Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Fonte sito web-Scopri la Sabina
Salisano, sali solo se sei sano!
Si sale su una collina non troppo alta, e ci si imbatte in Salisano: si deve, appunto, salire per trovare questo delizioso borgo della Sabina. Si sale e si diventa sani, o c’è bisogno di essere sani per salire: secondo gli abitanti, da questo motto potrebbe derivare il toponimo, alludendo giocosamente alla prestanza fisica necessaria per salire fino ai suoi 460 metri di altitudine con la vecchia mulattiera che un tempo conduceva al borgo.
È un centro piccolo, in cui la campana della chiesa parrocchiale suona ogni quarto d’ora: un’esigenza imprescindibile per gli abitanti di un tempo, impegnati nelle attività dei campi e quindi legati a quel suono per la scansione temporale, un’esigenza ancora imprescindibile per gli abitanti, pochi quelli rimasti, ma che sono strenuamente legati alle loro tradizioni e alle loro radici.
Radici che in realtà non sono solo su questa collina, ma poco più avanti, e ad altitudine inferiore: nei pressi di quello che rimane di Rocca Baldesca. In realtà tutta la zona era ampiamente interessata dalla presenza dei Sabini prima e dei Romani dopo, ma nel corso del Medioevo la sede del borgo era nei pressi di quello che ad oggi è un castello abbandonato, o meglio quello che ne rimane.
Qualche cenno storico su Salisano
Salisano viene nominato, nel registro dei possedimenti dell’Abbazia di Farfa, come Fundus Salisanus: la prima menzione è precisamente dell’anno 840, quando compare nel diploma di Lotario I. Allora il suo aspetto non era certo quello di un castello, ma più di una curtis, con le case disposte intorno alla Chiesa di San Pietro.
È di poco posteriore la suddivisione del territorio in contrade, in base al numero delle strade: si ebbero allora la Contrada della Strada Diritta, la Contrada della Strada dei Ponti (così chiamata dai ponti che collegano le case da una parte all’altra del vicolo ed oggi, non a caso, conosciuta come Via degli Archi) e Contrada Strada del Fico, l’attuale Via Regina Elena. Si può ipotizzare che la prima fosse riservata ai nobili, visti gli aspetti dei palazzi e degli edifici, sontuosi in pietra, la seconda agli operai e ai popolani, mentre la terza a quella che oggi definiremmo il ceto medio, ovvero quella classe di funzionari, ma anche di commercianti e artigiani.
In parallelo, avveniva la nascita di Rocca Baldesca, castello e avamposto prima che Salisano divenisse, anch’esso, castello fortificato. Poco più in basso di Salisano e dunque più esposto a eventuali pericoli, Rocca Baldesca era un castello ampio, che ospitava la popolazione al suo interno. Fu abitato fino al 1400, quando le frequenti incursioni che rendevano il luogo poco sicuro, spinsero gli abitanti a spostarsi nella confinante Salisano.
Dopo essere stato feudo della sua famiglia, il 20 ottobre 1531 il Cardinale Francesco Orsini di Aragona concesse Salisano a Galiotto Ferreolo, il quale edificò un palazzo munito di bastione triangolare. Ad oggi, di questa rocca non rimane pressoché nulla, solo alcune rovine: distrutto per precisa volontà della popolazione, a cui viene attribuito anche l’assassinio, nel 1542, del Ferreolo, reo, secondo le fonti, di ogni sorta di tiranneria e dispotismo. Ed è un vero peccato che del Castello non rimanga che parte del bastione e la base dei due torrioni circolari: pare fosse stato progettato dal Sangallo.
Chiacchierando con la gente, abbiamo scoperto una rivalità con il vicino comune di Mompeo – i due comuni sono separati dalla Gola di Rosciano: non stupisce, è abbastanza frequente tra centri vicini. I due colli, quello di Mompeo e quello di Salisano, sono vicini, separati da una gola. Quello che sorprende è che si nobilita questa antipatia con motivazioni storiche: se Mompeo, come vi abbiamo raccontato nella scheda dedicata, sembra derivare il suo nome dalla presenza di una villa del celebre generale romano Gneo Pompeo Magno, allora non può che essere contrapposta a un centro fedele a Gaio Giulio Cesare, come si racconta, da queste parti, essere stato Salisano all’epoca.
La devozione per la Santa Patrona, Santa Giulia Vergine Martire
Santa Giulia Vergine Martire viene raffigurata in alcune tele poste all’interno della chiesetta parrocchiale, dedicata ai Santissimi Pietro e Paolo. L’intitolazione omaggia quelli che, inizialmente, erano patroni della città, che però Santa Giulia nel corso del tempo ha soppiantato nella devozione dei salisanesi.
Giulia era una giovane nobile cartaginese, verosimilmente vittima delle persecuzioni contro i cristiani perpetrate da Decio, o da Domiziano, imperatori rispettivamente tra il 249 e il 251 e il 244 e il 315. La colpa della fanciulla risiedeva nel non voler rinunciare alla sua fede. Probabilmente le sue reliquie viaggiarono nell’ambito dei flussi migratori dei cristiani, che fuggivano dall’Africa incalzati dalle incursioni dei Vandali di Genserico. E così arrivarono in Corsica, da dove Ansa, la sovrana dei Longobardi moglie di re Desiderio, le fece traslare a Brescia nel 762.
L’agiografia invece ci ha trasmesso un quadro molto più suggestivo delle sue peregrinazioni e sofferenze, di certo influenzato da una tendenza a rassomigliarle a quelle patite da Gesù Cristo. Giulia, tratta in schiavitù e condotta in Corsica durante i viaggi del suo padrone, fu sottoposta a un crudele martirio da un signore locale, tale Felice, per il fermo rifiuto opposto dalla fanciulla a sacrificare agli dei pagani.
Le vennero strappati i capelli, e fu crocifissa e gettata in mare. Le sue spoglie, ancora legate, inchiodate alle due assi di legno, vennero fortunosamente ritrovate da alcuni monaci. Il suo legame con la Corsica è ancora profondo, essendone poi diventata la Patrona. Ad oggi, Santa Giulia viene ricordata nel calendario cristiano il 22 maggio, ma a Salisano i festeggiamenti in suo onore si tengono durante la prima domenica dopo Ferragosto.
La cucina tipica di Salisano
Il piatto tipico di Salisano? Nessun dubbio, sono i maccheroni a fezze. Una pasta semplice, fatta di acqua e farina, tirata con la mano unta di olio, come un unico filo, ben spesso, non interrotto, che poi viene sistemato in una matassa dai cuochi locali, che si aiutano in questo con il gomito. In bianco, condita con olio extravergine della Sabina DOP, un ramoscello di maggiorana, da queste parti chiamata persa, e abbondante pecorino spolverato. Oppure un sugo di cinghiale, o castrato, o di pomodoro e basta. Purché ci sia il pecorino sopra!
Per quanto riguarda i secondi, i salisanesi mettono in tavola lo stracotto di cinghiale al vino rosso, o coniglio porchettato farcito con lardo, accompagnato dal pane ben cotto al forno a legna.
Possiamo chiudere il nostro pranzo con le ciambelle all’anice dolci, che sono distribuite durante la festa di Sant’Antonio.
Ma se vogliamo unire la gola al divertimento, allora occorre monitorare sui suoi canali social gli eventi organizzati dalla Pro Loco di Salisano: tipica è infatti la novembrina Sagra della Polenta e della Padellaccia. E se la polenta non ha bisogno di particolari presentazioni, diffusa com’è in tutto lo stivale, la padellaccia potrebbe non dirvi nulla a prima lettura. Si tratta di una succulenta preparazione a base di tagli tra i meno pregiati del maiale, guancia, diaframma, gola e quello che è disponibile al momento, condita con succo di limone, olive, erbe aromatiche, spadellata in una vecchia padella, una padellaccia, appunto, in una ricetta contadina, antica di almeno un secolo.
Quello che forse abbiamo tralasciato nel nostro racconto, e che speriamo di poter trasmettere anche se solo in parte, è il panorama. Alle volte ci sembra quasi di ripeterci, ma anche gli scorci di Salisano sono davvero, davvero suggestivi. Si affaccia sulla Valle del Farfa, sulle propaggini meridionali dei Monti Sabini, sulle pendici del Monte Ode, con il Monte Tancia sullo sfondo. Poco al di fuori delle mura, il colpo d’occhio viene catturato dalla torre che svetta della Rocca Baldesca e spazia sulla Cipresseta monumentale, in un connubio perfetto tra natura e opera dell’uomo.
Fonte sito web-Scopri la Sabina-
Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Riattivati – Associazione Culturale -Foto del TREKKING NELLA “TERRA DELLE GROTTE” 07.11.2021
Grande successo per il nostro TREKKING “TERRA DELLE GROTTE” Ringraziamo tutti i partecipanti che hanno sfidato il clima incerto per scoprire insieme a noi l’affascinante storia di #grotti . Un ringraziamento speciale a Terra delle Grotte per questa bella collaborazione che speriamo possa portare a nuovi appuntamenti
Le storie infinite sui Magi attraversano il Medioevo, in racconti intrisi di fede e leggenda. Dei misteriosi personaggi però, nonostante fiumi di parole, sappiamo ancora poco.
Primo problema: quanti erano? Il Vangelo di Matteo non fa nessun cenno riguardo al numero. E gli evangelisti Marco, Luca e Giovanni, non li citano nemmeno. Anche sul luogo effettivo della loro sepoltura si sono susseguite discussioni e polemiche.
Di certo, la contrastata vicenda delle loro reliquie conobbe incredibili peripezie.
C’è un fatto storico: i presunti resti mortali dei mitici personaggi furono sottratti con l’inganno alla città di Milano nel 1164 da Rainaldo di Dassel, arcivescovo e cancelliere imperiale, braccio destro di Federico Barbarossa. E a partire dal 15 agosto 1248 le reliquie dei Re Magi si trasformarono nella prima, simbolica “pietra” con la quale si iniziò a costruire la monumentale cattedrale di Colonia.
Quel che resta dei misteriosi sovrani che più di duemila anni fa resero omaggio a Gesù, è ancora lì, dietro l’altare principale della grande chiesa tedesca, nell’Ara dei Re Magi: un sepolcro costruito in legno e argento dorato che misura due metri e mezzo di lunghezza e pesa trecento chili. Risale al dodicesimo secolo. È un capolavoro dell’arte orafa medievale. Forse è il più grande sarcofago del mondo. Ma cosa contenga veramente nessuno lo sa con certezza.
Il 6 gennaio, nel giorno della festa dell’Epifania, le statuine dei Magi possono finalmente trovare posto nel presepe. La data rievoca l’apparizione di Cristo ai popoli del mondo. È la parola stessa a indicare la manifestazione della presenza divina, come spiega l’antico verbo greco ἐπιφαίνω (epifàino) che vuol dire “mi rendo manifesto”.
I tre Re Magi, duomo di Fidenza
La capanna della Natività è la meta del loro lungo viaggio. I misteriosi personaggi portano doni, che offrono, adoranti, al Bambino: l’oro allude alla regalità, l’incenso alla divinità e la mirra alla Passione.
Il racconto dei sovrani che arrivano dal lontano oriente ci giunge da un’unica, antica fonte: la testimonianza stringata contenuta in alcune righe del Vangelo secondo Matteo, scritto in aramaico e poi tradotto in greco.
Nel testo, si parla dell’avvistamento della stella, dell’incontro dei Magi con Erode, dell’angelo che apparve in sogno ai sovrani orientali per dissuaderli dal tornare alla corte del tiranno e poi del loro viaggio di ritorno, alla volta dei paesi d’origine, seguendo a ritroso una rotta verso est.
Forse i Magi erano re caldei, come sostennero con forza Origene, Girolamo, Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa. Oppure dei saggi originari della Persia, come assicurarono, tra molti altri, Prudenzio, Cirillo d’Alessandria e Giovanni Crisostomo.
Partirono quando apparve loro una stella, quella annunciata dal profeta Balaam, per molto tempo attesa invano, ogni anno, da 12 uomini che salivano sul Monte Vittoria per le abluzioni e le preghiere. I Magi arrivarono dall’Oriente a Gerusalemme in tredici giorni, correndo tra i deserti con velocissimi dromedari, animali molto resistenti alla sete e capaci di percorrere tra l’alba e il tramonto un tragitto che a cavallo si copre in 36 ore. Ludolfo di Sassonia, vissuto nella seconda metà del Trecento, nella sua “Vita Christi” ripeteva all’uomo medievale che “i tre re pagani vennero chiamati Magi non perché fossero versati nelle arti magiche, ma per la loro grande competenza nella disciplina dell’astrologia. Erano detti magi dai Persiani coloro che gli Ebrei chiamavano scribi, i Greci filosofi e i latini savi”.
Dei saggi dunque, come aveva già spiegato molto tempo prima Jacopo da Varazze (1228-1298) nella sua “Legenda Aurea”, la raccolta delle vite dei santi che ebbe una enorme diffusione nell’Età di Mezzo. Il frate domenicano faceva derivare la parola “magi” da “magni”.
Erano comunque dei “gentili”. Sapienti pagani che con il loro omaggio riconobbero al Bambino Gesù una natura divina, in contrasto aperto con i giudei. L’attesa messianica di un salvatore, il Saoshyant, era coltivata attraverso l’osservazione dei fenomeni celesti dai seguaci della religione mazdea, della quale i Magi costituivano il corpo sacerdotale. Per la Chiesa, i tre personaggi citati dall’evangelista Matteo sono invece il simbolo eterno dell’uomo che si mette in cammino alla ricerca di Dio.
Papa Benedetto XVI, nell’omelia pronunciata nell’Epifania del 2011, parlò di “sapienti che scrutavano il cielo, ma non per cercare di “leggere” il futuro negli astri”. Li definì “uomini in ricerca della vera luce”, persone convinte che nella creazione esista “quella che potremmo definire la “firma” di Dio, una firma che l’uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare”.
Il fascino dei Re Magi unì a lungo l’Oriente e l’Occidente. Quando nel 614 i Persiani guidati da re Cosroe II occuparono la Palestina, distrussero subito quasi tutte le chiese cristiane. Ma risparmiarono la Basilica della Natività di Betlemme che sulla facciata mostrava un mosaico raffigurante le mitologiche figure dei sapienti vestite con il tradizionale abito persiano.
Adorazione dei Magi, Giotto, Cappella degli Scrovegni
I Magi sono diventati tre a poco a poco. All’inizio, il loro numero variava secondo i racconti.
Una cronaca orientale del 774 parla di “dodici saggi”. Altri documenti di 6, 7 o 12 personaggi. Nelle raffigurazioni emerse nelle antiche catacombe, crescono o diminuiscono secondo le convinzioni degli “artisti” che provarono a descriverli.
Quel che è certo è che la tradizione cristiana ne riconobbe tre, con i nomi che sono giunti fino a noi: Caspar, Balthasar, Melchior. Il numero definitivo fu stabilito nel Medioevo in relazione ai doni di cui erano portatori. Tre è il numero perfetto. Tre sono anche le razze umane (semitica, camitica, giapetica) rappresentate dai Magi per ricordare a tutti l’universalità del messaggio cristiano. Sant’Agostino (354-430) insisteva poi sulla tripartizione che è insita nel destino dell’uomo: nascita, fatica e morte.
Umberto Eco, attraverso Baudolino, il contadino bugiardo protagonista del suo quarto romanzo, capace di conquistare Federico Barbarossa fino a diventarne il figlio adottivo, si sofferma sui mitici luoghi di origine dei personaggi: Melichior (Melchior) è re di Nubia e di Arabia, Bithisarea (Balthasar) è sovrano di Godolia e Saba e Gataspha (Caspar) regna su Tharsis e sull’isola Egriseuta.
Mondi sconosciuti e lontani. Come i tanti racconti giunti fino a noi.
Nel secolo VIII, il Venerabile Beda descriveva Melchiorre come “un vecchio dai capelli bianchi, con una folta barba e lunghe chiome ricciute”. Gasparre era invece “un giovane imberbe”. E Baldassarre “di carnagione olivastra e con una barba considerevole”.
Roberto di Torigny nella sua “Chronique” (1182) scrisse che nell’anno 1158, quando le spoglie attribuite ai Magi furono scoperte nella chiesa milanese di Sant’Eustorgio, i resti di quei corpi sembravano appartenere a tre persone di 15, 30 e 60 anni, la cui pelle e i cui capelli erano ancora intatti.
Un miracolo. Come l’impresa che affrontò Sant’Elena, l’irrequieta imperatrice, madre di Costantino I il Grande, morta nel 330, che secondo un favoloso racconto recuperò i resti mortali dei Re Magi sul monte Vaus, identificato con la montagna chiamata Sabalan, che spicca tra le vette nell’attuale Azerbajan.
In quel luogo i Magi consacrarono una cappella a Gesù. Non sappiamo se morirono insieme. Ma secondo la tradizione furono tutti sepolti nello stesso posto.
Sant’Elena alla quale è attribuito anche il ritrovamento della Santa Croce e degli strumenti della Passione di Cristo, ora custoditi a Roma, nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, portò le preziose a Costantinopoli, allora centro del mondo.
Sogno e adorazione dei Magi, portale abbazia di San Mercuriale, Forlì, XI-XII secolo
I preziosi resti arrivarono a Milano nell’anno 343: l’imperatore Costante (320-350) li donò a Sant’Eustorgio che era andato nella capitale dell’Impero Romano d’Oriente per avere conferma della sua nomina a vescovo della città lombarda.
Le reliquie affrontarono il lungo viaggio verso l’Italia all’interno di un enorme sarcofago. Così pesante, che proprio all’entrata di Milano, i buoi che trainavano quel tesoro di fede, non vollero più andare avanti. Eustorgio interpretò quella impuntatura come un segno del cielo: le reliquie non dovevano finire nella cattedrale cittadina ma fermarsi proprio lì. Così, in quel punto, nei pressi dell’attuale Porta Ticinese, nacque la bella basilica di Sant’Eustorgio, dove un capitello illustra ancora la storia dei buoi stremati dalla fatica del trasporto del pesantissimo sarcofago.
Le reliquie dei Re Magi furono poi sistemate in una apposita cappella. E lì rimasero fino al 1164.
Due anni prima, Federico Barbarossa aveva quasi raso al suolo Milano, dopo averla messa a ferro e a fuoco. La tutela tedesca era ancora pesantissima. L’imperatore aveva affidato il controllo della città al suo braccio destro, Rainaldo di Dassel, arcivescovo di Colonia. Un uomo d’armi più che di chiesa.
I preziosi resti erano sfuggiti al saccheggio grazie al nobile Assone della Torre che li aveva occultati all’interno del campanile di San Giorgio. Rainaldo se ne accorse. Così ricattò Assone, costretto a scegliere tra la consegna delle reliquie o la sua condanna a morte. Il maggiorente milanese piegò la testa e cedette all’invasore gli amati resti. Non prima di supplicare l’arcivescovo di non rendere pubblico l’indecente scambio per il quale sarebbe forse stato linciato dai suoi concittadini. Ma Rainaldo non voleva certo dare pubblicità alla cosa. Piuttosto, era ossessionato dal prestigio che le reliquie dei Magi avrebbero portato alla sua città: Colonia da tempo era il centro più importante della Germania.
L’arcivescovo guerriero non perse tempo: allestì in fretta e furia tre feretri su cui caricò le preziose reliquie. Fece diffondere la voce che le casse contenessero i cadaveri di tre suoi parenti stretti, stroncati dalla peste, a cui voleva dare degna sepoltura in Germania.
La paura del morbo tenne lontani i curiosi. E il 10 giugno 1164 Rainaldo lasciò Milano. Il fragile e prezioso carico arrivò a Colonia, tra il giubilo degli abitanti, il 23 luglio, dopo un viaggio lungo e tortuoso, che toccò il Moncenisio, la Borgogna, la Lorena e le terre del Reno. I sacri resti, in via provvisoria, furono deposti nella chiesa di San Pietro. Tempo dopo, furono traslati nel grande duomo. Rainaldo, al culmine della gioia, fu protagonista di un altro colpo di teatro: regalò tre dita dei Magi alla vicina città di Hildesheim, alla quale era particolarmente legato per via dei suoi studi giovanili. I cittadini di tutta la regione mostrarono di apprezzare il pensiero. E nei registri dei battesimi di un vasto territorio cominciarono ad essere registrati nomi dai suoni insoliti, di sicuro poco teutonici: Melchiorre, Gaspare e Baldassarre.
Da allora, anche i re germanici, dopo essere stati consacrati con l’olio e incoronati ad Aquisgrana, presero l’abitudine di frequentare più spesso Colonia per inginocchiarsi davanti alla grande arca esposta all’interno del gigantesco duomo. I Magi erano lì, in terra tedesca. E poco importò ai sudditi del Sacro Romano Impero che un tal Marco Polo (“Il Milione”, capitolo 30) affermasse di aver visitato intorno al 1270, le tombe dei Magi a sud di Teheran: “In Persia è la città ch’è chiamata Saba, da la quale si partiro li tre re ch’andaro adorare Dio quando nacque. In quella città son soppeliti gli tre Magi in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co’ capegli: l’uno ebbe nome Beltasar, l’altro Gaspar, lo terzo Melquior. Messer Marco dimandò più volte in quella cittade di quegli III re: niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano III re soppelliti anticamente”. Quanto a Milano, dovette aspettare 740 anni per avere indietro una piccola parte di quello che le era stato trafugato.
Solo il 3 gennaio del 1904, dopo innumerevoli richieste, l’arcivescovo della città, il cardinal Ferrari, fece ricollocare due fibule, una tibia e una vertebra dei Re Magi sopra l’altare nella Basilica di Sant’Eustorgio. I resti furono posti in un’urna di bronzo, accanto all’antico sacello vuoto con la scritta “Sepulcrum Trium Magorum”.
Il reliquiario dei Magi nel Duomo di Colonia
Il culto dei tre personaggi è ancora vivissimo tra i milanesi: uno scritto di Galvano Fiamma ci informa che già nel 1336, sotto Azzone Visconti, si celebrava la cerimonia di un corteo dei Magi a cavallo, che attraversava la città, seguito da una schiera di servitori e di animali esotici. La prima tappa era l’antica chiesa di San Lorenzo, costruita a pianta centrale, ad imitazione del tempio di Gerusalemme: lì si rappresentava l’arrivo dei mitici personaggi al cospetto di Erode. Poi, sull’altare maggiore di Sant’Eustorgio, veniva replicato il momento dell’Adorazione.
Il corteo dei Re Magi, come allora, si ripete a Milano il 6 gennaio di ogni anno: da Piazza del Duomo, con fermata a San Lorenzo, fino al sagrato di Sant’Eustorgio, per portare doni alla Sacra Famiglia.
Vicino al grande sarcofago in pietra viene ancora esposta una medaglia che la tradizione cattolica dice sia stata realizzata con una parte dell’oro donato dai Magi a Gesù Bambino.
E la liturgia ambrosiana, nel giorno dell’Epifania, prevede paramenti di colore rosso.
Insieme alla basilica milanese e al duomo di Colonia c’è anche un altro luogo che conserva parte delle reliquie dei misteriosi re. Tre falangi sono custodite nella parrocchia di Sant’Ambrogio a Brugherio, in provincia di Monza e della Brianza. Sarebbero state donate dal patrono di Milano alla sorella Marcellina prima del clamoroso trafugamento di Rainaldo di Dassel del 116. Tornarono alla luce nel 1596, durante la prima visita pastorale del cardinale Federigo Borromeo. A Brugherio la devozione per il reliquario seicentesco degli “ummit”, i “piccoli uomini”, è ancora molto forte. E ogni 6 gennaio le reliquie vengono esposte alla visione dei fedeli. Pellegrini eccellenti, Melchiorre, Gaspare e Baldassarre, nelle culture popolari europee diventarono i viaggiatori per antonomasia. A loro vennero intitolati, soprattutto nei paesi tedeschi, i ricorrenti nomi di tante locande ed alberghi chiamati, in loro onore, “Ai Tre Re” (Am drei Könige).
Le loro immagini, dipinte o scolpite, adornano ancora le chiese d’Europa.
Un viaggio sulle orme dei Magi diventa uno straordinario cammino nella storia dell’arte occidentale. La prima raffigurazione conosciuta spunta nella cosiddetta cappella Greca della catacomba di Priscilla: i tre personaggi indossano un chitone succinto insieme a copricapi di foggia orientale.
Sul coperchio di un sarcofago delle Grotte Vaticane, rinvenuto sotto la Basilica di S. Pietro, i Magi sono raffigurati insieme a tre dromedari. E un rilievo sulla porta lignea di Santa Sabina, a Roma, eseguito intorno al 431, mostra Maria e il Bambino che ricevono grandi scatole rotonde contenenti i regali dei mitici re. Una meravigliosa processione di vergini e martiri che muove verso il trono di Maria e Gesù è raffigurata nello splendido mosaico “Adorazione dei Magi” che si può ammirare a Ravenna in Sant’Apollinare Nuovo.
Il Duomo di Fidenza e l’Abbazia di San Mercuriale a Forlì trasmettono ancora tutto il fascino dell’antica storia. Tre stelle comete, una per ogni personaggio e doni offerti in vasi a forma di scodelle catturano lo sguardo nell’affresco di Santa Maria di Tahull, conservato nel museo d’arte catalana a Barcellona.
Magi raffigurati con le sembianze di re, si possono ammirare in una miniatura del Sacramentario di Fulda, custodita nella biblioteca dell’Università di Gottinga. Oppure nel mosaico dell’arco trionfale in Santa Maria Maggiore a Roma. E anche sugli affreschi del XII secolo di Sant’Angelo in Formis, nei pressi di Capua.
Ma la vera novità nella rappresentazione sacra arrivò con il famoso affresco dipinto da Giotto a Padova, nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305). Per. la prima volta nella storia dell’arte cristiana, nella scena dell’adorazione dei Magi a brillare sopra la capanna della Natività non c’era una semplice stella ma una cometa, forse quella di Halley, avvistata in quegli anni nei cieli notturni d’Europa.
Un nuovo schema della raffigurazione dei tre re in adorazione davanti a Maria ed al bambino Gesù emerge invece a Colonia, in un reliquiario che arricchisce il Museo Walraff-Richartz: il secondo re, con il braccio alzato, mostra al sovrano più giovane la stella sopra la testa della Madonna. Lo stesso episodio viene replicato in un altro affresco del 1450 che abbellisce la volta gotica della Arentuna kyrka di Uppland, in Svezia.
Agli inizi del Quattrocento, gli artisti aggiunsero fastosi cortei alle loro composizioni. Uno splendido esempio arriva dalle famose “Très riches heures”, il libro delle ore del duca De Berry, conservato nel Museo di Chantilly.
Negli anni successivi, le raffigurazioni dei tre re che portavano doni al Bambino Gesù si moltiplicarono, grazie soprattutto alle generose donazioni fatte alla Chiesa da molti mecenati, ansiosi di modellare la loro immagine ultraterrena a somiglianza di Melchiorre, Gaspare e Baldassarre.
I Magi di Benozzo Gozzoli
Non è un caso che il museo degli Uffizi di Firenze sia tuttora la galleria d’arte al mondo con più pale d’altare dedicate al tema della Natività. Opere meravigliose firmate da artisti come Gentile da Fabriano, Beato Angelico, Filippo e Filippino Lippi, Domenico Ghirlandaio, Sandro Botticelli e Leonardo da Vinci.
L’incanto dell’oriente emerge tra gli ori, i broccati, gli animali esotici e le vesti lussuose, in un raffinato gioco di simboli e allegorie nella “Cappella dei Magi”, l’opera di Benozzo Gozzoli realizzata nel 1459 nel Palazzo Medici Riccardi, in via Larga a Firenze. Al centro di un paesaggio fiabesco, tre principi a cavallo guidano un corteo. L’artista non racconta il presepe ma soltanto il momento del viaggio. Il Bambino è disteso su un prato fiorito, accanto alla Madonna. Sullo sfondo, una fitta foresta. In primo piano, la visione di una trionfale cavalcata alla volta di Betlemme, celebra il potere e la gloria di altri re: i Medici, che vollero quel capolavoro come un segno indelebile del loro potere.
Biblioteca DEA SABINAMaurizio Leggeri fotoreportage-Roma- La via Appia antica-
La via Appia antica vista da due illustri viaggiatori del 1700.
Montesquieu:“ Avvicinandoci a Roma s’incontrano tratti della Via Appia, ancora integri. Si vede un bordo o margo che resiste ancora, e credo che abbia più di tutto contribuito a conservare questa strada per duemila anni: ha sostenuto le lastre dai due lati ed ha impedito che cedessero lì, come fanno le nostre lastre in Francia, che non hanno alcun sostegno ai bordi. Si aggiunga che queste lastre sono grandissime, molto lunghe, molto larghe, e molto bene incastrate le une nelle altre; inoltre questo lastricato, poggia su un altro lastricato, che serve da base. Le strade dell’imperatore sono fatte di ghiaia messa su una base lastricata, ben stretta e compressa. Dopo, vi hanno messo un piede o due di ghiaia. Questo renderà la strada eterna. C’è da stupirsi che in Francia non si sia pensato a costruire strade più resistenti? Gli imprenditori sono felici di avere un affare del genere ogni cinque anni”.
Montesquieu, Viaggio in Italia, 1728-1729.
Charles de Brosses:“E’ questo, o mai più, il momento di parlarvi della Via Appia, cioè il più grande,il più bello e il più degno monumento che ci resti dell’antichità; poiché, oltre alla stupefacente grandezza dell’opera, essa non aveva altro scopo che la pubblica utilità, credo che non si debba esitare a collocarla al di sopra di tutto quanto hanno mai fatto i Romani o altre nazioni antiche, fatta eccezione per alcune opere intraprese in Egitto, in Caldea e soprattutto in Cina per la sistemazione delle acque. La strada, che comincia a Porta Capena, prosegue trecentocinquanta miglia da Roma a Capua e a Brindisi, ed era questa la strada principale per andare in Grecia e in Oriente. Per costruirla hanno scavato un fossato largo quando la strada fino a trovare uno strato solido di terra……Codesto fossato o fondamento è stato riempito da una massicciata di pietrame e di calce viva, che costituisce la base della strada, la quale è stata poi ricoperta interamente di pietre da taglio che hanno una rotaia. E tanto ben connesse che, nei posti dove non hanno ancora incominciato a romperle dai bordi, sarebbe molto difficile sradicare una pietra al centro della strada con strumenti di ferro. Da ambedue i lati correva un marciapiede di pietra. Sono ben quindici o sedici secoli che non soltanto non riparano questa strada, ma anzi la distruggono quanto possono. I miserabili contadini dei villaggi circostanti l’hanno squamata come una carpa, e ne hanno strappato in moltissimi luoghi le grandi pietre di taglio, tanto dei marciapiedi che del selciato. E’ questa la ragione degli amari lamenti che fanno sempre i viaggiatori contro la durezza della povera Via Appia , che non ne ha nessuna colpa; infatti, nei posti che non sono stati sbrecciati, la via è liscia, piana come un tavolato, e persino sdrucciolevole per i cavalli i quali, a forza di battere quelle larghe pietre, le hanno quasi levigate ma senza bucarle. E’ vero che, nei luoghi dove manca il selciato, è assolutamente impossibile che le chiappe possano guadagnarsi il paradiso, a tal punto vanno in collera per essere costrette a sobbalzare sulla massicciata di pietre porose e collocate di taglio, e in tutti i sensi nel modo ineguale. Tuttavia, nonostante vi si passi sopra da tanto tempo, senza riparare né aggiustare nulla, la massicciata non ha smentito le sue origini. Non ha che poche o punte rotaie ma solo, di tanto in tanto, buche piuttosto brutte”.
Charles de Brosses, Viaggio in Italia, 1739-1740.
a.c. Franco Leggeri-Associazione DEA SABINA-Foto di Maurizio Leggeri
ROMA La VILLA ROMANA delle COLONNACCE di Castel di Guido, “Il Giardino Antico”
Castel di Guido-I visitatori che in questi giorni , a seguito delle varie manifestazioni organizzate dalla LIPU, sono stati ospiti del GAR a Villa Romana delle Colonnacce e qui guidati dal mitico Archeologo Luca nel tour tra gli scavi archeologici. Durante la visita alla Villa Romana molti ospiti sono stati incuriositi dalla presenza di alcuni alberi , muniti di cartello con la relativa descrizione di Plinio, che si trovano nell’angolo in fondo all’area archeologica sono alcuni esemplari di : CIPRESSO,LECCIO,FRASSINO e NOCCIOLO.
Questi alberi sono qui a testimoniare che, tra fine dell’età repubblicana e primi decenni dell’epoca imperiale, come si può anche leggere nelle Opere di Plinio il Vecchio, Plinio il Giovane, Catone e Columella , il giardinaggio non è più considerato una occupazione produttiva, ma anche attività svolta per piacere e diletto. Celebre il brano di Plinio il Vecchio: “I decoratori di giardini distinguono, nell’ambito del mirto coltivato, quello tarantino a foglia piccola, il nostrano a foglia larga, l’esastico a fogliame densissimo, con le foglie disposte a file di sei” ed ancora: “Esistono anche dei platani nani, che sono costretti artificialmente a rimanere di piccola altezza”.
PAOLO GENOVESI- Fotoreportage TORRE DI BACCELLI-Fara in Sabina-
La Storia-Uno dei Castelli medievali abbandonati della Sabina.
Torre di Baccelli, unico e affascinante resto del Castello di Postmontem, è adagiata su di una piccola collina boscosa, raggiungibile facilmente per mezzo di una stradina e per un breve sentiero.Il Castello di Postmontem appare per la prima volta in documenti del 994 che lo indicano come possedimento dell’Abbazia di Farfa, su cui impulso fu probabilmente fondato. Il Castello , che domina le principali vie di accesso all’Abbazia di Farfa nel 1100 fu concesso in locazione a Rustico di Crescenzo in cambio del Castello di Corese, oggi Corese Terra. La permuta non ebbe per altro lunga durata, dato che nel 1118 Postmontem apparteneva di nuovo a l’Abbazia di Farfa. Nel XIV sec. L’insediamento fu gradualmente abbandonato ed il suo territorio unito a quello di Fara in Sabina. Oggi del Castello resta la Torre, squarciata lungo uno spigolo; la visita diretta delle strutture non è agevole per la foltissima vegetazione e per il pericolo di crolli; ma , anche ad una certa distanza , resta la suggestione della Torre che domina la Valle del Farfa e gli uliveti che caratterizzano il paesaggio della Sabina.
foto di Paolo Genovesi- ricerca storica a cura di Franco Leggeri-
POGGIO NATIVO: Convento di S. Paolo. Cenacolo del Refettorio. Un’analisi al particolare del pregevole affresco.
Nota e Foto sono dell’Arch. Maurizio Pettinari
La vecchia chiesa del monastero fu trasformata in Coro, che fu arredato con magnifici scanni in legno intarsiato tuttora ben conservati: l’opera fu ultimata nel 1482 e questa data la si trova scolpita nell’architrave di una porticina situata nella parete di sinistra, che mette dal Coro alla torre campanaria. Fu costruito un nuovo refettorio, lo stesso attualmente in funzione, ed il vecchio fu trasformato in magazzino; recentemente in una parete di quest’ultimo sono venuti alla luce affreschi di pregevole fattura, raffiguranti Gesù assiso tra gli apostoli nell’Ultima Cena ed un S. Francesco d’Assisi.
Il Vescovo della Diocesi di Porto e Santa Rufina, Mons. Diego BONA, recentemente scomparso, ha riportato al culto dei fedeli e all’attenzione degli archeologi le Catacombe dei Santi martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC- Il 19 gennaio 1994 ,festa di San Mario, il Mons. Diego BONA guidò una processione di circa 500 fedeli verso le Catacombe ripristinando così un’antica tradizione popolare che si era persa nel corso degli anni. Nei pressi delle Catacombe vi è una piccola chiesetta dedicata a San Mario e Marta, eretta nel 1700 e restaurata nel 1871. In questa chiesetta ,nel 1909, il giovane sacerdote Don Giuseppe RONCALLI, futuro papa Giovanni XXIII- il Papa Buono, venne a celebrare la messa in memoria del fratello Mario. Papa Giovanni XXIII amava la via Boccea e la Campagna Romana durante le sue escursioni egli si deliziava nel gustare “ la buona ricotta di Boccea” che Gli veniva offerta dai pastori romani. A ricordo della presenza in questi luoghi di Papa Giovanni è stata posta in essere, nel 2004, una epigrafe marmorea nella chiesetta di Santa Maria sita all’interno del Castello della Porcareccia nel quartiere Casalotti.
Breve Storia dei Santi MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC.
Ultimo santuario della via Cornelia era quello dei martiri MARIO, MARTA, AUDIFAX e ABACUC. Nel Martirologio Geronimiano sono ricordati il 16 e 20 gennaio. Sembrerebbe che il vero dies natalis fosse il 20 gennaio, in cui sono stati commemorati nel Sacramentario Gelasiano antico ( Saccr.Gel.,p.131; nel Gelasiano di S.Gallo invece sono anticipati al giorno 19 e vi mancano ABACUC e AUDIFAX (Gel. S. Gallo, p.20) .Di questi Martiri non si hanno notizie sicure.Secondo la passio (Acta SS. Gennaio, II, Parigi, 1863, pp. 578-583.) Mario e Marta erano nobili persiani; al tempo di Claudio il Gotico vennero a Roma , insieme con i figli Abacuc e Audifax per venerare i sepolcri degli Apostoli e aiutare i carcerati per la Fede.Arrestati a loro volta furono condannati dal prefetto Musciano e condotti sulla “ via Cornelia miliaro tertio decimo ad Nymphas Catabassi”: Mario, Abacuc e Audifax furono “decollati sub arenario” e i loro corpi bruciati; Marta invece “in Nympha necata est”. La Matrona Felicita raccolse i resti dei primi tre, Mario,Abacuc e Audifax, ed il corpo di Marta dal pozzo in cui era stato gettato, e li seppellì “ sub die tertio decimo Kalendas febraurium” (B.SS.VIII, p.165. Dall’indicazione topografica “ ad Nymphas” è nata la fantomatica martire Ninfa-cf.B.SS.,IX,p.1009).
I corpi dei Martiri sarebbero stati trasferiti da Papa Pasquale I nella Basilica di S. Prassede ( Lib. Pont.II, p. 64.).
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