Descrizione del libri di Mavie Da Ponte- Fine di un matrimonio comincia con la fine del matrimonio tra Berta e Libero. Berta ha una galleria d’arte e Libero ha un’altra. Berta non ascolta cosa le stia dicendo Libero, non capisce perché quest’altra donna di cui non ha mai sospettato nulla, di cui non conosce il nome, appaia e si mangi il suo futuro. Libero, invece, quella sera – in cui tutto finisce e tutto comincia – esce di casa, e scompare. È vero, diceva sempre di essere stanco del suo lavoro e della sua vita, ma che c’entra un’altra donna? Perché ne aveva bisogno? Berta non lo sa, e nel tentativo di capirlo parla d’altro: di sé, del proprio corpo, di cosa può farne adesso che è sola, ha quasi cinquant’anni e non è né giovane né vecchia, adesso che è esattamente com’era prima di sposarsi. Berta racconta la fine del suo matrimonio per iniziare a raccontare se stessa, perché i romanzi – certi romanzi, e di sicuro questo –, proprio come la vita, non sono solo “fatti”: tra una vicenda e un’altra, tra la fine di un matrimonio e l’inizio di qualcosa di diverso, ci sono pensieri, parole, opere e omissioni. Ci sono rimpianti – è tardi per avere un figlio? e per recuperare il rapporto con la propria madre? –, dubbi e paure. C’è il bisogno disperato di dimostrare a se stessi di essere vivi. Innamorarsi, in fondo, è più semplice che tenere in piedi un matrimonio o una relazione, ricominciare è meno faticoso che provare a riparare: questo racconta, a ogni riga, l’esordio di Mavie Da Ponte. O, forse, mostra che definirsi “innamorati” è troppo facile, e per questo non bisognerebbe mai dirlo. Così Berta, quando scegliere non sembra più una possibilità e le difficoltà dei suoi rapporti paiono insormontabili, capisce che frequentare il salone di bellezza di Sara – la chiama così per semplificare, ma quale sarà il suo nome cinese? – ha più a che fare con il pensiero e l’arte che con le unghie: anzi, le unghie e il corpo certe volte possono essere il pensiero e l’arte.
Un romanzo malinconico e buffo, pieno di tenerezza e di sorpresa, la storia di una donna che si piega e si spezza, e non fa niente: essere interi non è il punto, il punto è provare a essere felici.
Mavie Da Ponte
Mavie Da Ponte- è nata nel 1987, vicino al mare e in mezzo alle storie. Dopo studi linguistici e un dottorato in letteratura francese contemporanea, oggi si dedica alla scrittura. Fine di un matrimonio è il suo primo romanzo.
Un’immagine, una fotografia, alcune parole ci aprono a ricordi che pensavamo di aver dimenticato… Antonio Vivaldi –Qui è una lapide appesa ad una chiesa (si chiama della Pietà ed è ben visibile dalla Riva degli Schiavoni a due passi da Piazza San Marco) a ricordarmi chi in questo luogo passò gran parte della sua vita a suonare il violino e a dirigere i concerti che lui stesso componeva. Di lui oggi si sa quasi tutto anche se un oblio prolungato durato 200 anni ne aveva fatto scomparire la memoria. Forse avrete già intuito a chi alludo: lui è Antonio Vivaldi, uno dei più grandi compositori del suo tempo… (Venezia 1678-Vienna 1741).
Antonio VIVALDI
Ma non starò certo a raccontarvi la sua storia che, pur interessante, immagino già conoscerete, anche se certe parti della sua vita, forse, sono rimaste ancora nell’ombra. Quello che cercherò di fare sarà un breve viaggio nella Venezia della sua decadenza, alla ricerca del suo stile, tra quello spazio che va dalla fine del 1600 ai primi decenni del 1700, tempo in cui Vivaldi visse e dove seppe esprimere tutto il suo genio.
Sembrerà curioso sapere che, nonostante la città non fosse più la stessa dei secoli precedenti (in quanto a ricchezza e potenza bellica) e faccia fatica a fronteggiare le calamità verificatesi più volte (la più gravosa fu l’epidemia di peste che il secolo prima aveva decimato la sua popolazione) si aprono nuovi teatri, dove la gente si precipita: per divertirsi, o per dimenticare. Emergono figure di scrittori divenuti poi in seguito famosi: Carlo Goldoni, i fratelli Gozzi, Giacinto Gallina…
Ma quanto accade in città non è ancora, per Vivaldi, motivo di interesse. Iniziò qui la sua storia quando, uscito dal seminario, ha già 25 anni, ma soprattutto è un sacerdote. Sembra però che la vita ecclesiastica non sia stata quella adatta a lui. Il pretesto, o la causa, che lo allontana dai suoi obblighi sacerdotali è una malattia di cui soffriva fin da ragazzino e diagnosticata allora come « strettezza de petto » (un’asma bronchiale). Per il giovane Antonio la dispensa dal dire messa fu una vera fortuna che gli consentì di dedicarsi esclusivamente alla musica, unica ragione della sua vita. Ma al periodo passato in seminario Vivaldi sarà sempre grato: gli consentì di studiare e approfondire la conoscenza della musica, imparando a suonare il violino e a perfezionare una tecnica virtuosistica, da molti definita insuperabile.Ma, in cuor suo, Vivaldi si sente attratto dalla composizione. Scrive musica, anzitutto quella strumentale, che sottopone al padre (suona il violino nella Cappella Marciana, l’unica istituzione musicale della città), ma non trova estimatori. Il suo sogno di dirigere un giorno la Cappella Marciana si infrange quasi subito. Gli unici che si accorgono di lui sono i membri del direttivo dell’Oratorio della Pietà, luogo di carità istituito già nel lontano 1300. Lì verrà accolto nell’organico degli insegnanti come « maestro de violin » e compensato con 40 ducati annui, aumentati poi a 100 per l’incarico aggiuntivo di maestro concertatore.
Antonio VIVALDI
Questa assunzione presso l’oratorio sarà la sua fortuna. Tra l’impenetrabile silenzio delle sue mura, lavorerà per decenni portando avanti la sua non dichiarata “rivoluzione musicale”, dando vita a tutto il suo estro creativo, mettendo la sua musica su un piano che allora, ma anche oggi, sorprese tutti per le evidenti novità che introdusse. Dagli studi fatti al seminario Vivaldi si era accorto di come tutto ciò che aveva appreso appartenesse ad un’epoca ormai spenta. Le dinamiche espressive dei concerti che ascoltava risentivano della lentezza con cui venivano eseguiti. Certi strumenti, come il clavicembalo, non potevano esprimere più nessuna nuova potenza sonora, ragione che lo spinse, progressivamente, ad escluderlo dagli strumenti della sua orchestra a favore degli archi e dei fiati di cui intravvedeva nuovi e più importanti sviluppi. Nelle sue partiture emergono nuovi simboli dove si riconoscono ben tredici graduazioni che stabiliscono le intensità dei “piani” e dei “forti”. Nel solo tempo “allegro”, 18 sono le variazioni sonore a riprova che tutto era stato da lui vagliato e migliorato.
Dentro all’Oratorio spetta a lui scegliere tra le allieve le più meritevoli (non sorprenda questo fatto ma l’istituto raccoglieva solo ragazze, abbandonate in tenera età). Per disciplina interna sono tenute al rispetto e all’obbedienza e lui non chiede di più: l’impostazione musicale ottenuta porterà nel giro di qualche anno le sue allieve al massimo grado di perfezione, superando, per capacità, l’orchestra ed il coro della stessa Cappella Marciana. A Vivaldi molti guarderanno con rinnovato interesse. Dall’estero gli giungeranno richieste per poter partecipare alle sue lezioni, domande che non sempre furono concesse.
Antonio VIVALDI-Venezia-Calle della Pietà-Lapide Vivaldi-Foto-Giovanni Dall’Orto
Dal libro di Walter Kolneder Vivaldi (edit. Rusconi), a proposito della sua musica, leggo : «… le prime opere di questo genere dovettero apparire al pubblico come rivelazioni di una nuova umanità, l’ampiezza degli sviluppi dovette produrre un effetto tale da mozzare il respiro».
Che cosa aveva di così travolgente la musica di Vivaldi su chi l’ascoltava? Anzitutto quella gran massa di suoni eseguiti a ritmi elevati per quei tempi (ma ci sorprendono anche oggi!), poi le variazioni tonali, l’uso degli archi così sorprendente, frutto di una tecnica eccelsa in possesso delle sue allieve, e le novità messe in atto dallo stesso Vivaldi che aggiungeva difficoltà crescenti allo svolgimento dei suoi concerti. Sorpresero tutti le “martellate”, così definite allora, quelle specie di frustate buttate addosso alle corde degli archi, con gesti eseguiti soprattutto dalle violiniste, che le impegnarono anche fisicamente, in una fatica nuova ma esaltante. Tutto, alla fine, produceva un effetto estraniante, che stordiva piacevolmente chi ascoltava.
Antonio VIVALDI
Nel corso degli anni successivi, Vivaldi comincerà a comporre anche per le corti europee più importanti. La sua musica aveva raggiunto le vette più alte guadagnata in anni di silenzioso lavoro. Il re di Francia Luigi XV per il compleanno del figlio Delfino chiese a Vivaldi una cantata. “La Senna festeggiante”, così si chiama, fu composta ed eseguita nel 1726, tra la compiaciuta contentezza dei convenuti.
Ma ad impreziosire i suoi rapporti di quegli anni va ricordata l’amicizia e stima di J. S. Bach il quale intuì, e fu forse l’unico, l’enorme portata del rinnovamento messo in campo dal “prete rosso”; lo apprezzò così tanto che trascrisse alcune sue sonate portandole alla sola voce del clavicembalo (Bach era innamorato di questo strumento scrivendo per lui decine e decine di pezzi). Si sa della loro corrispondenza e di come Bach studiasse gli spartiti di Vivaldi. Tracce dell’influenza vivaldiana si possono trovare nei Concerti Brandeburghesi.
Di Vivaldi esiste un unico disegno fatto da Pier Leone Ghezzi nel 1723 quando giunse a Roma. Aveva allora 45 anni. Dal profilo si nota la grande massa dei suoi capelli (erano rossi e arricciati), gli cadono sulle spalle. L’ampia fronte fa scendere lo sguardo sul naso aquilino, poi sulle labbra, forse sottili. Più volte ho cercato di immaginarlo Vivaldi. Alto circa un metro e settanta, dentro al suo lungo abito nero, col breviario stretto sotto al braccio, la mente che inseguiva le sue musiche, il suo passo veloce per tornare all’Oratorio e metterle nel foglio pentagrammato. Di lui Charles De Brosse disse che era più veloce a scrivere un concerto di quanto non facesse un copista a ricopiarlo…
Tralascio ciò che fece Vivaldi nei decenni successivi dove si dedicò quasi esclusivamente alla musica profana, scrivendo più di 90 fra opere e cantate. Potrà sorprendere questo cambio di indirizzo, ma Vivaldi aveva capito che le nuove tendenze che circolavano in città volevano altro. La musica sacra, che gli aveva dato la notorietà, non era più richiesta come prima. In questa sua nuova veste Vivaldi si dedicherà anima e corpo in un lavoro che sembrava non aver mai fine. La grande produzione del “prete rosso” ammonta a più di 750 composizioni, ma ciò non deve sorprendere perché ogni compositore dell’epoca aveva come requisito necessario, quello di saper scrivere musica con continuità. Allora, nelle chiese e nelle sale da concerto, non era previsto che una stessa musica fosse suonata due volte.
Vivaldi avverte che il suo tempo sta per scadere. A Venezia altri sono i compositori le cui musiche trovano maggiori consensi. Si fanno largo Benedetto Marcello, Tommaso Albinoni e per Vivaldi gli spazi si vanno restringendo. Molti non approvano che un prete, come continuava ad essere lui, dovesse vestire anche i panni dell’impresario e uomo d’affari. (Per gli accordi presi con il Teatro di S. Angelo e per garantire i contratti con le maestranze con cui era venuto a collaborare, Vivaldi si prese cura di tutta la gestione). Ma erano troppe le voci contrarie per poter respingere i pregiudizi più velenosi.
Vivaldi lasciò per sempre Venezia accogliendo l’invito di Carlo VI d’Asburgo che lo volle alla sua corte a Vienna. Era il 1728. Nella capitale asburgica rimase fino al 1741, anno della sua morte, un anno dopo la morte del sovrano Carlo VI che lasciò il nostro Vivaldi in condizioni economiche precarie. Fu sepolto nel cimitero dell’ospedale in una fossa comune. Le note del suo funerale , trascritte nel registro parrocchiale così dicono: «Si è constatata la morte del molto reverendo Sig. Antonio Vivaldi prete secolare età 60 anni, avvenuta per infiammazione interna, nella casa Satler presso la porta di Carinzia.» Si concluse così la vita di uno dei più grandi musicisti del 700.
Ed il suo stile? Vi chiederete. Già… Sta tutto nei fogli pentagrammati, negli ascolti ripetuti che ce lo rivelano puntualmente. Se confrontati con altre composizioni dell’epoca, si potrà intuire quasi subito nei duetti fra l’assolo del violino e l’orchestra, fra soprano e contralto, fra flauto dolce e orchestra.
Per quanti volessero farsi un’idea più precisa della musica di Vivaldi potrei suggerire l’ascolto di alcuni brani che, a mio avviso, sono tra i più significativi della sua arte.
Tra le Quattro Stagioni scelgo L’Estate (LINK). Poi passo ai Concerti di Dresda, allo Stabat Mater (Philippe Jaroussky LINK), al Concerto Grosso in fa minore, il Concerto per flauto dolce e orchestra RV 443, la Cantata Juditha Triumphans. Aggiungo, e lo consiglio vivamente, il bellissimo documentario girato dalla BBC che ha per titolo Gloria at Pietà. All’ascolto del celeberrimo brano, si aggiungono le immagini, e la ricostruzione fedele delle atmosfere dei concerti vivaldiani all’interno della chiesa della Pietà.
Massimo Rosini
Massimo Rosin nato a Venezia nel 1957. Appassionato di cinema, musica, letteratura, cucina, sport (nuoto in particolare). Vive e lavora nella Serenissima.
E così rimasi a casa. Sola.
A filare il filo bianco dei giorni,
il filo nero delle notti,
a tessere la tela grigia della mia solitudine.
In me si aprivano territori
popolati da mostri e da paure,
incantesimi di maghe, senza scopo,
seduzioni di ninfe, del tutto inutili,
richiami di sirene, inascoltati.
Io, moglie di eroe per usucapione,
fedele per definizione,
morirò inesplorata.
*
LA CASA NUOVA
È la casa dove andrò per morire
l’occaso, il mio occidente,
la sceglierò con cura, la renderò perfetta,
sarà ampia, luminosa e ben disposta,
avrà spazio e scaffali sul muro
per collocare presente passato e futuro.
All’orizzonte della mia cucina
potrò avvistare l’Oriente e la Cina
senza muovermi dalla finestra
porcellane e sete nella mia testa.
Darò una festa il primo giorno
per festeggiare il non ritorno
siete invitati tutti quanti
mi raccomando … guanti bianchi!
*
LUMACHINA
Lumachina bellissima
amabile sorpresa
su questa verde grumosa
foglia di ortaggio
che condividiamo per cena
nitida e matematica
morbida carne d’ostrica
in convolvolo di lucida scaglia
tu non sai nulla
della spirale logaritmica (1)
non te ne cale
della sezione aurea
di Fibonacci
tu te ne stropicci
lenta e implacabile
attraversi le età
con te porti te stessa
e ogni tua proprietà
in equilibrio fragile
tra il caso e la necessità
(1) il guscio della chiocciola (al pari di altri fenomeni del mondo naturale, quali la disposizione dei semi di girasole e delle squame dell’ananas, o la spaziatura delle foglie lungo uno stelo) presenta uno schema riconducibile a quello della sezione aurea e dei numeri di Fibonacci. L’elemento comune di questi fenomeni è rappresentato dalla spirale logaritmica detta anche “spirale aurea”, attraverso la quale lo sviluppo armonico della forma è legato alla necessità degli esseri viventi di accrescere “secondo natura” in maniera ottimale e meno dispendiosa possibile.
*
NOVELLA SPOSA
Tu mi hai fatto comprare un orologio
per prima cosa
novella sposa
tu mi hai fatto comprare un orologio
e ti sei insediato nel quadrante
hai preso a scandire le mie ore
che prima battevano presso il cuore
eccomi qua
avvinta ad una molla
che ora mi tira
e ora mi sgrolla
e non mi lascia
strettamente mi fascia
mi strozza
mi strizza la gargozza
sputo a fatica
negli ultimi sobbalzi
ore minuti
secondi vuoti
con le lancette mi percuoti
mi frusti
esulti
è straordinario
muoio
in perfetto orario!
*
COMICA FINALE
Ho il cuore vecchio questa sera,
un vecchio cuore
che indossa un parrucchino di parole,
un’assurda dentiera di metafore,
ha le labbra tinte con sangue non suo
e finge un trasporto che non c’è.
Volteggia, piroetta, ammicca,
si esibisce su un liso tappeto
di vocaboli,
si inchina,
vuole gli applausi, il meschino.
Scivola su un accento sdrucciolo,
batte la testa su un sostantivo,
è trafelato, suda,
non sa cosa dire,
non sa come dire.
Cola il cerone delle rime
e il rimmel degli artifici
gli appiccica gli occhi.
Boccheggia,
sta per piangere,
ma una vecchia solerte
-la badante di Euterpe-
lo prende sottobraccio
e passo passo lo accompagna
verso la parola: FINECarla Buranello
Biografia di Carla Buranello è nata a Venezia, dove ha studiato, (laureandosi presso l’Università Ca’ Foscari in Lingue e Letterature Straniere Facoltà di Anglo-Americano), e dove vive tuttora.Ha lavorato per molti anni come dirigente presso un’azienda internazionale. Lasciato il lavoro, e ritornata padrona del proprio tempo, ha deciso di dedicarsi agli interessi da lungo tempo trascurati iniziando, per pura passione, a tradurre, soprattutto poesie di autori inglesi e americani. Tramite internet, si è messa in contatto con la poetessa angloamericana Anne Stevenson, iniziando una corrispondenza trasformatasi presto in amicizia. Ne è nata la prima edizione italiana di una selezione di poesie di Stevenson, pubblicata nel 2018 dall’editore Interno Poesia. Ha tradotto anche un libro inglese di racconti ispirati alla scienza, non ancora pubblicato. Dall’amore per il linguaggio poetico, e dalla profonda vicinanza con esso che il tradurre determina, è nato anche il desiderio di cimentarsi nella scrittura. E in alcuni casi di tradurre in inglese le sue stesse poesie. Non ha mai pubblicato nulla, ma ha accettato con piacere di affidare alcuni suoi versi a Margutte.-
Il 13 aprile 1204 è la data del “più grande saccheggio dalla creazione del mondo”: il sacco di Costantinopoli da parte delle truppe crociate alleate di Venezia. Una ferita che ha segnato per secoli i rapporti tra il mondo cristiano cattolico e quello ortodosso.Costantinopoli, la grande città di civiltà cristiana, inespugnata dai tempi di Costantino il Grande, non fu conquistata dagli arabi o dai “pagani” ma da un esercito di crociati.
La razzia che ne seguì fu senza precedenti. Geoffroy de Villehardouin, che pure era l’apologeta della spedizione, ricordò quel 13 aprile 1204 come “il più grande saccheggio dalla creazione del mondo”. Così, poco più di ottocento anni fa, naufragò l’Impero Cristiano Bizantino e prese corpo l’Impero Latino d’Oriente.
La Quarta Crociata, nata con lo scopo di liberare Gerusalemme, mise invece a ferro e a fuoco e sfregiò in modo indelebile la multietnica capitale che l’imperatore romano Costantino aveva fondato nel 330 sul luogo dove prima sorgeva la mitica Bisanzio.
La città fu orribilmente devastata, depredata delle sue immense ricchezze e mutilata di innumerevoli opere d’arte. Nulla fu risparmiato. Per tre giorni, le atrocità, gli incendi, i delitti e le torture si moltiplicarono, in uno scenario apocalittico.
I crociati conquistano Costantinopoli (Gustave Doré)
I testimoni dell’orrore Niceta Coniata, già segretario del basileus Isacco, testimone oculare dei fatti, raccontò con parole disperate, mescolate alle preghiere, la ferocia di quelle ore: ”Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e, anche se il suo fianco non è stato trafitto dalla lancia, il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”.
Il cronista bizantino parlò inorridito dei “precursori dell’Anticristo”. E annotò che perfino i musulmani erano “umani e benevoli” in confronto agli invasori occidentali, che pure “portavano la croce attaccata sulle spalle”.
Il metropolita di Efeso Jean Masaritès ripercorse con angoscia il furore di “guerrieri sconsiderati, arcieri, cavalieri, portatori di gladio che respiravano l’omicidio”. Ugo di Berzé, poeta e cavaliere, protagonista della spedizione, evocò con vergogna il ricordo dei crociati dimentichi delle vera fede.
Ernolfo scrisse che i francesi “entrarono a Costantinopoli con i colori di Dio e dentro la città indossarono quelli del demonio”.
Molto più indulgente appare il racconto di Geoffroy de Villehardouin, che dopo la crociata divenne Maresciallo di Champagne e di Romania. La sua “De la Conquête de Constantinople”, il più antico testo di prosa narrativa in lingua francese, è la fonte principale dell’evento. Con uno stile elegante ripercorre la vicenda dei comandanti crociati “costretti” dalla perfidia dei Greci a togliere l’impero e le sacre reliquie dalle mani degli scismatici imperatori, per farne dono alla Santa Romana Chiesa.
Roberto di Clari, piccolo cavaliere della Piccardia, descrisse l’umore dei “poveri” cavalieri, appena un anno dopo la conquista di Costantinopoli, quando tornarono nei loro miseri feudi francesi, con un bottino irrisorio, consapevoli di essere stati truffati dai “grandi signori” che dovevano guidarli alla liberazione della Terrasanta.
Mappa di Costantinopoli (1422) del cartografo fiorentino Cristoforo Buondelmonte
Il sogno della conquista Per i cittadini dell’Impero d’Oriente Costantinopoli era semplicemente la “Polis”, la città per eccellenza. Come se non ce ne fosse un’altra in giro degna di tale nome. Gli abitanti della metropoli si sentivano i soli, legittimi eredi di Roma. Chiamavano se stessi Romani e con lo stesso nome venivano appellati dagli altri popoli.
A imitazione della Città Eterna, la metropoli era stata edificata su sette alture e divisa in quattordici “regiones”. Nel dodicesimo secolo la città attirava mercanti, pellegrini e viaggiatori da ogni parte del mondo e contava 250.000 abitanti a fronte dei quasi 70.000 di Roma. Il Bosforo, la stretta vena d’acqua che segna la linea del confine tra l’Asia e l’Europa, era una irresistibile calamita per i popoli e le merci.
In Occidente l’avversione verso Bisanzio era cresciuta in modo progressivo a partire dallo scisma ecclesiastico del 1054 e con l’inizio delle Crociate.
L’idea di una conquista armata di Costantinopoli aveva già sfiorato i cavalieri francesi al seguito di Luigi VII durante la seconda, fallimentare spedizione in Terrasanta.
Federico Barbarossa accarezzò l’idea nel 1190, quando ottenne il passaggio nella capitale bizantina nella sua marcia verso i luoghi del Santo Sepolcro.
Suo figlio, Enrico VI, ne fece invece un perno della sua politica di conquista. Soprattutto attraverso il matrimonio del fratello Filippo, l’ultimo erede maschio del Barbarossa, con Irene, la figlia dell’imperatore Isacco II Angelo.
Alessio IV Angelo, Biblioteca Estense Universitaria di Modena
La debolezza e le ambiguità della dinastia regnante a Costantinopoli non fecero che aggravare la situazione. Nel 1195 Alessio Angelo, il fratello di Isacco II, si fece acclamare imperatore dalle truppe, quando il basileus era lontano dalla capitale, impegnato in una battuta di caccia. L’imperatore tornò in catene a Costantinopoli. Poi fu accecato e imprigionato dentro una torre.
Enrico VI, in nome della cognata Irene e di suo fratello Filippo ebbe allora l’occasione di presentarsi come il protettore della famiglia reale detronizzata da un vero e proprio “colpo di Stato”. Alessio III, impaurito dalle sue minacce, tentò in ogni modo di calmarlo. Ci riuscì, per poco, diventando, di fatto, un vassallo del Sacro Romano Impero: si impegnò infatti a versare ogni anno all’imperatore svevo 1600 libbre d’oro. In tutte le province orientali venne imposta una speciale tassa, che la popolazione, vessata da tempo da ogni genere di imposte, chiamò “alamanikon”. Una tassa “tedesca” di scopo: soldi in cambio della pace. Alessio III arrivò a far aprire le tombe degli imperatori nella chiesa dei Santi Apostoli per privare le auguste salme degli ornamenti d’oro. Ma nemmeno questo bastò per raggiungere la stratosferica somma richiesta dall’imperatore svevo.
La situazione sembrava precipitare. Il piano di conquista di Costantinopoli era ben vivo, in attesa di una nuova crociata. Ma nel settembre del 1197, a soli 32 anni, Enrico VI morì per una infezione intestinale. A Costantinopoli la notizia venne accolta con entusiasmo, anche perché portò con sé, come conseguenza diretta, l’abolizione dell’odiato balzello.
Alessio III, rinfrancato dalla scomparsa, dimenticò i suoi balbettii diplomatici e addirittura propose al papa una alleanza tra “l’unica Chiesa e l’unico Impero”, che il vicario di Cristo lasciò cadere nel vuoto.
Innocenzo III, ritratto nel Sacro Speco di Subiaco
L’appello di Innocenzo III Sul soglio di Pietro, nel frattempo, era salito un personaggio di grande carisma: il coltissimo e austero Innocenzo III (1161–1216). Il nuovo papa si fece intronizzare il giorno del suo 37º compleanno. Fu il primo pontefice a utilizzare uno stemma personale. Si ispirava alle concezioni teocratiche di Gregorio VII. Con lui, il capo supremo e riconosciuto della cristianità occidentale non era più, come fino a pochi anni prima, l’imperatore. Ma il papa.
Per Innocenzo, il potere spirituale era superiore a quello temporale, “come il Sole alla Luna” e come l’anima al corpo. Il ruolo del vicario di Cristo, detentore della “plenitudo potestatis”, era “a metà strada fra l’uomo e Dio, al di sotto di Dio ma al di sopra dell’uomo”. E quindi a lui era affidato “il governo non solo della Chiesa universale ma di tutto il mondo”.
Appena qualche mese dopo la sua elezione, il 15 agosto 1198, Innocenzo III emanò una enciclica con la quale incitava i cattolici alla riconquista di Gerusalemme. Nessun sovrano rispose all’appello. Riccardo I d’Inghilterra “Cuor di Leone”, fresco vincitore della guerra contro Filippo II, morì pochi mesi dopo, mentre assediava un castello. E il re di Francia, colpito da l’interdetto del papa dopo il ripudio della moglie Ingeburge di Danimarca, non poteva essere disponibile.
Dissero no anche molti principi tedeschi, nemici giurati del pontefice. Così, l’idea della Quarta Crociata cominciò a prendere forma soltanto nel 1199, in seguito alle appassionate prediche di un curato della Marna, Folco di Neuilly.
Il progetto trovò i suoi primi sostenitori tra alcuni nobili francesi, in occasione di un torneo cavalleresco, organizzato dal conte Tebaldo III di Champagne a Écry-sur-Seine, nelle Ardenne. L’arruolamento non era del tutto disinteressato. Tebaldo, che aveva appena 22 anni, era il fratello di Enrico di Champagne, che due anni prima era precipitato da una finestra a San Giovanni d’Acri dopo aver sposato Isabella di Gerusalemme, legittima titolare del trono gerosolimitano. Con il nobile e ardimentoso cavaliere, aderirono alla crociata anche suo cognato, il conte delle Fiandre Baldovino IX e suo cugino, il conte di Blois, di Chartres, di Châteaudun e di Clermont.
Alla vigilia della partenza, Tebaldo morì all’improvviso, lasciando ai crociati tutte le sue sostanze. Capo della spedizione diventò allora, per acclamazione, Bonifacio di Monferrato.
Crociati all’assalto. Frammento del mosaico pavimentale dalla chiesa di San Giovanni Evangelista a Ravenna
L’ingaggio capestro I crociati decisero di raggiungere la Terrasanta via mare. Scartate Marsiglia e Genova, scelsero di appoggiarsi a Venezia, che per ironia della sorte, aveva appena chiesto al papa di essere dispensata dalla spedizione verso il Santo Sepolcro per non compromettere i suoi commerci con l’Egitto.
Ma Enrico Dandolo (1107-1205) doge ultranovantenne e quasi cieco, cambiò idea in fretta e concluse con i capi della spedizione crociata un incredibile ingaggio: per 85.000 marche imperiali d’argento (due volte le entrate annuali del re di Francia) i veneziani si impegnarono a costruire le navi sufficienti al trasporto di 4.500 cavalieri con i loro cavalli, 9.000 scudieri e 20.000 fanti. Il doge assicurò anche i rifornimenti di vettovaglie necessari e promise di partecipare all’impresa con ben cinquanta navi da guerra della repubblica marinara in cambio del 50 per cento del bottino della conquista.
Ma alla data prevista per la partenza, nell’aprile 1202, a Venezia si presentarono soltanto diecimila uomini: il denaro raccolto non bastava a coprire le spese di trasporto, calcolate per quasi 35.000 persone.
Dandolo, da buon commerciante, ricordò ai cavalieri crociati che un contratto è un contratto. E i veneziani si rifiutarono di prendere il mare. La situazione però si fece presto insostenibile: i crociati, accolti all’inizio con grandi feste, ora bivaccavano al Lido. L’esercito di armati fomentava disordini e nervosismi. L’impresa rischiava di abortire.
Ma a quel punto il doge fece una proposta che i crociati non erano più in grado di rifiutare: i cavalieri, i fanti e gli scudieri potevano pagare il loro debito “monstre” di 34.000 marchi lavorando per Venezia. Facendo quello che meglio sapevano fare: la guerra. Ma contro Zara, la città dalmata ribelle alleata del re d’Ungheria che Venezia non riusciva a piegare. Poi la spedizione si sarebbe diretta, come previsto, in Terrasanta. Il particolare che Zara fosse una città cristiana e che il giuramento crociato vietava espressamente la lotta fra cristiani non fermò il progetto.
Certo, ci furono proteste e altre defezioni. Ma il grosso dell’esercito si adeguò alle circostanze. E a ottobre una flotta di duecento navi con a bordo trentamila soldati dei quali più di ventimila erano veneziani, levò le ancore. Sulla imbarcazione che guidava il lungo corteo, c’era anche Enrico Dandolo, crociato a 95 anni e vero regista politico dell’impresa.
Nave con marinaio che suona il corno durante la IV crociata (foto Alinari)
La croce e i commerci Zara fu conquistata e rasa al suolo, anche se la popolazione aveva appeso i crocifissi sulle mura delle case. Molti abitanti vennero trucidati. I francesi, scontenti del bottino, si resero protagonisti di una sanguinosa guerriglia contro i soldati veneti. Così le strade si riempirono anche dei cadaveri degli invasori. Alla fine di novembre, sulla testa dei crociati arrivò pure la scomunica del papa, furente per l’oltraggio fatto al re cattolico d’Ungheria e ai cattolicissimi croati.
L’intoppo fu presto superato. I crociati francesi e tedeschi riuscirono, seppure a fatica, a farsi togliere la scomunica. I veneziani invece, non se ne preoccuparono. Perché allora, come scrisse lo storico e filosofo statunitense Will Durant (1885 –1981) “il commercio teneva dietro alla croce, e forse era anzi la croce ad essere guidata dal commercio”.
L’idea fissa di Dandolo era un’altra: approntare una spedizione contro Costantinopoli, la città che ormai danneggiava i commerci di Venezia, nonostante i quasi sessantamila mercanti italiani che vivevano stabilmente sul Bosforo. Tra l’altro, trenta anni prima, nella grande metropoli, membro di una ambasceria, il doge era stato coinvolto in una rissa, era stato imprigionato e aveva quasi perso la vista. Ma i risentimenti personali contavano poco di fronte alla “real politik”.
L’occasione arrivò quando tra le macerie di Zara piombò il principe Alessio Angelo, figlio del basileus Isacco II, deposto e accecato dal fratello Alessio III. Il giovane era riuscito a fuggire dalla prigione dove era rinchiuso insieme a suo padre. E ora, dopo un incontro infruttuoso con papa Innocenzo III, con il determinante aiuto di suo cognato, Filippo di Svevia, chiedeva ai crociati di rimetterlo sul trono di Costantinopoli. In cambio, prometteva ai crociati e ai veneziani, il pagamento dei 34.000 marchi che Venezia doveva ancora riscuotere e un altro aiuto concreto: diecimila cavalieri dell’esercito bizantino che sarebbero serviti a portare a termine la progettata conquista di Gerusalemme. L’erede al trono si impegnava anche a lasciare in Terrasanta 500 cavalieri. E oltretutto ventilava una riunificazione della Chiesa d’Oriente con quella di Roma.
Dandolo e Bonifacio persuasero la truppa. E nel maggio del 1203 a Corfù venne firmato l’accordo che certificava la deviazione della crociata.
La flotta arrivò davanti a Costantinopoli il 24 giugno. Meno di un mese dopo, il 17 luglio 1203, la città cadde, nonostante la strenua difesa di una guardia scelta di seimila soldati vichinghi, che da quasi due secoli era responsabile della difesa della capitale. Alessio III fuggì con i gioielli della corona. Suo fratello Isacco II, seppure cieco, fu rimesso sul trono, insieme al figlio Alessio IV, autore del rocambolesco accordo con i crociati.
Il giovane principe si trovò presto in una difficile situazione: da un lato non era in grado di mantenere le mirabolanti promesse fatte ai capi della spedizione crociata. Dall’altro, i bizantini lo accusavano di essere ricattato dai Latini che bivaccavano accampati sotto le mura della città.
Alla fine di gennaio la popolazione si ribellò. Nella rivolta, Alessio IV perse il trono e la vita. Qualche giorno dopo, anche suo padre morì in prigione. Alessio V Ducas Murzuflo, esponente di punta del partito antilatino e genero di Alessio III diventò imperatore.
Folco da Neully predica per la Quarta Crociata
Il grande bottino All’alba del 13 aprile 1204, dopo avere minuziosamente patteggiato con Venezia la spartizione del bottino, i crociati entrarono nella “regina di tutte le città”. I crociati attaccarono dopo aver ricevuto l’assoluzione. Il saccheggio sembrò infinito anche agli stessi protagonisti dell’impresa. I grandi signori si impadronirono in fretta dei palazzi più ricchi e dei conventi.
Baldovino scrisse al papa il suo resoconto: “Viene presa una innumerevole quantità di cavalli, di oro e di argento, di sete, di vesti preziose e di gemme e di tutto ciò che tra gli uomini è elencato tra le ricchezze. Viene trovata una tale immensità di abbondanza che non pareva possedere l’intera Latinità”.
Gunther di Pairis annotò che “tutti improvvisamente da poveri e stranieri che erano divennero ricchissimi”.
La città era sotto choc. Lo storico Fernand Braudel nel volume “Lezione di storia” paragonò Costantinopoli a un coniglio “pelato vivo” dai conquistatori.
La cupidigia della razzia fu spiegata con vivide parole da Roberto di Clari: “Dacché il mondo fu creato, non erano mai stati visti né conquistati tesori così grandi, né così magnifici, né così ricchi, né ai tempi di Alessandro, né ai tempi di Carlo Magno, né prima, né dopo. Neppure io credo, per quanto a mia conoscenza, che nelle quaranta città più ricche del mondo vi siano tante ricchezze quanto se ne trovarono a Costantinopoli”.
I cavalli della basilica di San Marco prima del sacco di Costantinopoli adornavano l’ippodromo della città
L’assalto alle reliquie L’incetta e il commercio delle reliquie caratterizzarono il grande saccheggio. La ricchezza di Costantinopoli si può ancora ammirare in decine di città d’Europa. Il capo di San Giovanni Battista fu portato ad Amiens. Amalfi volle come ricordo la testa di Sant’Andrea e il vescovo di Soissons spedì ai suoi parrocchiani il capo di Santo Stefano insieme a una reliquia di San Giovanni. Halbstadt pretese le reliquie di San Giacomo. I resti di San Clemente, razziati dalla Chiesa di Santa Teodosia, furono portati a Cluny. I baroni si divisero la Vera Croce, a parte un pezzetto trasportato a Parigi e una parte inviata in omaggio al papa. Re Luigi IX di Francia pagò la bellezza di 10.000 monete d’argento per la “vera” Corona di Spine e per custodirla costruì la Sainte Chapelle.
I veneziani trasportarono in laguna una infinità di capolavori: mosaici, pietre rare, manoscritti, cammei, medaglioni, straordinari gioielli e addirittura parti intere di splendidi edifici.
Ancora oggi il tesoro di San Marco conserva la più bella collezione d’artigianato bizantino che comprende il sarcofago Veroli, il più bel pezzo al mondo d’avorio bizantino intagliato e il Salterio dell’Imperatore Basilio, insieme a 32 calici bizantini e centinaia di reliquie e paramenti sacri.
Il doge Dandolo spedì a Venezia, come segno del suo trionfo, i quattro magnifici cavalli di bronzo placcati d’oro, risalenti ai tempi di Costantino che adornavano l’ippodromo della capitale. Nei secoli, sono diventati uno dei simboli della città lagunare e si possono ancora ammirare in cima alla galleria della basilica di San Marco.
La conquista di Costantinopoli, mosaico del 1216
Le statue perdute Nell’arco di 72 ore, Costantinopoli perse opere d’arte di inestimabile valore. Statue di Fidia, Prassitele e Lisippo scomparvero per sempre. I grandi bronzi vennero fusi per coniare le monete che servirono a pagare i soldati. Di tanti capolavori, rimase solo il ricordo. Il racconto di Niceta Coniata è un lungo e dolente elenco di meraviglie. “Quello che fu così prezioso all’antichità divenne ad un punto volgare materia; quello che costò un tempo immensi tesori, fu dalla bestialità latina in moneta converso. Le statue di marmo non solleticarono l’avarizia dei vincitori, furono però dal loro selvaggio talento in gran parte guaste ed infrante”.
Con parole accorate, lo storico evocò l’immagine della enorme statua di Giunone, esposta nella piazza dedicata all’imperatore Costantino. Così grande che “ai barbari”, per trasportare la testa della dea fino al palazzo di Bucoleone. servì un carro trainato a fatica da otto buoi.
Un’altra statua, nello stesso luogo, raffigurava Paride che offriva a Venere il pomo della discordia. E sulla cima di un grande obelisco, decorato con grazia da una moltitudine di figure scolpite, spiccava “La seguace del vento”: una statua capace di girare su se stessa a seconda della brezza che con forza diseguale arrivava dal Bosforo nelle varie ore del giorno. Sotto, intorno al monumento, erano raffigurate decine di specie di uccelli che con il loro canto salutavano il sorgere del sole. E poi “flauti, mastelli, pecore belanti e saltellanti capretti; sotto scorreva l’acqua del mare e si vedevano branchi di pesci, alcuni dei quali caduti nelle reti, altri che le rompevano e di nuovo si immergevano liberamente nelle profondità marine; c’erano alcuni amorini, a gruppi di due o tre, gli uni di fronte agli altri, nudi, mentre si scagliavano reciprocamente delle mele, scuotendosi tutti in una dolce risata”.
Per decenni, i racconti popolari ricordarono la statua equestre esposta in piazza del Monte Tauro: un cavallo al galoppo, e in groppa un cavaliere, con un braccio teso ad est, verso il sole. Forse era Giosuè che nell’episodio biblico comandava all’astro di fermare la sua corsa. Oppure il superbo Bellerofonte, che tentava la scalata al cielo su Pegaso, il cavallo alato.
Nei pressi del circo, scomparvero per sempre le effigi in bronzo dei tanti aurighi raffigurati sui loro carri e di favolosi animali egizi come l’aspide, il basilisco, il coccodrillo.
Fu distrutta anche una statua famosa dedicata a Elena, la bellissima moglie di Menelao, icona dell’eterno femminino, che causò la guerra di Troia: “Regolarissime ed eleganti erano le sue forme, la chioma alle aure diffusa, languidi gli occhi e le labbra e le braccia dello tesso bronzo rendeva immagine di vermiglie rose e d’intatta neve”.
L’ippodromo, galleria d’arte all’aperto nel cuore pulsante della città, fu spogliato dei suoi celebri ornamenti.
Vicino alle gradinate, riedificate in marmo nel X secolo, spiccava una colossale opera di Lisippo: un Ercole seduto sopra un letto di vermena, con il gomito sinistro appoggiato sul ginocchio. L’altezza delle gambe superava quella di un individuo in piedi e “la cintura di un uomo avvolgeva a malapena il pollice dell’eroe”. Poco oltre, altre meraviglie: l’antica Scilla; un cavaliere su un asino; la mitica lupa di Romolo e Remo; un’aquila con un serpente negli artigli; una sfinge col volto di donna e il corpo di un mostro; un elefante; il cavallo del Nilo con la coda ricoperta di squame e un uomo impegnato nella disperata lotta contro un leone.
Quasi un simbolo di una città ferita a morte. Il saccheggio durò tre giorni. Poi il marchese di Monferrato e il doge ordinarono che l’immenso bottino fosse trasportato in tre grandi chiese della città, difese in egual numero da soldati veneziani e francesi.
Le mura teodosiane durante la quarta crociata
Il nuovo assetto Alla spartizione del bottino seguì la divisione dell’impero. Baldovino IX, conte di Fiandra, protetto dai veneziani, salì sul trono dell’Impero Latino d’Oriente e ottenne un quarto di tutto il vecchio territorio dell’Impero Bizantino. Il francese sostituì il latino come lingua ufficiale dello Stato. Il nuovo impero si polverizzò presto in una miriade di piccoli e grandi principati.
Secondo gli accordi, Bonifacio di Monferrato doveva essere compensato con un territorio in Asia minore. Ma dopo varie lotte si impadronì di Tessalonica e fondò un regno che comprendeva anche la Tessaglia e la Macedonia.
A Morea, sul Peloponneso nacque un principato autonomo francese.
Anche Costantinopoli venne spezzettata in otto zone: cinque ottavi andarono all’imperatore e tre ottavi a Venezia.
Papa Innocenzo III condannò con durezza il saccheggio e comminò scomuniche e punizioni. Ma accettò il fatto compiuto che gli riconosceva piena supremazia su tutta la Chiesa cristiana d’Oriente e d’Occidente.
Sulla cattedra di Santa Sofia quale primo patriarca latino di Costantinopoli venne nominato il veneziano Tommaso Morosini. I vescovi bizantini furono deposti e sostituiti da prelati romani. Fu fatta pressione sul clero ortodosso perché si sottomettesse al papato, ma senza risultato.
La Quarta Crociata portò a Venezia un vero e proprio impero coloniale e sancì la sua egemonia su tutto il Mediterraneo orientale: la città lagunare arrivò a controllare gli stretti, l’ingresso nel Bosforo e tutta la rotta marittima dalla laguna veneta fino a Costantinopoli. La repubblica marinara si impadronì dei principali porti dell’Ellesponto e del Mar di Marmara, dei centri strategici del Peloponneso oltre che di Ragusa e Durazzo. Divenne padrona anche delle isole Ionie, di Creta, che comprò da Bonifacio, della la maggior parte delle isole dell’arcipelago e della città di Adrianopoli, nevralgico centro della Tracia imperiale.
L’Impero Latino di Costantinopoli durò mezzo secolo. Nel 1261 la signoria di Bisanzio tornò alla dinastia bizantina dei Paleologhi che regnò più a lungo di qualunque altro casato. Fino al 1453, quando le armate turche guidate da Maometto II tornarono a violare le mura della città e la grande cattedrale di Santa Sofia.
Prof.Federico Fioravanti
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