– ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -Edizione del TCI anno 1929-copia anastatica-
Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-Biblioteca DEA SABINA- ABBAZIA di FARFA-Monumenti della Sabina -TCI anno 1929-
ABBAZIA di FARFA-situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’abbazia – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
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Abbazia di FARFA -Abbazia benedettina situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’Abbazia di Farfa – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
Archeologia
Il complesso medievale dell’abbazia di F. fu quasi completamente demolito poco prima del 1500, quando gli Orsini la ricostruirono. Agli inizi del Novecento, dell’epoca medievale si conservavano soltanto due strutture: un campanile, adiacente alla chiesa di età successiva, e una torre più robusta, il c.d. torrione.Il primo tentativo di recuperare i resti degli edifici di epoca medievale fu quello di Schuster (1921). Riconosciuto il campanile come una delle poche strutture medievali conservate in alzato, nel desiderio di ritrovare l’oratorio costruito dall’abate Sicardo (830-842) egli si persuase che il piano inferiore del campanile fosse una cripta.Altri scavi furono condotti nel 1927 (Markthaler, 1928) e nel 1936 (Croquison, 1938). Markthaler, partendo dall’identificazione di Schuster e dal fatto che l’oratorio era adiacente alla chiesa abbaziale, ipotizzò correttamente che l’antica chiesa si trovasse sul lato nordoccidentale del campanile; a una distanza di m. 30 ca. in direzione N-O scoprì poi una cripta. Invece di trarre le ovvie conclusioni (cioè che questa cripta e non la torre fosse il sito dell’oratorio), Croquison la ritenne estranea a Sicardo e pertinente invece a una chiesa ancora più antica, la cui navata doveva essere perpendicolare rispetto a quella della chiesa dell’epoca degli Orsini.I restauri del 1959-1962, effettuati dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio (Franciosa, 1964), hanno dimostrato come la muratura medievale si sia conservata in tutta la sua altezza all’estremità orientale della chiesa rinascimentale, adiacente al campanile, mentre i saggi al di sotto del pavimento dell’edificio attuale hanno rivelato i muri e un elaborato pavimento in opus sectile pertinente alla navata altomedievale, disposti perpendicolarmente a essa. Al di sopra del livello pavimentale si conserva una piccola parte del muro altomedievale con il ritratto dipinto di un abate, forse Altberto (m. nel 790 ca.). A S della navata sono state scoperte le fondazioni di un muro massiccio e una struttura turriforme, in origine con una scala a chiocciola. Poiché l’abate Ugo all’inizio del sec. 11° descrisse F. come una città munita di mura (Destructio monasterii Farfensis), si è ipotizzato che il muro e la torre facessero parte di una cinta difensiva a protezione dell’abbazia. I più importanti oggetti mobili portati alla luce dagli scavi sono un sarcofago in marmo con una scena di battaglia e l’epitaffio dell’abate Sicardo (Franciosa, 1964).Le fonti scritte, le scoperte archeologiche e le strutture dell’abbazia ancora conservate in alzato sono state più di recente analizzate da McClendon (1980) il quale ha tratto due importanti conclusioni. Innanzi tutto, il campanile non è del sec. 9°, ma dell’11°, come permette di stabilire il confronto con la torre campanaria di S. Scolastica a Subiaco, del 1053. In effetti McClendon ha reinterpretato la torre e le strutture adiacenti come terminazione orientale della chiesa medievale, consistente in un presbiterio rettangolare costruito nel sec. 11° e in origine fiancheggiato da campanili gemelli. Secondo l’archeologo, inoltre, la cripta non è del sec. 8°, ma del 9°, come testimonia la forte somiglianza tra la cripta (e il transetto al di sopra di essa) e la terminazione orientale di S. Prassede a Roma, costruita da papa Pasquale I (817-824) soltanto un decennio prima che Sicardo divenisse abate di F.: si tratterebbe dunque della cripta dell’oratorio di Sicardo.Il primo obiettivo dei più recenti scavi condotti dalla British School at Rome tra il 1978 e il 1985 è stato quello di studiare le due strutture immediatamente all’esterno dell’oratorio, scoperte da Croquison (1938): un muro curvilineo posto a m. 3 all’esterno dell’abside che conteneva la cripta e uno rettilineo emergente dall’angolo del transetto. Nell’ultima campagna è stata scavata quasi tutta l’area tra la cripta e il c.d. torrione, area nella quale attualmente mancano costruzioni, ma dove in precedenza si trovava un grande edificio identificato come il palazzo tardomedievale e rinascimentale del cardinale-abate che amministrava i beni dell’abbazia.Nelle prime fasi degli scavi sembrava che l’edificazione del palazzo avesse cancellato ogni altro edificio preesistente; fortunatamente però nella costruzione del palazzo erano state riutilizzate strutture dell’8° e 9° secolo.Il muro concentrico alla cripta della chiesa medievale scoperto da Croquison, nuovamente scavato, è risultato essere il muro esterno di un ambulacro semicircolare costruito intorno all’abside; realizzato in due periodi diversi, l’ambulacro conteneva alcune tombe, evidentemente di importanti personaggi seppelliti il più vicino possibile alla cripta. La terminazione nordoccidentale della chiesa abbaziale altomedievale quindi consisteva di un transetto con un’abside, al di sotto della quale si trovava una cripta anulare. Adiacente all’abside, a livello della cripta, era un ambulacro semicircolare contenente sepolture. L’ambulacro è elemento del tutto estraneo alla tradizione costruttiva architettonica romana e i confronti più diretti possono essere istituiti con esempi transalpini, come Fulda, dove l’abate Ratgerio (802-817) aveva progettato un transetto, con abside e ambulacro concentrici, consacrato nell’819; da questi esempi deriva la formulazione di F., dove, oltre alle connessioni politiche con l’ambiente carolingio, si erano succeduti alla fine del sec. 8° abati di origine transalpina, come Ragambaldo, Altberto e Mauroaldo, mentre gli abati Benedetto (802-815) e Ingoaldo (815-830) avevano soggiornato rispettivamente a Francoforte e ad Aquisgrana.L’area prospiciente l’oratorio ha una storia complessa: nel sec. 12° o 13° era adibita a giardino e in seguito a cortile della stalla del palazzo del cardinale, ma, prima del sec. 12°, era uno spazio aperto con al centro un pozzo o una cisterna e varie tombe. Dopo un periodo di abbandono, durante il quale subì alla sommità una sensibile erosione, il pozzo-cisterna fu riempito deliberatamente con terra e pietrisco in cui sono state ritrovate due monete dell’imperatore Enrico II (1002-1024).Per spiegare questi elementi si deve considerare il secondo muro scoperto da Croquison, che partiva dall’angolo nordoccidentale del transetto. Gli scavi del 1978-1985 hanno dimostrato che esso si estendeva a O per m. 23; questo provava che vi erano state tre fasi costruttive e che rimaneva abbastanza per mostrare che il muro più antico terminava a m. 18 dal transetto e quindi girava verso N; a m. 3 a N del muro di Croquison vi era una struttura parallela, per la quale potevano essere provate quattro fasi costruttive anteriori al 15° secolo. L’area tra le due strutture parallele presentava numerose tombe al di sotto di un pavimento di calcare.È importante notare che la prima fase di costruzione è più antica dell’edificazione dell’ambulacro esterno alla cripta. Ciò mostra come lo spazio aperto sia anteriore alla costruzione dell’oratorio di Sicardo, che emerge come una struttura monumentale aggiunta alla chiesa abbaziale, occupando negli anni trenta del sec. 9° un terzo dell’area aperta. A parziale compensazione la facciata originale dell’atrio fu sostituita da una nuova struttura spostata di m. 2 a O, testimonianza dell’estensione del portico.Non ci sono prove archeologiche per la datazione di questo spazio aperto; è possibile comunque che la Constructio monasterii Farfensis contenga un indizio nella notizia di una visita a F. nel 705 del duca Faroaldo di Spoleto, la cui scorta aveva scaricato il proprio bagaglio in atrio. Se la parola atrium ha in questo caso un significato letterale, ci si può chiedere se tale atrio facesse parte dell’originario edificio costruito da Tommaso di Morienna verso la fine del 7° secolo.L’interpretazione di queste strutture è ancora incerta. Lo spazio aperto di fronte all’ambulacro dovrebbe essere un atrio attraverso il quale, prima della costruzione dell’oratorio di Sicardo, si entrava nella chiesa. Le strutture parallele dovrebbero consistere in un portico racchiudente il lato sudoccidentale, costituito verso l’interno da un colonnato e verso l’esterno da un muro continuo. Secondo un’ipotesi diversa l’accesso alla chiesa altomedievale sarebbe avvenuto dall’altra estremità e lo spazio aperto sarebbe stato un chiostro o un analogo complesso situato non davanti, ma oltre la chiesa carolingia.Adiacente al lato sudoccidentale dell’atrio-chiostro era un ampio ambiente rettangolare, al quale si addossava un altro più stretto. Si tratta di una struttura in origine molto accurata, con pitture murali almeno sui lati nordorientale e sudoccidentale. All’estremità sudorientale si trovava un ampio ingresso assiale, la cui soglia si conserva al di sotto di ricostruzioni successive. Per quanto è possibile vedere non vi erano aperture nel muro nordoccidentale, né accessi dall’atrio-chiostro; un ingresso sul muro meridionale conduceva alla struttura adiacente. L’ambiente fu modificato in varie occasioni: la prima fase inglobava i resti di muri che sono tardo-romani o altomedievali; nella seconda fase i muri furono nuovamente decorati. In seguito venne costruita una coppia di pilastri contrapposti forse per sostenere un arco, mentre il muro occidentale fu rinforzato. Evidentemente i muri dovevano sostenere un ulteriore peso e la spiegazione più probabile è che sia stato costruito un piano superiore. Contemporaneamente venne aperto un passaggio sul muro nordoccidentale che metteva in comunicazione il grande ambiente con una struttura di dimensioni ancora maggiori, il c.d. torrione, a m. 5 più a O. A una data sconosciuta nell’ampia stanza venne aggiunto un pavimento a mosaico in opus sectile, del quale si è conservato un piccolo frammento.L’ambiente grande e quello più piccolo che vi si addossava, in comunicazione tra loro grazie a un passaggio, costituivano una struttura unica di cui non è accertata la data di costruzione. La decorazione dell’ambiente più piccolo comprendeva una figura stante e un’iscrizione, ora solo parzialmente leggibile; il panneggio della figura e le lettere dell’iscrizione trovano confronti nella fine dell’8° e nel 9° secolo. Le pitture presentano tracce di un incendio e l’intonaco è rossastro a causa del calore; esse sono considerevolmente erose anche dietro l’abside dell’11° secolo. Ciò può costituire la prova non soltanto di un incendio, ma anche di un’epoca di abbandono durante la quale l’ambiente rimase privo di copertura e i dipinti furono così esposti alle intemperie; se questa ipotesi è giusta, il danno potrebbe essere stato causato dall’incendio dell’897 e dal temporaneo abbandono che ne seguì. Inoltre la terminazione nordoccidentale del grande e del piccolo ambiente fu posta al livello della facciata originaria dell’atrio-chiostro, che fu demolito quando Sicardo costruì l’oratorio. Così, mentre i danni provocati dal fuoco e dall’erosione dimostrano che gli ambienti già esistevano nell’897, l’allineamento dei muri alle estremità con quelli del più antico atrio-chiostro prova la loro esistenza già negli anni trenta del 9° secolo. Ne consegue che gli ambienti adiacenti all’atrio-chiostro esistevano all’inizio del sec. 9° e che, come questo, essi subirono gravi danni nell’897.Le dimensioni dell’ambiente maggiore e la presenza delle pitture murali e del mosaico pavimentale fanno ritenere che si tratti di un luogo importante destinato alle riunioni. Si può escludere l’ipotesi della sala capitolare, che il Regestum Farfense (doc. nr. 1153) riferisce essere adiacente alla chiesa, mentre questo edificio non lo era; è più probabile che si tratti del refettorio, anche perché quello di Montecassino, contemporaneo a questa struttura, occupava la stessa posizione. Le firme su un documento di F. indicano però che la comunità comprendeva almeno cento monaci e questa struttura è troppo piccola per poter ospitare un numero così grande di persone. Una terza ipotesi potrebbe spiegare non solo gli ambienti legati tra loro, ma anche il c.d. torrione. Questa massiccia torre (m. 15 ´ 11) ha muri spessi più di m. 2; i lati sono paralleli a quelli dell’ambiente grande e le due strutture erano comunicanti tramite una porta; è quindi da ritenere che l’ambiente e la torre fossero in relazione. La forma e la posizione di quest’ultima – lontana dalla chiesa e all’interno della linea delle difese scoperte nel 1959 – mostrano che non si trattava né di un campanile né di una torre della cinta muraria. Nel piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), nell’area a destra e di fronte alla chiesa principale si trovano edifici destinati agli ospiti. È possibile che sia stata proprio questa la funzione degli ambienti di F.: quello maggiore sarebbe stato nel sec. 11° perfettamente adeguato agli ospiti più ragguardevoli dell’abbazia, compreso l’imperatore; se il c.d. torrione fosse stato compreso nel complesso, il palazzo avrebbe avuto dimensioni considerevoli, con alloggiamenti per il seguito dell’imperatore e una stanza fortificata per il suo tesoro. Non è forse un caso che proprio queste stanze nel sec. 15° fossero state trasformate in palazzo per il cardinale-abate.Il nucleo del palazzo (se si tratta del palazzo) fu costruito prima che Sicardo ampliasse la chiesa e il suo atrio nell’830. Mentre mancano prove dirette per la data della sua costruzione, se ne può trovare un indizio nell’archivio di F. in forma di registrazione di donazioni all’abbazia: i periodi in cui questa riceveva un maggior numero di elargizioni sono anche quelli in cui è più probabile che venissero costruiti nuovi ambienti. Un’analisi delle donazioni mostra che prima di Sicardo si ebbero altri due momenti molto favorevoli: negli anni ottanta del sec. 8°, sotto l’abate Probato, e tra l’810 e l’820, all’epoca degli abati Benedetto e Ingoaldo. Mentre delle attività di Benedetto e Ingoaldo come costruttori non si sa nulla, il registro testimonia che Probato fornì al monastero un nuovo condotto per l’acqua. Presumibilmente il sistema idraulico già esistente si era rivelato inadeguato, anche perché la comunità era divenuta più numerosa. Probato, sotto il quale F. ricevette la protezione di Carlo Magno, sembra quindi colui che con maggiore probabilità può essere indicato come costruttore di un palazzo per il suo più importante benefattore.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), V, Roma 1914, pp. 156-157; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; Constructio monasterii Farfensis, ivi, I, p. 9; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, p. 31.
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
Dal libro: Fotoreportage per raccontare Roma e la sua Campagna Romana
di Franco Leggeri.
La bellezza, la poesia e la “bioarchitettura” del Viale dei pini nella Campagna Romana. V.le del sito Archeologico Torre della BOTTACCIA-Brano e Fotoreportage tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
L’ecologia è un concetto che fa parte della coscienza universale, di cui dobbiamo essere ogni giorno sempre più consapevoli. Il grande scienziato della natura e poeta Goethe riassume tale consapevolezza con queste parole: “Nulla si impara a conoscere, se non ciò che si ama, e più forte è l’amore tanto maggiore sarà la conoscenza”. Imparare a “godere” dello spazio naturale che ci circonda è uno strumento di straordinario valore per diffondere e sedimentare nell’agire una vera e propria cultura della sostenibilità. In tal senso, probabilmente la più spontanea e potente istanza pedagogica è proprio il paesaggio, capace di impartire una sua prima e fondamentale educazione implicita: il paesaggio è infatti come scrive , molto bene, nel suo saggio ”Paesaggio Educatore” il Regni R. “ maestro di una cultura dell’ascolto dell’armonia dell’uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare”(Ed.Armando -2009). L’ammirazione per lo splendore della natura è il motore che genera e, conseguentemente, moltiplica in ognuno di noi , sin dalla più giovane età, i sentimenti di affezione , rispetto e curiosità verso il patrimonio ambientale che ci circonda. D’altra parte tale affezione e desiderio di cura tutela non può che scaturire dalla conoscenza e dalla relazione . Ci è istintivamente estraneo ciò che non conosciamo, con cui non possiamo dialogare per assenza di codici condivisi e a cui non siamo socializzati . L’estraneità si supera a mio avviso, solo attraverso un flusso comunicativo e relazionare che deve essere continuamente alimentato e che dà luogo ad una empatia prodromica a comportamenti di cura , tutela e di salvaguardia . Per recuperare i “codici” che ci consentono , nell’ascolto, di comprendere il linguaggio della natura bisogna , infatti, conoscere quest’ultima, perché solo coltivando una conoscenza profonda e radicata , ma anche istintiva, di qualcosa possiamo affezionarci ad essa, amarla e far crescere in noi il desiderio spontaneo di difenderla e preservarla.
Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
Campagna romana
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-ROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaROMA- Municipio XIII- Castel di Guido, Torre della BottacciaFoto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
ArchaeoReporter-La morte di Papa Francesco Il suo pensiero sui beni artistici e culturali da salvare-Articolo di Angelo Cimarosti-
Articolo di Angelo Cimarosti-ArchaeoReporter–Con la morte di papa Francesco scompare una figura centrale non solo per la Chiesa ma anche per il mondo della cultura. .”il patrimonio storico, artistico e culturale, insieme al patrimonio naturale, è ugualmente minacciato…”, ricordava il pontefice”
La scomparsa del Santo Padre Francesco è un momento di preghiera per i fedeli e di raccoglimento per chi ha apprezzato il suo impegno e la sua voce anche al di fuori della Chiesa. ArchaeoReporter si unisce al ricordo per la sua figura di Pontefice e per la sua persona.
Il vero ruolo partecipativo dell’arte, dei beni culturali e dei musei
Nel 2019 il Papa scrisse un discorso, che poi diffuse invece per iscritto, in occasione dell’incontro con l’Associazione dei Musei Ecclesiastici Italiani, che riportiamo quasi integralmente, in particolare sottolineandone l’aspetto dei beni culturali visti come mezzo partecipativo e sulla necessità di comunicarli con un linguaggio adeguato.
“...Nell’Enciclica Laudato si’ ho ricordato che il patrimonio storico, artistico e culturale, insieme al patrimonio naturale, è ugualmente minacciato. Esso è parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. Bisogna integrare la storia, la cultura, l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale, facendo dialogare il linguaggio tecnico con il linguaggio popolare. È la cultura intesa non solo come i monumenti del passato, ma specialmente nel suo senso vivo, dinamico e partecipativo (cfr n. 143). Per questo è fondamentale che il museo intrattenga buone relazioni con il territorio in cui è inserito, collaborando con le altre istituzioni analoghe. Si tratta di aiutare le persone a vivere insieme, a vivere bene insieme, a collaborare insieme. I musei ecclesiastici, per loro natura, sono chiamati a favorire l’incontro e il dialogo nella comunità territoriale. In questa prospettiva è normale collaborare con musei di altre comunità religiose. Le opere d’arte e la memoria di diverse tradizioni e stili di vita parlano di quella umanità che ci rende fratelli e sorelle.
Il museo concorre alla buona qualità della vita della gente, creando spazi aperti di relazione tra le persone, luoghi di vicinanza e occasioni per creare comunità. Nei grandi centri si propone come offerta culturale e di rappresentazione della storia di quel luogo. Nelle piccole città sostiene la consapevolezza di una identità che “fa sentire a casa”. Sempre e per tutti aiuta ad alzare lo sguardo sul bello. Gli spazi urbani e la vita delle persone hanno bisogno di musei che permettano di gustare questa bellezza come espressione della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco (cfr Laudato si’, 150).
So bene che per voi questo lavoro è una passione: passione per la cultura, la storia, l’arte, da conoscere e da salvaguardare; passione per la gente delle vostre terre, al cui servizio ponete la vostra professionalità. E anche passione per la Chiesa e la sua missione. I musei in cui operate rappresentano il volto della Chiesa, la sua fecondità artistica e artigianale, la sua vocazione a comunicare un messaggio che è Buona Notizia. Un messaggio non per pochi eletti, ma per tutti. Tutti hanno diritto alla cultura bella! Specie i più poveri e gli ultimi, che ne debbono godere come dono di Dio. I vostri musei sono luoghi ecclesiali e voi partecipate alla pastorale delle vostre comunità presentando la bellezza dei processi creativi umani intesi ad esprimere la Gloria di Dio. Per questo cooperate con i vari uffici diocesani, e anche con le parrocchie e con le scuole.
Mi congratulo con voi perché curate la vostra formazione, per garantire una preparazione generale aggiornata anche presso i centri di studio ecclesiastici, oltre alla preparazione specifica nei diversi settori di competenza. Penso ad esempio al corso svolto quest’anno nella Pontificia Università Gregoriana. Ma anche al lavoro capillare di informazione e di comunicazione dei musei attraverso i media, le giornate di formazione e i contributi a riviste specializzate. Incoraggio anche le iniziative che portate avanti insieme con gli archivi e le biblioteche, mettendo in sinergia le vostre professionalità e la vostra passione. Insieme a volte si va più adagio, ma sicuramente si va più lontano!
Molti di voi si dedicano al dialogo con gli artisti contemporanei, promuovendo incontri, realizzando mostre, formando le persone a linguaggi di oggi. È un lavoro di sapienza e di apertura, non sempre apprezzato; è un lavoro “di frontiera”, indispensabile per continuare il dialogo che la Chiesa sempre ha avuto con gli artisti. L’arte contemporanea recepisce i linguaggi a cui specialmente i giovani sono abituati. Non può mancare questa espressione e sensibilità nei nostri musei, attraverso la sapiente ricerca delle motivazioni, dei contenuti e delle relazioni. Nuove persone si possono avvicinare anche all’arte contemporanea sacra, che può essere luogo importante di confronto e di dialogo con la cultura di oggi…”.
Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-Franco Leggeri Fotoreportage “Il Giardino Antico” VILLA ROMANA delle COLONNACCE-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”
ROMA MUNICIPIO XIII- Castel di Guido-I visitatori , anche a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, ospiti del GAR nella Villa Romana delle Colonnacce, sono stati guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana, molti partecipanti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi con alla base un cartello con la descrizione dell’essenza tratta dalle Opere di Plinio. Gli alberi costituiscono una riproduzione di un”GIARDINO ANTICO” e si trovano in un angolo in fondo all’area archeologica. Ne elenco alcuni esemplari : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui nella antica Villa Romana delle Colonnacce a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato un’occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
Articolo e foto sono di Franco Leggeri per l’Associazione CORNELIA ANTIQUA-
CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com- Cell-3930705272-CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”CASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico” IL Mitico LUCA-Archeologo e storico della Villa Romana delle ColonnacceCASTEL DI GUIDO, VILLA ROMANA DELLE COLONNACCE : “Il Giardino Antico”Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .Castel di Guido- – 22 aprile 2017-GAR- Sessione di scavo Villa Romana delle Colonnacce .
-Roma, MunicipioXIII: il Castello della Porcareccia-
Roma, Municipio XIII -Franco Leggeri Fotoreportage- : il Castello della Porcareccia – Quartiere Casalotti. Fuori dal traffico della Via Boccea, in una discontinuità edilizia, c’è il Castello della Porcareccia, noto anche con il nome “Castello aureo”, che domina il suo borgo medievale. Il fortilizio, in posizione strategica, è costruito su di uno sperone roccioso. Anticamente vi era una torre di avvistamento, ora scomparsa. Il Castello nel corso dei secoli è stato, più volte, rimaneggiato e, rispetto alla costruzione originale, ora si vedono modifiche strutturali evidenti. Il toponimo deriva da “Porcaritia”.
Il Castello della Porcareccia-cortile interno
Nel passato questa era una località al centro di boschi di querce e, quindi , luogo più che mai adatto all’allevamento dei maiali. Il primo documento che parla del Castello è una lapide del 1002, che si trova nella Chiesa di Santa Lucia delle Quattro Porte ,dove si legge che un prete “romanus” dona la tenuta della Porcareccia ai canonici di Monte Brianzo. Nel 1192 Papa Celestino III dà la cura del fondo ai canonici di Via delle Botteghe Oscure. Il Papa Innocenzo III affidò una parte della tenuta all’Ordine Ospedaliero di Santo Spirito. La tenuta passò, dopo la crisi fondiaria del 1527, ai principi Massimo e nel 1700 ai Principi Borghese, quindi ai Salviati e ai principi Lancellotti, ora la proprietà del Castello è della Famiglia Giovenale che lo possiede dal 1932.
Il Castello della Porcareccia
Il portale d’ingresso è imponente e su di esso vi è lo stemma di Sisto IV. Prima di accedere al cortile interno, nel “tunnel”, in alto, si notano dei fori passanti sedi di una grata metallica che, alla bisogna, era calata per impedire assalti e irruzioni di nemici . Nel giardino interno del Castello vi è, in bella mostra, una stele commemorativa di un funzionario imperiale delle strade di Roma . La stele probabilmente era riversa in terra perché presenta evidenti segni di ruote di carro. Vicino vi è una lapide funeraria con incisi dei pavoni, antico simbolo di morte. Sono visibili altri reperti di epoca romana, come frammenti di capitelli e spezzoni di colonne. In bella mostra, montata alla rovescia, vi è una vecchia macina a mano per il grano, una simile è nel cortile della chiesa di Santa Maria di Galeria. Nel piazzale interno c’è la chiesetta di Santa Maria la cui costruzione risale al 1693.
Il Castello della Porcareccia
Ciò che colpisce nella chiesa è la bellezza dell’Altare realizzato in legno intagliato, come dice uno dei proprietari, il Sig. Pietro Giovenale:”l’Altare è stato costruito dai prigionieri austriaci della Grande Guerra che qui erano stati internati”. Nel 1909, giusto un secolo fa, in questa chiesa celebrava la Messa il giovane prete Don Angelo Roncalli, il futuro Papa Buono, Giovanni XXIII il quale veniva in questi luoghi per goderne la bellezze naturali e gustare ”la buona ricotta” della via Boccea che Gli veniva offerta dai pastori ; a ricordo di questa visite, all’interno della chiesa, per desiderio della Famiglia Giovenale, il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, Mons. Gino Reali, nel 2004 inaugurò una lapide. La tenuta della Porcareccia fu anche antesignana della “guerra delle quote latte”; Ci narra la storia che nel periodo di carestia si diede il massimo sviluppo all’allevamento dei suini per sfamare la popolazione di Roma, come si legge in una bolla di Papa Urbano V nel 1362 che decretava “libertà di pascolo ai suini in qualsiasi terreno e proprietà…”. Per segnalare la presenza degli animali furono messi dei campanelli alle loro orecchie e chiunque ne impediva il pascolo incorreva in pene severissime.
Articolo e Fotoreportage di Franco Leggeri
N.B. Le foto originali sono di Franco Leggeri- Fonte articolo: Autori Vari- Si Evidenzia e voglio ricordare che gli Alunni di Casalotti hanno realizzato un pregevole lavoro sulle origini e la Storia del Castello. L’Intervista con il Sig. Giovenale è di Franco Leggeri- Si chiarisce che l’articolo è solo una piccola sintesi ricavata da un lavoro molto più esaustivo e completo relativo al Medioevo e i sistemi difensivi della Campagna Romana – TORRI SARACENE-TORRI DI SEGNALAZIONI – Monografia e ricerca storica i biblioteca di Franco Leggeri pubblicazione a cura dell’Associazione DEA SABINA.
Il Castello della PorcarecciaIl Castello della PorcarecciaIl Castello della Porcareccia
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025-
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025-Sabato Santo -Pasqua del Signore– Fotoreportage di Franco LEGGERI-citando il Poeta
Johann Wolfgang von Goethe che così dipinse la nostra Campagna Romana: “Armonia eterea, delle ombre chiare e azzurre, fuse nel vapore che tutto avvolge in una sinfonia di trasparenze lucenti”.
Poeta Johann Wolfgang von Goethe
Campagna Romana-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
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Etimologia
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
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Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
Fotoreportage di Franco LEGGERI-Campagna Romana-Il sorgere del sole del 19 aprile 2025
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
ROMA- ricerca chiesa di SANT’APOLLINARE a SELVA NERA
Roma- Municipi XIII-XIV-La chiesa di Sant’Apollinare a Selva Nera- Ricerche Archeologiche dell’Associazione Cornelia Antiqua-
Oggi una ricognizione di “Cornelia Antiqua” ha rinvenuto dei ruderi di casali nei pressi di via Cumiana, fra Selva Nera e Boccea (immagini 3-8). Poiché un rudere indica una persistenza insediativa anche assai dilatata nel tempo, è probabile che proprio in tale punto sorgesse la chiesina o cappella che nella carta di Eufrosino (ricordiamo: 1547) è indicata come Sant’Apollinare.
Associazione CORNELIA ANTIQUA- Siete appassionati della Storia poco raccontata, quella da riscoprire e vi piace l’ Avventura ,oppure siete affascinati dalla bellezza della Campagna Romana ? Allora unisciti a noi. Ecco cosa facciamo: Produciamo Documentari e Fotoreportage, organizziamo viaggi ,escursioni domenicali e tantissime altre iniziative culturali. Tutti sono benvenuti nella nostra Associazione, non ha importanza l’età, noi vi aspettiamo ! Per informazioni – e.mail.: cornelia.antiqua257@gmail.com-Cell-3930705272-ROMA- ricerca chiesa di SANT’APOLLINARE a SELVA NERA
Il toponimo Malagrotta (“Mola Rupta”) appare per la prima volta nel 955 in un codice dei Camaldolesi: qui è annotata, infatti, la vendinta di metà di un casale di proprietà della nobile Costanza, chiamato Casa Nobula, in contrada “Mola Rupta”.
In altri documenti del periodo, derivati dall’Archivio dei Camaldolesi, si parla di altri casali presso tale “Mola Rupta”.
L’origine del nome si spiega con la presenza di un mulino in rovina presso il fiume Galeria (una “mola rupta”, appunto) presumibilmente a causa di una piena dello stesso.
In una bolla di Innocenzo IV (1249), invece, con Molarupta s’intende non un semplice sito di campagna ricco di casali, ma di un vero e proprio castrum al centro di un fondo con le chiese di S. Maria e S. Apollinare.
Giuseppe Tomassetti annota: “Ecco pertanto che il sito è cresciuto, per così dire, di grado ed è un castello. Quanto alle chiese suddette, non è questa la prima menzione di esse leggendosi [di esse] già nella bolla di Leone IX” (pontefice dal 1049 al 1054) come dipendenti dalla diocesi di Porto.
ROMA- ricerca chiesa di SANT’APOLLINARE a SELVA NERA
Abbiamo, quindi, che all’importante e vasto fondo di Mola Rupta-Malagrotta lungo il Galeria si lega il nome di Sant’Apollinare sin dalla metà dell’XI secolo.
È nella carta di Eufrosino Della Volpaia (1547; immagine 1) che ritroviamo la nostra chiesa. Coi dovuti raffronti (nell’immagine 2 una ricostruzione da google) possiamo situarla con certezza nella zona dell’attuale Selva Nera. Avendo l’accortezza di capire che il nord si trova a sinistra, possiamo intuire come la nostra Sant’Apollinare sorgesse approssimativamente lungo il fosso dell’Acquasona (segnato in azzurrino) poco prima di una grande ansa. L’Acquasona scende, appunto, da Selva Nera e si getta nel Galeria all’altezza del cosiddetto “Dazio”, dove s’incrociano via di Boccea, via Casal Selce e via della Storta.
Scrive Thomas Ashby nel saggio sulla mappa di Eufrosino:”S. Apolina(re). Quello che si vede sembra un edifizio rovinato, forse una chiesa o cappella … Doveva essere vicino al segnale Acquasona … ora però non si vedono che mattoni sparsi per terra. Credo che vi sia stato un fondo appartenente alla chiesa di S. Apollinare in Roma, che non ho potuto rintracciare”.
ROMA- ricerca chiesa di SANT’APOLLINARE a SELVA NERA
Il possibile sito ove sorgeva questa chiesa o cappella dovrebbe quindi trovarsi non distante dall’Acquasona.
Oggi una ricognizione di “Cornelia Antiqua” ha rinvenuto dei ruderi di casali nei pressi di via Cumiana, fra Selva Nera e Boccea (immagini 3-8). Poiché un rudere indica una persistenza insediativa anche assai dilatata nel tempo, è probabile che proprio in tale punto sorgesse la chiesina o cappella che nella carta di Eufrosino (ricordiamo: 1547) è indicata come Sant’Apollinare.
Poco sotto, sempre nella carta di Eufrosino (immagine 1), possiamo scorgere la scomparsa torre di Mucciafore. Questa doveva trovarsi sulla piccola altura raggiungibile da via Mezzenile, la traversa a destra di via della Storta. Il luogo è alatament probabile poiché da lì l’osservatore poteva dominare il crocicchio della Boccea (con la strada che saliva da Malagrotta) nonché il ponte sul fiume Galeria.
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Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra-Nella foto la geologa-speologa Dott.ssa Tatiana CONCAS
ROMA MUNICIPIO XIII-L’Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra –
ROMA MUNICIPIO XIII-L’Associazione Cornelia Antiqua sulle tracce del dio Mithra -“Nel dicembre 1987, a circa 300 metri dal Casale della Bottaccia, in seguito a lavori agricoli che hanno provocato lo sprofondamento di una volta, si sono scoperti alcuni ambienti ipogei. L’ispezione, condotta da tale pertugio improvvisato da parte del dottor Sergio Mineo, evidenziava un complesso articolato “in tre ambienti distinti di forma quadrangolare, paralleli e di diversa lunghezza … la cui altezza media è di m. 2,30. I tre vani, dei quali non è stato individuato il piano di calpestio antico, sono coperti da una volta a botte e … raccordati tra loro da passaggi più stretti … L’ambiente C è il più interessante in quanto la sua parete di fondo presenta un bassorilievo scolpito nel tufo … raffigurante, a destra, un serpente, a sinistra un elemento di difficile interpretazione (un albero fortemente stilizzato?) e, in alto, al centro della composizione, una testa, raffigurante probabilmente il volto della divinità, i cui tratti sono del tutto abrasi” (Sergio Mineo, “Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma”, vol. 93, 1989-1990).Il complesso cultuale è stato identificato, con buona probabilità, quale mitraico.
L’AssociazioneCornelia Antiqua ha rinnovato la spedizione nei sotterranei. La visita ha confermato i rilievi del 1987: con qualche novità.
In effetti il volto centrale del bassorilievo è assai poco riconoscibile e purtuttavia il serpente già indica un atmosfera mitraica; e ciò sembra confermata da una nostra umile e personale rilettura dell’elemento a sinistra: non già un albero, benché stilizzato, bensì la raffigurazione d’una pigna, simbolo d’eternità e immortalità, e oggetto ricorrente in sei figurazioni mitraiche (“pomme de pin”) riportate nella celebre compilazione di Franz Cumont Textes et monuments figurés relatifs aux mystères de Mithra, 2 voll. 1896 – oggetto, quindi, non casuale, ma caratterizzante tale divinità.
Altra conferma verrebbe da un gruppo in marmo bianco raffigurante, senza dubbio, proprio il dio nella sua versione tauroctona (ovvero Mithra nell’atto di uccidere il toro). Tale gruppo marmoreo sarebbe stato rinvenuto nel 1825 proprio nel nostro mitreo dagli allora proprietari, i nobili Pamphili, che la tolsero a un sonno millenario aggiungendola alla propria straordinaria collezione (oggi esso è visibile alla Galleria Doria-Pamphili di via del Corso).
Lo stesso Cumont ci informa di tale ritrovamento nel secondo volume dell’opera succitata: “26. Composizione in marmo bianco [lunghezza m. 0,29; altezza m. 0,43] trovato nel 1825 sulla via Aurelia attorno all’undicesimo miglio nella tenuta denominata il Bottaccio, là dov’era situato senza dubbio Lorium, la celebre villa degli Antonini. Oggi è visibile alla galleria Doria … Mithra tauroctono con il cane (in parte nascosto dietro il dadoforo a destra), il serpente, lo scorpione e i due tedofori, uno, a sinistra, con in mano la sua torcia alzata, l’altra, a destra, abbassata. Una cinghia o un’ampia cintura circonda il corpo del toro. Restauri: il mantello fluttuante (dove probabilmente era appollaiato il corvo imperiale) e parte del cappello Frigio di Mitra, la torcia e le due mani del dadoforo sinistro. Mediocre lavoro“.
Nella composizione marmorea rinveniamo tutti gli elementi consueti della drammaturgia mitraica: Mithra che pugnala il toro, il serpente e il cane a lambire la ferita, lo scorpione che si avventa sui testicoli dell’animale morente, i due portatori di fiaccola Cautes e Cautopates (il primo la innalza, il secondo la rivolge a terra) che formano col dio una trinità, il corvo, la fertilità del sangue.
Se davvero, come è altamente probabile, tale gruppo proviene dai nostri vani ipogei, e se è sostenibile l’identificazione dell’elemento del bassorilievo quale pigna, è possibile definire, con ottimo grado di approssimazione, l’ambiente quale mitraico.
Se poi verrà confermata la presenza di una nicchia quale ospite del gruppo marmoreo stesso (dovrebbero risultare compatibili le misure anzidette) allora l’approssimazione si tramuterà in certezza.
Articolo di Gianluca Chiovelli , Vice-Presidente Associazione “Cornelia Antiqua”
Associazione Cornelia Antiqua
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L’Arabia Saudita acquista il know-how italiano per la cultura-
Negli ultimi anni, l’Arabia Saudita ha intensificato il suo impegno per ridefinire la propria immagine attraverso la cultura, investendo cifre ingenti per acquisire competenze in ambito artistico. Solo per rimanere nell’attualità, a gennaio 2025 ha aperto a Jeddah la seconda edizione della Biennale delle Arti Islamiche, con vari artisti internazionali invitati, tra cui anche l’italiano Arcangelo Sassolino, mentre in questi giorni, nel deserto di AlUla, è visitabile una mostra dedicata a James Turrell. Si tratta di progetti muscolari, che richiedono ingenti investimenti e conoscenze tanto specifiche quanto integrate. In questo contesto si inserisce il ruolo di Proger, gruppo italiano specializzato in ingegneria e project management e che, oltre a essere coinvolto nella progettazione del “famigerato” Ponte sullo Stretto di Messina, ha anche recentemente istituito una nuova divisione dedicata alla consulenza culturale, guidata da Francesco Rutelli.
Marco Lombardi e Khalid Alhazani direttore del Riyadh Art Program
Caso emblematico di questa strategia è il progetto Riyadh Art, un’iniziativa da oltre un miliardo di dollari volta a trasformare la capitale saudita nel più grande museo a cielo aperto del mondo. Anche grazie a questa politica, il Paese ha aperto ampi spazi per la collaborazione internazionale, come nel caso della partnership con il Centre Pompidou. Lanciato dal re Salman bin Abdulaziz Al Saud nel 2019, il progetto Riyadh Art è in linea con gli obiettivi del programma di sviluppo strategico Vision 2030, promosso dal Regno dell’Arabia Saudita per ridurre la propria dipendenza dal petrolio e diversificare l’economia del Paese, sviluppando settori come sanità, istruzione e turismo, ma anche incrementando la spesa pubblica in ambito militare. D’altra parte, la strada è ancora lunga: come riportato dal quotidiano The Guardian nel 2021, il budget dell’Arabia Saudita dipendeva ancora per il 75% dall’esportazione di petrolio.
«Con una popolazione giovane e in rapida crescita di sette milioni di residenti, la città si sta trasformando in una metropoli globale e l’arte in tutte le sue forme contribuisce in modo significativo al raggiungimento di questo obiettivo», si legge sul sito di Riyadh Art. Secondo quanto comunicato da Proger, il piano prevede l’installazione di 700 opere di artisti di fama internazionale, da Alexander Calder a Robert Indiana, in uno sforzo che unisce la monumentalità dell’intervento urbanistico con l’acquisizione di prestigio attraverso la promozione dei linguaggi della creatività contemporanea.
«Al mondo non esisteva un’unica realtà che offrisse una visione integrata di Engineering e Arte pubblica. Ora esiste», ha dichiarato Marco Lombardi, Ceo di Proger. «I programmi di Arte e Cultura non vanno solo immaginati e suggeriti, vanno anche resi possibili e realizzati. Expertise e sensibilità della Cultura Artistica devono essere integrati con la concretezza e pragmaticità dell’Ingegneria e del Project management. Non intendiamo trasformarci in quello che non siamo, ma abbiamo notato che il mondo della consulenza culturale internazionale è caratterizzato da soggetti che, pur estremamente esperti in settori specifici, non sono attrezzati per offrire soluzioni integrate perfette. Con loro vogliamo collaborare per offrire nuove prospettive al mondo dell’Art&Culture. In questo contesto si inquadra anche il rafforzamento della già consolidata partnership con Civita Mostre e Musei, leader nell’offerta integrata di servizi museali, organizzazione di mostre e progettazione territoriale».
Yannick Robert, When it Rains, 2023. Courtesy Riyadh Art and Tuwaiq Sculpture 2023
Dunque, forte di una lunga esperienza nell’ambito dell’ingegneria e della gestione di progetti complessi, Proger si è posizionata come un interlocutore chiave per questa trasformazione. La scelta della società di collocare a Riad il quartier generale regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa segnala un passaggio ulteriore: non solo esportare competenze ma radicarsi nei nuovi centri decisionali del mercato culturale globale. In questo senso, è significativo notare come recentemente l’ambasciatore cinese in Arabia Saudita, Chang Hua, abbia ufficializzato l’apertura, da parte di 35 aziende cinesi, di sedi regionali a Riad.
«Sviluppando soluzioni innovative possiamo creare modelli di riferimento globali. E costruendo un dialogo concreto con le istituzioni dei Paesi che sono e saranno nuovi protagonisti sulla scena mondiale – e che vedono nella cultura una forte risposta alle sfide che ci angustiano – possiamo contribuire alla crescita culturale, allo sviluppo sostenibile, all’inclusione sociale», ha dichiarato Francesco Rutelli, a capo della nuova Business Unit Art & Culture. «Alla competenza di una delle migliori Società internazionali di Ingegneria si affianca una visione che integra innovazione, arte, fruizione dell’arte nei Musei e nei luoghi pubblici, innovazioni digitali e creative. Sarà prezioso puntare sui successi nella progettualità, e contribuire al rafforzamento delle relazioni internazionali con una crescita del prestigio dei Paesi in cui Proger opera».
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