Toffia in notturna “…………., è una visione, uno stato d’animo, sensibilità per l’astratto e immateriale che solo loro, gli Artisti e i bambini lo sanno individuare e vivere. Parlo di quel particolare momento, durante il crepuscolo, che annuncia il passaggio dalla luce al buio: la cosiddetta “Ora Blu”. “L’here blue”, cara alla poetica , alla contemplazione e ai voli immensi che solo i notturni sottolineati dalle note di Chopin sanno trasformare la realtà in estasi che, poi, si sveglia alle note del Jazz”………… ……”immaginate Ernest Hemingway qui seduto nella piazza “all’Here Blue” a gustare il suo rum, chissà, forse, avrebbe scritto: “Il Vecchio e la Valle del Farfa”, o no?………..”
Brano Tratto da “Murales Castelnuovesi” di Franco Leggeri
POGGIO BUSTONE (Rieti)- Ricerca storica e Articolo dell’Arch. Maurizio PETTINARI
“Intorno al 1117 è nominato il castrum ed il podium di Poggio Bustone quando Berardo, signorotto del luogo, donò il territorio all’Abbazia di Farfa, ma il dominio dell’Abbazia durò pochi anni per passare poi al regno Normanno. Alla fine del XII secolo, il paese fu incluso nel territorio reatino.
San Francesco, con i suoi primi sei compagni, prese a predicare nel 1208 nella valle reatina prendendo dimora a Poggio Bustone.
Il paese fu completamente raso al suolo dal terremoto del reatino del 1298, che provocò la morte di 150 abitanti. Dal 1817 Poggio Bustone divenne sede di un governatorato che aveva alle sue dipendenze i comuni di Labro, Morro e Rivodutri. Poggio Bustone nella storia recente fu protagonista della lotta partigiana, nel mese di aprile del 1944, fu invaso dalle truppe nazi-fasciste che portarono morte e distruzione, in seguito per il coraggio dimostrato dalla popolazione il paese fu insignito di Medaglia d’Argento al valore.
Architetture religiose
Chiesa di San Giovanni Battista
La parrocchiale di S. Giovanni Battista è la principale chiesa del centro storico del paese. All’interno si trova un affresco quattrocentesco di S. Francesco che riceve le stimmate; sotto l’altare maggiore si conservano le reliquie di S. Felice martire. Secondo la leggenda il corpo del Santo fu portato su di un carro trainato da buoi che spontaneamente giunsero al castrum di Poggio Bustone.
Il Santuario di Poggio Bustone
Immediatamente fuori dal paese, sul lato della montagna, sorge il santuario francescano di Poggio Bustone, meta dei numerosi pellegrini che percorrono il Cammino di Francesco. Il santuario sorge nei pressi del romitorio dove, nel 1208, si fermò il santo di Assisi, che qui ebbe l’apparizione dell’angelo che gli annunciava la remissione dei peccati.
La costruzione del santuario iniziò nel Duecento e continuò nei secoli successivi. Il complesso comprende una chiesa, il convento di San Giacomo (ove risiedono i frati Francescani) e il tempietto della Pace.
La chiesa (che risale alla fine del Trecento) ospita degli affreschi che ritraggono la Madonna delle Grazie con il bambino e due angeli ai lati in adorazione, il castello di Poggio Bustone su cui vigilano San Francesco e Sant’Antonio oltre alle artistiche vetrate ed al tradizionale crocefisso in legno.
Il convento di San Giacomo (risalente al XV secolo) si sviluppa intorno a un chiostro dove si possono trovare un quadro con le parole del “Cantico delle Creature”, mentre nelle lunette sono raffigurati episodi della vita di San Francesco. Aperto al pubblico è il refettorio in cui si può trovare l’altare in legno con l’edicola dedicata a San Giacomo utilizzate da San Francesco e dai suoi primi seguaci.
Il santuario è collegato al Tempietto della Pace (XX secolo) per mezzo di un sentiero in cui sono poste le edicole della via crucis, ognuna composta da un diverso materiale (legno, marmo, bronzo, ceramica, ecc). Terminato il sentiero si può trova una statua in bronzo del Santo. (Informazioni tratte da Wikipedia).
Museo delle bande musicali di Toffia – Museo Maria Petrucci
Descrizione
Il Museo, si trova al centro storico di Toffia in una casa del 17° secolo, nel dicembre 2011 compie 20 anni dalla sua fondazione. Inizialmente era denominato “Museo d’Arte Raniero” poi “Casa Museo Raniero”. Nel 1991, Maria Petrucci, aveva fondato il Museo dedicandolo a suo padre Raniero, poi, essendo artista e, sentendo che i visitatori continuavano a credevano che le opere esposte le avesse realizzate Raniero per amore della propria Arte, e di chi nel tempo aveva acquistata qualche opera, nel 2009, pur se a malincuore, lo ha rinominato a proprio nome “Museo Maria Petrucci” – Casa Raniero -. Il museo ha due entrate e cinque stanze espositive. In quattro stanze, dislocate in vari piani, si possono ammirare, sculture lignee, dipinti a olio e, interessanti passaggi artistici di svariati materiali, il fornello in muratura i ganci nelle travi, dove infilavano le canne per appendere le salsicce, il camino, gli orci dove conservavano l’olio i legumi, testimonianze che ci riconducono ai nostri antenati, e lo studio d’arte. Nella quinta stanza, entrata secondaria, vi sono esposti gli oggetti della civiltà contadina e curiosità della cultura popolare. Attorno al museo, un avvincente paesaggio a perdita d’occhio, cattura l’atten zione per fare foto ricordo. Il museo è fornito, di didascalie fisse e mobili, di libri sulla storia di Toffia, di grammatica del dialet to Toffiese, e molte cose avvincenti, oltre a libri di poesia, romanzi, scritti dall’ artista. Si possono vedere DVD, sulla sua arte, riprese della TV- RAI -I – nell’ottanta a Mantova con la regia di Luigi Faccini e della Regione Lazio nel duemilacinque a Toffia con la regia di Lorenzo Pizzi
Via della Rocca – 02039 Toffia (RI)
Contatti
Tel–0765326248
Mail–mubam@libero.it
Website–http://www.mubam.it/
MUSEO MARIA PETRUCCI (Toffia)
Museo, casa d’artista, luogo di memoria e creatività. Entrando si percepisce un atmosfera particolare dove le sue sculture e tele si alternano alle memorie del tempo, i suoi ricordi. Ti giri e trovi ovunque oggetti della civiltà contadina, arnesi, utensili. Un posto da visitare con particolare attenzione ascoltando quello che Maria riesce a raccontare di sè delle sue opere. In queste foto ho cercato di cogliere parte di tutte queste emozioni, intagli del legno come stratificazioni di immagini, volti che solo la scultura riesce a tirar fuori. Il museo è sempre aperto e Maria saprà accogliervi con amicizia e gentilezza.
Per visitare il museo chiamare al0765-326248.
Per il sito web:http://www.museomariapetruccitoffia.it/
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Pozzaglia in Sabina-Santa Maria del Piano
Autore dell’Articolo-Avv. Paolo Amoroso.
Pozzaglia in Sabina -2 novembre 2015-Santa Maria in Valle è stato un monastero rurale benedettino oggi in rovina che si trova nel comune di Pozzaglia in Sabina sul limitare dell’esteso altopiano che costituisce il fondovalle del torrente Muzia, un insignificante ma perenne corso d’acqua tributario del Fosso Corese. Fondato probabilmente nel corso del X secolo, rimaneggiato ed ingrandito prima nel XIII secolo ed ancora nel trecento, quindi abbandonato all’inizio dell’ottocento ed infine utilizzato come cimitero fino al parziale restauro risalente alla metà del novecento, conserva i ruderi della chiesa conventuale dalla facciata a capanna risalente al secolo XI, torre campanaria ed abside duecenteschi.
La valle del torrente Muzia ben si prestava all’insediamento umano malgrado la sua altitudine – circa 700 metri sul livello del mare – sia già montana. Il fondovalle del torrente infatti è composto da un esteso altopiano solcato da ruscelli e punteggiato da collinette dai fianchi poco acclivi lungo i quali era semplice praticare l’agricoltura. Il terreno era ovunque morbido ed ubertoso, le vicine montagne offrivano abbondanti pascoli estivi nonché molto legname, l’altitudine proteggeva dalla malaria ed anche l’acqua era abbondante per tutto l’anno.
Anche se né l’ulivo né la vite riescono a crescere ad un’altitudine così elevata, i terreni pianeggianti del fondovalle potevano comunque essere utilizzati indifferentemente come pascoli invernali, impiego per il quale erano molto versati, oppure per la coltivazione di legumi, cereali minori e forse anche del grano mentre i poderi adiacenti al greto del torrente potevano essere adibiti ad orti senza particolari difficoltà e con buone rese. Tutte queste risorse garantivano con poco sforzo una produzione alimentare largamente superiore alle necessità di una piccola comunità monastica, ragione della prosperità dell’abbazia.
Altro vantaggio della Valle del Muzia era l’isolamento, che proteggeva chi ci viveva dai pericoli esterni, conseguenza dell’orografia molto accidentata della porzione orientale dei Monti Lucretili che la rende ancora oggi la loro parte meno popolata. Quando i monaci giunsero in quella contrada, in un momento per noi insondabile nel corso del X secolo, si stabilirono sulla cima di una collinetta bassa ma dai fianchi abbastanza ripidi, prossima al corso d’acqua, in un posto protetto dal vento e dai ladri, vicino all’acqua e non distante dai campi. Non sembra che temessero granché per la loro incolumità perché non risulta che abbiano fortificato, neppure debolmente, il luogo dove pure vivevano, circostanza che lascia supporre che i dintorni fossero al tempo completamente spopolati.
Appena qualche decennio dopo la sua fondazione e comunque non molto dopo l’anno mille, il cenobio raggiunse un livello di prosperità tale da potersi permettere il lusso di una grande chiesa conventuale in pietra ad una sola navata e con la facciata decorata in stile a capanna, che era quello in voga al tempo. Per tutto il XI secolo costruire edifici in pietra nelle campagne era un’impresa non banale: bisognava trovare personale capace di edificarli in un’epoca in cui i lavori edilizi erano infrequenti, convincerlo ad andare a lavorare in un posto comunque sperduto e disagevole, dargli da mangiare ed un riparo per i diversi anni necessari al completamento dell’opera quindi occorreva in qualche modo remunerare chi la costruiva.
La lavorazione della pietra coinvolgeva tante professionalità diverse: c’era il cavatore che estraeva il blocco dalla cava, lo scalpellino che rendeva i blocchi di dimensioni regolari, il facchino che li trasportava fino al cantiere, l’addetto alla fabbricazione della calce, che comunque doveva avvenire nei dintorni, ed il mastro che costruiva il muro pietra dopo pietra. Gli interni dovevano poi essere abbelliti e ciò richiedeva l’impiego di altri artigiani che dovevano essere anche loro trovati, convinti ad occuparsene quindi retribuiti.
Della chiesa edificata nel XI secolo altro non si è conservato che la facciata e non è chiaro se il suo perimetro ricalcasse quello dell’edificio duecentesco oggi visibile. Le dimensioni di ciò che ne resta, però, lasciano intendere che fosse una chiesa molto grande per gli standard del tempo, sicuramente molto più delle necessità della relativamente piccola comunità monastica che gli viveva intorno. Come sempre nel medioevo, la chiesa conventuale serviva ad ostentare la ricchezza del monastero molto più che come luogo di preghiera anche perché, così grande e non riscaldata, doveva essere anche molto fredda specie in inverno. In ogni caso, già nel XI secolo l’abbazia – che era indipendente da quella di Farfa con cui confinava – possedeva la quasi totalità dei terreni intorno e parecchi castelli nei dintorni, sintomo del suo non modesto benessere.
Il XIII secolo sembra sia stato il periodo d’oro del monastero anche se le fonti scritte sono scarse e lacunose. Nel 1219 un certo abate Lanfranco commissionò estesi lavori di restauro della chiesa conventuale che la portarono ad assomigliare a ciò che ne resta al giorno d’oggi. A questo periodo risale il campanile a pianta quadrata, il reperto di maggior pregio e meglio conservato del complesso. La torre, alta circa venti metri, si presenta divisa in due zone separate da una sottile cornice: quella inferiore priva di aperture ed una superiore con quattro ordini di finestre secondo la successione di monofore, bifore e di due piani di trifore.
Malgrado sia stata più volte danneggiata dai fulmini si presenta in discreto stato di conservazione e quasi intatta ad eccezione del tetto, mal ricostruito negli anni ’50. Sempre al duecento sembra risalga l’abside sopraelevato della chiesa che pure si è ben conservato. Costruito in pietra del luogo e rivestito di lastre regolari di buona fattura su cui era probabilmente steso l’intonaco poi affrescato, venne in seguito chiuso da un muro ben conservatosi, fornito di una porta e di una finestra dipinta probabilmente per puntellarne la struttura vistosamente pericolante.
Nulla resta del sottostante altare. L’unica navata era separata dall’abside da un largo transetto, quasi certamente duecentesco, che collegava la chiesa al retrostante convento, il cui tetto era sorretto da quattro grandi archi a sesto leggermente ribassato con ghiera a conci squadrati poggiati su tozze semicolonne dai capitelli di forme diverse, probabilmente materiale di spoglio. Sotto l’altare doveva essere presente una cripta, costruita in epoca ignota ed adibita fino alla metà dell’ottocento ad ossario, di cui resta un buco nel pavimento del transetto in corrispondenza del luogo in cui doveva trovarsi l’altare maggiore.
La chiesa subì ulteriori rimaneggiamenti nel corso del XIV secolo come testimoniano gli archi a sesto acuto che costituiscono gli architravi delle porte oggi murate ma ancora visibili lungo il suo perimetro. Il trecento, del resto, sembra sia stato un periodo ancora di prosperità per il monastero che è citato in due missive risalenti all’epoca del pontificato di Papa Giovanni XXII, inviate rispettivamente nel 1330 e nel 1333, tramite le quali all’abate di Santa Maria vengono affidati incarichi nel territorio della Sabina. Nel 1343 una visita apostolica elenca beni e proprietà dell’Abbazia e ne evidenzia la prospera situazione amministrativa.
Trenta anni dopo, nel 1373,
incarica da Avignone l’abate di San Lorenzo fuori le mura, di riportare all’ordine una serie di monasteri tra i quali spicca proprio l’Abbazia di Santa Maria del Piano. A partire dalla metà del quattrocento, la prosperità dell’abbazia si ridusse fortemente anche se non sono ben chiare le ragioni economiche di questo declino. Comunque, seppur lontano dai fasti del passato, il convento continuò ad essere abitato fino al tardo settecento, quando ancora vi viveva ancora un singolo eremita, e venne infine soppresso nel 1809 quando gli edifici che lo componevano erano ancora in buono stato di conservazione.
Nel 1855 Orvinio venne colpito da un’epidemia di colera ed in mancanza di un cimitero in cui inumare i morti si pensò di utilizzare a questo scopo il monastero ormai in abbandono. Per trasformarlo in un camposanto la struttura venne stravolta: furono infatti scardinate le porte, scoperchiato il tetto, divelto il mattonato e murato l’ingresso principale. Inoltre si procedette ad uno scavo continuato al di sotto del pavimento ed in tutta l’area del Monastero al fine di ricavare i loculi entro cui inumare i cadaveri.
Un secolo dopo, nel 1952, quando ormai l’abbazia era completamente in rovina, la chiesa di Santa Maria, unico edificio di cui si fosse conservato qualcosa, venne restaurata dalla sovrintendenza ai ben culturali con grandi spese per riportarla allo stato originario. In questa occasione furono anche disseppelliti i morti collocati dentro il monastero un secolo prima a cui venne data migliore sepoltura nel cimitero di Orvinio. Tuttavia, alla fine dei lavori il complesso venne di nuovo abbandonato senza nessuna sorveglianza né alcun tentativo di valorizzazione turistica peraltro difficile perché il luogo in cui si trova Santa Maria del Piano è indubbiamente molto sperduto.
Così, nel corso degli anni ’70, i ruderi dell’abbazia furono depredati di qualunque oggetto artistico potesse essere rimosso senza pregiudicare la stabilità dei muri superstiti fra cui il rosone duecentesco rubato nel 1979. Del monastero al giorno d’oggi resta poco o nulla, tranne forse alcuni muri di difficile lettura sul lato della chiesa sul quale si affaccia il campanile. Della chiesa si sono ben conservati i muri perimetrali, la facciata e l’abside mentre del transetto resta abbastanza poco. Peraltro, sono in corso lavori di restauro volti ad arrestare il degrado della struttura che vengono compiuti però con poca attenzione alla conservazione delle murature originali e con gusto artistico a volte molto discutibile.
L’autore dell’articolo è Paolo Amoroso, soprannominato Aioe fin da ragazzo, di professione Avvocato penalista, con la passione per l’aria aperta, la storia medievale e l’informatica.
La chiesa abbaziale di Santa Maria del Piano –
-Pillole di storia a cura di Franco Leggeri-
I ruderi della chiesa di Santa Maria del Piano e dell’attiguo monastero sorgono isolati sull’altopiano semideserto che si estende tra i due Borghi di POZZAGLIA e di ORVINIO subito a ridosso dei monti sabini all’estremità sud-orientale dell’antica Diocesi di Sabina.
L’edificio presenta delle originali rispondenze di carattere ubicazionale con la chiesa di Vescovio. Infatti entrambe le costruzioni sono isolate rispetto all’agglomerato urbano più vicino sia un CASTRUM o un semplice nucleo abitativo formatosi in epoca successiva.
La chiesa abbaziale dista dal Castrum di Canemorto, oggi ORVINIO circa 4 km. E sono collegati da una carrareccia rulare semiabbandonata, e questo fatto, evidentemente poco comune per un complesso edilizio di proporzioni così rilevanti, non trova giustificazione alcuna se non nella leggenda secondo la quale la chiesa costituirebbe un gesto di ringraziamento da parte di Carlo Magno per una vittoria da lui riportata nella zona. A questo proposito negli Atti della Visita Corsini (Acta sacrae visitationisPuteale) si legge:”eam a Carlo Magno ob insignem de Longobardis victoriam aedificatam fuisse atque in gratiarum actionem Deiparae Virginis dicatum, memoriae proditum est.” Questa traduzione del 1781 , è in contrasto palese con quella riferita da altri scrittori, quali F. Fiocca, F.Palmegiani e F.Di Geso, secondo i quali la chiesa sarebbe stata edificata da Re Carlo per una vittoria riportata su saraceni “tanto da costringerli ad abbandonare la zona”.
Pozzaglia Sabina–Santa Maria del Piano-Bolla papale del XIII sec. Biblioteca DEA SABINA
Archivio di Stato di Rieti
UNA BOLLA PAPALE DEL XIII SECOLO NEL PATRIMONIO DEL NOSTRO ARCHIVIO
Il patrimonio dell’Archivio di Stato di Rieti
si arricchisce di un importante e antico documento. Si tratta di una bolla papale, una “lettera graziosa”, di Onorio III indirizzata all’abate di Santa Maria del Piano a Pozzaglia Sabina e risalente al 1218.
L’acquisizione al patrimonio dell’Archivio reatino è stata possibile grazie all’impegno congiunto della Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio e della Direzione generale archivi del Ministero della Cultura.
Tra alcuni giorni, dopo le necessarie fasi di catalogazione, il documento sarà disponibile per la consultazione al pubblico.
Da sottolineare, inoltre, la particolare importanza di questa bolla poiché coeva al periodo di massimo splendore dell’abbazia e che ci fornisce nuovi e utili dati sul medioevo nel territorio reatino.
Testi di Giovanna Alvino, Gianfranco Formichetti e Tersilio Leggio-
DESCRIZIONE
Aspra e boscosa contrada montana, sublime, la Sabina rimase sempre appartata; la sua caratteristica peculiare si potrebbe definire la vocazione all’isolamento.
Medioevale è ancor oggi il volto della capitale della Sabina, Rieti, e dei principali centri: Amatrice e Antrodoco con le loro chiese romanico-gotiche, la francescana Greccio in cui nacque il presepe, Leonessa con i suoi affreschi trecenteschi, Cittaducale di fondazione angioina e la grande abbazia di Farfa.
Anno1993 / 228 PAGINE- Edizione bilingue: Italiano/Inglese
CASTELNUOVO DI FARFA (RIETI) –chiesa parrocchiale SAN NICOLA DI BARI- Particolare nel dipinto del Ballerini ,sito all’interno della chiesa parrocchiale, rafficurante il miracolo dei bambini.Il Ballerini potrebbe aver preso come modelli tre bambini Castelnuovesi dell’epoca.Foto di Franco Leggeri,Castelnuovese.
IL MIRACOLO – IL MONDO DEI BAMBINI
Il bimbo nell’acqua bollente. Un’ostessa presso la quale una volta Nicola aveva alloggiato stava facendo il bagno al suo bambino. Come le dissero che Nicola era stato fatto vescovo lasciò tutto e andò ad assistere alla sua messa. Al termine, ricordandosi che il fuoco avrebbe potuto accendersi e far bollire l’acqua in cui era il bimbo, corse a casa. Il fuoco si era effettivamente acceso e l’acqua bolliva, ma il bimbo, invece dio morire, stava allegramente giocando con le bolle dell’acqua. Dopo averlo preso tra le braccia, corse fuori a raccontare il miracolo.
Il bambino indemoniato. Un bambino era indemoniato e si strappava i vestiti e si mordeva le mani. La madre lo portò da San Nicola che benedicendolo lo liberò dal demonio.
Il diavolo e il bambino. Un uomo della Lombardia era molto devoto di San Nicola e ogni anno invitava i chierici ad un banchetto. Un anno mentre si vestiva per andare in chiesa, la moglie gli disse di aver sognato che un leone con la zampa le aveva strappato la mammella e ne aveva succhiato il sangue. Recatisi in chiesa, a casa restò solo il bambino. Venne il diavolo in sembianze di viandante e chiese del cibo. Come il bambino gli portò il pane, egli lo prese e lo strangolò. Immaginarsi il dolore dei genitori quando ritornarono dalla liturgia in onore di San Nicola. Ma nonostante il dolore il padre volle invitare lo stesso i chierici a pranzo. Per cui ordinò di adagiare il bambino in una stanza e di chiuderla. Mentre i chierici mangiavano venne un pellegrino (“Signori, quello era San Nicola!”) che chiese del cibo ottenendo dal padre di poterlo consumare nella sua stanza, dov’era cioè il corpo del bambino. San Nicola lo chiamò e quello si alzò correndo tra le braccia dei genitori. La festa di San Nicola, che era già osservata, fu celebrata ancor più amorevolmente e gioiosamente.
Castelnuovo ,Particolare , dipinto nel quadro del Ballerini sito all’interno della chiesa parrocchiale.
I TRE BAMBINI RISUSCITATI
Le storie di S. Nicola non sono state narrate tutte allo stes¬so modo. Ogni popolo le ha rielaborate secondo la sua sensibilità. Ogni copista medioevale ci metteva del suo, quando proprio non incorreva in qualche errore di traduzione o copiatu¬ra. Da una di queste sviste nacque la leggenda di S. Nicola più famosa in occidente.
Come si è detto in precedenza, l’episodio più importante e più stori¬camente documentato è quello che vide il nostro Santo intervenire a sal¬vare tre innocenti dalla decapitazione, fermando la spada del carnefice. Da qualche tempo però, nel mondo cristiano la parola innocenti veniva spesso usata come equivalente di bambini (pueri). Così, ad esempio, i bambini uccisi dal re Erode (per timore che fra essi sorgesse il re d’Israele) avevano dato adito alla festa degli innocenti, che si celebra dopo il Natale. D’altra parte, nelle storie di S. Nicola raramente si dice¬va che aveva salvato tre uomini oppure tre cittadini di Mira. Per abbre¬viare e per indicare l’innocenza di quei condannati a morte, più spesso si diceva che Nicola aveva salvato tre innocenti. A quel punto qualche scrittore fece un po’ di confusione, affermando che Nicola aveva salva¬to tre bambini, invece di dire che aveva salvato tre innocenti.
Il primo a dare questa erronea traduzione sembra che sia stato Reginold, uno scrittore tedesco che nel 961 dopo Cristo fu eletto vesco¬vo proprio per aver scritto una bella Vita di S. Nicola intercalata da brani in musica. Invece di innocentes Reginold usa il termine pueri, insi¬nuando nella mente dei fedeli che si trattava di una storia diversa dal¬l’episodio della liberazione di tre innocenti dalla decapitazione. Nel corso di circa un secolo e mezzo la “storia” dei bambini salvati da S. Nicola entrò anche negli inni sacri e poco a poco venne elaborato un racconto vero e proprio seguendo due linee principali.
Secondo una prima versione, il fatto sarebbe accaduto mentre Nicola si recava al concilio di Nicea. Fermatosi ad un’osteria, gli fu presentata una pietanza a base di pesce, almeno a quanto diceva l’oste. Nicola, divinamente ispirato, si accorse che si trattava invece di carne umana. Chiamato l’oste, espresse il desiderio di vedere come era conservato quel “pesce”. L’oste lo accompagnò presso due botticelle piene della carne salata di tre bambini da lui uccisi. Nicola si fermò in preghiera ed ecco che le carni si ricomposero e i bambini saltarono allegramente fuori dalle botti. La preghiera di Nicola spinse l’oste alla conversione, anche se in un primo momento questi aveva cercato di nascondere il suo misfatto.
La seconda versione della leggenda non parla di bambini, ma di sco¬lari. Un nobile di un villaggio presso Mira, dovendo mandare i figli ad Atene per continuare negli studi, disse loro di passare da Mira a pren¬dere la benedizione del vescovo Nicola. Essendo questi assente, essi non poterono incontrarlo e, giunta la sera, cercarono una locanda. Ve¬dendoli benestanti, l’oste entrò di notte nella loro camera e li uccise, prendendosi i preziosi vestiti. Non contento, mescolò le loro carni con altra carne salata, per darle agli avventori.
Il giorno dopo Nicola, divinamente avvertito, si recò dall’oste chie¬dendogli della carne. L’oste gli mostrò la carne conservata, aggiungen¬do che era buona da mangiare. Nicola attese sperando nel suo penti¬mento, ma quello non diede segni di resipiscenza. Allora il Santo bene¬disse quelle carni e i tre scolari tornarono in vita. Con la sua preghiera e le sue esortazioni, finalmente l’oste si pentì e promise di condurre una vita virtuosa. I tre scolari, come risvegliandosi dal sonno, presero le loro cose e ripresero il viaggio per Atene.
Ovviamente vi furono tante varianti di queste leggende. In molte di esse un ruolo importante e negativo svolge la moglie dell’oste. Ma le due più diffuse sono queste appena riportate, che diedero adito alla na¬scita del patronato di S. Nicola sui bambini che, a sua volta, insieme all’episodio della dote alle fanciulle, fece sorgere la figura di Santa Claus (Babbo Natale). Dalla seconda versione nacque il patronato sulle scuole (insieme a Santa Caterina d’Alessandria) e l’usanza folkloristica della festa studentesca del 6 dicembre col particolare del boy bishop (il ragazzo vescovo).
Concerviano-(RIETI)- Abbazia benedettina di San Salvatore Maggiore-
DESCRIZIONE
San Salvatore Maggiore è una abbazia Benedettina, sita sul monte Letenano nell’attuale frazione di Pratoianni del comune di Concerviano (RI). Fu fondata nel 735 d.C., in epoca longobarda, da monaci dell’abbazia di Farfa. Sorta sulle rovine di una preesistente villa romana, nell’891 d.C. fu incendiata dai Saraceni; successivamente ricostruita nella seconda metà del X secolo entrò in competizione con l’abbazia di Farfa nel controllo del territorio. Schieratasi con gli imperatori nella lotta per le investiture, è denominata per questo abbazia imperiale. Nel Trecento iniziò la decadenza, fino a che nel Seicento papa Urbano VIII, in forza della bolla Singulari diligentia del 12 settembre 1629, la soppresse unendola all’abbazia di Farfa.
Negli ultimi anni è stata parzialmente ristrutturata grazie a fondi europei; attualmente è di proprietà del Comune di Concerviano.
Qualche giorno fa ho incontrato, a Roma, Marino Festuccia, fotografo classe 1984, originario di Rieti, che collabora con studi d’arte ed è molto richiesto per l’ottima qualità del suo lavoro. È un fotografo autodidatta che, nel corso degli anni, ha frequentato altri fotografi e numerosi studi d’arte attingendo a idee nuove e a nuove ispirazioni, imparando direttamente sul campo. Ha trovato particolarmente stimolante, edificante e creativo lavorare con i nudi, partire da essi e “costruire” su di essi, storie, momenti e situazioni.
D: Ciao Marino, vorrei subito chiederti qual è il tuo punto di partenza o di riferimento.
R: La mia base di partenza è il nudo, inteso come una tela bianca dalla quale partire per costruire qualcosa che abbia un’identità specifica e contraddistingua il soggetto fotografato senza alternarne le sue caratteristiche.
D:Perché ritieni il nudo una tela bianca?
R: Perché come in una tela bianca posso aggiungere i miei “colori” che sono accessori ed abiti che parlano della persona che li indossa.
D: Hai mai trovato delle difficoltà in questo senso?
R: Sì, spesso questa “tela bianca” ha bisogno di un aiuto, a volte incontro difficoltà a tirare fuori l’essenza del soggetto dal dettaglio e, in questi casi, supplisco con l’aiuto dell’ambiente. Uno sfondo può dire tanto e quanto un dettaglio, è un asso nella manica che, a volte, utilizzo anche quando ho pochissimo tempo o subentrano altre problematiche.
D: Possiamo quindi dire che il tuo è un lavoro di addizione?
R: Sì, ma è anche di sottrazione e, forse, parto proprio da questo. Io spoglio il corpo e dal nulla incomincio ad aggiungere dettagli chiarificatori che diano identità al soggetto ed evidenzino le sue caratteristiche. Non è un lavoro semplice, lavoro solo con le immagini, e quindi necessito di un processo di rielaborazione completo che parli da sé senza usare le parole. In un immagine si nasconde un gran lavoro sia estetico che meditativo.
D: In questo periodo sei alle prese con un nuovo progetto fotografico. Puoi dirci qualcosa?
R: Certamente. Il progetto è anche visitabile su Instagram alla pagina https://www.instagram.com/younalogue/ che è anche il nome del progetto (Younalogue), nato da poco e che, per la prima volta, nasce direttamente dal nulla ed è il mio primo progetto personale che attraverso il nudo sonda la percezione umana del proprio corpo. Realizzo le foto con pellicole da 35 mm scadute, poiché l’emulsione sulla pellicola diventa instabile e non hai il controllo totale sul risultato, cosa che invece conosci con pellicole normali e non ancora scadute.
D: Chi sono i soggetti scelti per “Younalogue”? Cerchi soggetti con caratteristiche in particolare?
R: No, e forse è questa la particolarità del progetto. Io, per natura, sono una persona molto empatica e la gente, spesso, si apre con me, mi racconta cose private, cerca il confronto. Partendo da questo, e da persone che avevano visto già delle foto, in modo spontaneo e naturale molti soggetti chiedono di poter posare sfidando, a volte, l’imbarazzo della nudità.
D: Puoi spiegarmi meglio questo passaggio?
R: Come ho già detto amo stare in mezzo alla gente, mi piace confrontarmi e dialogare con le persone. Voglio che mi conoscano e voglio conoscerle. A volte il raccontarsi fa crollare delle barriere e infonde coraggio soprattutto in chi non ha un’autostima del proprio corpo. E’ questa la parte più difficile del progetto: entrare in relazione con queste persone e portarle piano piano verso questa esperienza. La maggior parte delle persone mostra un atteggiamento conflittuale con il proprio corpo, vuoi per delle cicatrice, vuoi perché non risponde agli standard che il mondo sembra richiedere. A questo, però, le persone associano un rapporto emotivo con la foto che le fa avvicinare a quest’idea che sto portando avanti. Loro sanno che le foto non sono modificate e, nonostante questo, si spogliano concretamente dei vestiti e metaforicamente delle loro paure. Mostrano i loro inestetismi come segni di battaglie vinte, di periodi bui, diventano i simboli di decine di sfide personali che queste persone hanno affrontato. Vengono fotografati per quello che sono, persone comuni, non cerco modelli. Voglio cogliere quell’imperfezione che unisce tutti gli esseri umani. Con questi scatti, attuano un superamento della loro vergogna e la cicatrice o qualunque altro inestetismo simboleggia una sofferenza relegata al passato.
D: E’ un progetto, quindi, che ha una finalità sociale?
R: No! L’idea è nata come un progetto estetico che, però, con il tempo, ha acquisito moltissime sfumature e questa cosa mi ha dato nuova linfa per continuare allargando il mio raggio d’azione. Se a Roma io come spazio utilizzo lo studio fotografico La Loggia Bianca di Roma Est, sto iniziando a ricevere sempre più richieste da altre regioni d’Italia e, pertanto, sto pensando a dei punti di raccolta in alcune città come Milano, Olbia, Bologna, Firenze, Torino e Napoli, alcune delle quali ancora da definire meglio. Ho fatto questa scelta anche per permettere a chi è più lontano di avere, comunque, la possibilità di far parte di questo progetto che stupisce anche me giorno dopo giorno.
D: Come si avvicinano i potenziali soggetti al progetto?
R: Attraverso la circolazione delle sito e della pagina Instagram molti possono venire a contatto con questo mio lavoro. Ricevo molte telefonate e gli incontri non sono subito finalizzati allo scatto. A volte, delle persone possono incontrarmi più di una volta e solo in un secondo momento, in totale autonomia, decidono di spogliarsi. Io non lo chiedo mai, attendo silenziosamente che la cosa parta da loro, ritenendo questo aspetto fondamentale ed interpretato come un momento di fiducia che loro mi concedono.
D: Come procedi?
R: La base di partenza è un nudo integrale, poi loro in modo spontaneo decidono come posizionarsi. Preferisco che la cosa sia assolutamente spontanea affinché loro si sentano sempre a loro agio. Lo scatto avviene mentre parliamo, raccontiamo storie, aneddoti, o ascoltiamo della musica che fa da sfondo al momento. Poi, però, mi focalizzo su dei dettagli, su scorci del corpo che parlino da sé. E quando sento dire che le foto parlano da sole, nonostante il piccolo dettaglio, sento di aver raggiunto quell’obiettivo di dialogo totale con chi ha posato per me.
D: Questo ti permetterà di fare nuove conoscenze e allargare i tuoi orizzonti.
R: Decisamente sì. Come già detto amo stare tra la gente e poterlo fare mi fa sentire un privilegiato, ringrazio le persone che vengono da me e si aprono, anche se poco alla volta. Grazie a questo progetto sto conoscendo anche una nuova parte di me stesso, il confrontarmi con gli altri mi permette di acquisire nuova esperienza e nuove sfumature. Il mio ulteriore obiettivo è quello di arrivare a spogliami io, sia in senso fisico che emotivo ma, per farlo sento che devo ancora nutrirmi delle esperienze altrui.
D: Prima hai detto che questo è il tuo primo vero progetto. Prima non avevi mai fatto una cosa simile?
R: No, ho lavorato tantissimo con artisti, musicisti, modelle e ho acquisito esperienza. Grazie all’incoraggiamento di alcune persone a me molto vicine ho intrapreso questo viaggio più consapevole dei miei mezzi e contento di creare qualcosa che porti la mia impronta. Ho capito che era arrivato il momento di fare qualcosa di assolutamente personale, una ricerca che andasse al di là della finalità commerciale o lavorativa. L’idea tecnica del progetto è di realizzare 1000 scatti, ovviamente selezionati, per realizzare un’esposizione e poi, magari, un libro.
D: Bene Marino, grazie per il tempo che mi hai dedicato. Devo dire che il tuo progetto ha delle idee davvero interessanti e ti auguro buona fortuna per tutto!
Il volume “Luoghi sacri e storia del territori. L’Atlante storico dei culti del reatino e della Sabina” a cura di 𝗦𝗼𝗳𝗶𝗮 𝗕𝗼𝗲𝘀𝗰𝗵 𝗚𝗮𝗷𝗮𝗻𝗼, 𝗧𝗲𝗿𝘀𝗶𝗹𝗶𝗼 𝗟𝗲𝗴𝗴𝗶𝗼 e 𝗨𝗺𝗯𝗲𝗿𝘁𝗼 𝗟𝗼𝗻𝗴𝗼, è il risultato di un lavoro interdisciplinare che coniuga gli studi e la ricerca storica, artistica e cultuale alla tecnologia digitale. Al contempo rappresenta il proseguo di un più ampio progetto – Fonti e studi farfensi – sostenuto dall’𝗜𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝘁𝗼 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗜𝘁𝗮𝗹𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗶𝗹 𝗠𝗲𝗱𝗶𝗼 𝗘𝘃𝗼 e dalla 𝗕𝗮𝗱𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝗙𝗮𝗿𝗳𝗮.
𝗦𝗼𝗳𝗶𝗮 𝗕𝗼𝗲𝘀𝗰𝗵 𝗚𝗮𝗷𝗮𝗻𝗼, che ha insegnato Storia medievale nelle Università La Sapienza, Siena, L’Aquila e Roma Tre, ha tracciato un profilo del lavoro offrendo spunti interessanti per capire il valore sia dell’opera cartacea sia della piattaforma online 𝗔𝗦𝗖𝗥𝗲𝗦 (𝗔𝘁𝗹𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗦𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝗖𝘂𝗹𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗥𝗲𝗮𝘁𝗶𝗻𝗼 𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝗮𝗯𝗶𝗻𝗮): risultato informatico che poggia sulla precedente ricerca scientifica, i cui dati sono stati digitalizzati da esperti del settore facenti capo alla Sapienza Università di Roma.
“L’idea è nata per impulso di un finanziamento venuto dal professore 𝗔𝗻𝗱𝗿𝗲́ 𝗩𝗮𝘂𝗰𝗵𝗲𝘇 – spiega la prof.ssa Boesch Gajano -. Vorrei porre attenzione su questo importante preliminare aspetto per far capire che il lavoro è frutto di una collaborazione che va al di là dei nostri tre nomi, al di là delle istituzioni italiane, universitarie e locali.
Venuto a conoscenza delle iniziative del Centro Europeo di Studi Agiografici (CESA) con sede a Rieti, il prof. Vauchez, vincitore del premio Balzan 2013, ci propose un finanziamento per una ricerca legata a questi luoghi. Un’occasione straordinaria che, insieme a Tersilio Leggio e Umberto Longo, abbiamo colto mettendo a frutto delle ricerche pregresse, per sviluppare l’idea dell’Atlante Storico dei Culti del Reatino e della Sabina (ASCReS), di cui questo volume è il corredo a stampa. Un grande lavoro digitale: durato quasi due anni e affidato alle cure di un’equipe di studiosi e docenti della Sapienza Università di Roma.
Nonostante tutto, la carta stampata ha ancora un suo senso, ossia un suo pubblico: così abbiamo deciso di lasciare una traccia scritta del lavoro svolto per lo sviluppo dell’Atlante. A mio avviso la cosa interessante del progetto è quella di aver tentato un rapporto organico tra la ricerca storica sulle fonti e lo strumento informatico che in questo caso ha avuto la giusta pretesa di non essere soltanto un appoggio cioè un mezzo di divulgazione dei dati raggiunti ma anche uno strumento di ricerca e di possibili ulteriori ricerche.
Dopo diversi incontri con gli esperti, ho appurato che l’aspetto informatico costringe a mettere a fuoco tutta una serie di elementi: cosa, per esempio, si intende per luogo di culto attraverso una precisa definizione terminologica. Penso che si sia creato un punto di riferimento importante per questi territori.
Personalmente ho maggiormente seguito la ricerca storica e storico-artistica che ha dato frutti interessanti: il saggio sui culti di 𝗦𝘁𝗲𝗳𝗮𝗻𝗶𝗮 𝗔𝗻𝘇𝗼𝗶𝘀𝗲 e quello sulla Storia dell’Arte di 𝗘𝗹𝗲𝗻𝗮 𝗢𝗻𝗼𝗿𝗶. Credo che in entrambi si siano fatte accurate ricerche che hanno arricchito il campo d’indagine all’interno di un vasto e variegato territorio, che oggi può beneficiare di uno strumento che permette di conoscere una rete di luoghi sacri, in ognuno dei quali sono stati rintracciati oggetti di culto e devozione che non erano noti.
Il volume segna un passo in avanti, perché poggia su un lavoro che intreccia aspetti storico religiosi con la storia del territorio di cui Tersilio Leggio è maestro, e al quale va il merito di aver inserito il territorio sabino e reatino all’interno di una grande storia che travalica confini netti e precisi. Tra questi due campi emergono interazioni interessanti: soprattutto i rapporti con altri territori limitrofi e le loro trasformazioni nel tempo.
Per me, che ho una limitata conoscenza di tipo informatico, è stata una bella esperienza capire la materia attraverso i saggi di Saverio Malatesta e di Massimiliano Vassalli: validi riferimenti per creare un rapporto fra la ricerca umanistica e quella informatica, estendibile ad altri campi.
Per quanto riguarda la fruizione del sito ASCRES è strutturato per essere accessibile a tutti: i giovani digitali sono senz’altro agevolati; i meno giovani possono trovare nel volume cartaceo un valido aiuto per navigare. Il mio auspicio è che non solo agli studiosi di professione ma ad ogni Comune, scuola, parrocchia del territorio sabino e reatino, sia data la possibilità di connettersi per utilizzare l’Atlante, che oltre a divulgare conoscenza scientifica – sfatando o integrando una serie di leggende – può essere un luogo di promozione culturale e turistica”.
Le riflessioni della prof.ssa Boesch Gajano invitano a sfogliare i frutti di un lungo lavoro di ricerche sulla storia del territorio sabino. Tra questi: “𝗖𝗼𝗻𝘀𝘁𝗿𝘂𝗰𝘁𝗶𝗼 𝗠𝗼𝗻𝗮𝘀𝘁𝗲𝗿𝗶𝗶 𝗙𝗮𝗿𝗳𝗲𝗻𝘀𝗶𝘀” a cura di Umberto Longo, “𝗟’𝗔𝗯𝗯𝗮𝘇𝗶𝗮 𝗔𝗹𝘁𝗼𝗺𝗲𝗱𝗶𝗲𝘃𝗮𝗹𝗲 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗶𝘀𝘁𝗶𝘁𝘂𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶𝗻𝗮𝗺𝗶𝗰𝗮. 𝗜𝗹 𝗰𝗮𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗦𝗮𝗻𝘁𝗮 𝗠𝗮𝗿𝗶𝗮 𝗱𝗶 𝗙𝗮𝗿𝗳𝗮” a cura di Stefano Manganaro, “𝗔𝗹𝗹𝗲 𝗼𝗿𝗶𝗴𝗶𝗻𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗺𝗼𝗻𝗮𝗰𝗵𝗲𝘀𝗶𝗺𝗼 𝗶𝗻 𝗦𝗮𝗯𝗶𝗻𝗮” di Tersilio Leggio, “𝗜𝗹 𝗦𝗮𝗻𝘁𝘂𝗮𝗿𝗶𝗼 𝗱𝗶 𝗦. 𝗠𝗶𝗰𝗵𝗲𝗹𝗲 𝗮𝗹 𝗠𝗼𝗻𝘁𝗲 𝗧𝗮𝗻𝗰𝗶𝗮. 𝗔𝗽𝗽𝗿𝗼𝗰𝗰𝗶 𝗶𝗻𝘁𝗲𝗿𝗱𝗶𝘀𝗰𝗶𝗽𝗹𝗶𝗻𝗮𝗿𝗶 𝗽𝗲𝗿 𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗻𝗼𝘀𝗰𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗲 𝗹𝗮 𝘃𝗮𝗹𝗼𝗿𝗶𝘇𝘇𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝘂𝗻 𝗹𝘂𝗼𝗴𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝘂𝗹𝘁𝗼 𝗺𝗶𝗹𝗹𝗲𝗻𝗮𝗿𝗶𝗼” a cura di T. Canella e U. Longo, “𝗦𝗮𝗻𝘁𝗮 𝗩𝗶𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮. 𝗟𝗮 𝗺𝗮𝗿𝘁𝗶𝗿𝗲, 𝗶𝗹 𝗰𝘂𝗹𝘁𝗼 𝗲 𝗹𝗲 𝗶𝗱𝗲𝗻𝘁𝗶𝘁𝗮̀ 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮𝗹𝗶” a cura di Elena Onori, e naturalmente “𝗟𝘂𝗼𝗴𝗵𝗶 𝘀𝗮𝗰𝗿𝗶 𝗲 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝘁𝗲𝗿𝗿𝗶𝘁𝗼𝗿𝗶. 𝗟’𝗔𝘁𝗹𝗮𝗻𝘁𝗲 𝘀𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝗰𝘂𝗹𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗹 𝗿𝗲𝗮𝘁𝗶𝗻𝗼 𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗦𝗮𝗯𝗶𝗻𝗮” a cura di Sofia Boesch Gajano, Tersilio Leggio e Umberto Longo.
Sulla piattaforma 𝗔𝗦𝗖𝗥𝗘𝗦 (http://ascres.uniroma1.it/ ) basta fare un click per avventurarsi nella ricerca, senza dimenticare il valore e il piacere della carta che offre contenuti e quindi parole da digitare: un maggiore bagaglio storico, culturale e cultuale con il quale navigare!
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