grandi campane che portano nel vento verso l’anima della sera la nostra povera preghiera. * Nedda Falzolgher appartiene, in effetti, a quel novero di poeti che non hanno avuto grandi riconoscimenti dalla critica, ma che purtuttavia hanno lasciato un corpus di opere di indiscusso valore artistico. La sua sfortunata vicenda umana (fu colpita dalla poliomielite all’età di cinque anni rimanendo paralizzata alle gambe e al braccio destro) le impedì una partecipazione attiva alla società letteraria del suo tempo, nondimeno si dedicò con entusiasmo allo studio dei classici e riuscì a riunire nella sua casa affacciata sull’Adige un piccolo cenacolo di amici e poeti per discutere di letteratura, filosofia e argomenti culturali. Poi venne la guerra, la casa sul fiume fu danneggiata dalle bombe, e quel piccolo gruppo si sciolse. Dopo la morte dell’amatissima madre (che l’aveva sempre incoraggiata nella sua spontanea vocazione poetica), Nedda rimase sola con il padre e con la fedele governante Adele, la quale, in un articolo a firma di Renzo Francescotti pubblicato nel 2006 sul quotidiano L’Adige, così la ricorda: “Era un creatura angelica. Aveva un volto molto bello ed una voce melodiosa aperta al dialogo con familiari ed amici. Era lei, paradossalmente, ad offrire loro conforto: lei, che fra tanti più fortunati che si piangono addosso, in nessuno di suoi versi alluse mai alla sua condizione fisica…”. Passano gli anni e la vita di Nedda Falzolgher continua ad esprimersi attraverso la scrittura. Attraverso quei versi che vergava con la mano sinistra prediligendo l’inchiostro verde, e che portavano alla luce il suo mondo di emozioni in delicata sintonia con l’ambiente naturale: …Che ansia, allodola pura, questo palpito d’angelo sommerso che ha smarrito la vena dei venti; sul respiro del mondo senti ancora tutte le stelle mutar la tua voce in chiarore… * Superati i quarant’anni, Nedda Falzolgher, che aveva sino ad allora pubblicato soltanto su alcune antologie, decise di raccogliere le sue liriche in volume. Il libro, intitolato Fin dove il polline cade, uscì nel 1949 a cura dell’editore Ubaldini con prefazione del grande critico teatrale Silvio D’Amico (una prefazione procurata dalla famosa attrice Edda Albertini, anch’essa trentina, che aveva fatto parte del gruppo della “casa sul fiume” e aveva conservato con la poetessa un’amicizia affettuosa). Non furono in molti ad accorgersene: tra questi lo scrittore Bruno Cicognani e il già citato Alberto Frattini. Ma, al di là della disattenzione della critica, sono versi che esprimono una profonda ansia spirituale; versi che affidano al canto un dolore centellinato nelle sue pieghe più amare, per sublimarlo in una superiore intuizione di vita. Ora tu vedi queste mie canzoni simili tanto alle foglie che sperdi, amaro Iddio del silenzio. E sai che non hanno feste di sole perché di tutto il sole tu inondi la Terra dove cammina l’amore. Ascolta ancora, Dio, le sorgenti, e perdona, e nella mano portaci, col seme delle stagioni innocenti. * Nedda morì giovane, ad appena cinquant’anni. Dopo la sua morte, il padre affidò a Franco Bertoldi, docente universitario a Milano e Trento (anche lui del gruppo degli amici della “casa sul fiume”), l’incarico di ordinare e pubblicare in una antologia le poesie della Falzolgher. Il volume uscì nel 1957 per i tipi dell’editore Rebellato e fu intitolato Il libro di Nil (il soprannome con cui Nedda veniva chiamata dagli amici). In quest’opera postuma c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dalla quale proponiamo alcuni versi, rivelatori di uno stato d’animo contraddittorio: sentimento della vita che sfugge e sofferenza per ciò che non si è vissuto… Stasera io sono stanca delle tue mani lontane; stanca di grandi stelle disumane, com’è sazia l’agnella di erbe amare… * Trascorreranno ancora molti anni prima che la critica inizi ad accorgersi dell’opera della poetessa trentina. Nel 1978, edita dal Comune di Trento, uscì l’antologia Nedda Falzolgher, poesie e prose (1935-1952). Tre anni dopo, il noto critico letterario Vittoriano Esposito pubblicò un’importante monografia intitolata Il caso letterario di Nedda Falzolgher. Nel 1986 fu la volta di Marcella Uffreduzzi, qualificata studiosa della poesia d‘ispirazione cristiana del ‘900, che pubblicò un volume intitolato La casa sull’Adige, comprendente quasi ottanta poesie della Falzolgher, da cui emergono una grande forza interiore, una fede salda seppure inquieta, e una profonda spiritualità. E oggi? Oggi per fortuna c’è la rete, grande serbatoio di memoria collettiva, dove è possibile rintracciare importanti testimonianze sulla vita e l’opera di Nedda Falzolgher e leggere alcune delle sue raffinate composizioni liriche. Ed è appunto con una di queste composizioni che ci congediamo dai nostri lettori, nella speranza d’aver dato anche noi un piccolo contributo per la riscoperta di una delle più sensibili autrici del ‘900 letterario. Non ti darò contro il petto dolore più che il rigoglio delle fronde sciolte. Dammi tu spazio allora per questa morte: io non ho solco per vivere e non ho paradiso per morire; e sento in me stormire quest’agonia d’amore, bionda, contro la zolla che la ignora…
FONTE-ZENIT-
Zenit è una agenzia di informazione internazionale no-profit formata da una équipe di professionisti e volontari convinti che la straordinaria saggezza del Pontefice e della Chiesa cattolica, possa alimentare la speranza e aiutare l’umanità tutta a trovare verità, giustizia e bellezza. Il nostro obiettivo è quello di raccogliere e diffondere le informazioni con la massima professionalità, fedeltà e servizio alla verità. Attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie telematiche intendiamo far conoscere il “mondo visto da Roma”. Per questo motivo pubblichiamo e traduciamo le parole, i messaggi, i documenti, gli interventi, l’Angelus e l’Udienza generale del Romano Pontefice. Riportiamo e spieghiamo tutto quanto avviene nei Dicasteri della Curia Vaticana, Nelle Università Pontificie, nelle Conferenze Episcopali, nei santuari nelle Diocesi e nelle parrocchie. Segnaliamo e informiamo sui grandi avvenimenti religiosi nel mondo, sui temi, i dibattiti e gli eventi che interessano i cristiani, gli uomini di fede e non, dei cinque continenti. zenit realizza questo servizio in modo indipendente. Copertura Giornalistica La copertura garantita dai nostri servizi informativi si orienta soprattutto a: Le attività del Papa: viaggi apostolico, documenti, incontri con i Capi di Stato e personalità di rilievo nell’ambito sociale, culturale e religioso. L’informazione riguarda in particolare le attività del Santo Padre, così come i suoi interventi. Le sue parole costituiscono uno stimolo per la riflessione non solo dei cattolici. Interviste a uomini e donne della Chiesa, del mondo della politica e della cultura su temi di speciale interesse per l’umanità tutta. L’attualità internazionale, con particolare attenzione alle questioni rilevanti per il rispetto dei diritti umani, della pace e dello sviluppo ovunque nel mondo.
*Mirabile definizione della poetessa e scrittrice Nedda Falzolgher (Trento, 1906 – Trento, 1956), contenuta in una lettera indirizzata nel 1951 all’amica d’infanzia Edda Albertini.
Colpita dalla poliomielite all’età di 5 anni, l’autrice atesina fu costretta a trascorrere su una sedia a rotelle tutta la vita, fino alla precoce morte avvenuta a soli 50 anni a causa di un tumore.
Nonostante la malattia, si dedicò sempre con pienezza alla passione letteraria. La sua prima raccolta importante fu pubblicata nel 1949 a Roma dall’editore Ubaldini, con la prestigiosa prefazione del critico teatrale Silvio D’Amico procurata dalla succitata Edda Albertini, divenuta nel frattempo una grande attrice drammatica.
Racconta la giornalista Marianna Malpaga sul magazine Vita Trentina: “Nedda scriveva usando un inchiostro verde, il colore della natura, e rigorosamente con la mano sinistra, perché aveva il braccio destro paralizzato. Nella sua poesia, però, la disabilità non viene mai menzionata. Si avverte piuttosto un grido di amore verso la vita, un desiderio mai sazio di comprendere l’esistenza di ogni piccola parte del creato.”
Per il critico Alberto Frattini, “la voce di Nedda Falzolgher merita ascolto per la purezza e la limpidezza di accenti in cui l’angoscia di una vita stroncata nell’infanzia dal male fisico sa farsi toccante elegia.”
Nel 1975 il Comune di Trento le dedicò una via cittadina. Nel 2006, inoltre, per onorarne la memoria nel centenario della nascita, l’amministrazione locale collocò una targa commemorativa sulla facciata della sua casa natale, che riporta un’epigrafe composta con frammenti delle sue liriche: “In questa ‘casa a specchio sul fiume così sola nell’urlo delle piene’ visse la sua breve vita Nedda Falzolgher, col ‘corpo segnato in croce’ e ‘il canto di allodola pura’.”
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
LA POESIA DI NIL -Articolo di Felice Serino
Nedda Falzolgher, detta Nil, nasce il 26 febbraio 1906 a Trento, quando quella parte del territorio è ancora sotto il dominio austriaco. Il padre era un bancario e la madre di ricca famiglia. Primogenita, sensibile, intelligente, vive nei primi anni una vita serena e gioiosa. La bimba cresce bene fino all’età di cinque anni, quando inattesa la disgrazia viene a stravolgere il suo destino: è colpita da paralisi infantile, o più comunemente detta, poliomielite.
Ella si sente attratta per vocazione naturale verso la scrittura e la poesia; vocazione che rappresenta per il suo spirito sofferto una specie di resurrezione.
“Nil non poteva andare verso le cose, ma le cose venivano a lei a cimentare la sua forza e la sua gioia, e tutto la investiva e subito l’abbandonava, lasciando segni di grazia sulla sua anima con il moto dell’onda marina che scrive parole di vita su tutta la riva” (da Il libro di Nil).
I genitori cercano di renderle la vita meno disagevole possibile. La mamma la incoraggia in quella sua insaziabile sete di cultura che la indirizza verso la scrittura alimentando il suo mondo interiore. Nedda apprenderà ad uscire da quel mondo circoscritto dalle pareti di casa per conoscere il mondo esterno, perseguendo il raggiungimento di un ideale superiore.
Dall’età di 27 anni, ella riceve in casa amici poeti e artisti, e la sua dimora diviene presto un punto d’incontro culturale. Fra i giovani frequentatori c’è un ragazzo, Franco Bertoldi, che resterà per lei un amore impossibile.
“Non ti darò contro il petto dolore
più che il rigoglio delle fronde sciolte.
Dammi tu spazio allora per questa morte:
io non ho solco per vivere
e non ho paradiso per morire;
e sento in me stormire
quest’agonia d’amore,
bionda, contro la zolla che la ignora…”.
Nella sua opera Il libro di Nil, pubblicato postumo dal padre, c’è una sezione di poesie intitolata Ritmi dell’infinito, dove si leggono versi scritti durante la guerra.
“Stasera io sono stanca
delle tue mani lontane;
stanca di grandi stelle disumane,
com’è sazia l’agnella di erbe amare…”.
Il 2 settembre 1943 Trento fu bombardata e Nedda fu salvata dalle macerie, insieme ai genitori. In seguito, la ragazza inizierà una corrispondenza con Domenico, suo salvatore e amico, facente parte di un servizio di volontariato. Lo spirito altruistico e la bontà di Domenico fanno sì che Nedda si avvicini ad una dimensione spirituale personale intensa.
“Ma una luce è posata sulle cose,
come la carità senza parola;
e ogni vita attende sola
che la raccolga con gesto d’amore”.
La guerra termina e la ragazza può tornare a casa. Intanto la madre da tempo malata, viene a mancare nel settembre del ’50.
“T’amo, Signore, per la muta passione delle rose.
T’amo per le cose della vita leggere,
le cose che sognano i morti la sera
dentro la terra calda,
sotto il limpido brivido degli astri.
Ma più t’amo, Signore per la misericordia
delle tue grandi campane
che portano nel vento
verso l’anima della sera
la nostra povera preghiera”.
Nedda ha sempre continuato a scrivere nel trascorrere degli anni. Ora, sente la vita sfuggirle e soffre per quel che non ha vissuto.
“Ora tu vedi queste mie canzoni
simili tanto alle foglie che sperdi,
amaro Iddio del silenzio.
E sai che non hanno feste di sole
perché di tutto il sole tu inondi
la Terra dove cammina l’amore”.
“Ascolta ancora, Dio,
le sorgenti, e perdona,
e nella mano portaci, col seme
delle stagioni innocenti”.
Nedda Falzolgher -poetessa e scrittrice italiana-
Nil rende lo spirito il 2 marzo ’56, a 50 anni.
Chiudiamo questo breve excursus con dei versi stupendi, nati da quest’anima candida:
“…Che ansia, allodola pura,
questo palpito d’angelo sommerso
che ha smarrito la vena dei venti;
sul respiro del mondo senti
ancora tutte le stelle
mutar la tua voce in chiarore…”.
[Notizie liberamente tratte da: Nedda Falzolgher – la poesia, la vita, Isa Zanni, Linguaggio Astrale n. 136/04]
Bibliografia
Nedda Falzolgher: poesia e spiritualità, edizione Comune di Trento 1990
Nedda Falzolgher: il cuore, la poesia, edizione Comune di Trento 1990
Natalia Ginzburg -Vita immaginaria –Nuova edizione a cura di Domenico Scarpa
Tutto ciò che Natalia Ginzburg evoca e descrive succede in noi come per la prima volta: Vita immaginaria è un libro di sveglia e di veglia, una prima volta che dura per sempre.
Il libro-Il meno conosciuto fra i libri di Natalia Ginzburg – la sua terza raccolta di scritti non narrativi, apparsa nel 1974 e mai piú ristampata finora – è anche il piú multiforme di tutti, e il piú pervicacemente battagliero. A dargli il titolo è un memorabile esercizio di autobiografia, collocato in chiusura; ma quel titolo cosí assorto e sfumante, Vita immaginaria, è anche un titolo da interpretare a rovescio: perché, di fatto, in ciascuno dei trenta testi qui radunati Natalia Ginzburg interviene, con la esitante perentorietà che rende unica la sua voce, sulla vita reale dell’oggi, di un oggi che porta date di mezzo secolo fa ma sul quale ascolteremo cose che valgono per il nostro qui-e-ora, cosí diversamente complesso ma cosí simile nelle opzioni estetiche, nelle scelte morali, nei tragici dilemmi politici che impone a ciascuno di noi.
Natalia Ginzburg
La condizione delle donne negli anni del femminismo, e quella degli ebrei e dello Stato di Israele; la bellezza e l’orrore di Roma, e la fragilità di una democrazia (la nostra) sempre sotto minaccia; alcuni scrittori da amare (Goffredo Parise, Antonio Delfini, Biagio Marin, Tonino Guerra, Italo Calvino, Lalla Romano, Elizabeth Smart, ed Elsa Morante della Storia sopra tutti); alcuni film (Sussurri e grida, Amarcord, Domenica maledetta domenica) visti con l’occhio di scrittrice; le biografie di alcuni amici (Cesare Pavese, Felice Balbo); e poi, ancora, la nostra incertezza e la nostra necessità di scegliere; la memoria dell’infanzia, da decifrare, e la vita dei figli adulti, che suscita meraviglia e insicurezza. Infine, sempre presenti, quel senso di soddisfazione che ci può addormentare, le varie specie di linguaggio falso che vanno sempre piú proliferando, la libertà che si può perdere da un momento all’altro e gli orrori della storia contemporanea ai quali ci si abitua a poco a poco, senza rendersene conto, ed è su questo vertice negativo che culmina il tutto. Non per niente, infatti, Natalia Ginzburg aveva pensato, mentre andava costruendo Vita immaginaria, di scegliere un titolo completamente diverso: Il disumano.
Natalia Levi nacque il 14 luglio del 1916 a Palermo, figlia di Giuseppe Levi, illustre scienziato triestinoebreo, e di Lidia Tanzi, milanesecattolica, sorella di Drusilla Tanzi. Il padre era professore universitario antifascista e insieme ai tre fratelli di lei sarà imprigionato e processato con l’accusa di antifascismo. I genitori diedero a Natalia e ai fratelli un’educazione atea.
Formazione e attività letteraria
Natalia trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Torino. Della sua prima giovinezza raccontò lei stessa in alcuni testi autobiografici pubblicati soprattutto in età avanzata, fra cui I baffi bianchi (in Mai devi domandarmi, 1970). Compì gli studi elementari privatamente, trascorrendo quindi in solitudine la sua infanzia; sin dalla tenera età si dedicò alla scrittura di poesie. Si iscrisse poi al Liceo – Ginnasio Vittorio Alfieri,[2] vivendo come un trauma il passaggio alla scuola pubblica. Già nel periodo liceale si dedicò alla stesura di racconti e testi brevi, primo fra tutti Un’assenza (la sua «prima cosa seria»), poi pubblicato sulla rivista Letteratura negli anni Trenta. Abbandonò invece la poesia; a tredici anni aveva fra l’altro spedito alcuni suoi componimenti a Benedetto Croce, che espresse un giudizio negativo su di essi.[3]
Esordì nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato dalla rivista “Solaria“, e nel 1938 sposò Leone Ginzburg, col cui cognome firmerà in seguito tutte le proprie opere. Dalla loro unione nacquero due figli e una figlia: Carlo (Torino, 15 aprile 1939), che diverrà un noto storico e saggista, Andrea (Torino, 9 aprile 1940 – Bologna, 4 marzo 2018) e Alessandra (Pizzoli, 20 marzo 1943). In quegli anni strinse legami con i maggiori rappresentanti dell’antifascismo torinese e in particolare con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933.
Nel 1940 seguì il marito, inviato al confino per motivi politici e razziali, a Pizzoli in Abruzzo, dove rimase fino al 1943.
Nel 1942 scrisse e pubblicò, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il primo romanzo, dal titolo La strada che va in città, che verrà ristampato nel 1945 con il nome dell’autrice.
In seguito alla morte del marito, torturato e ucciso nel febbraio del 1944 nel carcere romano di Regina Coeli, nell’ottobre dello stesso anno Natalia giunse a Roma, da poco liberata, e si impiegò presso la sede capitolina della casa editrice Einaudi. Nell’autunno del 1945 ritornò a Torino, dove rientrarono anche i suoi genitori e i tre figli, che durante i mesi dell’occupazione tedesca si erano rifugiati in Toscana.
Nel 1947 esce il suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario “Tempo”.
In quello stesso periodo, come ha rivelato Primo Levi a Ferdinando Camon in una lunga conversazione diventata un libro nel 1987 e poi lo stesso Giulio Einaudi in una intervista televisiva, diede parere negativo alla pubblicazione di Se questo è un uomo di Primo Levi. Il libro uscirà per una piccola casa editrice, la De Silva di Franco Antonicelli, in 2500 copie, e solo nel 1958 verrà riproposto da Einaudi diventando il grande classico che conosciamo.
Nel 1950 sposò l’anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra, con il quale concepirà la figlia Susanna (4 settembre 1954 – 15 luglio 2002) e il figlio Antonio (6 gennaio 1959 – 3 marzo 1960), entrambi portatori di handicap. Iniziò per Natalia un periodo ricco in termini di produzione letteraria, che si rivelò prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell’indagine psicologica. Nel 1952 pubblicò Tutti i nostri ieri; nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vinse il premio Viareggio,[4] e il romanzo Sagittario; nel 1961Le voci della sera che, insieme al romanzo d’esordio, verrà successivamente raccolto nel 1964 nel volume Cinque romanzi brevi.
Nel decennio successivo seguirono, nella narrativa, i volumi Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. In questo periodo Natalia Ginzburg fu anche collaboratrice assidua del Corriere della Sera, che pubblicò numerosi suoi elzeviri su argomenti di critica letteraria, cultura, teatro e spettacolo. Tra questi, una sua lettura critica, con uno sguardo al femminile, del film Sussurri e grida[6] ottenne un forte riscontro nel panorama letterario e culturale nazionale, divenendo un punto di riferimento per la critica bergmaniana.[7]
Nella successiva produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada di Swann di Proust, ripropose in modo più approfondito i temi del microcosmo familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del 1977, il romanzo epistolare La città e la casa del 1984, oltre al volume del 1983 La famiglia Manzoni, visto in una prospettiva saggistica.
È l’anno 1969 a costituire un punto di svolta nella vita della scrittrice: il secondo marito morì e, mentre cominciava in Italia, con la strage di piazza Fontana, il periodo cosiddetto della strategia della tensione, la Ginzburg intensificò il proprio impegno dedicandosi sempre più attivamente alla vita politica e culturale del Paese,[8] in sintonia con la maggioranza degli intellettuali italiani militanti orientati verso posizioni di sinistra.
Nel 1971 sottoscrisse, assieme a numerosi intellettuali, autori, artisti e registi,[9] la lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli,[10] documento attraverso cui si denunciano, riguardo alla morte di Giuseppe Pinelli, le presunte responsabilità dei funzionari di polizia della questura di Milano (con particolare riferimento al commissario Luigi Calabresi). Tale adesione verrà più volte ricordata dalla stampa in seguito al matrimonio della nipote della Ginzburg, Caterina, con Mario Calabresi, figlio del commissario nel frattempo assassinato. Nello stesso anno si unì ai firmatari di un’autodenuncia di solidarietà verso alcuni giornalisti di Lotta Continua accusati di istigazione alla violenza.[11]
Nel 1976 partecipò alla campagna innocentista in favore di Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono,[12] i due militanti di Potere Operaio che saranno poi condannati per i reati a loro imputati (tra cui l’omicidio dello studente nazionalista greco Mikis Mantakas).
Il 25 marzo 1988 scrisse per L’Unità un articolo divenuto famoso, dal titolo: Quella croce rappresenta tutti,[13] difendendo la presenza del simbolo religioso nelle scuole e opponendosi alle contestazioni di quegli anni.
Morte
Morì a Roma nelle prime ore dell’8 ottobre 1991. È sepolta al cimitero del Verano di Roma.
Opere
Raccolte
Cinque romanzi brevi, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 1964 (contiene: La strada che va in città; È stato così; Valentino; Sagittario; Le voci della sera); col titolo Cinque romanzi brevi e altri racconti, Introduzione di Cesare Garboli, Collana ET, Einaudi, 1993; Collana ET Scrittori, Einaudi, 2005.
Opere, vol. I, Prefazione di C. Garboli, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1986, ISBN 978-88-042-5910-7. [contiene: La strada che va in città, È stato così, Racconti brevi, Valentino, Tutti i nostri ieri, Sagittario, Le voci della sera, Le piccole virtù, Lessico Famigliare, Commedie]
Opere, vol. II, Collana I Meridiani, Mondadori, Milano, 1987, ISBN 978-88-042-5910-7. [contiene: Mai devi domandarmi, Paese di mare, Caro Michele, Vita immaginaria, La famiglia Manzoni, Scritti sparsi, La città e la casa, Famiglia]
Marcel Proust, poeta della memoria, in Giansiro Ferrata e Natalia Ginzburg, Romanzi del ‘900, vol. I, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1956.
Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962; nuova ed., a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, 2005.
Mai devi domandarmi, Garzanti, Milano, 1970; poi Einaudi, Torino, 1989; dal 2002 con introduzione di Cesare Garboli [raccoglie articoli pubblicati su La Stampa e Corriere della Sera negli anni 1968-1970, con alcuni scritti inediti]
Vita immaginaria, Collana Scrittori italiani e stranieri, Milano, Mondadori, 1974; nuova ed., a cura di Domenico Scarpa, Collana Super ET, Torino, Einaudi, 2021, ISBN 978-88-062-0546-1. [raccoglie articoli pubblicati su La Stampa e Corriere della sera negli anni 1969-1974, con un inedito]
Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi, Torino, 1990.
È difficile parlare di sé. Conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi, a cura di Cesare Garboli e Lisa Ginzburg, Einaudi, Torino 1999. [contiene un’intervista autobiografica andata in onda a Radio 3 nella primavera del 1991]
Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino, 2001. [raccoglie scritti di letteratura e di cinema, ricordi di amici scomparsi, pronunciamenti su questioni morali, interventi politici e una Autobiografia in terza persona]
Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988, a cura di Domenico Scarpa, Einaudi, Torino 2016. [contiene, tra le altre cose, alcuni reportage giornalistici, la poesia Memoria e il Discorso sulle donne]
Teatro
Ti ho sposato per allegria, Torino, Einaudi, 1966.
Ti ho sposato per allegria e altre commedie, Torino, Einaudi, 1968 [contiene: Ti ho sposato per allegria; L’inserzione; Fragola e panna; La segretaria]
Paese di mare e altre commedie, Milano, Garzanti, 1971 [contiene: Dialogo; Paese di mare; La porta sbagliata; La parrucca]
Teatro, Nota di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 1990 [contiene i testi della raccolta Paese di mare e altre commedie preceduti da L’intervista e La poltrona]
Tutto il teatro, a cura di Domenico Scarpa, Nota di N. Ginzburg, Torino, Einaudi, 2005. [contiene i testi delle raccolte Ti ho sposato per allegria e altre commedie e Teatro, seguiti da Il cormorano]
Torino, Bologna e Castel Maggiore (BO), Pizzoli (AQ) le hanno intitolato una biblioteca.
Nel 2014, in occasione del XXIII anniversario della sua morte, la città di Torino ha posto sulla sua abitazione, al numero 11 di via Morgari, una lapide commemorativa, intitolandole, nel contempo, l’aiuola antistante, tra via Morgari e via Belfiore.
Nel 2016, per il centenario della sua nascita, la città di Palermo ha collocato una targa sulla sua casa natale, in via Libertà 101.
Natalia GinzburgLeone e Natalia GinzburgNatalia GinzburgNatalia Ginzburg
Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni settanta, nonché figura a tratti controversa, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della società dei consumi allora nascente in Italia (in tal senso definì i membri della borghesia italiana “bruti stupidi automi adoratori di feticci”), così come anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti (definì questi ultimi “figli di papà” e il Sessantotto un evidente episodio di “sacro teppismo di eletta tradizione risorgimentale”). Il suo rapporto con la propria omosessualità fu al centro del suo personaggio pubblico.[8] Pier Paolo Pasolini, primogenito dell’ufficiale di fanteria bolognese Carlo Alberto Pasolini e della maestra friulana Susanna Colussi di Casarsa della Delizia, nacque nel quartiere Santo Stefano di Bologna il 5 marzo 1922,[9] in via Borgonuovo 4, dove ora c’è una foresteria militare e una targa in marmo che lo ricorda.[10]
Suo nonno Gaspare Argobasto Pasolini, nato nel 1845, era imparentato al ramo secondario dei Pasolini dall’Onda, un’antica famiglia nobile ravennate.[11][12][13][14] Sia il nonno Argobasto che il padre Carlo Alberto erano amanti del gioco d’azzardo, passione che porterà la famiglia alla rovina economica.[15]
Pier Paolo Pasolini
A causa dei frequenti trasferimenti del padre, la famiglia, che da Bologna si era già trasferita a Parma, nel 1923 si stabilì a Conegliano e nel 1925 a Belluno, dove nacque il fratello Guido Alberto. A Belluno venne mandato all’asilo dalle suore, ma dopo pochi giorni si rifiutò di andarci e la famiglia acconsentì.[16] Nel 1927 i Pasolini furono nuovamente a Conegliano, dove Pier Paolo venne iscritto alla prima elementare, non avendo ancora compiuto sei anni.
L’anno successivo traslocarono a Casarsa della Delizia, in Friuli, ospiti della casa materna, poiché il padre era agli arresti per alcuni debiti.[17] La madre, per far fronte alle difficoltà economiche, riprese l’insegnamento. Terminato il periodo di detenzione del padre, ricominciarono i trasferimenti a un ritmo quasi annuale. Fondamentali rimasero i soggiorni estivi a Casarsa.
Pier Paolo Pasolini
«… vecchio borgo… grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana.[18]»
Nel 1929 i Pasolini si spostarono nella vicina Sacile, sempre in ragione del mestiere del capofamiglia, e in quell’anno Pier Paolo aggiunse alla sua passione per il disegno quella della scrittura, cimentandosi in versi ispirati ai semplici aspetti della natura che osservava a Casarsa.[19] Dopo un breve soggiorno a Idria, in Venezia Giulia (oggi in Slovenia), la famiglia ritornò a Sacile, dove Pier Paolo affrontò l’esame di ammissione al ginnasio. Venne rimandato in italiano, per poi superare la prova a ottobre.[19] A Conegliano cominciò a frequentare la prima classe, ma a metà dell’anno scolastico 1932-1933 il padre fu trasferito a Cremona, dove la famiglia rimase fino al 1935 e Pier Paolo frequentò il Liceo Ginnasio Daniele Manin.[20] Fu questo un triennio di intense fascinazioni e di un precoce ingresso nell’adolescenza, come testimonia il vibrante tratto autobiografico Operetta marina, scritto alcuni anni più tardi e pubblicato postumo insieme a Romàns.
Successivamente il padre ebbe un nuovo trasferimento a Scandiano, con gli inevitabili problemi di adattamento per il tredicenne, causati anche dal cambiamento di ginnasio a Reggio Emilia, che raggiungeva in treno.[19]
PIER PAOLO PASOLINI
In Pier Paolo crebbe la passione per la poesia e la letteratura, mentre lo abbandonava il fervore religioso del periodo dell’infanzia. Completato il ginnasio a Reggio Emilia, frequentò il Liceo Galvani di Bologna, dove incontrò il primo vero amico della giovinezza, il reggiano Luciano Serra. A Bologna, dove avrebbe trascorso sette anni, Pier Paolo coltivò nuove passioni, come quella del calcio, e alimentò la sua passione per la lettura comprando numerosi volumetti presso le bancarelle di libri usati sotto il portico della Libreria Nanni, circa di fronte a piazza Maggiore. Le letture spaziavano da Dostoevskij, Tolstoj e Shakespeare ai poeti romantici del periodo di Manzoni.[19]
Al Liceo Galvani di Bologna fece conoscenza con altri amici, tra i quali Ermes Parini, Franco Farolfi, Sergio Telmon,[21]Agostino Bignardi, Daniele Vargas, Elio Melli, e con loro costituì un gruppo di discussione letteraria. Intanto la sua carriera scolastica proseguiva con eccellenti risultati e nel 1939 venne promosso alla terza liceo con una media tanto alta da indurlo a saltare un anno per presentarsi alla maturità in autunno. Si iscrisse così, a soli diciassette anni, alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna e scoprì nuove passioni culturali, come la filologia romanza e soprattutto l’estetica delle arti figurative, insegnata al tempo dall’affermato critico d’arte Roberto Longhi,[22] laureandosi con lode.[23][24]
Pier Paolo Pasolini
Frequentava intanto il Cineclub di Bologna, dove si appassionò al ciclo dei film di René Clair; si dedicò allo sport e fu nominato capitano della squadra di calcio della Facoltà di Lettere;[22] faceva gite in bicicletta con gli amici e frequentava i campeggi estivi che organizzava l’Università di Bologna. Con gli amici – l’immagine da offrire ai quali era sempre quella del “noi siamo virili e guerrieri”, perché non percepissero nulla dei suoi travagli interiori – si incontrava, oltre che nelle aule dell’Università, anche nei luoghi istituiti dal regime fascista per la gioventù, come il GUF, i campeggi della “Milizia”, le competizioni dei Littoriali della cultura.[22] Procedevano in questo periodo le letture delle Occasioni di Montale, di Ungaretti e delle traduzioni dei lirici greci di Quasimodo, mentre fuori dall’ambito poetico leggeva soprattutto Freud e ogni cosa che fosse disponibile in traduzione italiana.[22]
Pier Paolo Pasolini
Nel 1941 la famiglia Pasolini trascorse come ogni anno le vacanze estive a Casarsa e Pier Paolo scrisse poesie che allegava alle lettere per gli amici bolognesi tra i quali, oltre l’amico Serra, erano inclusi Roberto Roversi e il cosentinoFrancesco Leonetti, verso i quali sentiva un forte sodalizio:
«L’unità spirituale e il nostro modo unitario di sentire sono notevolissimi, formiamo già cioè un gruppo, e quasi una poetica nuova, almeno così mi pare.[25]»
Il padre era stato richiamato in servizio ed era partito per l’Africa Orientale, dove verrà fatto prigioniero dagli inglesi.[26] I quattro giovani pensarono di fondare una rivista dal titolo Eredi alla quale Pasolini volle conferire un programma sovraindividuale:
«Davanti a Eredi dovremo essere quattro, ma per purezza uno solo.[25]»
La rivista non vedrà la luce a causa delle restrizioni ministeriali sull’uso della carta, ma quell’estate del 1941 rimarrà per i quattro amici indimenticabile. Cominciarono intanto ad apparire nelle poesie di Pasolini alcuni frammenti di dialogo in friulano, anche se le poesie inviate agli amici continuavano a essere composte da versi improntati alla letteratura in lingua italiana.
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini- da “Le ceneri di Gramsci”
“Uno straccetto rosso, come quello
arrotolato al collo ai partigiani
e, presso l’urna, sul terreno cereo,
diversamente rossi, due gerani.
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
non cattolica, elencato tra estranei
morti: Le ceneri di Gramsci… Tra
speranza
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
per caso in questa magra serra, innanzi
alla tua tomba, al tuo spirito restato
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
di diverso, forse, di più estasiato
e anche di più umile, ebbra simbiosi
d’adolescente di sesso con morte…)
E, da questo paese in cui non ebbe posa
la tua tensione, sento quale torto
– qui nella quiete delle tombe – e insieme
quale ragione – nell’inquieta sorte
nostra – tu avessi stilando le supreme
pagine nei giorni del tuo assassinio.”
– Pier Paolo Pasolini, da “Le ceneri di Gramsci”-Pier Paolo PASOLINI
-Poetessa-Deportata ad Auschwitz sopravvissuta alla Shoah :”Testimonierò finché avrò fiato “
Roma- Intervista ad Edith Bruck, scrittrice, poetessa e sopravvissuta alla Shoah. Deportata ad Auschwitz quando aveva solo 13 anni ha dedicato decine di opere a raccontare la sua storia-Il 29 ottobre, presso il Centro bibliografico dell’ebraismo italiano “Tullia Zevi” a Roma, si è svolto l’evento di avvio della seconda edizione del progetto didattico «Tra Resistenza e Resa. Per sopravvivere Liberi! 80 voglia di libertà!», promosso dalla Commissione storica dell’Ucebi e dalla Fondazione Cdec. A quell’evento è intervenuta la scrittrice, poetessa, testimone della Shoah, Edith Bruck a cui abbiamo rivolto alcune domande.
– Nella sua scrittura convivono due lingue: quella dell’infanzia, l’ungherese, e quella dell’età adulta, l’italiano. Per raccontare la sua vita, ha scelto l’italiano. Che cosa l’ha spinta a fare questa scelta?
«Voglio dire subito che non ho mai scelto nulla nella vita, non avevo la possibilità di scegliere. Sono arrivata in Italia nel 1954, dopo tantissimi pellegrinaggi, passando per i campi di concentramento, e vagabondando per l’Europa distrutta. Sono arrivata per puro caso a Napoli e lì ho avuto una sensazione molto strana. La gente mi guardava, mi sorrideva, e mi sembrava che mi stessero dicendo: “Rimani qui!”. È stata una sensazione che non posso spiegare bene, ma sentivo che in quel paese avrei potuto vivere. Così sono rimasta. Mi sono trasferita a Roma, ho fatto vari lavori, e ho preso lezioni di grammatica italiana. Lentamente ho imparato la lingua. Devo precisare che prima di scrivere il mio primo libro in italiano, avevo scritto in ungherese nel 1946 Chi ti ama così. Quando sono uscita dall’Ungheria, l’ho fatto clandestinamente. Dopo la guerra, al ritorno dai campi, ho trovato un paese che viveva sotto il comunismo, che non era certo migliore del fascismo. Così ho lasciato l’Ungheria e ho dovuto abbandonare le poche cose che avevo scritto in ungherese, tra cui anche quel mio primo scritto. Dopo essere arrivata in Italia, ho pubblicato il mio primo libro in italiano nel 1959, un’autobiografia. Scrivere è stato un atto necessario per me: scoppiavo di parole, avevo bisogno di liberarmi da quell’inferno che rischiava di rimanere dentro di me per sempre».
– Quale significato attribuisce alla lingua italiana?
«Innanzitutto, per me essa rappresenta una salvezza, una barriera protettiva. Nella lingua materna sono stata offesa, umiliata, insultata. Nel ’42, non potevamo nemmeno uscire per strada senza rischiare di essere aggrediti o insultati. Nel 1944, non furono i tedeschi ma i fascisti ungheresi, le croci frecciate, a bussare alla nostra porta e a deportarci. Avevo solo 13 anni quando un ragazzino in divisa da gendarme, che non arrivava ai 20 anni, schiaffeggiò mio padre, che non aveva nemmeno 50 anni. In quel momento capii che qualcosa era finito per sempre. Sono stata prima ad Auschwitz, poi ci trasferirono a Bergen-Belsen, attraverso le famose marce della morte. Partimmo in mille, ma arrivammo vive in meno di 50. Ci portarono in un campo degli uomini, una “tenda della morte”, dove il pavimento era coperto di cadaveri. Lì alcuni uomini morenti mi dissero: “Se sopravvivi, racconta. Non ci crederanno, racconta anche per noi”. Promisi che l’avrei fatto. La mia sopravvivenza è stata anche una testimonianza per quelli che non hanno potuto raccontare. Per me testimoniare è un dovere morale, e continuerò a farlo finché avrò fiato».
– In Ungheria, le leggi razziali precedettero quelle italiane di due anni. Come vede la situazione attuale in Ungheria e in Europa?
«È triste constatare che l’antisemitismo è ancora presente, anche in Ungheria, dove il governo di Orbán alimenta una politica di chiusura. In tutta Europa, vediamo risorgere i partiti di destra e i movimenti che rievocano ideologie pericolose. La situazione mi preoccupa molto, ma continuerò a testimoniare la mia esperienza, a raccontare, perché credo che ogni vita sia preziosa e che nessuno debba mai dimenticare quello che è accaduto».
– Lei è anche traduttrice, grazie al suo lavoro molti italiani hanno conosciuto i poeti ungheresi Miklós Radnóti e Attila József…
«Tradurre è un lavoro difficile, perché bisogna entrare nello spirito della poesia. Miklós Radnóti è stato una grande fonte di ispirazione per me. Quando ho tradotto la sua poesia, ho sentito che, pur nel dolore e nella morte, c’era una ricerca di speranza. Tradurre queste voci è stato un modo per farle vivere ancora, per farle arrivare anche agli italiani».
– Quali sono le sue prossime pubblicazioni?
«È uscito da pochi giorni libro Oltre il male, scritto con Andrea Riccardi, edito da Laterza. Poi, nel 2025, pubblicherò una nuova raccolta di poesie dal titolo Le dissonanze. Si tratta di una raccolta suddivisa in due parti. La prima è sempre legata alla memoria di mia madre, di mio padre, e di mio fratello, che non ha mai scritto e ha parlato della tragica esperienza dei campi di concentramento solo una volta. Dopo la guerra, gli chiesi perché non riuscisse a raccontare. Alla fine, con molta difficoltà e una voce flebile, trovò il coraggio di dire che una volta, al suo ritorno da una giornata di lavoro forzato, vide che il giaciglio di mio padre era vuoto. Chiese al medico: “Dov’è mio padre?”, ed egli rispose che quel giorno erano morti tanti prigionieri, e che poteva andare fuori a cercarlo. Mio fratello ritrovò mio padre tra i cadaveri: l’aveva abbracciato, gli aveva chiuso gli occhi e aveva cercato uno straccio per coprirlo, perché era nudo. Poi lo lasciò lì, tra centinaia di corpi. Mio fratello raccontò questa storia una sola volta, e non abbiamo saputo mai nulla della sua esperienza nei campi: né cosa pensava né come sopportava le sofferenze di quei giorni. Aggiunse solo: “Non chiedetemi mai più niente”.
Nella seconda parte della raccolta, invece, parlo delle molestie sessuali che ho subito in passato, senza fare riferimenti espliciti ai nomi, ma evocando personaggi noti tra cui uno scrittore, un regista, un giornalista, uomini molto noti in Italia, che si sono comportati in modo indegno. Continuerò a testimoniare per tutta la vita che mi resta, dando voce a chi ha vissuto ciò che ho vissuto io: non solo mio fratello ma i tanti milioni di persone uccise dalla furia nazifascista. Credo che ogni vita sia preziosa e che sia importante raccontare, affinché non si dimentichi».
Articolo e intervista di Deborah D’Auria-
Fonte –Riforma .it- Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia.
Non ci lasceremo mai. Nella Resistenza e nella memoria- articolo di Amalia Perfetti
Questo è un libro prezioso, come lo sono i libri che raccontano le storie delle donne e degli uomini che hanno partecipato alla lotta di Liberazione del nostro Paese. Questo vale per chi scrive, ma penso di poter parlare anche a nome di quante e quanti come me hanno l’onore di conoscere Iole Mancini. Feltrinelli Editore “Un Amore partigiano” ha però un valore aggiunto. Tante volte abbiamo sentito questa straordinaria ragazza di 102 anni raccontare dei terribili giorni a via Tasso; tante volte l’abbiamo sentita descrivere la “fame nera” di quei nove lunghissimi mesi dell’occupazione di Roma, ma anche dell’amore per il suo Ernesto, Ernesto Borghesi, uno dei gappisti romani. Ed è bello sapere che ora i ricordi di Iole sono anche lì, nero su bianco, e possiamo condividerli tutte le volte che vogliamo.
Iole Mancini.Un amore partigiano
L’amore per Ernesto è il protagonista principale del libro, è il titolo a segnalarcelo subito e lei ci tiene moltissimo. Un sentimento nato in vacanza, in spiaggia, come nascono tanti amori. Era l’estate del 1937, alle Grotte di Nerone di Anzio, Iole aveva 17 anni. Ricorda tutto di quel momento e lo racconta a Concetto Vecchio che in questo libro ha raccolto le memorie di Iole. E questa è un po’ una storia nella storia: quella dell’incontro tra il giornalista e la partigiana. Quella tra Vecchio e Mancini doveva essere un’intervista per il 25 aprile del 2021 ma si è trasformata in un libro e in un’amicizia. Mesi di incontri, chiacchierate, ricordi, fotografie, letture, ricerche. Nel volume ritroviamo insieme alla narrazione della storia di Iole e di Ernesto, quella dei mesi della lotta di Liberazione a Roma e dell’amicizia che nasce tra il 2021 e il 2022 e si cementa a ogni presentazione. Lo abbiamo visto alla prima che si è svolta a Roma, presso la Casa della memoria e della storia, lo scorso 29 aprile e a quella di Colleferro il 3 giugno successivo. Tra loro è un dialogo che sul filo del racconto, del ricordo e dell’intesa continua oltre il libro. In qualche modo il libro, che pure è intenso, ricco di particolari, emozionante, è come se fosse l’inizio di un ragionamento ininterrotto.
Iole è generosa e attenta nel libro come nelle presentazioni (che ha fatto e vuole continuare a fare) nelle quali con i suoi occhi vispi cerca lo sguardo delle ragazze e dei ragazzi. Ed è a loro che vuole parlare in particolare: “raccontare quelle terribili storie, quei mesi così crudeli è importante – inizia così l’intervento di Iole nella presentazione romana –, perché i giovani non lo sanno, non conoscono la Resistenza e allora bisogna spiegare a loro com’era nata, come si è sviluppata in tutta Italia spontaneamente”, o ancora come scrive nel libro che “i giovani devono capire cos’è la dittatura, che può sempre tornare, sotto altre forme. Non immaginano neanche minimamente quel che abbiamo patito nei nove mesi dell’occupazione nazifascista, che tempo infame!”.
Il libro è un continuo intreccio tra la storia d’amore di Iole ed Ernesto e le azioni coraggiose dei gappisti romani, di una città che si ribella e fa rete; e poi gli arresti, le fucilazioni, l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Iole ed Ernesto si sposano “nell’ora più buia di Roma” il 5 marzo 1944: pochi giorni prima era stata uccisa Teresa Gullace, qualche giorno dopo, il 7 marzo, a Forte Bravetta sarebbero stati fucilati per rappresaglia dieci partigiani, tra i quali Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Toto Bussi. Erano giorni di paura e fame, resta difficile per noi oggi pensare di sposarsi proprio in quel clima. “Perché – chiede Vecchio a Iole Mancini – celebrare il matrimonio proprio in quel momento livido, con gli Alleati sbarcati ad Anzio da due mesi ma incapaci di avanzare verso la Capitale? I nazisti, sempre più efferati, davano la caccia agli oppositori con rastrellamenti a tutte le ore”. “Proprio per questo! – risponde la partigiana – per essere almeno marito e moglie nel caso fosse avvenuto l’irreparabile”.
Per Iole ed Ernesto non avvenne l’irreparabile, ma furono mesi sempre più difficili, segnati prima l’arresto di lui poi dalla fuga e poco dopo dall’arresto di Iole che finisce a via Tasso per 10 lunghissimi giorni: lei resiste, non parla, continua a dire – è Priebke a interrogarla – che Ernesto “sta a regina Coeli”.
Arriverà il 4 giugno 1944, la Liberazione di Roma. Sarà il destino a salvare Iole, ma è una storia, questa, che si deve leggere o ascoltare con le parole di una testimone straordinaria di mesi difficili, lunghissimi, ma nei quali si costruiva la libertà. E Iole ricorda sempre che “la libertà è una parola per me preziosa, perché significa la vita”. In questo libro di vita ce n’è tanta, quella difficile dei tempi difficili e bui nei quali però mai era venuta meno la speranza di un mondo migliore. Le parole di Iole ci invitano a continuare a farlo e a non abbassare mai la guardia, a partecipare.
Abbiamo bisogno di leggere e conoscere storie come quelle di Iole Mancini, che magari faranno venire la voglia di saperne di più e di guardare le città e i luoghi in cui viviamo con occhi diversi e riconoscenti, proprio come dice Concetto Vecchio parlando di Roma dopo averla “percorsa” attraverso gli occhi di Iole e di quante e quanti hanno raccontato quei mesi terribili sì, ma di solidarietà, speranze, coraggio e amore.
Amalia Perfetti, presidente della sezione Anpi Colleferro “La Staffetta Partigiana” e componente della presidenza Anpi provinciale di Roma-
Fonte–Patria Indipendente- Periodico dell’ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
ANPI –Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Foto Gallery
Roma, Casa della memoria e della storia. Al centro Iole Mancini e Concetto Vecchio, con loro Marina Pierlorenzi, vicepresidente comitato provinciale Anpi Roma, che ha moderato l’incontro, e Fabrizio De Sanctis, presidente del comitato provinciale Anpi Roma e dirigente nazionale dell’associazione dei partigiani-Colleferro (RM). Iole Mancini e Concetto Vecchio insieme ad Amalia Perfetti (in piedi con il fazzoletto Anpi al collo), presidente della sezione locale dei partigiani e autrice della recensione, e a tanti giovani che non sono voluti mancare alla presentazione del libro-Iole ed Ernesto sposiUna bellissima foto di Iole Mancini, ragazza partigiana di 102 anni…ANPI- Comitato antifascista della SABINA
Bianca Bianchi, storia di una costituente- di Giulia Vassallo
Biblion edizioni
Descrizione-La costituente Bianca Bianchi (1914-2000), protagonista di questa narrazione, fu una donna eccezionale. Perché fu antifascista coraggiosa, tanto da preferire l’esilio in Bulgaria alla soggezione intellettuale al diktat del regime; perché fu militante attiva nella Resistenza toscana, ma anche per la sua esperienza di parlamentare eletta nella prima legislatura repubblicana, con oltre 20 mila preferenze. Volitiva e naturalmente incline a battaglie scomode e scelte impopolari, tra cui quella di appartenere a un partito variamente screditato dai rivoluzionari, si allontanò presto e non senza amarezza dai riflettori di Montecitorio, scegliendo di dedicarsi alla «cura dei più bisognosi» e alla promozione di una cultura laica, socialista e soprattutto europea.
L’instancabile e variegata biografia, le carte d’archivio e le lettere alla grande socialista russa Angelica Balabanoff, come pure le testimonianze rese da colleghi e collaboratori, ovvero gli elementi che compongono il presente volume, contribuiscono a restituire per la prima volta il profilo di Bianca Bianchi in tutta la sua complessità. Emerge così dall’oblio storiografico una personalità versatile e non certo aristocratica; una scrittrice, un’insegnante e la promotrice della prima legge contro la discriminazione dei figli illegittimi; una figura femminile di indiscutibile caratura personale, ma soprattutto con una dimensione pubblica di grande spessore, che merita di essere conosciuta.
Giulia Vassallo (Roma, 3 febbraio 1977) è assegnista di ricerca presso la “Sapienza”, Università di Roma. Dal 2006 ad oggi è redattore editoriale della rivista online «EuroStudium3w», di proprietà dell’Ateneo “Sapienza” di Roma. È inoltre autrice del volume Lilliput o Gulliver? Il contributo olandese all’unificazione europea (1945-1966), Bulzoni 2020. Su Bianca Bianchi, sempre per i tipi di Bulzoni, ha precedentemente pubblicato, con Davide Di Poce e Elisiana Fratocchi, il libro Il pane e le rose. Scritture femminili della Resistenza.
Bianca Bianchi: dall’antifascismo esistenziale al “virus della politica”
Francesca Gori
A cento anni dalla nascita il ricordo del percorso etico-politico della “ragazza di campagna” da Vicchio alla Costituente.
Bianca Bianchi nasce a Vicchio il 31 luglio 1914. La sua educazione alla politica ha origine nell’ambiente familiare, in particolare grazie alla personalità del padre Adolfo, fabbro e segretario della federazione socialista del paese, con il quale ogni pomeriggio Bianca intrattiene lunghe chiacchierate, durante le quali impara che socialismo vuol dire “amare i più poveri e fare qualcosa per loro”. Ogni giovedì inoltre salta la scuola e accompagna il padre alla sezione del partito dove fuori, durante il mercato settimanale, in piedi su un tavolo, tiene appassionati comizi.
Dopo la morte prematura del padre, all’età di sette anni, Bianca si trasferisce, insieme alla madre e alla sorella maggiore a Rufina, presso l’abitazione dei nonni materni. Ha un rapporto conflittuale con la madre che, ripiegata sul modello domestico, non comprenderà mai l’attrazione della figlia per lo studio e per la volontà di evadere dal mondo provinciale. Trova però un valido sostenitore nel nonno Angiolo, contadino antifascista, figura importante nella sua formazione intellettuale dopo la morte del padre, che stimolerà Bianca con discussioni letterarie, religiose e politiche.
Bianca dimostra presto il suo interesse per lo studio e, grazie all’appoggio del nonno, abbandona la campagna e si trasferisce a Firenze, per frequentare la Scuola Magistrale “Gino Capponi”, prima, e la Facoltà di Magistero poi. Nel 1939 consegue la laurea con una tesi dal titolo Il pensiero religioso di Giovanni Gentile, discussa con il relatore prof. Ernesto Codignola, che l’anno successivo viene pubblicata. nizia da subito ad insegnare: le viene offerta una cattedra a Genova, dove non rispetta i programmi, che prevedevano l’esclusione degli argomenti riguardanti la civiltà ebraica, tenendo lezioni personali in proposito. Tale comportamento insubordinato le vale l’allontanamento dall’istituto genovese. Le viene affidato allora un nuovo incarico a Cremona, da dove viene, anche questa volta, presto licenziata, a causa del primo compito in classe proposto ai suoi studenti, in cui ha chiesto di riflettere sui caratteri della società moderna e sui progetti per il futuro. In particolare aveva invitato un suo studente di origine ebraica ad essere sincero e a scrivere liberamente il proprio pensiero. Bianca viene allora assegnata all’Istituto italiano di cultura in Bulgaria. L’ “esilio” a Sofia, dove intrattiene anche una prima relazione amorosa, in realtà permette a Bianca di imparare una nuova lingua e di insegnare liberamente, senza le limitazioni politiche del regime. Il soggiorno però è breve e nel giugno 1942 torna in Italia, per aiutare la madre e la sorella, in difficoltà nel contesto bellico.
Dopo la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio, si impegna, in quell’opera di soccorso e di travestimento di massa dei soldati sbandati, messa in atto dalle donne italiane, in quello che è stato definito maternage di massa (Bravo). Partecipa poi, su invito del prof. Codignola, che era stato il suo relatore di tesi, alle riunioni del Partito d’Azione, contribuendo attivamente alla resistenza. In particolare distribuisce volantini antifascisti e, qualche giorno prima dell’insurrezione fiorentina, le viene affidato il compito di trasportare un carretto carico di armi. L’esperienza della resistenza è breve, ma per Bianca ha un valore importante, perché permette il passaggio dall’antifascismo esistenziale, vissuto individualmente, ad una maturazione politica consapevole, vissuta in condivisione con i compagni partigiani.
È dunque dopo la fine della guerra che Bianca passa alla vita politica attiva. Il momento della svolta è rappresentato, nel ricordo stesso di Bianca Bianchi (si veda il documento allegato), dalla presa di parola, che avviene durante il comizio del democristiano Gianfranco Zoli nella primavera del 1945. Bianca accoglie l’invito dell’oratore al contraddittorio, criticando il suo fare da “pompiere” che sembrava voler spegnere gli ideali di rinnovamento, e invita invece a realizzare una politica diversa, che si faccia portavoce della volontà di cambiamento e di speranza degli italiani. Alla fine del comizio un gruppo di socialisti avvicinano la giovane, invitandola ad iscriversi al PSIUP. Bianca Bianchi inizia a frequentare la sezione di via San Gallo, per “ascoltare e osservare”, ma la sua passione e la sua convinzione di “poter contribuire a creare un mondo di eterna primavera” la fanno passare ben presto all’azione. Si iscrive al partito, organizza iniziative culturali, dibattiti, ed è subito protagonista della campagna elettorale, riuscendo ad acquisire molti consensi tra la base, anche grazie alle sue abilità oratorie.
Bianca Bianchi
Al Congresso provinciale della primavera del 1946, per la formazione della lista dei candidati per la Costituente infatti, viene votata quasi all’unanimità come capolista. I compagni di partito però, diffidando delle donne in politica e della giovane età della Bianchi, la sostituiscono con un esponente di spicco e di consolidata militanza nel partito, Sandro Pertini. Nonostante la delusione, Bianca Bianchi continua la sua appassionata e frenetica campagna elettorale, raggiugendo così, alle elezioni del 2 giugno, un successo personale inaspettato, riuscendo ad accaparrarsi il doppio dei voti del capolista Pertini (15384 voti) ed entrando così di diritto tra le 21 donne elette all’Assemblea Costituente.
Si ricorda in seno alla discussione della Costituente l’impegno di Bianca Bianchi a favore della scuola pubblica, opponendosi fermamente alla parificazione tra le scuole pubbliche e quelle private, previsto dall’art. 27 (poi 33) della Costituzione.
Al Congresso del partito del 9-13 gennaio 1947 inoltre, dopo una lunga e sofferta riflessione, decide di seguire la minoranza di Saragat, a cui la legava anche una profonda amicizia, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. La sua carriera politica prosegue poi nel 1948, quando viene eletta nella I legislazione in Sicilia.
Da ricordare poi la sua battaglia a favore di una legislazione meno discriminatoria nei confronti dei figli illegittimi, iniziata in seguito alla sua partecipazione al Congresso dell’Alleanza femminile internazionale di Amsterdam del 1948 e conclusasi con l’approvazione della legge nel 1953.
Tra il 1953 e il 1970 Bianca Bianchi non viene rieletta nelle successive legislature e riprende quindi l’impegno nel settore dell’istruzione, curando la rubrica de La Nazione, Occhio ai ragazzi e fondando la “Scuola d’Europa”.
Rientra in politica nel 1970, per una legislatura, eletta consigliera comunale a Palazzo Vecchio a Firenze, e successivamente continua ad occuparsi dei temi dell’istruzione e si dedica alla letteratura, intrisa di quella passione e di quel “virus della politica” che aveva caratterizzato tutta la sua vita.
Si è infine spenta il 9 luglio 2000.
Fonte-ToscanaNovecento – (Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea)
e il suo soggiorno obbligato dal regime fascista a RIVODUTRI di Rieti
LINA CAVALIERI
RIVODUTRI (Rieti)-2 luglio 1940 –Il soggiorno obbligato perLINA CAVALIERI, LA DONNA PIU’ BELLA DEL MONDO.
LINA CAVALIERI
LINA CAVALIERI Il 2 luglio 1940 fu internata, con obbligo di firma tre volte al giorno , insieme alla sorella, a Rivodutri in provincia di Rieti, in quanto suddita francese.A Rivodutri vi restò fino al 27.07.1940 per poi essere trasferita a Rieti. Gabriele D’Annunzio la definì la “massima testimonianza di Venere in terra” e nella dedica di una copia del romanzo “Il Piacere” scrisse: “a Lina Cavalieri, che ha saputo comporre con arte, una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto. Un poeta riconoscente. Firmato Gabriele D’Annunzio.”
Lina Cavalieri risiedette, durante il soggiorno a Rivodutri, in via Micheli Giuseppe 1, nei pressi della Piazza del Municipio.
N° O07I4 P/llo Rieti, 5 luglio 1940 XVIII
Oggetto; Cavalieri Natalia fu Florindo e fu Peconi Teonilla nata a Roma,25/12/1876 – suddita francese.
Al PODESTÀ’ di Rivodutri
AL COMANDO STAZIONE CC.RR. Rivodutri
p.c .ALLA R. PREFETTURA DI – RIETI
ALLA R. PREFETTURA DIV. RAGIONERIA di RIETI
AL COMANDO GRUPPO CC,RR. di RIETI
AL COMANDO COMPAGNIA CC.RR. Rieti
Con foglio di via obbligatorio ho avviato costà, in data odierna, l’individuo in oggetto il quale, con provvedimento I* corr» N°484I2/443
del Ministero dell’interno, viene internato in cotesto Comune.
Il Podestà di Rivodutri è pregato attenersi scrupolosamente
alle seguenti disposizioni Ministeriali;
.
I°) – All’arrivo dell’ internato provvedere a far impiantare il fascicolo personale ed un registro, nel caso vi siano più internati
2°)- Stabilire il perimetro entro il quale l’internato può circolare.
3°) – Imporgli, senza però rilasciargli speciali carte di permanenza, la prescrizione di non allontanarsi da detto perìmetro. Per gìustificati motivi sì pòtra consentire all’internato di recarsi in determinate località dell’abitato. II permesso dì allontanarsi dall’abitato potrà, invece, essere concesso soltanto dietro autorizzazione del Mini¬stero, da richiedersi pel tramite di quest’Ufficio.
4°) – Imporre all’internato un orario con divieto, salvo giustifi¬cati motivi o speciali autorizzazioni, di uscire prima dell’alba e rin¬casare dopo l’Ave Maria.
5e) – L’internato dovrà presentarsi tre volte.al giorno: al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, al Podestà o ad un Funzionario Comunale che ne prenderà nota nel fascicolo personale. In caso di constatata as¬senza il Podestà dovrà darne immediato avviso a cotesta Stazione CC.CC,; per le ricerche, telegrafando altresì a quest’Ufficio.
6°) – L’internato potrà consumare i pasti in esercizi o presso famiglie private del posto, dietro autorizzazione del Podestà.
7′) L’internato ha l’obbligo di serbare buona condotta e non dar luogo a sospetti e mantenere contegno disciplinato,
8°) – Non è consentito all’internato dì tenere presso di se passa porti o documenti equipollenti e documenti militari.
9°) – L’internato non deve possedere danaro a meno che non sì tratti di piccole somme non eccedenti in nessun caso le cento lire; le eccedenze dovranno essere depositate presso banche o uffici postali su libretto nominativo che sarà conservato dal podestà. Qualora l’internato abbia necessità di effettuare prelevamenti, dovrà chiedere di volta in volta l’autorizzazione al podestà il quale, se ritiene gìustificata la richiesta provvedere a fare eseguire l’operazione tenendo presenti che la somma da prelevare non deve mai superare quella consentita. Prelevamenti di somme superiori dovranno essere autorizzati dal Ministero,pel tramite di questo Ufficio.
IO°)- L’internato non può tenere gioielli di valore rilevante né t:itoli; tanto i gioielli che i titoli dovranno essere depositati a spese dell’interessato,, in cassette di sicurezze presso la banca più vicina dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato, mentre il libretto dì riconoscimento sarà conservato dal Podestà,
…………………..Omissis
Firmato: il Questore di Rieti
Di seguito viene riportato uno stralcio del registro della firma dell’internata Lina Cavalieri. Le firme dovevano essere apposte alle ore: 9,00, alle 12,30 ed alle 18,30
stralcio del registro della firma dell’internata Lina Cavalieri
Biografia di Lina Cavalieri-Autore Marta Questa
Era il 1936 quando fu pubblicato a Roma il libro Le mie verità scritto da Lina Cavalieri, canzonettista, soprano lirico, mito della belle époque europea ed attrice cinematografica. L’ autobiografia, curata da Paolo d’ Arvanni, nome d’ arte dell’ avvocato Arnaldo Pavoni, suo impresario e compagno di vita, era dedicata al poeta Trilussa, pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri, “grande amico e grande romano” e noto per le sue composizioni in dialetto romanesco. Lina aveva da poco superato i sessant’ anni, età in cui, diceva, “si è maturi per vivere in campagna”. A quell’ epoca aveva scelto di abitare nella villa di Roma “tra alberi secolari e piante e fiori” e per altri sei mesi dell’ anno a 80 chilometri dalla capitale, presso Rieti, a Castel San Benedetto , in collina, zona che diceva, “valorizzata per volere di Mussolini” e dominata dalla “montagna di Roma, il Terminillo”.
L’ aspetto conventuale e serenamente monastico della casa di campagna sembrava giustificare il suo nome La Cappuccina, termine che, comunque, risultava avere molta assonanza con la villa La Capponcina, presso Settignano, a Firenze, abitata per un certo periodo dal poeta Gabriele d’ Annunzio che Lina aveva conosciuto, frequentato e forse, per breve tempo, anche amato e che ai suoi occhi “si era trasformato da poeta incomparabile in eroe leggendario nella guerra che ha reso l’ Italia degna delle più fulgide tradizioni”. Si trattava di una ammirazione reciproca perché già lo stesso poeta a Milano nel maggio del 1903 aveva scritto:” A Lina Cavalieri , che ha saputo comporre con arte una insolita armonia tra la bellezza del suo corpo e la passione del suo canto” ed ancora nel settembre dello stesso anno su un volume, appena pubblicato, dal titolo Il piacere apparve la seguente dedica: “A Lina Cavalieri, alla massima testimonianza di Venere in terra, questo libro ove si esalta il suo potere”.
“I suoi capelli corvini, la pelle d’ avorio, le sopracciglia più lunghe del mondo, le labbra carnosissime e lievemente rilevate, il naso gentile, e all’insù, gli occhi profondissimi e ombrati”, nonché le sue forme valorizzate da splendidi abiti e da un abbigliamento in genere molto scollato, fecero impazzire gli uomini dell’ epoca tanto da essere definita “La donna più bella del mondo”. Si diceva che fosse “ talmente perfetta da fare arrestare le persone per strada”
“Sono nata a Roma il 25 dicembre di un anno che non ricordo”, così esordiva nel libro “Le mie verità” , celando volutamente l’ anno della sua nascita, atteggiamento vezzoso tipico delle donne di spettacolo famose che vogliono nascondere la loro età . “Venni al mondo in una più che modesta viuzza del vecchio Trastevere dal quale lo spirito di Gioacchino Belli aveva saputo trarre ora la satira pungente, ora la poetica descrizione di uomini e di cose”. Era il 1 875 e Roma da pochi anni era capitale del Regno unito d’ Italia con a capo il re Vittorio Emanuele II. Nacque in Via del Mattonato 17 il giorno di Natale e per questo fu battezzata nella basilica di Santa Maria in Trastevere due giorni dopo con il nome, si dice, di Natalina. Sin da bambina si manifestò vivace e caparbia : “Mia madre aveva tentato tutti i mezzi per domare questa eccessiva mia indipendenza di carattere. Trovate assolutamente inutili le forme più comuni di persuasione, ricorreva assai spesso alle busse, che non sortivano effetto migliore degli amorevoli ammonimenti”. Le piaceva giocare a picca a campana e cercava sempre con gli amici di entrare nei baracconi da fiera senza pagare. Lasciata bruscamente “l’età dei giochi”, a causa della situazione familiare economica molto precaria, svolse diversi mestieri per sostenere la famiglia: sarta apprendista, quindi, fioraia ambulante ed anche piegatrice di giornali presso il quotidiano La Tribuna. “Lavoravo, rigovernavo, facevo le compere, custodivo i miei fratelli Nino e Oreste e mia sorella Giulia. Nella nuova stamberga che ci alloggiava, in Via Napoleone III (una camera e una cucina) tutto intorno a me era squallore. Io lo sentivo , mi si stringeva il cuore , ma per uno strano contrasto sempre presente in ogni i istante della mia vita, cantavo […]. Il caso volle che mi dedicassi al teatro”. L’ abitudine della ragazza a cantare durante il lavoro con una notevole voce spinse la madre a ricorrere ad Arrigo Molfetta, maestro di musica, non certo passato alla storia, che si offrì gratuitamente di insegnare a Lina qualche canzonetta per diventare una chanteuse di caffè – concerti . Nel 1887 fu scovata nei Capannoni di Porta Salaria dall’ impresario Nino Cruciani che la scritturò per il caffè-concerto Esedra. Il suo primo repertorio era costituito di tre canzoni : Core innamorato, Chiara Stella, Il cavallo del colonnello, una di quelle composizioni a doppio senso allora di moda, ed un teatrino di piazza Navona fu luogo del suo esordio. “Avevo quattordici anni – scrive nel memoriale Le mie verità – la mia buona mamma mi accompagnava a piedi dalla nostra casa di via Napoleone III a piazza Navona […] perché eravamo tanto povere da non poterci permettere il lusso di un tram. Del mio ingresso nella vita artistica conservo un confuso ricordo di paura […], le mie mani trepide, tormentavano il mio vestitino, la bocca non riusciva ad aprirsi, la gola serrata dallo spavento non emetteva alcun suono. In quest’ attimo terribile intravidi la mia casetta, la necessità e inconsciamente aprii le labbra, articolai qualche nota. Cessò la musica del piano scordato, un frastuono di mani plaudenti mi scosse e quasi automaticamente ricaddi tra le quinte. Quando molti anni dopo la critica dei grandi quotidiani americani rilevava[…] il caldo singulto arrotondante della mia voce, ho ripensato che il mio debutto fu dolente e che forse quella sera , nella fumosa sala di piazza Navona, la mia voce ricevette il crisma del singhiozzo, che si confuse per sempre alle mie note appassionate”. Da quel timoroso debutto nel sordido teatrino romano, dove cominciò ad esibirsi per una lira al giorno, indossando ogni sera un semplice abitino di tessuto a fiori celeste comprato a Campo dei Fiori e cucito dalla madre, la popolarità sarà in continua ascesa grazie anche alla sua bellezza, sensualità e temperamento focoso, divenendo in breve tempo una figura popolare della Roma umbertina. La scritturarono in locali sempre più importanti e famosi. Nel 1894 il nome di Natalina Cavalieri per la prima volta apparve sulla locandina del Concerto delle Varietà, in Via Due Macelli , poi sarà la volta del grande teatro Orfeo, per dieci lire al giorno, e poi al teatro Diocleziano per quindici lire. Il suo repertorio si arricchì di altre canzoni: La Ciociara, Funiculì – funiculà, A Frangesa di Mario Costa. Il suo successo romano fu siglato anche dalla elezione a reginetta di Trastevere, avvenuta una sera di Carnevale al teatro Costanzi, per merito soprattutto di un principe romano e dei suoi amici, e questo titolo le agevolò l’ingresso al grande Orfeo, dove i suoi meriti artistici ebbero l’opportunità di essere consacrati. Arrivò dopo anche per lei il momento di approdare nel regno italiano dei cafè chantant, caffè con spettacoli di varietà: il Salone Margherita di Napoli, il luogo, in quel periodo, più prestigioso per una canzonettista. Fu l’ impresario del salone Margherita che nel 1895 la presentò al pubblico per la prima volta con il nome abbreviato di Lina al posto del dichiarato Natalina. Dichiarato perché molti dubbi sorgeranno infatti sul suo nome proprio quando nel 1940, durante il breve periodo di internamento nel carcere di Rivodutri, vicino a Rieti, sarà registrata con il nome di Natalia e non Natalina e questo può far pensare che a Napoli, al momento dell’ abbreviazione, lei o chi altro per lei, avesse preferito al diminutivo Lia, forse troppo breve, quello di Lina con il quale poi sarà conosciuta in tutto il mondo. Nei tre locali partenopei più famosi, quali il Salone Margherita l’Eldorado e l’Eden si esibì con il suo repertorio delle più celebri canzoni napoletane di Maria Marì, O sole mio, Marechiare, e con l’inedita Ninuccia, canzone che fu composta per lei dal poeta e musicista napoletano Giambattista De Curtis su testo di Vincenzo Valente e di cui fu la prima interprete. Era alta, aggraziata con un contegno angelico e trasognato e molto sensuale ed a Napoli, anche quando entrava in scena cantando” O sole mio”, accompagnata da un gruppo di mandoliniste vestite da pescatore, faceva impazzire tutti gli uomini. Napoli rappresenterà per lei in trampolino di lancio per l’ Europa. Aveva appena vent’ anni quando da lì andò a Parigi, alle Folies Bergère, riproponendo il suo programma di canzoni napoletane, con un’ orchestra completamente femminile con chitarre e mandolini. Lina Cavalieri sconcertò Parigi: si fece scoprire dai suoi ammiratori mentre correva vezzosamente per il Bois de Boulogne su un velocipede color rosso fuoco,” polpacci e caviglie in bellavista, il volto graziosamente arrossato dallo sforzo.”. Fu un’abile strategia che le consentì, già allora, di ottenere un’ampia pubblicità gratuita. Nella primavera del 1893 Natalina aveva già saputo attirare attorno a sé l’attenzione degli sportivi e l’ammirazione delle donne recandosi a Milano per una gara ciclistica nella quale l’attrice aveva sfidato la fioraia Adelina Vigo. Quella delle due ruote fu per la Cavalieri un sincero diletto sportivo che l’accompagnò anche negli anni successivi e che la portò a correre e a vincere la corsa a tappe Roma – Torino e ancora, nel 1899, a sfidare la campionessa belga, mademoiselle Hélene Dutrierux.
Dimostrava di comprendere lo spirito del tempo: diffusione dello sport tra le donne significava emancipazione. Il pedalare un velocipede liberava dall’opprimente corsetto, ne scopriva il corpo, e tutto questo dava alla donna la coscienza del proprio fisico e sessualità. La belle epoque” fu affascinata dalla sua intraprendenza, dalla sua grazia e dalla sua straordinaria bellezza. Cominciavano a circolavano in tutto il mondo cartoline postali che riproducevano il suo volto, i suoi favolosi boa di struzzo, i suoi splendidi gioielli che fecero sognare donne di tutti i paesi.
Salì poi sul palcoscenico dei più importanti teatri di Londra, Berlino e San Pietroburgo.
Aveva già un figlio, Alessandro, chiamato anche lui con un diminutivo: Sandro. Era nato a Roma nel febbraio del 1892, si dice, da una relazione con il maestro di musica Arrigo Molfetta, a cui, poi, Lina qualche anno dopo, sembra, avesse restituito tutto il denaro “prestato per gli alimenti”, perché non avesse alcuna ingerenza nell’ educazione di quello che reputava solo suo figlio . In quegli anni Lina non poteva immaginare ancora che Sandro avrebbe più tardi preso il cognome del suo terzo marito, il tenore francese Lucien Muratore.
Di lei si diceva che era una danzatrice aggraziata, in grado di compiere i movimenti ed i gesti più allusivi con tale innocenza e con tale fanciullesca semplicità e fascino che la loro natura pornografica veniva ignorata. Jules Massenet., autore di alcune fra le opere portate in scena da Lina semplificava così: “La bellezza ti dà il diritto di sbagliare qualche volta”.
Fu a Mosca che omaggiò il pubblico di una versione un po’ pasticciata di Oci ciorni e, nonostante la pronuncia approssimativa, ne ricavò tanti applausi ed il dono di un facoltoso ammiratore: una cesta di fiori unita ad una collana di smeraldi appartenuta all’ inglese Lady Hamilton. Il donatore era il principe russo Aleksander Bariatinsky che Linotchka, come lui la chiamerà, sposerà in segreto a Pietroburgo nel 1899.
Fu alla fine del secolo che, spinta da molteplici pareri favorevoli, Lina decise di passare al canto lirico. Darà definitivamente l’ addio al varietà per realizzare un sogno più ambito: diventare una cantante lirica, professione considerata all’epoca più nobile. Fu il tenore Francesco Marconi, il popolare Checco, interprete dei Puritani e del Rigoletto, a perfezionare il suo canto. Prenderà lezioni dall’ affermata cantante del Teatro della Scala, Maddalena Mariani Masi, che di Lina riconoscerà sempre l’ intelligenza, l’ intuito musicale non comuni ed una forza di carattere da permetterle di sottoporla ad uno studio indefesso. “Il teatro lirico metteva in me la febbre del desiderio” .
Il debutto a soprano avvenne nel 1900 a Lisbona ne “I Pagliacci”. Fu un fiasco totale che Lina nel suo libro attribuì al nervosismo destato dalla presenza della famiglia reale portoghese ed all’ intervento malevolo del manager Petrini, talmente ossessionato da lei da essere disposto a rovinare lo spettacolo per farla cedere alle sue avances.
Il 4 marzo dello stesso anno si cimenterà nella Bohème di Giacomo Puccini nel ruolo di Mimì al San Carlo di Napoli: “Vestii l’ abito di Mimì e cantai. Non potevo non vincere Stravinsi. Sentii Napoli. Napoli mi comprese”.
Il passo era fatto e Lina era diventata soprano lirico.
Sergi Levik, baritono e critico d’ opera di origine russa, così commentava: “L’ enorme lavoro che la Cavalieri ha fatto su se stessa con la supervisione di buoni insegnanti ha trasformato una voce debole e miserella in uno strumento professionale del tutto tollerabile” Si diceva che avesse una voce limpida e fresca, ma piuttosto limitata nel volume, nelle vibrazioni ed anche nell’ estensione e c’ è chi la consigliava di sostare al confine tra il genere lirico e quello leggero.
Il momento di svolta artistica coincise con la fine del suo primo matrimonio a cui seguirà l’ annullamento dell’ unione da parte dello zar Nicola.
Da Napoli si aprirà per lei una carriera che la porterà nei più importanti teatri lirici d’ Europa e d’ America al fianco di nomi celebri della lirica. Fu al S. Carlos di Lisbona, all’ Imperiale di Varsavia, all’ Aquarium di Pietroburgo, al Teatro Massimo di Palermo, al Dal Verme ed al Lirico di Milano nel 1902 e nel 1903, al Carlo Felice di Genova, al Casino di Montecarlo tra il 1904 ed il 1906. Importantissimi sono gli ingaggi che ottenne oltreoceano, a New York, al Metropolitan e al Manhattan. Il suo successo derivava molto dal fatto che incarnava il prototipo di bellezza femminile dell’ epoca: una bellezza trasognata che, unita ad una presenza scenica ed ad una buona recitazione, rappresentava in campo operistico nell’ epoca del verismo una vera e propria carta vincente. Una sera d’ impulso, al termine del gran duetto d’ amore della Fedora, Lina Cavalieri al Metropolitan, durante la stagione del 1906-1907, in scena baciò realmente Enrico Caruso sulle labbra, ottenendo così il definitivo successo del suo personaggio. Per la prima volta in America un’ attrice aveva baciato davvero sulla scena. Fu un trionfo, si gridò allo scandalo e ciò aumentò il successo che la porterà alla vittoria sulla soprano Geraldine Farrar e ad ottenere l’ interpretazione della Manon Lescaut di Puccini. L’ indomani , l’ Evening World intitolava così la cronaca della serata:
”Cavalieri and Caruso, in a fervent embrace arouse a Metropolitan Opera House audience”. La Cavalieri fu allora conosciuta negli Stati Uniti come la primadonna che bacia,“the kissing primadonna”.
L’ influente critico musicale Algernon ST Brenon sul Daily Telegrapphy così scriveva: “Possiede fuoco e varietà di movimento, impulso ed emozione[….].un colpo d’ originalità nel gestire la scena […]. A proposito del canto non ci si può esprimere altrettanto entusiasticamente. A volte le sue note acute sono imprecise, a volte le medie, a volte le gravi; almeno in questo sembra essere imparziale […]. Ma sul palco riesce davvero a dare qualcosa di raro. Nessuno è come lei con quella faccia da madonna e la sua figura sinuosa e serpentina”. Dopo un periodo iniziale di rappresentazioni della Bohème, del Faust, de “I Pagliacci”, s’ indirizzò verso le parti di cortigiana d’ alto rango e di donna fatale. Era attratta da opere come la Fedora, la Tosca, l’ Adriana perché le offrivano l’ occasione di sfoggiare abiti sontuosi che mettevano in risalto il suo fisico e gioielli veri e preziosissimi. Aveva “un portamento da gran dama” e, secondo il giudizio di molti, nessuna primadonna seppe raccogliere e drappeggiare al pari di Lina lo strascico della principessa Fedora.
Ma la Lina Cavalieri “dell’ Opera di Parigi, del Metropolitan di New York, del Coven Garden di Londra, del teatro italiano di Pietroburgo…. ecc.” non cantò mai a Roma come soprano. ”Non ho mai voluto presentarmi al pubblico dei miei concittadini – scriveva nella sua autobiografia- perché ho sempre risentita una autentica paura degli spettatori romani. Il pubblico a Roma è critico, sagace, intenditore perfetto di musica, abituato agli spettacoli lirici più vari e più complessi, assuefatto a dare un giudizio su tutte le celebrità. Sebbene non mi sia mai sentita come artista, inferiore a tanti altri, ho sempre pensato, da buona romana, quale sono, Nemo propheta in patria”.
La bellezza le valse, si dice, ottocentoquaranta proposte di matrimonio e numerosi flirt. La desiderarono gli uomini di mezzo mondo e per lei spasimarono principi, baroni, finanzieri,poitici ed artisti di ogni continente, per lei Wassili d’Angiò, duca di Durazzo, conte di Gravina e di Alba, ex capitano dell’esercito zarista, ultimo discendente del re di Napoli, di Sicilia e d’Albania Carlo D’Angiò a Parigi, fece ricoprire di petali di rose rosse l’intero tragitto tra la stazione ferroviaria e l’albergo in cui l’aspettava. Ma lei stessa in “Le mie verità” scrive: “Tre volte ho sposato e tre volte ho rotto i miei vincoli legali: un russo, un americano ed un francese”. Dopo il principe russo Alessandro Bariatinsky sarà la volta del ricchissimo, “cittadino della stellata repubblica”, l’ americano Robert Winthrop Chanler, conosciuto a New York durante la stagione lirica al Manhattan Opera House, durante un ricevimento dato in onore di Lina in casa della signora Benjamin Guiness, “la migliore e la più cara amica”. “Non avevo per lui che un sentimento di buona amicizia” ed infatti il matrimonio durò appena una settimana e nella sua opera autobiografica scrive: “Le mie valige erano fatte. Partii […]. Ed io rinunziai ai palazzi, alla grande tenuta, alla rendita annua […]. Non ho mai più rivisto il mio secondo marito del quale solo qualche anno fa ho appreso la morte. Amici comuni mi dissero [ ..] che la sua camera era letteralmente tappezzata di mie fotografie”. In realtà c’ è chi disse che una immensa quantità di beni, comprendente addirittura tre palazzi, trasmigrò dalla proprietà dell’ americano nelle mani di Lina prima addirittura della separazione. Anche questa volta la separazione fu dovuta al fatto che Lina amava assumere il ruolo di vera e propria donna di spettacolo. Amava calcare le scene, farsi ritrarre nelle pose più conturbanti, vestire abiti sfarzosi arricchiti anche da pietre preziose spesso regalate dai suoi ammiratori, mariti ed amanti, indossare capi della famosa della sartoria francese di Jeanne Paquin, più conosciuta come Madame Paquin, capi che Lina pubblicizzava in tutto il mondo. “In certe sere il palcoscenico dei teatri veniva trasformato in giardino ed i diamanti, gli smeraldi, i rubini sfolgoravano indosso alla bella artista”. Molto spesso in scena fu vista portare in petto una croce di diamanti, non per la grande devozione per il simbolo, quanto, sosteneva il critico Giulio Piccini, meglio conosciuto con lo pseudonimo Jarro, per il valore delle pietre che la costellavano. Divenne il simbolo della donna più elegante ed affascinante d’ Europa, un sogno per gli uomini di tutti i paesi ed un mito per le donne dell’ epoca. “E’ così bella, si diceva, che troverebbe mille spettatori anche se andasse in un’ isola deserta”.
Il marito francese sarà il tenore Lucien Muratore, che sposerà nel 1913 a Parigi e che diventerà padre adottivo del figlio Sandro. La guerra del 1914 “sconvolse tutto [….] Allontanò da me in poco tempo mio marito nell’ esercito della Repubblica transalpina, due miei fratelli e mio figlio nell’ armata italiana”. Il matrimonio con il terzo marito coincise con l’ abbandono della carriera lirica e l’ approccio con quella cinematografica.
Come tanti ironizzarono, divenne la prima cantante lirica protagonista di films muti. Dopo i primi passi compiuti alle Cines di Roma, società allora diretta dal barone Alberto Fassini, debuttò a Parigi sotto l’ insegna dei Fratelli Pathè. Tra il 1914 ed il 1921 girerà film in Italia, poi a Berlino, in Inghilterra e, prima fra le europee, in America, scritturata dalla Players films company a New York, dove recitò per la prima volta nel film muto “Gismonda “diretto da Edward José e tratto dall’ opera teatrale di Victorien Sardou, L’ eterna tentatrice su scenario di Fred de Gressac, che poi divenne produttore della Metro Goldwin Mayer a Hollywood. ”Il lavoro cinematografico mi piaceva moltissimo – scriveva – ma male sopportavo le luci dei proiettori che mi cagionarono gravi forme di congiuntivite […]. Come al teatro di Montecarlo nella Fedora cantai l’ opera per l’ ultima volta, così a New York l’interpretazione di Gismonda chiuse la mia attività cinematografica”. In Italia, per gli effetti della Grande Guerra, i film americani della Cavalieri furono distribuiti solo al termine del conflitto, non ottenendo peraltro pari successo delle proiezione oltralpe. Da cantante di cabaret a soprano lirico, da sportiva ad attrice cinematografica, scrittrice ed anche produttrice di creme e profumi Il periodo del matrimonio con Muratore coincise anche con l’apertura dell’Istituto di bellezza “Chez Lina”, a Parigi, vicino agli Champs Elysèes, in Avenue Victoir Emmanuel,, oggi avenue du Président Roosevelt, che sarà frequentato da nobili e ricche signore affascinate dal mito della bellezza “costi quel che costi”.
“Mi dedicai a questa nuova forma d’ arte che ritenni anche manifestazione pratica di altruismo”. Fu così che le macchine di massaggio e di ondulazione, le ciprie, le creme, i rossetti e le lozioni, sostituirono per circa dieci anni le orchestre, le scene, le partiture. Le parrucche ed i costumi. I miei compagni di successo non si chiamarono più: musicisti, tenori, baritoni, bassi ma parrucchieri, massaggiatori, manicure e pedicure” ”In questa nuova attività ho avuto gioie e soddisfazioni, se non materiali almeno morali”. La maison fu frequentata dalle signore della nobiltà europea affascinate dal mito della bellezza di Lina che produsse anche cosmetici che recavano sulla confezione il suo nome: ricercatissimi i profumi Monna Lina ed Eau de Jouvence. Nel 1909 la Cavalieri aveva aperto un laboratorio di prodotti di bellezza anche negli Stati Uniti, gestito dal fratello Oreste, nel quale venivano realizzati cosmetici secondo i segreti acquisiti da un antico ricettario di Caterina de Medici che, diceva, “di aver rinvenuto”. Accetterà anche di pubblicizzare vari prodotti dell’ epoca, come quelli della casa di produzione Palmolive e l’ aperitivo Bitter Campari, allora in voga. Nel 1914, aveva dato alla stampa un libro “My secrets of beauty” il cui sottotitolo recava uno slogan che sembra scritto oggi: “Contiene più di mille preziose ricette di preparazione usate e raccomandate da Madame Cavalieri in persona”. Offriva raccomandazioni sulla conservazione della bellezza, consigli che la Cavalieri aveva già dispensato alle lettrici di una rivista francese di attualità e moda femminile.
Le sue varie attività ed i suoi ingaggi la porteranno continuamente a viaggiare da un paese all’ altro, correndo spesso anche dei rischi, in un’epoca, non dimentichiamo, in cui i mezzi di locomozione erano assolutamente primordiali, la distanza tra una località e l’altra praticamente insormontabile così come le frontiere delle varie nazioni.. Durante un suo viaggio da Bordeaux per Nuova York sul piroscafo Patria della Favre Line, che ospitava anche la famosa attrice Sarah Bernhardt, Lina racconta che temette per la sua vita in quanto un sottomarino nemico seguì minaccioso la rotta del piroscafo, dopo averne già fatto affondare ben undici.
Anche il matrimonio con il tenore francese ebbe termine e si separarono a Parigi nel 1927. Ammetterà di aver “amato sempre con riserva, col beneficio dell’ inventario come direbbero gli avvocati specializzati in successione”. “Amo gli uomini come amo la vita, come amo la natura, ma penso che, nella maggioranza dei casi, questo compagno della nostra esistenza è assai inferiore a quel che crede o sente di valere”.
Nel frattempo, una nuova unione ufficiale, c’ è chi sostiene coronata anche da un matrimonio, di cui, però, non ci sono tracce e di cui Lina nelle sua opera autobiografica non fa alcuna menzione, la vedrà impegnata con il campione automobilistico Giovanni Campari, che morirà tragicamente di lì a poco il 10 settembre 1933, uscendo di pista nell’autodromo di Monza durante una gara. Sarà il fratello Davide Campari, l’imprenditore italiano legato anche lui, sembra, sentimentalmente alla Cavalieri, a sfruttare la fama di lei per promuovere in tutto il mondo i propri elisir, le bevande Cordial e Bitter. Nello stesso periodo, ancora molto affascinante, anche se non più giovane, Lina sarà ambasciatrice del made in Italy ma anche la testimonial per prodotti di bellezza, per l’ alta moda sartoriale e per apparecchi musicali Columbia.
Anche il legame sentimentale con Davide Campari non durerà a lungo e nel 1934 la Cavalieri si legò all’avvocato romano Arnaldo Pavoni, di venti anni più giovane di lei, già sposato e che, con lo pseudonimo di Paolo D’Arvanni, curerà due anni dopo la pubblicazione del libro autobiografico di Lina “Le mie verità”, memorie che sembravano un romanzo, tanto da indurre una grande casa cinematografica americana a proporle di girare un film sulla propria vita, che sicuramente sarebbe stato realizzato se non fosse scoppiata la seconda guerra mondiale.
Nel frattempo già all’ età di 55 anni, tre anni dopo essersi separata da Lucien Muratore, si era ritirata dal lavoro. Aveva affidato al figlio l’ amministrazione di tutte le attività di Parigi e Montecarlo , aveva abbandonato il cinema. “Abbandono che non mi rattristò – diceva – perché lo ritenevo solo un riposo”. “Mi ritiro dall’ arte senza chiasso dopo una carriera forse troppo clamorosa”.
Tornò in Italia, comprò una casa vicino a Rieti, a Castel San Benedetto, dove riunì tutti i suoi cimeli e lì visse accanto al suo impresario Arnaldo Pavoni ed al suo cane tanto amato che chiamò Pastorella in sintonia con il nome monastico della villa La Cappuccina. Si racconta che in quegli anni di ritiro in campagna Lina Cavalieri aprisse la sua dimora a tanti ospiti italiani e stranieri, organizzando giornate di festa con spettacoli anche di fuochi d’artificio e con particolari luci ad intermittenza con una cadenza che poteva dar luogo ad una sorta di alfabeto Morse luminoso, destinato come messaggio a qualcuno che si trovava a distanza e nel buio. Queste luci, che potevano, in effetti, servire per lanciare messaggi a chi “si intendeva informare”, e, quindi, il sospetto di spionaggio o di tentato sabotaggio ed il fatto di essere suddita francese furono probabili causa del suo arresto e successivo internamento a Rivodutri, voluto esplicitamente dal Ministero dell’ Interno italiano.
In passato, a partire dalla prima guerra mondiale aveva sempre mostrato una aperta simpatia per le forze alleate. Durante il periodo parigino insieme al terzo marito Lucien Muratore ed all’ amica Rachel Boyer della Comedie francaise aveva fatto parte del Comités pour l’ assistence aux poilus, aveva partecipato alle numerose tournée di propaganda per gli alleati europei insieme al marito anche in occasione del viaggio del maresciallo Ferdinand Foch, che aveva occupato il ruolo di comandante in capo di tutti gli eserciti alleati sul fronte occidentale sino alla resa della Germania imperiale. Negli anni Trenta aveva, si diceva, dato ospitalità nella sua abitazione parigina a Dolores Donati, sorella del più noto Oreste che in quegli anni, come antifascista, era esule in Francia. Nel suo libro Le mie verità, pubblicato nel 1936, facendo riferimento al suo viaggio in Africa settentrionale ed in Asia Minore, parlerà della Palestina come della “culla di tre religioni, la patria del più grande spirito che il mondo abbia conosciuto : Gesù Cristo”, e rimarrà impressionata dalla “visione dei pochi ebrei rimasti in Gerusalemme, non più padroni di casa loro, non più liberi di esercitare liberamente la loro missione di moderne vestali, custodi del fuoco sacro d’ Israele”. Inoltre sempre nella sua opera autobiografica descriverà con acume e benevolenza le caratteristiche dell’ uomo russo, americano, francese, italiano, ma non farà alcun riferimento all’ uomo tedesco, citandolo soltanto in un iniziale e semplice elenco. Non si soffermerà a descrivere le sue particolarità, come se volutamente volesse sorvolare sull’ argomento o per paura, o per dichiarato distacco, o per poca attrazione nei confronti di quel tipo di uomo.
Era il 2 luglio del 1940 quando Lina fu arrestata. La Germania a partire dal maggio aveva dato avvio alle operazioni militari contro la Francia ed il 10 giugno l’ Italia aveva dichiarato guerra alla Francia ed alla Gran Bretagna a fianco della Germania. Fu arrestata insieme alla sorella, ma, forse per il suo passato molto celebre, l’ arresto qualche giorno dopo fu tramutato in domicilio coatto a Rivodutri, in via Giuseppe Micheli 1, nei pressi della piazza del Municipio dove rimase sotto stretto controllo per un certo periodo, con l’ obbligo di non allontanarsi dall’ abitato e di presentarsi tre volte al giorno, vale a dire al mattino. a mezzo giorno ed alla sera, di fronte al podestà o ad un funzionario comunale, che ne doveva prendere nota nel fascicolo personale insieme alla sua regolare firma. Non le era concesso, come a tutti gli internati, di possedere denaro, né gioielli, né titoli. A Lina, che sempre ricordava la difficile infanzia, che mai aveva nascosto di temere la precarietà economica, la povertà e si era continuamente impegnata per divenire ricca, famosa e potente, non fu facile sicuramente accettare queste regole e soprattutto la mancanza di libertà. Questa esperienza rappresentò per lei sicuramente una svolta e segnò un cambiamento nelle sue scelte di vita. Durante l’ internamento può essere entrata in contatto o avvicinata da quelle forze politiche italiane e tedesche per le quali Lina aveva tutti i requisiti per divenire una loro collaboratrice: parlava bene il russo, il francese e l’ inglese, proprio le tre lingue dei belligeranti nemici dell’ Italia e della Germania ed inoltre aveva numerose conoscenze all’ estero anche fra civili e militari con incarichi importanti. Sta di fatto che dopo il domicilio coatto a Rivodutri e la sua permanenza ancora per poco tempo a Castel San Benedetto , lascerà la casa “La Cappuccina” per trasferirsi insieme al suo compagno di vita Arnaldo Pavoni, in arte Paolo D’ Arvanni, a Firenze, la “città dei fiori”, “la città di Dante”, come l’ aveva definita nella sua opera autobiografica, quella città che l’ aveva vista più volte far “moda automobilistica” sfrecciando lungo le Cascine o in aperta campagna su una splendida Ford Model T, conosciuta anche col nome di Tin Lizzie (lucertolina di latta). Aveva sempre associato Firenze ad una esperienza alquanto singolare, vissuta nel periodo in cui si trovava nella città per le varie rappresentazioni della Traviata al teatro Pagliano, ai primordi della sua attività di soprano lirico. All’ epoca alloggiava, all’ hotel Baglioni insieme alla compagna delle “sue fatiche”, la maestra Maddalena Mariani Masi ed in quella occasione era venuta a conoscenza che l’ autista, che ogni mattina la scorrazzava alle Cascine per un passeggiata, altro non era che il duca Raimondo T, primogenito di una delle più antiche e nobili famiglie siciliane, ben conosciuto da alcuni amici palermitani e che, pur di dividere il suo tempo con lei, aveva accettato questo incarico. Ma i tempi erano cambiati: Italia e Germania erano in guerra, Firenze aveva accolto in visita Hitler già ben due volte, nel 1938 e poi nel 1940 ed il clima mondano era solo un lontano ricordo.
Lina prenderà alloggio, o meglio, forse le sarà assegnato come alloggio, la villa Torre al Pino, ammobiliata, con villino attiguo, in via Suor Maria Celeste nella zona di Poggio Imperiale, di proprietà della tedesca Olga Tall, vedova del russo Muravieff , e che era stata sottoposta a sequestro dall’ Ente gestione e liquidazione immobiliare di Roma in quanto dichiarata di proprietà di un suddito “nemico della patria”. Vivere a Firenze le permetteva anche di avere più contatti con il figlio dal carattere, dicevano, molto schivo e poco socievole, che sin dalla tenera età era stato lasciato alle cure dei nonni materni e che aveva avuto pochi contatti con la madre sempre impegnata in attività che la portavano a viaggiare in tutta Europa ed in America. Alessandro risiedeva in città ormai dal 1933 insieme alla moglie, Elena Darra, che aveva sposato a Firenze nel 1932, quando ancora a Palmanova svolgeva attività in qualità di capitano dell’ esercito italiano. Viveva insieme ad Elena in uno stabile in via Jacopo Nardi, abitato anche dagli zii della moglie con i quali sicuramente aveva instaurato un legame affettivo molto stretto che lo porterà alla sua morte, avvenuta nel 1993, all’ età di 101, a scegliere di essere seppellito nella tomba che aveva già accolto le spoglie degli zii acquisiti e successivamente della consorte. Si trattava di una zona abitata dalla borghesia fiorentina, al di là di quei viali di circonvallazione, realizzati su progetto dell’ architetto Giuseppe Poggi dopo l’ abbattimento delle mura città nella seconda metà dell’ Ottocento, nei pressi della stazione di Campo di Marte, non certamente vicina a via Suor Maria Celeste, nella zona di Arcetri , in campagna, fuori dalla città, vicina a villa Il Gioiello, che aveva ospitato un tempo Galileo Galilei, all’ Istituto di Poggio Imperiale, all’ Osservatorio astronomico di Arcetri ed all’ Istituto di fisica, voluto in quella zona dallo scienziato e poi anche sindaco e podestà di Firenze, Antonio Garbasso. La via stretta e lunga era poco frequentata e la villa Torre al Pino, che si trovava circa a metà della strada, era isolata, circondata da un ampio parco e chiusa da un alto muro e pertanto presentavano una conformazione adatta per essere facilmente controllabili in tutt o loro punti. All’ epoca i vicini vedevano talvolta Lina Cavalieri girare nei dintorni su una carrozza guidata da un cocchiere, ma nessuno sembra averla mai avvicinata. Sta di fatto che molti fiorentini e visitatori ebbero modo di vederla per l’ ultima volta alla XIII Mostra d’ arte toscana, tenuta a Palazzo Strozzi nell’ aprile – maggio del 1942, ritratta nel dipinto di Giovanni Boldini che la raffigurava vestita stranamente con un abito molto castigato che nascondeva “la rara perfezione del suo corpo, massima nelle braccia che erano rimaste esemplari con gli anni”.
Firenze la ospiterà per poco tempo. Alcuni amici raccontarono che a Parigi una cartomante le aveva predetto che un giorno sarebbe morta di morte violenta. Così accadde. L’ 8 febbraio del 1944 da un aereo delle forze alleate, alle tre del pomeriggio, furono sganciate tre bombe: la prima colpì la casa di Lina Cavalieri, la seconda il bordo della strada che rimase transennato per anni, la terza cadde nel terreno agricolo sottostante la strada, che gli abitanti di Pian dei Giullari chiamavano Regnaia, perché i contadini erano soliti collocarvi delle reti per catturare piccoli uccelli. Solo la prima bomba provocò vittime. Lina Cavalieri morì insieme al suo segretario , l’ avvocato Arnaldo Pavoni ed alla sua casiera Guglielma Raveggi. Lo spostamento d’ aria demolì anche parte del villino vicino dove rimase ferito Ennio Raveggi, il popolare massaggiatore della Fiorentina. Sembra che Lina non avesse raggiunto in tempo i sotterranei esterni di difesa antiaerea per poter recuperare i gioielli nascosti nella sua camera da letto.
All’ epoca ci fu chi sostenne che le bombe erano state sganciate perché l’ aereo stava perdendo quota a causa di una avaria, ma tre bombe sganciate erano poca cosa perché l’ aereo si alleggerisse ed inoltre i punti colpiti apparvero precisi e strategici perché l’ obiettivo venisse colpito ed eliminato. Molti, infatti, ritennero che le truppe alleate avessero voluto punire la cantante in quanto collaboratrice di ufficiali tedeschi.
Brevi e sintetici furono gli articoli apparsi sui giornali nei giorni successivi al bombardamento ed alla morte di Lina Cavalieri, mentre si dice che dopo il tragico evento «lenta e dura la voce della radio” introdusse “ un brivido di orrore nelle tante case borghesi dove Lina Cavalieri era divenuta un mito [… ] milioni di persone hanno sospirato, riconoscendo nella fine di una leggenda un congedo della propria stessa giovinezza”. Sembra che dopo l’ accaduto in Firenze non fu reso alcun omaggio alla “donna più bella del mondo”, a colei che nella sua vita era sempre stata un personaggio pubblico ed aveva in tutti i modi cercato di attirare a sé l’ attenzione di tutti. La paura,forse, di nuovi attacchi aerei, il clima di forte tensione in quei giorni tra forze fasciste e gruppi di antifascisti e la presenza frequente nella zona di militari tedeschi, ormai prossimi alla ritirata, faranno sì che “dietro al suo carro, in quei giorni tristi e dolorosi” ci fossero solo “ un prete, sei persone ed una folla di ricordi che nessuno vide”.
La salma, pare intatta, di Lina Cavalieri, estratta dalle macerie, fu trasferita all’ asilo mortuario del Romito dove si svolse,come comunicarono molti giornali dell’ epoca, il non ben definito “rito del’ associazione”. Il suo corpo fu poi trasportato al cimitero delle Porte Sante, dove rimarrà sino al 1947 ed alla fine della guerra verrà tumulata nel cimitero del Verano, a Roma, nella tomba di famiglia insieme al padre Florindo, già morto nel 1909, ed alla madre Teonilla, deceduta nel 1931 e dove più tardi la raggiungeranno anche i fratelli. La salma del suo compagno di vita, il romano Arnaldo Pavoni rimase nel cimitero dello Porte Sante sino al 1951, quando sarà tumulato in un altro cimitero fiorentino senza, ironia della sorte, poter mai raggiungere l’ ultima compagna della sua vita e della morte.
A Padova la mostra ‘Vivian Maier. The exhibition’ aperta dal 24 aprile-
Aprirà al pubblico il 24 aprile Vivian Maier. The exhibition, “la più grande mostra mai dedicata alla celebre fotografa americana” ospitata a Padova, presso il Centro Culturale Altinate – San Gaetano fino al 28 settembre 2025. Sono più di 200 le stampe a colori e in bianco e nero, oltre a contact sheet, le opere esposte. La mostra propone anche registrazioni audio originali con la voce della fotografa e filmati Super 8, “visibili soltanto in questa retrospettiva” precisano gli organizzatori.
Curata da Anne Morin – la più grande esperta e studiosa della vita dell’artista – l’esposizione è suddivisa in sezioni tematiche che esplorano i soggetti e gli aspetti distintivi del suo stile: dagli intensi autoritratti alle scene di vita urbana, dai ritratti di bambini alle immagini di persone ai margini della società. La selezione include fotografie in bianco e nero e a colori, molte delle quali rare ed esposte solo recentemente al pubblico. La mostra si arricchisce inoltre di filmati in formato Super 8, provini a contatto, audio con la voce di Vivian Maier e vari oggetti personali, tra cui le sue macchine fotografiche Rolleiflex e Leica.
Vivian Maier
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
Vivian Maier
Vivian Maier Courtesy of Maloof Collection and Howard Greenberg Gallery NY
La mostra è prodotta e organizzata da Arthemisia Promossa dal Comune di Padova, da un progetto di Vertigo Syndrome in collaborazione con Chroma photography.
INFORMAZIONI
Orario apertura
Dal martedì alla domenica 10.00-19.30
Chiuso il lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima)
Orari estivi dal 28 luglio al 31 agosto
Dal martedì alla domenica 10.00-13.00, 15.30-19.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)
Chiuso il lunedì
Dall’11 al 17 agosto chiuso
Aperture straordinarie
Venerdì 25 aprile 10.00-19.30
Giovedì 1 maggio 10.00-19.30
Lunedì 2 giugno 10.00-19.30
Venerdì 13 giugno 10.00-19.30
Biglietti
Open € 18,00
Intero € 16,00
Ridotto € 14,00
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