Audre Lorde -D’amore e di lotta- Poesie scelte- Testo inglese a fronte
Audre Lorde
Audre Lorde è nata a nord della metropoli come terza e ultima figlia di una famiglia di immigrati da Grenada (Caraibi). È stata una poeta militante che ha riempito i suoi versi della forza libera e denotatrice di Harlem e ha usato la sua poesia come uno stagno in cui far confluire e risuonare la sua lotta verso la piena aderenza di sé stessa in nome dell’uguaglianza.
Nata il 18 febbraio del 1938 nel periodo in cui la povertà per la Grande Depressione agitava le strade di Harlem, cresce in una casa sulla 155ma Strada davanti al fiume Hudson. La famiglia con grandi sacrifici la iscrive in una scuola per studentesse dotate di cui è l’unica ragazza nera. Agli occhi di mamma Linda e papà Frederich, Audre mostra precocemente la sua indole forte e indipendente: decide di troncare una parte del suo nome originale Audrey e recidere la lettera Y e lasciare il nome che le rimarrà appiccicato come segno di distinzione e autoaffermazione. Tra gli scorci di tutto quello che le succede, racconta anche episodi di odio metropolitano: come quando non la fanno sedere sul bus oppure come la osservano mentre attraversa l’incrocio per andare a scuola. Harlem rappresenta in quegli anni il teatro della lotta e protesta degli afroamericani: Malcom X con i suoi comizi riempie l’Apollo Theatre e le vie del quartiere. Lorde per continuare i suoi studi lavora come operaia e infermiera e comincia a frequentare gli ambienti letterari e omosessuali di New York. Negli anni sessanta l’omosessualità era considerata illegale; la comunità gay stanca del deprimente clima di repressione trova nei vecchi edifici industriali, come il Mount Morris di Harlem, un luogo dove esprimersi. In questo composito panorama metropolitano, incontra Edwin Rollins, avvocato bisessuale da cui avrà due figli Elizabeth e Jonathan.
Il matrimonio con Rollins non funziona e Audre si svela a sé stessa attraverso la poesia. Nel 1968 pubblica Two Cities prima delle undici raccolte poetiche. La poesia diventa lo specchio entro cui raccontare la propria diversità e da cui far partire un grido comune, libero, rivolto a tutte le donne. “La pelle nera è come il carbone rinchiuso nelle viscere della terra che si trasforma in diamante”.
Negli anni successvi Lorde viene anche operata per un cancro al seno e racconterà la sua lotta nei Cancer Journals pubblicato nel 1980. In quelle settimane si innamora di una giovane ragazza, Gloria Joseph, che diventerà sua compagna fino alla fine.
La poeta diventerà un punto di riferimento libero e ostinato per la lotta letteraria contro le diversità. Audre Lorde si è battuta perché la poesia diventasse una necessità per ridefinire le libertà e le identità delle persone. Ha costruito un ponte tra mondi diversi in cui affermarsi come donna, nera e omosessuale: il suo messaggio ha abbracciato lentamente tutto il globo, viaggiando assieme a lei dalla Nigeria a Cuba sino alla Nuova Zelanda. Ha saputo portare la sua battaglia femminista ovunque, permeata dalla sua immensa vitalità, documentando anche l’invasione di Grenada, stato insulare nel Mar dei Caraibi in cui è voluta tornare. Nel 1991 è stata nominata Poetessa dello Stato di New York rimanendo per sempre radicata alla sua lotta poetica e al quartiere di Harlem.
Al poeta che si dà il caso sia Nero e al poeta Nero che si dà il caso sia una donna I
Sono nata nel ventre della Nerezza
proprio da in mezzo alle cosce di mia madre
le si ruppero le acque sul linoleum a fiori blu
facendosi come neve sciolta nel freddo di Harlem
le 10 di una notte di luna piena
la mia testa spuntò rotonda come un pendolo
“Eri così scura”, diceva mia madre
“Credevo fossi un maschio”.
II
La prima volta che toccai mia sorella in vita
ero sicura che la terra prendesse nota
ma noi non eravamo intonse
la pelle posticcia si sfaldava come guanti di fuoco
fiamma aggiogata ero io
spogliata fino alla punta delle dita
la sua canzone scritta nei miei palmi le mie narici la mia pancia
benvenuta a casa
in una lingua che ero contenta di reimparare.
III
Nessuno spirito gelido mi ha mai attraversato le ossa
all’angolo di Amsterdam Avenue
nessun cane mi ha mai presa per una panca
o un albero o un osso
nessun’amante ha mai guardato alle mie braccia brune e grassocce
vedendo ali né mi hai mai chiamato condor per sbaglio
ma conosco a memoria
occhi
che mi cancellano
come un appuntamento indesiderato
posta a carico
timbrata in giallo rosso viola
ogni colore
eccetto Nero e scelta
e donna
in vita.
IV
Non so rammentarmi le parole della mia prima poesia
ma ricordo una promessa
fatta alla mia penna
di non lasciarla mai
giacere
nel sangue altrui.
Donna Madre Nera
Non riesco a ricordarti delicata
eppure attraverso il tuo pesante amore
sono diventata
immagine della tua carne un tempo fragile
spaccata da falsi desideri.
Quando sconosciuti si avvicinano per farmi i complimenti
il tuo spirito antico fa un inchino
e risuona d’orgoglio
ma una volta nascondevi quel segreto
al centro delle furie
soffocandomi
con seni profondi e capelli ruvidi
con la tua carne spaccata
e occhi da sempre sofferenti
seppelliti in miti di scarso valore.
Ma ho sbucciato la tua rabbia
fino al nocciolo dell’amore
e guarda madre
Io Sono
un tempio oscuro da cui si innalza il tuo vero spirito
bella
e dura come castagno
puntello al tuo incubo di debolezza
e se i miei occhi nascondono
uno squadrone di ribellioni in conflitto
ho imparato da te
a definire me stessa
attraverso i tuoi rifiuti.
Stazioni
Certe donne amano
aspettare
la vita un anello
nella luce di giugno un abbraccio
del sole che le guarisca di un’altra donna
la voce che le completi
che sleghi le loro mani
metta parole nelle loro bocche
dia forma ai loro percorsi suono
alle loro grida un’altra dormiente
che ricordi il loro futuro il loro passato.
Certe donne aspettano il treno
giusto nella stazione sbagliata
nei vicoli del mattino
il clamore del mezzogiorno
il calare della notte.
Certe donne aspettano che l’amore
faccia sorgere
il figlio della loro promessa
di raccogliere dalla terra
quello che non seminano
di reclamare dolore per travaglio
di diventare
la punta di una freccia per mirare
al cuore di un adesso
ma non sta mai fermo.
Certe donne aspettano visioni
che non si ripetono
dove non erano benvenute
nude
il rinnovarsi di inviti
in luoghi
che avrebbero sempre voluto
visitare.
Certe donne aspettano se stesse
dietro l’angolo
e chiamano pace quello spazio vuoto
ma il contrario di vivere
è solo non vivere
e alle stelle non importa.
Certe donne aspettano che qualcosa
cambi e niente
cambia veramente
perciò cambiano
se stesse.
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Per la prima volta in traduzione italiana, questa antologia dà spazio alle poesie di amore e di lotta di una poetessa, Audre Lorde, che ha saputo intrecciare le storie del proprio vissuto personale con le voci collettive dei movimenti femminista, Lgbt e delle persone di colore. Con il suo potente linguaggio poetico, Lorde ci regala istantanee della realtà filtrate attraverso uno sguardo acuto e mai distaccato. Nei suoi versi erompe il racconto di una donna Nera, lesbica, madre, guerriera, poeta, il cui linguaggio è intriso di ognuna di queste parti e dell’intersezione di tutte. Per questo il canto di Audre Lorde arriva a tutte e tutti noi, abbracciando la realtà da un punto di vista situato e proiettandosi oltre, fino a cambiare il nostro modo di guardare il mondo. Introduzione di Loredana Magazzeni, postfazione di Rita Monticelli.
Come il viale è quieto, chiaro, assonnato!
Colta dal vento la sabbia vola via
E l’erba sfiora come un soffice pettine…
Con quale gioia or vengo in questo luogo
E a lungo siedo, semiassopito.
Mi piace, quasi svagato, ascoltare
Ora il riso, ora il pianto dei bimbi, e dietro un cerchio
La loro ritmica corsa sul sentiero. Che bello!
Che frastuono, così eterno e veritiero,
Come di pioggia, di risacca o di vento.
Nessuno mi conosce. Qui sono un semplice
Passante, un cittadino, un “signore”
In pastrano marrone e bombetta,
Niente di speciale. Ecco, una signorina
Mi si siede accanto con un libro aperto.
Un marmocchio col secchiello e la paletta
Si accoccola ai miei piedi. Imbronciato,
Si rigira nella sabbia, ed io così enorme
Mi sembro per questa vicinanza,
Che rammento,
Quando io stesso sedevo presso la colonna
Leonina a Venezia. Su questa creaturina,
Sulla testa nel berrettino verde,
Io mi ergo come pesante pietra
Secolare, sopravvissuta a molti
Uomini e regni, tradimenti ed eroismi.
E il marmocchio con zelo riempie
Di sabbia il secchiello e, presolo, me lo versa
Sui piedi, sulle scarpe…Che bello!
E leggero nel cuore io rivedo
Il cocente meriggio veneziano,
Il leone alato librarsi su di me
Immobile con il libro aperto tra le zampe.
E sopra il leone, rosea e tondeggiante,
Fuggire una nuvoletta. E più in alto, più in alto –
L’azzurro denso e cupo, e in esso scivolare
Minuscole, ma fiammeggianti stelle.
Ora esse ardono sul viale,
Sul marmocchio e su di me. Follemente
I loro raggi lottano coi raggi del sole…
Il vento
Inesauribile fruscia con le ondate di sabbia,
Sfoglia il libro della signorina. E ciò che odo,
Da non so qual prodigio è trasfigurato,
Così tenacemente s’imprime nel cuore,
Che più non mi servon né pensieri né parole,
Ed è come se mi specchiassi
In me stesso.
E a tal punto seduce la viva linfa dell’anima,
Che, come Narciso, io dalla sponda terrena
Mi strappo e volo là, dove sono solo,
Nel mio primevo mondo natìo,
Faccia a faccia con me stesso, smarrito un giorno –
Ed ora ritrovato…E da lontano
Mi giunge la voce della signorina: “Mi scusi,
Che ore sono?”
1918
Vladislav Chodasevič
Il pane
Oggi in cucina c’è una luce che abbaglia.
Col grembiule, cosparsa di farina,
Di tutte le Mignon tu sei la più bella
Con la tua bellezza genuina.
Ti svolazzano intorno coi cestini,
Con il bricco del latte e le fascine,
Spiumandosi le ali, i cherubini…
Tra le nubi, dalle colline
Prorompe la luce, e sulle pentole oziose
Come fasci di strali batte il giorno.
Sfacendosi somiglia a pallide rose
La legna che arde nel forno.
E i densi getti del futuro filone
Nel vaso d’argilla un angelo versa,
Giurandoci che son veri, come il sole,
L’amore, il lavoro e la terra.
1918
Il vizio e la morte
Vizio e morte. Quale tentazione,
E quante gioie in una parola godo!
Vizio e morte pungono allo stesso modo,
E sfuggirà il loro pungiglione
Solo colui che serberà nella coscienza
La segreta chiave di un’altra esistenza.
1921
Elegia
Del giardino Kronverkskij le fronde
Stormiscono ai venti rugghianti.
L’anima la sua gioia effonde.
Non le servono conforto e incanti.
Con occhi ardenti e temerari
Guarda i suoi millenni passati,
E vola con le sue grandi ali
Lungo sciami fuoco-alati.
Là tutto è sconfinato e canoro,
E ciascuno ha un’arpa in mano,
Come nubi, gli spiriti tra loro
Parlano un idioma dolce e arcano.
La mia esiliata con esultanza
Entra nella dimora cara
E la sua orgogliosa uguaglianza
Ai tremendi fratelli dichiara.
E mai più oramai le servirà
Chi sotto la pioggia che sferza
Nel giardino Kronverkskij qua e là
Si trascina con la sua pochezza.
E non coglie il mio povero udito,
Né la mente inerte e banale,
Qual spirito essa sarà in paradiso,
O nel tetro abisso infernale.
1921
Oltrepassa, oltresalta,
Oltrevola, oltre – ciò che vuoi –
Ma liberati: come sasso dalla fionda,
Come stella, caduta nella notte…
Ti sei smarrito – adesso cerca…
Dio sa che cosa borbotti,
Cercando le lenti o le chiavi.
1922
An Mariechen
Stai lì attaccata come una ventosa,
A servir birra dietro il banco.
Ci vuole una ragazza più briosa, –
Tu sei malata e il tuo volto è bianco.
Con quella rosa enorme sopra il petto
Che nessuno ancora ha mai baciato –
Mentre un serto funebre, anche il più gretto,
Sarebbe ornamento più indicato.
E’ così bello, così imperituro
Morire ancor prima di peccare.
Ma i tuoi cari ti troveran sicuro
Qualcuno che ti porti all’altare
Un uomo cosiddetto benpensante,
Una persona come si deve –
Sarà un fardello inutile e pesante
Per la tua vita debole e breve.
Meglio sarebbe – ignara e sorridente –
Solo a pensarci un fremito avverto –
Abbandonarti in preda a un malvivente
In un boschetto buio e deserto.
Meglio – in pochi istanti, senza illusioni –
Conoscer la vergogna e la morte,
E i due sfaceli, le due deflorazioni
Non separare da una stessa sorte.
Giacere in terra – l’abito sgualcito –
Sola, in quel bosco di betulla,
Un coltello nel seno illividito.
Nel tuo seno ancora di fanciulla.
1923
Povere rime
Per quattro soldi tutta la settimana
Deperire, affannarsi e trepidare,
Ogni sabato con la moglie befana
Su un boccale abbracciati sonnecchiare,
La domenica sull’erba non più verde
Recarsi in treno, stender la coperta,
E di nuovo assopirsi e testardamente
Trovare che tutto questo diverta,
E trascinarsi indietro nella dimora
La coperta, la moglie e la giacca,
E non sferrare mai, alla buon’ora,
Alla coperta e al mondo un pugno in faccia, –
Oh, in una tale legge senza scampo,
In una tal ferrea rassegnazione,
oh, le bollicine possono soltanto
Salire sempre in alto nel sifone.
1926
Ballata
Siedo nella mia stanza rotonda,
Siedo, dall’alto rischiarato.
Guardo il sole da venti candele
Lassù nel cielo intonacato.
Intorno – come me rischiarati,
Il tavolo, i lisi divani.
Siedo – e nello sgomento non so più
Dove posare le mie mani.
Sui vetri silenzioso fiorisce
Un gelido bianco palmeto.
Nel taschino del gilè martella
L’orologio il suo toc inquieto.
Oh, della mia vita senza scampo
Inerte, misera povertà!
A chi confidare come io sento
Per me e per queste cose pietà?
Ed ecco comincio ad oscillare,
Tenendo serrati i ginocchi,
E a un tratto in versi a parlare prendo
Con me stesso, chiudendo gli occhi.
Sconnessi, appassionati discorsi!
Discorsi senza alcun costrutto,
Ma i suoni son più veri del senso,
La parola – più forte di tutto.
E musica, musica, musica
Al mio canto si avvince,
E sottile, sottile, sottile
Una lama allor mi trafigge.
Io emergo al di sopra di me stesso,
Mi erigo sulla morta esistenza,
I piedi nella fiamma nascosta,
La fronte negli astri scorrenti.
E vedo con occhi smisurati –
Con occhi, forse, di serpente –
Come il canto selvaggio ascoltano
Le mie tristi cose da niente.
E a un fluido ritmico vortice
Tutta la stanza si abbandona,
E qualcuno la pesante lira
Attraverso il vento mi dona.
E non c’è più il cielo intonacato
E il sole da venti candele:
Su nere rocce levigate
Orfeo poggia i piedi lieve.
1921
Vladislav Chodasevič
Chodasevič è sepolto nel cimitero di Billancourt, presso Parigi, il poeta che Maksim Gorkij considerava “il migliore che vanti la Russia moderna”. Vladislav Felicianovič Chodasevič, di origine polacca, era nato a Mosca il 29 maggio 1886. Nel 1922 lasciò la Russia per sempre, e dal 1925 fino al giorno della sua morte, avvenuta il 14 giugno 1939, visse costantemente a Parigi.
I suoi primi quattro volumetti di poesie furono pubblicati in Russia:Giovinezza nel 1908, La casetta felice nel 1914, Per la via del grano nel 1920 e La pesante lira nel 1922. I versi da lui scritti all’estero, e riassunti col titolo La notte europea, entrarono a far parte della sua raccolta del 1927. L’ultimo decennio di vita di Chodasevič fu più dedicato alla critica e alle rievocazioni letterarie, che alla poesia. Non ebbe mai altri guadagni che quelli derivatigli dalla sua attività letteraria, visse sempre negli stenti, cadde spesso gravemente ammalato, ma ebbe amici cari e fedeli tra letterati e poeti, lettori e ammiratori, che non cessarono mai di amarlo.
Scriveva Gumilёv nel 1914, commentando la seconda raccolta di versi La casetta felice: “Non è possibile abituarsi né alla sua fantasia, né alle sue intonazioni – egli ci si presenta inaspettato, con nuove avvincenti parole, e non si trattiene a lungo, lasciando dietro di sé un piacevole inappagamento e il desiderio di un nuovo incontro”.
Per i loro tratti chiari e precisi e per l’immediata efficacia, i versi di Chodasevič incantano anche il lettore più “impoetico”. La loro forma classica è impeccabile, semplice, elegante. La sua concezione della vita è ironica e tragica al tempo stesso. Dalla sua poesia emerge con insistenza l’eterno tema dell’anima immortale e degli ostacoli che le frappongono la materia e la squallida banalità della vita. E’ un continuo alternarsi di estasi metafisiche e di minute inquadrature prosaiche, d’immersioni ed emersioni, di cadute negli abissi dell’esistenza e di slanci mistici.
Scrive R. Poggioli nel suo libro Il fiore del verso russo: “Uno dei procedimenti più cari a Chodasevič è proprio quello di assegnare una grandezza precaria a provvisoria a oggetti meschini o anche di ridurre le cose grandi alle dimensioni di quelli o al loro livello, ed è questo gioco fra il sublime e il minuscolo che gli permette di comprendere l’umanità di ogni oggetto e le lacrime delle cose”. A.M. Ripellino ha messo in risalto il lato “mordace e velenoso” della poesia di Chodasevič, il suo “mondo uggioso e grottesco, nel quale si aggirano personaggi meschini, idioti e mostri dall’apparenza fantomatica”, sottolineando inoltre il pessimismo del poeta, il clima di scherno, l’atmosfera grigia che aleggia nei suoi versi.
E’ vero: Chodasevič è un poeta spaesato in tanto squallore che lo circonda, ma mi sembra che il suo pessimismo, la sua tragedia trovino una via d’uscita, e la sua salvezza sia nel tono serio e pacato della sua poesia, nella sua attitudine a contemplare con un certo distacco i misteri dell’anima e dell’esistenza; la sua è un’ironia assai spesso feroce e maligna, ma sovente è anche serena, ricca di un humour leggero e immediato. La sua rabbia non lo fa tonare, ma lo spinge a riflettere, a partecipare delle altrui miserie, a sorridere lievemente subito dopo aver pianto.
In una lettera del 1 ottobre 1923 Gorkij scriveva al poeta: “I vostri versi An Mariechen sono belli e penetranti. Non so dire di più, ma aggiungerò soltanto che essi suscitano nell’anima il freddo sibilo della bufera di neve” e nello stesso tempo sono irresistibilmente umani”. Mi sembra che questo suggestivo giudizio di Gorkij possa essere la giusta insegna sull’incantato “bazar” del poeta Chodasevič. (Paolo Statuti)
FONTE- da un’anima e tre ali il blog di Paolo Statuti-
Luogo e data di nascita: Moskva, 16 (28) maggio 1886
Luogo e data di morte: Parigi, 14 giugno 1939
Professione: poeta, memorialista, critico letterario
Ultimo di sei figli, nasce da un padre di nobile origine polacca (Felician Ivanovič Chodasevič; 1834–1911) e da madre ebrea (Sofija Jakovlevna Brafman; 1846–1911), poi convertita al cattolicesimo. Dal padre che in giovinezza sognava di diventare pittore (aprirà invece a Mosca uno dei primi negozi di articoli fotografici) eredita l’inclinazione per le arti e dalla madre il gusto della poesia. Di salute cagionevole, alla passione giovanile per il balletto sostituisce all’inizio del secolo l’amore per la letteratura: frequenta circoli letterari e artistici, scrive recensioni e feuilletons, traduce, collabora con diverse riviste, nel 1908 pubblica la prima raccolta di versi Molodost’ (Giovinezza)
Nel 1911 viene per la prima volta in Italia per curarsi e si ferma a Nervi sulla Riviera ligure, poi visita Firenze, Pisa e Venezia, dove si consuma il suo dramma d’amore per Evgenija Vladimirovna Paganuzzi (1884–1982), prima moglie di Pavel Muratov. Il primo viaggio si prolunga più di due mesi (2 giugno – metà agosto 1911), Venezia e l’Italia seducono il poeta: “Non può sottrarsi l’Italia alla sua inevitabile leggiadria! Ora costruisce le città sui capricciosi declivi dei suoi monti, ora sulle rocce costiere, ora sulle decine di minuscole isolette sparpagliate nella nebbiosa laguna” (Nočnoj prazdnik, in Sobranie sočinenij, a cura di J.E. Malmstad e R. Hughes, Ann Arbor: Ardis, 1990, vol. 2, p. 77).
Chodasevič si rifiuta di considerare ‘morta’ Venezia, come l’aveva descritta Pёtr Percov nel suo libro Venecija (1905) o Nina Petrovskaja nel saggio Mertvyj gorod: Pis’mo iz Venecii (La città morta: lettera da Venezia, 1908), e nello schizzo Nočnoj prazdnik (Festa notturna) indugia ancora sulla incomparabile bellezza dell’Italia: “Girovagando per le tortuose, strette viuzze che scendono al mare di una cittadina d’Italia, ho capito una volta per tutte che la bellezza è un dono del cielo, ingiusto e dolce, dato per secoli a questo paese” (Ibidem).
Nel 1914 il poeta pubblica la sua seconda raccolta Ščaslivyj domik (La casetta felice), negli anni della Prima guerra mondiale si risparmia il fronte per una grave forma di tubercolosi ossea, collabora con le riviste “Russkie vedomosti” e “Utro Rossii”, passa l’estate 1916 e 1917 a Koktebel’ da Maksimilian Vološin.
Come molti intellettuali accoglie con entusiasmo la rivoluzione di febbraio, aderisce inizialmente alla rivoluzione d’ottobre: nel 1917-1920 collabora alla sezione teatrale del Commissariato del popolo per l’istruzione (TEO) e al Proletkul’t, dirige la sezione moscovita delle edizioni Vsemirnaja literatura; nel 1918 insieme a Muratov organizza Knižnaja lavka pisatelej (Bottega del libro per gli scrittori), improvvisata rivendita di libri su commissione ed esigua fonte di sussistenza; edita insieme a Lev Jaffe Evrejskaja antologija. Sbornik molodych evrejskoj poezii (Antologia ebraica. Raccolta di giovani poeti ebrei).
Nel novembre 1920 si trasferisce a Pietrogrado, dove con l’aiuto di Maksim Gor’kij ottiene un alloggio alla Casa delle Arti (Disk), rifugio insperato per l’intelligencija in cui convergono in quegli anni di carestia e incertezza molti letterati (al Disk dedicherà molte pagine di memorie). Nel 1920 esce la raccolta Putёm zerna (Per la via del grano) che lo pone fra le grandi voci poetiche del suo tempo, nel 1922 Tjaželaja lira (La pesante lira), poi è come sospinto fuori dalla Russia sovietica, prende la difficile decisione di allontanarsi dalla Russia; grazie all’aiuto dell’ambasciatore della Lettonia Jurgis Baltrušajtis e di Anatolij Lunačarskij ottiene il passaporto per l’estero per 3 anni per motivi di salute.
Il 22 giugno 1922, senza neanche salutare la moglie Anna Čulkova (gesto di cui si rammarica tutta la vita) parte con Nina Berberova per Berlino, prima stazione della via di emigrato che lo porterà nel 1925 a Parigi. Come molti altri russi a Berlino non si considera un emigrato, anzi prova un’aperta insofferenza per i bianchi, si sente affine a Andrej Belyj che più d’ogni altro aveva percepito il sentore di catastrofe del periodo e la lugubre atmosfera della città: “Berlino è un incubo, che penetra nella vita reale con ordine e metodo e assume l’aspetto innocuo del comune buon senso borghese: un buon senso senza senso” (A. Belyj, Odna iz obitelej carstva tenej, Leningrad 1924, p. 36). Incontra Muratov, Boris Zajcev, Il’ja Erenburg, Boris Pasternak e molti altri, frequenta le serate letterarie al Café Landgraf (tutto diligentemente appuntato nel suo Kamer-fur’erskij žurnal, Diario di un gentiluomo di corte), ma il “volto inumano” della città lo respinge:
Case – come demoni,
fra le case – tenebra;
filiere di demoni,
e in mezzo uno spiffero
(Dalla strada di Berlino, in È tempo di essere, p. 241).
Gli anni 1921-1925 sono indissolubilmente legati a Gor’kij, nonostante la loro diversità di carattere e opinioni: prima lavorano insieme all’edizione della rivista “Beseda” (La conversazione) di cui usciranno 6 numeri, poi dall’ottobre 1924 all’aprile 1925 è ospite a Sorrento dallo scrittore.
La giornata di Gor’kij è rigorosamente suddivisa tra lavoro, salutari passeggiate, pranzi e divertimento. Al piano superiore della villa (camera di Gor’kij e Budberg) si lavora, al piano inferiore, quello che lo scrittore chiama la nursery, si gioca: Maksim legge romanzi polizieschi, colleziona francobolli, la moglie dipinge. Talora Maksim fa da cicerone agli ospiti e li porta sulla sua motocicletta a visitare Amalfi o Ravello:
La motocicletta sfiora la roccia
In corsa sinuosa,
la nuova curva rivela più ampio
ora il golfo alla vista (…)
Dorme Procida in contorni di nebbia,
a nord sfiata il Vesuvio
(Fotografie di Sorrento, in Non è tempo di essere, p. 279).
Per divagarsi Maksim propone di pubblicare un giornale manoscritto “Sorrentijskaja pravda” (La verità di Sorrento), parodia di certe riviste sovietiche o dell’emigrazione, per il quale scrivono Gor’kij, Chodasevič e Berberova, l’impaginazione è di Maksim, le illustrazioni di Rakickij e Maksim, che “in considerazione della sua scarsa competenza” svolge anche il ruolo di redattore
Chodasevic visita anche le rovine di Pompei, scrive il saggio Pompejskij užas (Stupore pompeiano, 1925), in cui riflette sulla patria e l’emigrazione, sul crollo della civiltà europea. A Sorrento si raffredda a poco a poco la sua amicizia con Gor’kij “senza discussioni, scandali, reciproci rimproveri o offese”, lo snerva l’atteggiamento ambiguo di Gor’kij verso il regime sovietico:
“Era uno degli uomini più testardi che conobbi, ma anche uno dei più tenaci. Ammiratore strenuo del sogno e dell’inganno dominante, che per la primitività del suo pensiero non seppe mai distinguere dalla più comune e volgare menzogna, egli non ha mai fatto propria la sua immagine ‘ideale’, in parte autentica, in parte immaginaria, di cantore della rivoluzione e del proletariato. E quando la rivoluzione risultò diversa da quella che aveva immaginata, gli fu intollerabile il solo pensiero di perdere questa immagine, di “deteriorare la propria biografia” <…> e alla fin fine si vendette, non per soldi, ma per conservare per se e per gli altri l’illusione principale della sua vita <…>. In cambio di tutto ciò la rivoluzione ha preteso da lui, come pretende da tutti, non un onesto lavoro, ma sudditanza e lusinga. È diventato uno schiavo e un adulatore” (Gor’kij 2 // Nekropol’; Vospominanija; Literatura i vlast’; Pis’ma k B.A. Sadovskomu / pred. i komm. N. Bogomolova. Moskva 1996, pp. 207-208).
Quando nell’aprile 1925 la rappresentanza sovietica in italia nega a Chodasevič il prolungamento del visto e gli ingiunge di rientrare in URSS, il poeta rifiuta e si trasferisce definitivamente a Parigi. Qui tace la sua voce poetica, collabora come critico letterario alle riviste “Sovremennye zapiski” (Appunti contemporanei) e “Vozroždenie” (La rinascita), continua lo studio della linea classica della poesia russa, scrive la biografia di Deržavin (1931), gli articoli Literatura i vlast’ v sovetskoj Rossii (Letteratura e potere nella Russia sovietica, 1931) e Krovavaja pišča (Cibo insanguinato, 1932), la raccolta di saggi su Puškin (1937) e il volume Necropoli (1939).
Pubblicazioni
Chodasevič, Poesie, in R. Poggioli, Il fiore del verso russo, Torino: Einaudi, 1949, pp. 361-376.
Chodasevič, Poesie, in A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954, pp. 209-224.
V.F. Chodasevič, Necropoli. A cura di Nilo Pucci, pref. di N. Berberova, Milano: Adelphi, 1985.
V.F. Chodasevič, La notte europea. A cura di C. Graziadei, con uno scritto di N. Berberova. Milano: Guanda, 1992.
Perepiska N.N. Berberovoj i V.F. Chodaseviča s Ol’goj Sin’orelli (1923–1933) / publ. E. Garetto // Archivio russo-italiano IX. Salerno: Collana di Europa Orientalis, 2012. Т. 1. C. 103–138.
V.F. Chodasevič, Quarantuno poesie. A cura di N. Pucci, Borgomanero: Ladolfi, 2014.
V.F. Chodasevič, Non è tempo di essere. A cura di C. Graziadei. Firenze: Bompiani, 2019.
Fonti archivistiche
Fondazione Giorgio Cini, Venezia. Archivio di Angelo e Olga Signorelli.
Bibliografia
Belyj, Rembrandtova pravda v poezii našich dnej (o stichach V. Chodaseviča) // Zapiski mečtatelej 1922. № 5, pp. 13–39.
A.M. Ripellino, Poesia russa del Novecento, Parma: Guanda, 1954.
N.A. Bogomolov, Žizn’ i poezija Vladislava Chodaseviča // V.F. Chodasevič, Stichotvorenija. L.: Sovetskij pisatel’, 1989, pp. 5–51.
Berberova, Il corsivo è mio, Milano: Adelphi, 1989.
Čulkova, Vospominanija o Vladislave Chodaseviče // Russica-1981, New-York 1981
Graziadei, La dissonanza nella poesia di Chodasevič, in Il gladiatore morente. Saggi di poesia
russa. Siena: Cadmo, 2000, pp. 167–212.
Graziadei, Contemplare la morte. Karl Brjullov, Vladislav Chodasevič, in Estetica delle rovine, a cura di G. Tortora. Roma: Manifestolibri, 200, pp. 385–405.
G. Bočarov, Filologičeskie sjužety, M.: Jazyki slavjanskich kul’tur, 2008, pp. 385–415.
Sinossi-Questo libro, di cui presentiamo la prima traduzione al mondo, si apre sugli anni del primo Novecento russo. Era il momento di una equivoca ed esaltante mescolanza fra arte e vita: «Tutte le strade erano aperte, con un solo obbligo: andare quanto più possibile veloce e lontano. Questo era l’unico, il fondamentale dogma. Si poteva esaltare Dio come il Diavolo. Si poteva essere posseduti da qualsiasi cosa, entità: l’importante era la pienezza della possessione». Tutto andava offerto sull’altare delle emozioni. «Cogliamo gli attimi distruggendoli» disse Brjusov, gran sacerdote del simbolismo. C’era la posa teatrale e c’era il colpo di pistola. «“Perdo succo di mirtillo!” gridava il pagliaccio di Blok. Ma il succo di mirtillo talvolta si rivelò sangue vero».
Chodasevic era allora un giovane poeta, dal segno elegante, dall’aria morbosa, dall’intelligenza acutissima. Oggi sappiamo che era un astro nella costellazione dei grandi poeti russi malmenati dalla storia, accanto alla Achmatova, a Mandel’štam, alla Cvetaeva, a Pasternak, anche se la sua opera solo ora comincia a essere scoperta. «Nell’aria afosa, come prima dei temporali, di quegli anni», troppo colmi di presagi (il suo amico Muni ne era così ossessionato che arrivò a dichiarare: «I presagi sono aboliti»), Chodasevic visse la nascita caotica della letteratura moderna in Russia. Si conoscevano tutti, percepivano miserie e incanti gli uni degli altri, avevano passioni per le stesse donne, litigavano, bevevano, perdevano al gioco. Poi venne la guerra, venne la rivoluzione, ai poeti cominciarono ad accompagnarsi i delatori. Pietroburgo appariva come «una città morta, sinistra». Nel 1922 Chodasevic riuscì ad abbandonare la Russia, non senza aver esortato i suoi amici nelle «ultime ore prima della separazione» a concordare i segnali «da scambiarsi nella tenebra che incombe». Da allora sino alla morte si può dire che non abbia assistito che all’estendersi, intorno a lui, di una sterminata «necropoli». Morivano uno dopo l’altro, suicidi, o assassinati o ridotti al silenzio. E uno dopo l’altro sfilano in questo libro: da Brjusov a Blok, da Esenin a Sologub, da Belyj a Gor’kij. Chodasevic non riesce a parlare di questi scrittori senza darci anche un giudizio penetrante sulla loro opera, ma non riesce a parlare della loro opera senza evocare la loro presenza, il loro gesto, spesso il loro convivere con le più ingombranti contraddizioni. Erano tutti personaggi di un immenso «romanzo russo», e come tali qui ci appaiono. Oscillavano tutti fra estremi, e riuscivano talvolta a mascherarne la natura. Come per Sologub, di ciascuno era difficile dire «da dove è partito e dove è arrivato, se dal sacrilegio alla preghiera o viceversa, dalla benedizione alla maledizione o viceversa». Crudele e commosso, questo libro è un salvataggio nella memoria dell’ultima grande letteratura russa, operato da uno dei suoi protagonisti, prima che la «necropoli» inghiottisse anche lui. Come scrisse lo stesso Chodasevic: «In un certo senso la storia della letteratura russa potrebbe essere definita la storia della distruzione degli scrittori russi».
Umberto Bellintani nasce a Gorgo di San Benedetto Po il 10 maggio 1914 e muore a San Benedetto Po il 7 ottobre 1999.Fra gli anni 1932 e 1937 studia scultura all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, allievo di Marino Marini.Partito volontario per la guerra, patisce i campi di concentramento di Dachau, Torn, Peterdorf e Górlitz. In guerra comincia a trasfondere in versi il suo forte senso della “poesia della vita”.Alla fine del conflitto, impossibilitato a riprendere la scultura, per breve tempo insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto Po per poi svolgere le mansioni di segretario presso la Scuola Media di San Benedetto Po.In vita dà alle stampe cinque importanti raccolte di versi: Forse un viso tra mille (Vallecchi 1953), Paria (Mondadori 1955), E tu che m’ascolti (Mondadori 1963), Nella grande pianura (Mondadori 1998) e Canto autunnale (Perosini 1998).
Umberto Bellintani -Poeta italiano
POESIE
Per un bambino che non conosce più i passeri
Urlavan lungi dei cani (o eran gufi?).
Urlavan lungi dei cani e c’eran gufi;
e come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri del cimitero
quando il ragazzino si trovò
solo solo nella notte.
E allora egli aveva un urlo strozzato nella gola,
ché un fruscio d’erbe lo soffocava come un serpente
e la luna veramente era cupa tra le fronde degli alberi.
Come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri e i fianchi degli argini,
e fu allora che il bambino perse l’uso della parola,
e perse la vista comune delle viole e dei giocattoli
e il senso naturale delle cose.
Così ora tentenna il capo e nei suoi occhi è una nuvola,
ma pare un angelo divino contemplante
profonde luci assorte in se stesso.
Povera madre che lo sorvegli lungo i sentieri del tuo orto
e ora lacrimi al suo riso ebete sugli asparagi,
io non so dirti s’è sfortuna a lui toccata
o s’è migliore la sua sorte, più benigna
che al fanciullo intento a suddividere
in bianchi e neri i dadi del suo gioco.
Dolce chiude l’ora di sera
Forse non esiste Dio. Forse
solo il rapporto
fra noi esiste e gli alberi
annosi o appena d’anni
uno e le erbe
e i coccodrilli e il buon tepore
della sera. Non v’è
che poi la morte ed altro ancora
innanzi ad essa da soffrire. Ma poi tutto
per lei si placa; e in noi s’alterna
timore d’essa e quieta attesa
del suo riposo:
così
oggi è da porre questo giorno fra non quelli
di sofferenza e sgomento: dolce chiude
l’ora di sera col risorgere di una
ampia stellata. Dunque
forse soltanto un dolcissimo rapporto
fra noi e il tutto fa ponte e il tempo passa
lento e veloce.
Poiché veramente sono fratello
Poiché veramente sono fratello
del topo nella bocca della gatta
che svelta se ne corre via
e sopportare non posso il ragazzo
scemo che inchioda al tronco
dell’acero la lucertola
ecco che uccido il ragazzo
con il cuore e gli tronco le mani,
poi rendo la testa della gatta
in poltiglia con colpi di pietra
ed è davvero perché sono fratello del fossato
della latta arrugginita e dei ciottoli
della strada e di ogni essere che vive o non vive
ecco che amo e odio follemente il mondo.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Più d’una rete
Più d’una rete luceva sulle acque,
stillando al sole; di poi si sommergeva.
Ed era un giubilo d’allodole quando
al pescatore sotto riva lento emerse
il giovinetto da quel fondo, il corpo cereo.
Allora il pianto della madre ruppe in gridi,
e quello muto d’altre donne dilagò
ed era greve. Ma nel cielo
ancora il sole risplendeva e la Riparia
era pur sempre gorgheggiata dalle rondini.
Paria
Poveri affaticati nelle membra,
servi delle gleba, paria,
per noi la morte è riposo.
Tu luna invano risplendi in mezzo al cielo;
e non ci cavi dagli occhi che sudore
antica stella che illumini nei boschi
a maggio il canto malinconico dei cùculi.
Non siam che miseri lombrichi nella mota,
siamo concime, la ruota, la carrucola
e non v’è pena che noi non si conosca.
Angela
Piace il tuo parlare, Angela,
venditrice dell’amore:
c’è il buono di un’anima cristiana,
dolce di cose, del buono della vita.
E c’è tanto della mamma nei tuoi occhi
di un benevolo nero;
e che ti prende, di poi si vergogna.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Fratelli
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato
in questa vita così fatta per gli uomini;
chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino
e ha distrutto le colture, e chi la donna
dell’amico ha condotta a perdizione.
Ma non per questo nessuno v’è che peni;
ognuno soffre la montagna della morte
che gl’impedisce di vedere il proprio figlio
e la sua donna, la casa, il campo amato,
un volto amico, un arnese, umili cose.
I poveri morti sono i miei fratelli,
passeggio con loro per il cimitero,
non vi è nessuno che abbia il cuore felice.
Il gatto che ritto si dorme
Il gatto che ritto si dorme
al sommo del palo in questa quiete
dell’aria al pomeriggio di fuoco,
e la rana che grida terrore
dove il fosso s’incurva,
sono voci dell’arcano, e la cetonia
stremata sul sentiero e l’acqua
infesta di torpore e morte;
voci dell’arcano
che dilagan talvolta allora
che tutto s’addensa nel cuore,
preme e non sai
se di vita diversa un esser vivo
un irrequieto immortale
o d’altri mondi a noi cala la voce.
Altro non sai che tu vivi
di questo senso profondo della vita
che ti snerva e che puoi
affascinato dare il fianco alla morte.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Una pianura tutta verde
Immaginiamola, amici, una pianura tutta verde
e tutta piena di bianchi scheletri.
E ditemi voi se non è bella una pianura tutta verde
di primavera ben coperta di quegli scheletri
distesi al sole e tanti fiori sparsi intorno.
Immaginiamola, amici, una pianura tutta sola
come s’intende cosparsa di margherite.
E ditemi voi se non è bella una pianura verde
tutta gremita di margherite e bianchi scheletri.
Immaginiamola, amici, la morte bianca distesa al sole
con tanti scheletri in quella piana di fresco verde.
A Berto
Case vuote abbandonate
occhi allucinati di finestre
amate case di campagna
lombarde voci della vita
case morte della mia pianura
vite spente della gioia
aie al sole della luce
mia tristezza che non taci mai.
Ancora: forse Dio non esiste,
esiste soltanto esiste
il sempre che vive in noi
eternamente.
Morirete senza tremare
di sgomento
perché nessun figlio resterà
solo. Fonte Poesie dal sito www.italian-poetry.org
APRILE
(Umberto Bellintani)
Tu vivi il tempo di grazia dell’aprile
e tra le canne stormenti dello stagno
se un frullo appena si ode dei palmipedi,
avverti un grido imponente di stupore;
e del tuo cuore se un nonnulla desta un lagno,
il muover d’ali di quell’anatra smarrita,
un piccol sasso, un’inezia ti consola.
È dunque vano che ti dica, e ciò m’allieta,
di come il male della vita qui s’apposta;
è dunque vano che ti parli della nera
nube che incombe sopra l’anima contrita,
se per l’azzurro dei tuoi occhi sempre sosta
ritta sul palo di laggiù l’upupa rara.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
NOSTALGIA
Torna un lamento,
e ne dà l’eco la pallida
ombra del monte al capo viola.
Vedo gli uccelli
sui comignoli dei tetti
di un paese dell’Epiro
e scroscia un fresco scintillato di rugiada.
E mentre trebbiano il grano
dei fulvi cavalli arrivo
ove l’oracolo di Delfo era
nel volto corrucciato del greco
fiero di odiarmi.
Non sarò forse mai,
non avrò più ritorno
a quelle terre ove
di me in cerca s’aggira
un ebbro momento.
Oh triste
esser dispersi nel tempo
e per terra divisi
in parti ed ogni parte la sorella
chiamare vanamente.
Umberto Bellintani -Poeta italiano
Chi era Umberto Bellintani
Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Umberto Bellintani nasce a Gorgo, frazione di San Benedetto Po, provincia di Mantova. Fra il 1932 e il 1937 frequenta a Monza l’ISIA, Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Ha come maestri (oltre a Marino Marini, docente di Plastica Decorativa, con cui si diploma in scultura nel 1937) Arturo Martini, Raffaele De Grada, Pio Semeghini, Giuseppe Pagano (architetto), Edoardo Persico. Confesserà in più di una lettera all’amico Parronchi che quegli anni furono intensi e pieni di sogni, fra tutti quello di diventare scultore. Purtroppo, delle opere eseguite da Bellintani in quel tempo è rimasto pochissimo: una scultura denominata Fanciullo, conservata nella raccolta Collezioni Civiche di proprietà del Comune di Monza e Il legionario, scultura a figura intera, conservata in uno dei chiostri della Società Umanitaria a Milano. Richiamato alle armi nel 1940, combatte in Albania e in Grecia. È prigioniero, dal 1943 al 1945, nei campi di lavoro di Górlitz e Dachau in Germania, Thorn e Peterdorf nell’attuale Polonia. Alla fine del conflitto, abbandonata la scultura, dapprima insegna disegno presso la Scuola di Arti e Mestieri di San Benedetto, poi è assunto come applicato di segreteria presso la locale Scuola Media. Sposatosi nel 1940 con Eva Pedrazzoli, ha due figli, Marino e Rita. Il suo esordio poetico avviene nel 1946 quando si colloca al secondo posto ex aequo con Vittorio Sereni al Premio Internazionale “Libera Stampa” (1946-1966) di Lugano e suscita l’interesse da parte della critica più accreditata. Pubblica nove poesie sul Politecnico di Elio Vittorini, due su Paragone di Roberto Longhi, altre su Itinerari. Nel 1953 pubblica la sua prima raccolta di versi Forse un viso tra mille, per la Casa Editrice Vallecchi. Nel 1954, agli Incontri fra generazioni, che avevano sostituito il Premio San Pellegrino, ottiene il Premio Minerva Italica mentre Rocco Scotellaro riceve un premio alla memoria. Nel 1955 pubblica Paria, Edizioni della Meridiana, a cura di Vittorio Sereni, prefazione di Giansiro Ferrata. Nel 1962 vince il Premio Cervia e ottiene la medaglia d’oro al Premio LericiPea. Nel 1963 pubblica E tu che m’ascolti, per la Casa Editrice Mondadori, nella collana Lo specchio. La raccolta comprende anche la ristampa di Paria. Dopo aver raggiunto considerevoli consensi, sparisce dalla scena letteraria e per ben 35 anni non pubblica niente altro. In questo arco di tempo, comunque, non cessa mai né di scrivere né di disegnare e intrattiene rapporti epistolari con letterati e poeti. Nel 1983 Alessandro Parronchi lo convince a esporre alla Galleria Pananti di Firenze, dal 18 al 28 giugno, un gruppo di cinquanta disegni. Umberto Bellintani accetta ma ordina poi a Piero Pananti di distruggere i cataloghi: di essi rimane solo una copia. Nel 1998, poco prima della morte, avvenuta il 7 ottobre 1999, escono due raccolte di poesie: – Nella grande pianura, una cinquantina di inediti, riuniti sotto il titolo Un abbaino in piazza Teofilo Folengo, una scelta da Forse un viso tra mille e tutto E tu che mi ascolti, a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori Editore; – Canto autunnale, quarantacinque componimenti editi e inediti, a cura di Italo Bosetto, per l’Editore Perosini di Verona. Alcune poesie circolavano già, firmate con vari pseudonimi: Tino di Camaino, Federico Fiume, Berto della Rita. Con quello di Virgilio il Greco, coniato da Suzana Glavaš, nel 1995 erano apparsi quattro inediti sulla rivista Da qui.[10], diretta da Giuseppe Goffredo. Nel 1999 vince il Premio di Poesia Circe Sabaudia e il Premio Speciale David Maria Turoldo al concorso letterario Renzo Sertoli Salis di cui ha notizia ma che sarà consegnato postumo, il 29 ottobre, alla figlia Rita.
Nel 2000 il Comune di San Benedetto Po dedica al suo nome la Biblioteca Pubblica e istituisce il “Premio Bellintani di San Benedetto Po”. Il suo archivio è conservato presso il Centro per gli studi sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei dell’Università di Pavia. Sempre nel 2000, il Comune di Mantova organizza, a Palazzo Te, una Mostra di suoi disegni e, al Centro Culturale Biblioteca Baratta, un percorso fotografico dal titolo Umberto Bellintani, Luoghi, di Piero Baguzzi. Nel 2005, dal 6 febbraio al 20 marzo, un’altra mostra “Umberto Bellintani- Disegni” è stata organizzata da Afro Somenzari alla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Viadana. Negli anni Cinquanta, il professor Joja Ricov, un italianista insegnante di croato in due università milanesi, attraverso Salvatore Quasimodo e l’antologia poetica, Poesia Italiana del Dopoguerra, da lui curata e pubblicata nel 1958, conosce la poesia di Bellintani e se ne fa estimatore in patria. Agli inizi degli anni ottanta, Suzana Glavaš, studentessa di lingua e letteratura italiana dell’Università degli Studi di Zagabria allora, e oggi docente di lingua croata all’Università L’Orientale di Napoli, frequenta le lezioni del professor Mladen Machiedo e scopre la poesia di Bellintani. Nel 1984 viene di persona in Italia, a Gorgo, a incontrare il poeta perché vuole dedicargli la tesi di dottorato e lui, nel Natale 1986, le invia in regalo un manoscritto con un gruppo di poesie inedite. Nel 1995 la Glavaš discute e pubblica la sua tesi di dottorato, Iskustvo i mit u poeziji Umberta Bellintanija (Esperienza e mito nella poesia di Umberto Bellintani), Zagreb 1995. Nel 2006, pubblica in Italia, col titolo Se vuoi sapere di me, la settantina di poesie inedite regalatele dal poeta, presso la Poiesis Editrice di Alberobello, Bari, e La Mongolfiera Editrice di Cosenza, nella collana Diwan della Poesia, curata dal poeta e critico Giuseppe Goffredo. Nel 2008 uscirà a Zagabria, a cura della Glavaš, una scelta antologica di poesie di Bellintani da lei tradotte e presentate con testo a fronte e uno studio sulla poesia Notte Incantata. (fonte Wikipedia)
Umberto Bellintani -Poeta italiano
<<Ond’io canti dolcezza e amore, e il cardo fiorito, e te rincorra, nuvola vaghissima del cielo margherita, anche per me nel campo ara il vecchio padre.>> *Versi di ispirazione autobiografica di Umberto Bellintani (San Benedetto Po, 1914 – San Benedetto Po, 1999). Autore oggi poco conosciuto, legato alla terra ed al mondo contadino, lo scultore e poeta lombardo è stato sempre apprezzato da importanti critici e poeti. Tra loro, il celebre narratore Carlo Emilio Gadda, che ne ammira “la dizione scarna e commossa, la nettezza dolorosa dell’immagine, l’autenticità dell’angoscia poetica”, e lo scrittore Franco Fortini, che lo qualifica come “Esenin rurale”. Ed ancora, Eugenio Montale, il quale scrive in un articolo del Corriere della Sera nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni. Spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola.” Maurizio Cucchi, infine, così definisce nel 1995 il suo universo bucolico: “È un poeta di ruvida violenza espressiva. Il suo mondo parrebbe quello di una realtà sprofondata nella terra, ma dove il poeta legge qualcosa che la oltrepassa, qualcosa di arcano”. Lo stesso Bellintani rievocava la sua attrazione verso l’arte poetica ed il suo amore per la natura in un testo autobiografico del 1959: “Ho incominciato ad essere poeta forse troppo presto, mi pare tra gli otto o i nove anni. Mi accorsi che avevano voce il silenzio e la solitudine, e l’avevano i campi e le acque; fu allora che sentii parlare di erbe e di fiori, e posai l’orecchio sul petto degli alberi.
Articolo di Valentina Barbieri -• festival letteratura 08 settembre 2014-
Articolo di Valentina Barbieri –Poeta Umberto Bellintani: l’uomo che dava del tu alla natura
Al Campiani l’omaggio al poeta di Gorgo, a cent’anni dalla nascita, con Nella Roveri, Antonio Prete e Fabrizio Dall’Aglio
Articolo di Valentina Barbieri -08 settembre 2014- Eugenio Montale scrisse di lui: «Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola». Ieri, al conservatorio Campiani, si è aperta così la finestra che il Festivaletteratura ha voluto riservare alla memoria di Umberto Bellintani, per il centenario dalla sua nascita. La citazione è partita da Antonio Prete, editore della nuova edizione (a cura di Elia Malagò e Nella Roveri) della prima raccolta di Bellintani, Forse un viso tra mille pubblicata nel 1953. «Mi è strano parlare di Bellintani da editore- afferma Prete- lui ebbe un rapporto così contrastato con l’editoria. Dopo l’uscita di E tu che m’ascolti nel 1963 sparì dalle scene e non pubblicò più nulla per trent’anni. Trovo calzante ciò che scrisse di lui Montale: la poesia vera si rifugia sempre in uomini che sembrano con avere le carte in tavola. Uomini scomodi, spesso distanti, apparentemente lontani dal mondo». Bellintani lontano dal mondo lo era probabilmente solo in senso fisico. Non si allontanava dalla sua Gorgo se non per contigenti necessità, non aveva pretese di pubblicazione, era lontano dall’opportunismo e dalla gloria effimera. Nonostante ciò, per tutta la sua vita, mantenne una corrispondenza costante con quelli che erano, al tempo, i maggiori protagonisti della poesia e letteratura del Novecento. Fortini, Vittorini, Caproni, Sereni, Zavattini, Pasolini. Nella mostra, allestita nel museo civico polironiano a San Benedetto Po, inaugurata a maggio in occasione delle celebrazioni per il centenario dalla nascita di Bellintani, che rimarrà aperta fino al 5 ottobre, sono esposte alcune lettere, tra le più importanti del suo infinito carteggio. «Le carte sono veramente tantissime-aggiunge Nella Roveri- Bellintani scriveva su ogni tipo di supporto: anche sui cartoni della pasta. C’è un immenso materiale che andrebbe studiato approfonditamente». Tra le tante lettere che il poeta di Gorgo scrisse, vi è il carteggio con Don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo. «Nel 1951- racconta Fabrizio Dall’Aglio- Bellintani inviò tutte le sue poesie a Don Primo. Non è una cosa usuale per il poeta di Gorgo che, di solito, non amava inviare bozze delle sue opere. Ma a Don Primo sì. Lo fa, a parer mio, per svelare al parroco la sua vera anima. La poesia diventa per lui un veicolo della confidenza. Con Don Primo scoccherà un’empatia tale che il parroco confessò a Bellintani di “essersi riposato e ricreato nella lettura delle sue poesie”». Dall’Aglio ha segnalato come nelle poesie di Bellintani la fede non assurga mai a trascendenza, bensì ad immanenza. Come il poeta di Gorgo riuscisse a ritrovare nelle cose l’infinito. I versi delle sue poesie si colorano così di immagini, di un bestiario fittissimo di esseri viventi attraverso cui emerge un’adesione alla terrestrità e alla creaturalità. Con Bellintani vi è un ritorno alla letizia e alla natura indagata a partire da Lucrezio e, nello stesso tempo, il terrore che le parole non portino più con sè le cose, che perdano la loro prossimità col mondo, che esauriscano il tu con la natura.
• festivaletteratura 2014
•
Davide Rondoni:”Le poesie di Lorenzo Patàro sono ricche di riferimenti a luoghi e gesti e presenze che risalgono da un tempo remoto che diviene presente, e questo conferisce una nuova e antica forza epica che si intreccia al respiro lirico amoroso. Questo vivo impasto, lontano dall’essere una forma di esotismo o arcaismo, segna la ricerca di un sentimento del tempo vasto per l’avventura amorosa – che si disegna su uno scenario più consono alla profondità del sentire rispetto al piccolo orizzonte di una vicenda privata. Certo, conta la provenienza, la geografia umana. Ma conta in questo interessante tentativo anche la ricerca di una visione, di una forza che sia radicale per spingere più intensa la voce e la sua adesione all’anima e al vivere”
Lorenzo Patàro-Poeta calabrese
***
Mi innesti alla tua pianta, mi aggrappo
alla tua gemma che è ferita, raccolgo
il tuo respiro dalla crepa, lo scavo come fosse
una miniera, lo tengo come fuoco
tra le mani consegnato dalle braci,
lo tengo per quando arriva il gelo,
al riparo dalla febbre sulle tempie,
da quel freddo-animale che fa scarni,
fa muta la parola e ci leviga le ossa.
Raccolgo il tuo respiro come un frutto,
lo semino all’interno, benedico la tua fame
e la porto come un dono che ha il vizio di brillare.
***
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
***
Cerchia la parola, la parola disarmata
alla fine della strage sulla linea che segna
la frontiera. Autunno-dire, inverno-sentire.
La casa è nuda. Tu fai tana nella soglia.
Si sgola la distanza e si ammanta
la preghiera di fonemi involontari.
Ti mando a brillare sulla neve.
Azzurro bene non visto che perdura.
***
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
***
Vedi, è tornato il primo freddo
a levigarci – la vinaccia nel tino si fa d’oro.
Nulla. Poi qualcosa che si muove
sotto tutte le macerie della casa.
Tutti i fossili ti ascoltano cantare
e riparano le braci dalla neve.
Ottobre vento antico di uragano.
Qualcosa di prezioso ci raccoglie
ci fa semina e tempesta. Spoliazione.
Vieni, dormiamo nel tepore tra le martore
in veglia nella notte per la caccia. Ci porta
verso tutti i malangeli perduti nella nebbia
quest’allerta che fa i luoghi argilla e fuoco.
***
Penso ai morti del paese a cui non pensa
più nessuno. Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia. Benedico
i loro nomi, percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.
Lorenzo Patàro (Castrovillari, 1998), laureato in Lettere Moderne all’Università di Salerno, vive a Laino Borgo (CS), in Calabria. Ha pubblicato la raccolta “Bruciare la sete” (Controluna, 2018), finalista al Premio di Poesia “Solstizio” opera prima nel 2019. Sue poesie, edite e inedite, sono state pubblicate su riviste come Atelier, Poesia del nostro tempo, Il sarto di Ulm – bimestrale di poesia, sul sito ufficiale di poesia della Rai (Poesia, di Luigia Sorrentino), sul quotidiano La Repubblica. Con alcuni inediti è tra i vincitori della ventisettesima edizione del Premio internazionale di poesia “Ossi di seppia” (Taggia, 2021). È presente nell’antologia “Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla rete” (Puntoacapo, 2021).
Fonte- clanDestino nasce come una sfida di giovani amanti della poesia a Forlì.
Nel 1988 nove ragazzi, tra cui Gianfranco Lauretano e Davide Rondoni, decidono di dar vita alla rivista, proseguendo con nuovo nome e taglio, il lungo lavoro per la poesia italiana che aveva fatto la casa editrice Forum di Forlì di G. Piccari, con la rivista “Quinta Generazione”.
Da quel momento in poi una serie di voci importanti hanno viaggiato con clanDestino; ma non solo grandi nomi, anche tanti poeti e scrittori hanno esordito e si sono incontrati con la rivista e ne hanno tratto spunti per la loro arte.
Fin dall’inizio clanDestino si è distinto per il suo essere in un certo modo, mai neutro né banale, ospitale e attento, vivace compagno di strada che cerca la vita nella vita.
Lorenzo Patàro-Poeta calabrese
Poesie di Lorenzo Patàro-Poeta calabrese<<Se non dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito. Il mio viaggiare è stato tutto un restare qua, dove non fui mai.>>
*Versi di ‘Biglietto lasciato prima di non andar via’ di Giorgio Caproni, l’ultima, inquietante ed oscuramente premonitrice lirica pubblicata sul suo profilo Instangram, sei giorni fa, da Lorenzo Patàro (Castrovillari, 1998 – Laino Borgo, 2025), giovanissimo poeta di sicuro talento scomparso ieri in circostanze non comunicate dai familiari.
Laureato in Lettere e Filologia moderna, il ventiseienne autore calabrese era tra i più attivi e stimati operatori dell’affollata e promiscua scena poetica contemporanea, anche in virtù di un’intensa attività pubblicistica in qualità di critico de Il Foglio e del magazine letterario Inverso.
Con la raccolta ‘Amuleti’ era approdato alla finale del Premio Strega Poesia 2023. Aveva inoltre ricevuto riconoscimenti in vari concorsi, tra cui Pontedilegno Poesia, Ossi di Seppia e Ritratti di poesie.
Della sua opera ha scritto Davide Rondoni sulla rivista ClanDestino: “Le poesie di Patàro sono ricche di riferimenti a luoghi e gesti e presenze che risalgono da un tempo remoto che diviene presente, e questo conferisce una nuova e antica forza epica che si intreccia al respiro lirico amoroso. Questo vivo impasto, lontano dall’essere una forma di esotismo o arcaismo, segna la ricerca di un sentimento del tempo vasto per l’avventura amorosa, che si disegna su uno scenario più consono alla profondità del sentire rispetto al piccolo orizzonte di una vicenda privata. Certo, conta la provenienza, la geografia umana. Ma conta in questo interessante tentativo anche la ricerca di una visione, di una forza che sia radicale per spingere più intensa la voce e la sua adesione all’anima e al vivere.”
———————————————————– RIINIZIARSI (Lorenzo Patàro)
Se a tutto c’è una fine
che tu sia il tuo inizio.
SIAMO STATI CENERE
Siamo stati cenere
di incendi causati
dai nostri stessi
baci infiammati.
Rinasceremo vento
per disperdere i frammenti,
ci bruceremo ancora
per farne tramonti.
VEDI, È TORNATO IL PRIMO FREDDO
Vedi, è tornato il primo freddo
a levigarci – la vinaccia nel tino si fa d’oro.
Nulla. Poi qualcosa che si muove
sotto tutte le macerie della casa.
Tutti i fossili ti ascoltano cantare
e riparano le braci dalla neve.
Ottobre vento antico di uragano.
Qualcosa di prezioso ci raccoglie
ci fa semina e tempesta. Spoliazione.
Vieni, dormiamo nel tepore tra le martore
in veglia nella notte per la caccia.
Ci porta verso tutti i malangeli perduti nella nebbia
quest’allerta che fa i luoghi argilla e fuoco.
PENSO AI MORTI DEL PAESE
Penso ai morti del paese a cui non pensa più nessuno.
Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia.
Benedico i loro nomi, percepisco il loro sonno, come un ago, la mia notte, nella cruna della loro.
“Amuleti” di Lorenzo Pataro-(Ensemble 2022)-Dalla prefazione di Elio Pecora
[…] Questo libro di Lorenzo Pataro possiede qualità e forze e umori. Il territorio, nel quale l’autore si cerca e si palesa, appartiene a un altrove che ingloba l’umano, ma non lo isola e restringe. Il titolo Amuleti fa pensare agli amuleti montaliani, a oggetti e soggetti che modulano i significanti ed estendono i significati. Nell’epigrafe di Gianni Celati – una delle tre che aprono il libro e sono indubbiamente mappe per un tragitto da compiere – si dice di parole che “chiamano qualcosa perché resti con noi”. Quel che resta qui di una fitta elencazione di luoghi, oggetti, animali, piante, stagioni è insieme vigilanza e stupore, attesa trepida e insopprimibile desiderio di essere e di restare. E se della negazione e del dubbio, in cui è stato immerso e sommerso il Novecento, persistono qui le ombre e gli appigli, se una irreparabile scontentezza sta dietro gli avvii e le soste di tanto chiamare ed evocare, mai s’accampa una definitiva rinuncia alla felicità, mai si cede a un’estrema invalicabile negazione. Tutto – in questo continente di parole, di frasi, di cadenze – si avvolge in un ritmo denso e pacato. Il verso, che propende all’endecasillabo, ne esce per acclimatarsi in chiare e libere cadenze. Tutto si presenta come composto di un’uguale sostanza, eludendo ogni separatezza, trovando segrete ragioni in una confidenza e in una prossimità che sfociano in una cercata alleanza. […]
da Amuleti (Ensemble 2022)
Ancora ritorna lo sparviero
il nibbio a piantare l’urlo nella schiena
a percorrere il dolore come un dito
che tocca la ferita e la ripara
la stagione degli amori ritorna
e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia
se getti il germoglio sul cemento
lo ruba la gazza e lo conserva
nel nido poi scopre il tuo segreto
e smette di brillare ogni preghiera
ancora ritorna lo sparviero
la poiana caduta a capofitto.
*
Stella di grafite, ti ho gettato
tra le onde, lieve combustione.
Luce primitiva, fammi iena
fammi aratro, braccato
nella nebbia. Luce-grembo.
Ti ho gettato in tutti i pori
nascita ulteriore, dono dei relitti,
fatica del restauro, sapiente oro.
*
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
*
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
Lorenzo Pataro (Castrovillari, 1998) ha pubblicato la raccolta di poesie Bruciare la sete (Controluna 2018). Sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog come «Atelier», «Interno Poesia», «Poesia del nostro tempo», «ClanDestino», «Il sarto di Ulm»; sul sito ufficiale di poesia della Rai («Poesia», di Luigia Sorrentino); sul quotidiano «La Repubblica». Ha vinto i premi “Ossi di seppia” (2021) e “Poeti oggi” (2022).
Descrizione del libro di Elio Pecora- Nel dolce rumore della vita-Biografia di Sandro Penna -Questo libro è stato scritto pochi anni dopo la morte di Sandro Penna, avvenuta nel gennaio 1977. Apparve in prima edizione da Frassinelli nel 1984 con il titolo Sandro Penna, una cheta follia. È il frutto di molte ricerche, e dell’attenta consultazione di molti autografi e documenti ritrovati dall’autore nella casa del poeta. Carte che, oltre a testimoniare l’amicizia che Penna ebbe con Eugenio Montale, Umberto Saba e Pier Paolo Pasolini, rivelano la sua difficile infanzia, il sofferto e incerto apprendistato alla poesia e, in alcune lettere mai spedite, l’amore segreto per un ragazzo ebreo. Elio Pecora ripercorre tutto il cammino poetico e intellettuale di Penna: dalle prime poesie fino agli ultimi appunti di una vecchiaia chiusa dentro una stanza con le imposte serrate e una irrimediabile insonnia. Da amico e da poeta, racconta un’esistenza difficile ed esaltante, libera e aperta ma anche immersa in un sogno confuso, alla ricerca di una sorta di felicità, vista come una promessa e un approdo impossibile. Ne viene un ritratto insieme chiaro e complesso, mescolanza di verità e di incertezza, di talento poetico indiscusso, di contraddizioni che lo hanno reso un autore di riferimento del nostro Novecento. Così Penna si svela e si mostra come l’autore di parole che, in un tempo sospeso, restano come pietre rese leggere da un talento luminoso.
Sandro Penna
ISBN: 978-88-54524-23-1
Collana: Bloom
Pagine: 208
Prezzo: €18,00
RECENSIONI
«Fu un uomo innamorato delle stagioni della vita e della bellezza, dunque uomo infelicissimo quando, assai spesso, quei beni supremi per i quali voleva esistere gli sembravano lontani o negati».
«Con acume e tenacia non inferiori alla fortuna, Pecora ha rinvenuto nella mitica casa-tana dove il poeta era vissuto in una povertà pittoresca e struggente un’autentica miniera di materiali inediti. Non restava che “far parlare” questi materiali: ma il compito richiedeva, è chiaro, intelligenza e rispetto, sensibilità e amore, tutte doti che Pecora ha dimostrato di possedere in larga misura». Giovanni Raboni
«Elio Pecora ricostruisce con amorosa intensità la vicenda formativa del poeta, le prime letture, le prime amicizie, i segni di inconfondibili traumi». Enzo Siciliano
Elio Pecora
Autore-Elio Pecora
Breve biografia di Elio Pecoraè nato nel 1936, vive a Roma dal 1966. Ha pubblicato libri di poesia, di prosa, di saggistica, testi teatrali, poesie per l’infanzia. Ha curato antologie di poesia italiana contemporanea e raccolte di fiabe popolari. Ha collaborato a lungo per la critica letteraria a quotidiani, settimanali, riviste e ai programmi culturali della Rai. Dirige la rivista internazionale Poeti e Poesia.
SANDRO PENNA
Poesie scelte
***
La vita… è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all’alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l’azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
***
Il mare è tutto azzurro.
Il mare è tutto calmo.
Nel cuore è quasi un urlo
di gioia. E tutto è calmo.
Interno
Dal portiere non c’era nessuno.
C’era la luce sui poveri letti
disfatti. E sopra un tavolaccio
dormiva un ragazzaccio
bellissimo.
Uscì dalle sue braccia
annuvolate, esitando, un gattino.
***
Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo
che il mio bianco taccuino sotto il sole.
***
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
***
Forse la giovinezza è solo questo
perenne amare i sensi e non pentirsi.
***
Vivere è per amare qualche cosa.
Oggi è il fanciullo che ha rubato un paio
di scarpe a quel signore arrogantissimo.
Ho difeso il fanciullo. L’ho salvato
da chi sa quale buio. (Il bel fanciullo
che ruba i cani belli per amarli).
***
Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
***
Le porte del mondo non sanno
che fuori la pioggia le cerca.
Le cerca. Le cerca. Paziente
si perde, ritorna. La luce
non sa della pioggia. La pioggia
non sa della luce. Le porte,
le porte del mondo son chiuse:
serrate alla pioggia,
serrate alla luce.
***
È l’ora in cui si baciano i marmocchi
assonnati sui caldi ginocchi.
Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
inutilmente. Io, mostro da niente.
***
Io vado verso il fiume su un cavallo
che quando io penso un poco un poco egli si ferma.
***
Grava sulla città, colma l’estate.
Nell’orto di una villa c’è un ragazzo
brutto, che guarda trasognato il suo
sesso innalzato. Indi sospira e prende
di nuovo un suo poeta. E l’ora scende.
***
Non c’è più quella grazia fulminante
ma il soffio di qualcosa che verrà.
Sandro Penna (Perugia 1906 – Roma 1977) è uno dei massimi poeti italiani del Novecento. Vissuto a Roma per gran parte della sua vita, P. ha saputo forgiare il suo inconfondibile immaginario erotico popolato da fanciulli (quasi divinità, fuori dal tempo come il poeta) entro un percorso in cui la grazia formale e l’amore per la brevità epigrammatica si sposano a un monolinguismo tra i più rigorosi della poesia novecentesca. Il suo è un canzoniere ininterrotto, che vede la luce editorialmente nel 1939 con Poesie (edizioni successive: 1957; 1970 [col titolo Tutte le poesie]; 1973; e, postumo, 1989) e annovera piccole ma preziose opere come Appunti (1950), Una strana gioia di vivere (1956), Croce e delizia (1958), Stranezze (1976), e la postuma Il viaggiatore insonne (1977). La traiettoria artistica e umana di P. è stata ricostruita con precisione in Poesie, prose e diari, il Meridiano pubblicato nel 2017.
*
Testi selezionati da Poesie, prose e diari (Mondadori, 2017)
Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova. Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
LA TORRE DEI MORI
Scende come bronzo
dalla torre dei Mori
quel suono puro–
i dodici rintocchi battono
a martello l’ultima ora
Se dite al gallo di non cantare,
nessuno più verrà rinnegato
nel giorno che ancora segna il passo
( Non cercate la bella Aurora,
lei sta al Gritti Palace Hotel
——–Bloody Mary per due
alle ore undici… )
C’ERA UNA VOLTA
E piangere come potremo
per una storia che non è stata mai
-fogli in risma extra strong,
neppure dall’involucro mai tolti.
Mai il delicato fruscio
in un voltare di pagina,
né il segreto in una piccola piega.
Nell’aria noi allucinati
lo coglieremo pure
quel vago sentore di gelsomino
–ma sarà un nulla, come di fumo…
PER UN DIO SCONOSCIUTO
Abbassata la serranda sul negozio,
l’ondulato e inerte metallo
è scivolato fino a terra.
( Fulmineo come un artiglio
mi aggredisce il tuo non ricordo )
Resiste una scritta orizzontale,
impastata di carta, polvere e giorni:
“ Signori, il lunedì si chiude–
si chiude tutto il tempo “.
( Inutili clamori, e calda luce
laggiù, nel bar all’angolo… )
L’ISOLA
Lunghe notti ho vegliato e giorni
–e tu per me mai un segno
Sciolgo amore gli ormeggi
–e la nostra storia portala con te
nell’isola senza nome e ricordo
dove si consumerà il tuo tempo
–vuoto ormai di giorni.
EX VOTO
Non lo si poteva fare, mi dice la Signora–
benedetta non era l’acqua e le anime poi
non si lavano via così con uno sciacquo
Ma lei deve capirmi, Signora
erano le cinque in punto del mattino
e rossa colava l’anima cara
lungo il filo del sogno e se ne andava–
capisce, l’anima cara se ne andava
e cosa si poteva mai fare a quell’ora?
Eburnea Signora, mi creda, le mando il voto
di tutte le rose del mercato, ma non venga
ancora a sgranarmi i rosari dell’atto profano
Suvvia, Signora, la smetta ed esca pure lei–
fuori è maggio.
LILIALE I
Ben oltre i giorni della Pasqua
s’erano gingillati con la sfavillante carta
dell’uovo, che in realtà se ne stava
tutto nudo sopra una sedia di paglia–
–messo lì con svagata noncuranza.
Sembrava un banale piccolo inganno,
con degli effetti che potremmo definire
à trompe l’oeil, nulla di eclatante.
Il lato clamoroso dell’ affaire
veniamo a saperlo soltanto ora
che la Sfavillante, senza indulgenza alcuna,
si è sottratta al ruolo assegnatole dal gioco
e fuggitiva lascia nella più profonda
e sigillata indifferenza quelli che furono
i suoi sogni privati, del tutto privati.
Della storia qui conclamata rimane solo
un esile pensiero liliale, quasi ilare.
LILIALE II
Il colore bianco e la forma infantile
facevano dei miei sandali
due foglie calcinate
graziosamente oscillanti
in grembo alla dolce creatura del sud–
–dall’orto il ligustro si protendeva
fin sullo scalino dove quieta
rimanevo ad intrecciare attese.
E se la bella immagine m’incanta
il pensiero delle sue mani
esile ancora si leva all’alba.
AMORE E PSICHE
Perdonami amore se ancora strappo
piume e versi alla nostra casta camelia…
Nella cara stanza oggi è così buio
che solo arde giallo di tanta luce
il biglietto che s’appunta alla finestra…
L’ABITO ROSSO
Lungo la linea dell’abito rosso
molle scivolava il ventaglio nero
L’antico tondo trasudava vita
nello smalto che la racchiudeva
Incisa a filo dell’orlo floreale
la dedica ancora si leggeva
“zefiro di rugiada il prato bagna”
OPERA
Giocoliere gentile che nella mano
il cavo della bava fermo tieni
sicuro rimani e non visibile
——–pura mimica sospesa nell’aria.
Al cielo sia cangiante il tuo giullare.
L’ARIA
Smarrita nell’intreccio della storia
la piuma di ligustro si librava
in un cielo a noi ancora sconosciuto…
( era sua l’ombra sottile che ora si posa )
IL GRAFFIO
Segui amore il graffio della vita
e la brina che si posa sull’orlo
Non soffiarci sopra, non appannarla
Apri la nota alla voce del tempo.
AMARGO
Quel banchetto nudo dove la vita
si fa putta e graziosamente porge
la mandorla amara che solo al filo
della mente rilascia il suo gentile
………………………………………
( qui io non vi dirò nulla dell’albero
né della luna che lo sorvegliava )
ORO E BIANCO
per Stefania C.
Di giovane ramoscello è la tua mano–
Anima quasi bambina che a sé stringe
il nastro d’oro dei tulipani bianchi
( Indifferente il fioraio al nostro rito… )
SOVRAPPOSIZIONE
Il tram è in partenza verso il centro…
Si direbbe opaca la superficie
che sbuca dal manifesto murale,
se il riverbero e l’incerta materia
non mostrassero la forma ellittica,
dove lo specchio retrovisore filma
senza scatto il via vai della strada.
Tutto lo short sta in quello squarcio
–sospeso tra realtà e illusione.
CANTO FERMO
per Franco G.
Stasera lascia aperta la porta
ch’io possa entrare, e tu sciogliere
dai fili rossi il nostro carteggio.
La tenda s’alza ariosa come vela
che naviga verso il monte, nuvole
alle specchiere dell’altra stanza e cielo.
–Manica a vento, tu saluti Nina
e sali nell’incanto del tuo Chagall…
IL PAPAVERO
Neve perenne dorme la tua voce
sotto il bianco cappuccio del Subasio.
Lui nasce intoccabile e rosso–
–polvere della tua voce e sabbia
della mia gola, forse non fiore
ma trama di un sogno che non cede
al suo insostenibile peso d’ombra.
SILLABA
I.
S’inquieta come stormo che scolora
il tuo nome sul filo della mia mente
–alto volo da quel cielo scende in sillabe
II.
E se lieta nel liturgico fluire
le tue mani sento in me confuse
con rapido tocco svagata m’insinuo
nella piega che il brivido impone
III.
Si spezza nell’aria un delirio d’ali
( Colombe fremevano nel tuo cielo… )
ANDANTINO GRAZIOSO
Se ne stava quel chiaro spartito
incollato alla vetrina del liutaio–
con il suo si e la bella chiave di violino,
presi nel rigo della prima battuta
( Dal suono sciolte bende
liberano mani ferite )
All’ulivo santo della pietrosa
piccole anime beghine
cerimoniose vanno
al minuetto di pigolanti passi
Le mani tendono al tuo approdo
e avide il tuo nome afferrano
con l’unico riconosciuto fiore–
questo mio votivo monile di carta.
CARPE DIEM VARIAZIONE
Cara, non chiederti quale destino
gli dei abbiano per me e per te deciso
né struggerti (non è lecito saperlo)
sulle vane cifre di Babilonia.
Conviene accettare e patire la sorte –
–l’inverno che ora flagella le onde
sulle scogliere del mare Tirreno
potrebbe essere l’ultimo voto
o avere lungo seguito nella vita.
Sii saggia, continua a mescere il tuo vino
e raccogli la speranza nel breve suo filo.
Vivi questo giorno. Mentre parliamo,
l’avido tempo è già da noi fuggito.
VILLA R.
È cresciuta a dismisura quella rosa–
rosso struggente di velluto e spine
Il tempo si posa su cristallo sottile
mentre sfiora lame di ilare argento
( S’adagiava sul tappeto la figlia dei giorni… )
D’INVERNO
Nell’incerta grazia di una gemma
di te ritrovo quella che non eri
La radicella che pulsa nell’ombra
dall’umido umore risale alla linfa
( Sottili e nati già gli alberi d’inverno )
Nella poesia di Giuliana Piovesan si intrecciano, con tenera misura, tre livelli: l’immagine del passato, il riconoscimento d’amore e la ricomposta testimonianza del presente. E i tre livelli coesistono in un discorso di piena maturità umana ed espressiva che conosce e pratica, nel continuo reciproco rispecchiamento, accanto all’esperienza della vita il gioco dell’intelligenza e i riferimenti della cultura. La chiave di lettura è il filo onirico: quel tanto di inventività fantastica, di visionarietà che interviene sempre ad animare le situazioni facendole levitare e caratterizzando in aerea leggerezza le presenze di persone, ciascuna nello “spessore della sua filigrana” e di paesaggi, anch’essi sempre in “filigrana”, per virtù dell’autrice nel suo stesso farsi leggera. I luoghi sono sognati o intravisti nella visione piuttosto che effettivamente documentabili, anche se reali. E questo vale anche per le presenze umane, rese diafane e lattiginose da uno schermo che, mentre le vela, nella loro improvvisa luminosità anche le rivela e, in particolare, per forza e suggestione la presenza di un “tu”, sottolineato con partecipazione anche nel disinganno, che attraversa tutta la raccolta. Del resto tutto vive nella raccolta “Le immagini dell’aria” in una intermittenza dominata da una direttrice intellettuale: la presenza costante dell’assenza, che è sostanza stessa della visione, dell’invenzione fantastica che rappresenta il mistero, anche nella consapevolezza dei suoi aspetti più disincantati. Ma la voce della cancellazione non è tanto un’ossessione quanto invece una misura di consapevolezza, nel rapporto e nel colloquio costante con le ombre dentro l’alone di una musica particolarissima.
Giuliana Piovesan
Biografia di Giuliana Piovesan è nata a Velletri (Roma) nel 1947 e vive a Padova.Ha pubblicato per le Edizione del Leone: Il giorno dell’anno (Edizioni del Leone, 1992), Al ponte Rosso (Edizioni del Leone, 1999), Passo a due (Edizioni del Leone, 2003, con Franco Gentilucci), Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni, 2017). È presente con suoi scritti, pezzi critici, poesie, in volumi monografici, antologie, riviste. È da oltre vent’anni attiva nella realtà culturale della sua città. Collabora inoltre alla conduzione di più biblioteche nell’ambito del sistema civico di Padova.
LA LEGGEREZZA DI GIULIANA PIOVESAN
Giuliana Piovesan
Il titolo della raccolta di Giuliana Piovesan, Le immagini dell’aria (Biblioteca dei Leoni), evoca un senso di indeterminatezza, di leggerezza, che catapulta subito nell’atmosfera onirica, ariosa e ricca di musicalità dei suoi versi. Sono molti quelli che rivelano queste caratteristiche: «Mordeva vaga lo spicchio di luna / quando nell’indaco del sogno il cielo / ingoiava avido tutte le stelle -» (p. 30); «Mi sgusciavi sottile dalle mani / per lasciarmi intatta la tua forma. / (Sei colomba e sali al tuo azzurro) / Rimani piuma d’aria, sarò la tua voce» (p. 58).
Giuliana Piovesan, nelle composizioni, tratteggia immagini reali, spesso però ne sfuma i contorni proiettandole in spazi chiari e azzurri, nei quali sembrano dissolversi o confondersi con l’aria stessa. Perfino il peso dei ricordi, affioranti da un passato, intreccio di presenze e assenze, di eventi e storie d’amore finite o non completamente vissute che lasciano “l’amaro in bocca”, è mitigato e reso più leggero, più arioso. Nei testi parla, inoltre, della vita e della morte, di amore e musica, e si serve di profumi, suoni, colori (come il bianco, il rosso, il nero), per accentuarne i significati metaforici presenti. Anche il senso del trascorrere del tempo è molto vivo in Giuliana Piovesan e Carpe diem variazione, unica poesia della seconda e ultima sezione del libro, ne è un esempio lampante. La raccolta, infatti, è strutturata in due sezioni: Nell’aria sottile e Nel tempo. La prima, a differenza della seconda, consta di ben quattro sottosezioni, evidenziando così un’architettura articolata della stessa. I testi hanno una lunghezza contenuta, mentre i versi, raramente di breve respiro, si distendono sulla pagina bianca in modo regolare e armonioso.
Ilde Arcelli È stata fondatrice e Presidente dell’associazione culturale “II Merendacolo”, gruppo di studio di alto profilo culturale che si occupava di poesia del ‘900 a livello critico e di laboratorio e che per più di vent’anni ha organizzato (con il patrocinio del Comune di Perugia) incontri pubblici alla presenza dei maggiori poeti italiani, con l’intento di diffondere, soprattutto tra i giovani, l’interesse e l’amore per la poesia.
UTOPIA
Nell’allucinato plenilunio
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la mia gazzella muove
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leggera
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per dirupati anfratti
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a sterrare speranze sepolte
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in cui morire.
Ma quell’utopia suicida
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è sale della terra,
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è tremolante torcia
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che illumina la storia
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ben sapendone
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il cieco disamore.
NON CHIEDETEMI MAI
Respingo pregiudizi secolari,
ricevo visite, lavoro e faccio spesa,
sorsi di tenerezza dono all’albero ricco
del mio sangue e intanto fino in fondo
vivo questa morte nata con me
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(nel continuo mutamento sempre me stessa
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con le cose che amo creo la bellezza,
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con quelle in cui credo libertà)
Ma la sera una teoria di pietrose tastiere
è bersaglio dolente per me sola
mentre un’ala di gabbiano canuto
oltre le sartie ferme del tempo
mi germina infinite dimensioni
scavando guance dal gemito roco
———-
(non chiedetemi mai perché le scriva
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queste cose totali dissepolte
———-
ai margini dell’umana solitudine)
Poi il vento che scava finestre
riaccende un fumido faro
per chi — come me — rimane
———-
alla soglia
REDI IN TE IPSUM
Una traccia iridata sopra i vetri
ridendo lentamente muore —
la mia presenza non è necessaria
alla festa finale della pioggia
ma dentro qualcosa che grida
vuole uscire dal mite
vortice d’ombra: tutto questo
presente sparirà – tutto è
e si disfa — come te anima mia
che passi le vetrate
per raspare il muro —
ogni aria di ruggine o d’asfalto
al delicato fiuto fatta vana.
———-
Dov’è che vai — se tu stessa
———-
ritorni e non ti fermi
———-
anima sempreviva, intenerita:
———-
passeggia a lungo — dopo si vedrà
da MENO MALE.
QUASSÙ
la notte ha ormai lunghe dita
è tempo di pioggia e di vento,
nei cesti noci funghi castagne
quassù nelle case già s’accendono
fuochi e tutto muta o s’avvita
al sole sbiancato, luce di questa
stanchezza stranita dove niente
va perso, niente di lucida vita.
OGNI ESILIO
Nei tuoi occhi s’arrotolano gridi
ombre mobili di plenilunio ghiacciato
alberi secchi e mutilati fiori:
tu stai alle regole del gioco
e fingi d’esplorare ancora
ma altro tempo — felice —
frastorna la memoria
e già ogni esilio s’innerva
nel tuo sguardo, ogni paura antica
da LA CASA DI LIDE
«…il punto tra memoria e desiderio
si sposta, è alla deriva di un gorgo…»
(Mario Luzi)
E nel quasi-svegliarsi
nella non-consistenza
al di qua della soglia
giovane ancora pensarsi
con l’oro il riso la voglia
———-
non capire nel grigio
———-
confuso se è giorno di già
———-
o speranza di alba
———-
che neghi
———-
quest’altra reale
———-
barbarica età
«Ecco, qualcuno ci dice: sì, tu
mi entri nel sangue…
Che giova, egli non può trattenerci,
noi svaniamo in lui e intorno a lui…»
(Rainer Maria Rilke)
Per una volta entrare nell’altro
che adesso in mezzo alla strada
mi parla
——-
— scambiare il mio sé col tuo io
———-
i ricordi la pelle la bocca —
vedere le cose diverse
amarmi da fuori di fronte
però chissà se il tuo io mi va stretto
se l’occhio s’è accorto
del glicine timido sulla ringhiera
——-
— un universo tra plastiche stanche —
di un gatto che passa col rosso
di me che tremo per lui
———-
che semino idee sull’asfalto
———-
consumo parole nell’aria
———-
facendo l’amore col vento…
Ma almeno una volta più bello sarebbe
scambiare la vita aprire una porta
di un altro il sorriso sapere
——-
— di un’altra pietà — LA LUCE.
NOTTURNO
«… e ci saranno strofe d’amore
che già sanno
a memoria le case»
(F. Garcìa Lorca)
Già si spensero i vetri affocati
del tramonto
nelle stradette brevi della città
ritorta verso un cielo in salita
con esili braccia di pietra
e il suo volto fasciato di silenzi
prepara asfodeli di riso notturno
tra rari lampioni e antiche ombre
Sulla fragilità del marciapiede
risuona il passo mio vagante
dietro immagini sepolte
all’arco del tempo incorruttibile:
mi perdo in questo gioco estenuante
che sempre cede il posto alle domande
(dove vita s’annida batte ora
un pipistrello cieco
come pensiero inquieto ed assonnato)
PARTIGIANO
Per noi
fu d’improvviso giorno
quando dal vischio uscimmo
della vergogna;
tu scendevi la notte
partigiano
alla casa sicura di cibo
ed io, bambina,
stropicciandomi gli occhi
oscuramente
ti sentivo padre
della mia libertà.
Risalivi in collina
col mitra portando
piccole lotte sognate,
velleità di vecchi e ragazzi:
altro non chiedevamo, allora,
che ritrovarci lassù
quando il gallo
frantumando la notte
altre attese brevi porgeva
e nell’aria
allegre andavano canzoni.
CREATURE
Sale ai ginocchi l’erba
maculata dell’inverno
mentre sotto la crosta
già striscia marzo
e l’oscura forza che affatica
la terra: lì crepita il bulbo,
si ramifica in figli
che nasceranno deboli
come quelli umani.
Perduto nei millenni il cielo
— il cielo che ogni cosa
fa piccola quaggiù —
solo la terra ha voce
le sue creature storte
un po’ contuse dentro: eppure
qualcosa canta piano — adesso —
nel cuore che sa,
FOSSILI
Un fossile chiuso dentro l’ambra,
la nenia dei secoli
— era vita, la sua, lanceolata,
e adesso è pietra —
la luce liquida perduta
per tutto quel tempo — lunghissimo, nero —
che t’ha salvato, fossile buono
———-
(anche un po’ fortunato)
al riparo dall’acqua
che cresceva nei pozzi
L’ho dentro
il tuo odore di aria remota,
letizia scampata all’inferno:
———-
tu – fatto pietra –
ora duri per sempre
———-
io quale impronta
di me nemmeno una foglia
Io nei secoli senza mai rivedermi.
GENESI
in noi una strana terra di nessuno
che protegge le idee, le emozioni:
qui aspettano a lungo la parola bella
che le affranchi, ma quale lingua diversa,
misteriosa, lì si dipana o si aggruma,
quale respiro di libertà e di nascosto
fuoco dilaga all’improvviso…
Nasce un linguaggio nuovo,
inaspettato o forse addirittura altro
che per un attimo almeno
attinge alla tua umanità e ti porta
lontano dall’ottusa gravità
della materia, dell’avere, del tempo:
tutto questo forse un giorno
si chiamerà poesia.
L’ASSENZA
multiforme l’assenza dona
incertezze, scava vuoti
di senso, moltiplica falsi
legami, corre, dio, come corre
la gente verso la calaverna
che brucia col gelo la terra
———-
eppure è qui il nostro posto
———-
— ieri un amico mi ha detto —
———-
il mondo ha tanto bisogno
———-
dei resistenti dell’anima
IL BRIVIDO
Luce di marzo
che gioca su di te,
strade di luce
calpestate dal sole
ed io impotente appendice
presa dall’ombra.
———-
Nel lago mansueto dei tuoi occhi
———-
si specchiano mille ipotesi d’amore,
———-
preludi di parole indugiate
———-
al brivido breve che mi coglie
———-
sapendo che addosso ho solo
———-
la povertà di me stessa.
INQUIETUDINE
Troverò un quieta landa
———-
dove posare finalmente il cuore,
———-
errante falco inassuefatto
———-
ai deserti di livida arenaria:
———-
dal madido profondo allora
———-
ti parlerò di me, della ricerca mia
———-
ostinata e dei prati d’astri
———-
sfiorati nel lungo andare solitario.
Troverà un senso infine
———-
la mia presenza umana tra miliardi
———-
sotto le fredde stelle inaccessibili,
———-
quando mi specchierò appagata
———-
nel piccolo fondo d’un bicchiere
———-
che intera conterrà la mia inquietudine
———-
placata da un amore senza fine.
LO SPECCHIO
lo specchio ingoia tutto fedelmente
non lo sapevi che non ha pietà:
ti sei fatta cassa di risonanza
per ogni dolore, nodo dell’umanità
e adesso specchiarti non ti piace?
Quel filo d’aria fredda che t’insegue
negli anni t’ha reso un Amleto
un po’ triste un po’ rabbioso,
un’anima che cerca la sua anima
se fuori della porta latrano voci
LA MIA CITTÀ
Pronta di pietre
alte in tramontana
———-
(un balzo – quasi – e spazio)
cuore rupestre del vento roditore
e poi lampioni rari
– stelle fanè in vetrina –
e dita d’erbe/d’aria
che sulle case ricamano sudari;
il sole si ricerca nei cortili
sopra il muschio dei pozzi scardinati
tra gente che quieta tesse vita
e pianamente parla – in ironia –
L’anima vecchia della mia città
———-
(confine e verde e vita)
con le sue mura sapide, con gli archi
– ventagli stretti al cielo –
lega l’ossame etrusco ai nostri giochi
———-
(acqua passata per le sue fontane)
e nei vicoli occhiuti di balconi
tra i grilli addormentati sui gerani
le mie corse rubate al primo bacio
Poi tutto vola – sai – ma lei traspare
e di noi vibra, della nostra vita
———-
(le occhiaie della storia, che ferita)
LA FOLLIA
Libero va, consegnato all’ignoto,
———-
il pensiero sinuoso
———-
per giochi alienanti
———-
tra bianchi fogli da riempire
———-
ed agavi riemerse dall’inconscio.
C’è forse una speranza che resiste
———-
a quest’oltraggio estremo:
———-
qualche ombra di un’età sconfitta
———-
stampata sul muro del ricordo
———-
come un glicine riverso
———-
sulla ringhiera di ferro arrugginito.
da D’AMORE E D’ALTRO
LA QUIETA COLPA
Angoli acuti, spigoli,
asettici fonemi,
occhi che fuggono
su labbra sibilanti,
paura di specchiarsi
nella gemella freddezza
da obitorio
del vicino.
Proibito ridere di niente,
leccarsi le ferite
apertamente,
proibito essere veri
nella lebbra scura
del conformismo.
La mia quieta colpa
è la difformità
dell’innocenza.
da POSTILLE AL NECESSARIO
NOI QUI
noi qui sepolti nel dubbio
davanti alla triste demenza
del male, qualcuno tenta
col mistero del Dio dell’amore
ma non vuol dire grazie
———-
unito alle voci infinite
———-
che al male dicono no,
———-
chiuse nel disperato pensiero
———-
ieri oggi sempre, nei secoli
———-
dei secoli…
LA DISSENNATA ASSENZA
Le ali vischiose dei ricordi
le loro dita di gelo e cenere
e mille idee
ferme sul foglio bianco:
ti pare poco dilapidare qui
le tue memorie — la dissennata
assenza che ti sfratta.
Lava questo presente dal ricordo
della lontana vita
troppo presto fuggita —
ora parvenza e sogno
di tutto quanto è stato.
È solo cosa tua
non l’ospita la storia — meglio
allora come un vecchio cane
sciogliere il cappio molle
dei ricordi: vedi, le rondini
oggi svegliano il cielo
il sole cresce, scorre per casa
ancora qualche dolce cuore
entra uno sciame d’aria —
è la fiamma d’un giorno
un sorso lungo.
Ilde Arcelli (Perugia 1935–2011) si è laureata alla “Sapienza” di Roma con una tesi su Garcia Lorca ed ha insegnato materie letterarie. Ha pubblicato le raccolte di liriche: Perplessità (Umbria Editrice, 1983), D’amore e d’altro (Rebellato, 1985), Postille al necessario (Phonema, 1988), La Casa di Lide (Phonema, 1990), Fedeltà del sogno (Ed. Del Leone, 1994), Ogni esilio (Archinto, 1999), By-Pass (Guerra, 2001), Meno male (Guerra, 2011), Brevi parole ancora (Fioroni, 2011), Poesie scelte (LietoColle, Faloppio, 2013). Ha scritto anche narrativa per ragazzi, saggi critici pubblicati su riviste specializzate e contributi in atti di convegni. È stata fondatrice e Presidente dell’associazione culturale “II Merendacolo”, gruppo di studio di alto profilo culturale che si occupava di poesia del ‘900 a livello critico e di laboratorio e che per più di vent’anni ha organizzato (con il patrocinio del Comune di Perugia) incontri pubblici alla presenza dei maggiori poeti italiani, con l’intento di diffondere, soprattutto tra i giovani, l’interesse e l’amore per la poesia.
Marcello Di Gianni- E’ socio dell’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche – A.P.P.F. e membro di giuria del relativo Prestigioso premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”, XVII edizione – 2023, sezione saggi inediti. Personalità del tutto indipendente e riservata, neutrale e imparziale nel suo modo di essere ed agire,anteponendo l’obiettività ed oggettività quale unici elementi di rilievo.
La mezzanotte nelle palpebre
Giunge la mezzanotte nelle palpebre;
si deposita soffice la cara insonnia
come il pittore cura la sua opera.
Si fanno largo schiere di demoni
chiedendo l’ultima falsa salvezza,
e di un intero paese divento patria.
In questo faticoso destreggiarmi
ancora ricerco l’odore del camino
prima di posare gli occhiali,
la neve che si poggia sui vetri
da cui attendo, spiando nervoso,
l’arrivo di qualcuno mai visto.
Le ultime gioie ricerco come ladro.
Scuoto al vento la mia anima
spogliandola di tutto il nero dentro.
Vergogna e felicità si scontrano;
mi compatisco del male visto
e non perdono le inutili vittorie.
E risorgerò ancora dalla tempesta
imitando la roccia marina;
mi prostrerò ai piedi dei pozzi
mai più tremando al freddo invernale;
e la mano porrò alle cerimonie
con il timore di un nuovo inizio.
Ho costruito e distrutto
Ho costruito e distrutto le aurore
che accarezzavo al suo nascere;
ridotto in brandelli le mie gioie
E perso ora fuori dalle mura.
Una triste barca lacerata, laggiù
approda a passi lenti sulla terra,
e conduce a riva cuori e anime
a cercare altre false speranze.
Umido e nebbia impercettibili
Si posano sulle mie guance
Come il destino che si poggia
sulle labbra degli amanti.
Eppure le sfumature invisibili
riesco a percepire nettamente:
il verso degli uccelli compatti,
la neve che si poggia solitaria.
E levandomi sulla punta dei piedi
per occultare i miei duri passi
mi accingo a camminare scalzo
con in mano una croce sbiadita.
Ho costruito e distrutto la brama
di ricercare il senso della morte
e con in mano un ramo sottile
ho già dimenticato dove ho pianto.
Con una rosa in mano
Questa notte bramo avere le chiavi
Di tutte le città, infiltrarmi in tutte
Scrutarne il fiorire delle lacrime
Degli abitanti sul far della sera;
raccogliere di mattino la rugiada
dai prati, ascoltare il mormorio
dei passanti e il tintinnio della pioggia
che si posa sul cuore senza rumore.
Ho in me un’infinità di prospettive,
l’anima mi chiede mille viaggi
attraverso le fitte nebbia e gli amori
consumati agli angoli delle strade.
E voglio ancora innamorarmi
della neve che si posa innocente
sulle mani, dei silenzi inascoltati
che si arrampicano sugli occhi.
Far splendere di nuovo i tristi fiori
vivere nell’inquietudine dei sogni
mai vissuti, ricucire le ferite
in me, corpo leggera che si innalza.
Sconosciuto al mondo m’incammino
senza meta tra le persone e le cose
con una rosa in mano, abbracciando
del temporale l’affanno di un riparo.
Marcello Di Gianni
Breve biografia di Marcello Di Gianni
Marcello Di Gianni-nasce il 2 aprile 1992 a Menziken, Svizzera.Qui trascorre i primi otto anni e frequenta la seconda elementare.In Italia riprende gli studi e si diploma presso l’Istituto Tecnico Industriale di Bisaccia (AV) nel 2012.Subito dopo ha cominciato a nutrire un elevato interesse nella lettura di centinaia di volumi riguardanti soprattutto classici della letteratura moderna e contemporanea spaziando in numerosi generi: poesia, narrativa, teatro, saggi filosofici e contestualmente inizia a comporre le prime poesie.Particolarmente graditi all’autore sono i poeti russi dell’epoca moderna e contemporanea e che hanno contribuito alla sua crescita culturale e di influenza poetica: Puskin, Blok, Mandel’štam,Cvetaeva, Lermontov, Pasternak, Esenin, Tjutcev, Majakovskij.Tra i suoi autori maggiormente apprezzati si annoverano: Kafka (di cui ha letto la quasi totalità delle opere), James Joyce, Dostoevskij, Tolstoj, Oscar Wilde.Fin dai primi anni, ha ottenuto il primo posto in prestigiosi Premi Letterari italiani a carattere nazionale e internazionale.Nel 2017 partecipa con quattro poesie al Premio “Montreal International Poetry Prize”, tra i premi letterari più importanti e rinomati a livello mondiale.E’ pubblicato su varie riviste letterarie nazionali e le sue poesie sono recensite da personaggi illustri della Letteratura Italiana.Le sue liriche confluiscono in tematiche accomunate da un leitmotiv di perenne ricerca ed espressione di stati d’animo intrisi di una profonda inquietudine velata da un senso di fitta consapevolezza delle sfaccettature della vita.E’ appassionato di Pittura, letteratura Russa, Filosofia, cinema, lingua tedesca, medicina. Ha iniziato la sua carriera quale membro di Giuria letteraria all’età di ventuno anni presso il Concorso Nazionale di Saggistica divulgativa a tema libero “C’è un argomento in cui sei esperto?” organizzato dal Comitato Culturale Orangita Books di Lecco. Alla I Edizione (2022) del Concorso letterario nazionale “Dania Musumeci” è stato Presidente di Giuria per la sezione Poesia. Successivamente è stato giurato presso altri e prestigiosi Premi Letterari e Filosofici principalmente per quanto riguarda la Poesia e la Narrativa e continua a esserlo regolarmente, assolvendo i suoi compiti sempre con spirito critico, obiettivo e coscienzioso. E’ socio dell’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche – A.P.P.F. e membro di giuria del relativo Prestigioso premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”, XVII edizione – 2023, sezione saggi inediti. Personalità del tutto indipendente e riservata, neutrale e imparziale nel suo modo di essere ed agire,anteponendo l’obiettività ed oggettività quale unici elementi di rilievo.
John Ashbery è un poeta statunitense (Rochester, New York, 28 luglio 1927 – Hudson, 3 settembre 2017). Insieme con Kenneth Koch e Frank O’Hara è stato uno dei New York Poets, che perseguivano un rinnovamento della poesia analogo a quello dei Beats e dei Black Mountain Poets. Nella sua opera confluiscono le problematiche più avanzate delle arti contemporanee, la ripresa dell’eredità modernista e la fusione di poesia e arti visive. Tra le sue opere Some Trees (Alberi, 1956); The Tennis Court Oath (Il giuramento del campo da tennis, 1962); Self Portrait in a Convex Mirror ( 1975; Autoritratto in uno specchio convesso, Milano, 1983); April Galleon (Galleone d’aprile, 1987; Can You Hear, Bird: Poems (1995); Chinese Whispers: poems (2002). Nel 2008 per Luca Sossella esce Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan.
Poesie di John Ashbery
Questa stanza
La stanza in cui entrai era il sogno di questa stanza.
Certo tutti quei piedi sul sofà erano miei.
Il ritratto ovale
di un cane ero io in piú tenera età.
Qualcosa riluce, qualcosa viene azzittito.
A pranzo mangiavamo pastasciutta tutti i giorni
tranne la domenica, quando una quaglia veniva indotta
a esserci servita. Perché ti dico questo?
Nemmeno sei qui.
CARTE
Perdere tempo con questi rompicapo?
Perché su che cosa farei lezione allora?
Il maestro che viene dopo, dopo tutto,
li toglie di mezzo o li brucia.
Io dunque non sono molto forte?
Il mio arco sarà eretto, teso lungo la sabbia
fin dove si vedono gli ulivi? No,
io sono un pezzo di stoffa normale, ma mi colpisce
la sera nel plenilunio.
L’heureuse, la chiamavano.
Giorno dopo giorno guardava lo sguardo azzurro del globo
nel suo giardino soleggiato, senza dire niente.
Notando questo, neanche il vecchio ceppo diceva niente.
Finché è sbottato:
«Non puoi essere qualcosa? Hai le buone maniere che ci vogliono
e la tua veste è un movimento di verde pisello iniettato di spuma marina».
So che un giorno io mi rassegnerò
alle buone maniere e al commercio con gli altri.
Perciò lancio il mio cappello su questo attaccapanni.
Ecco siamo in due. Prendine due.
Continuando a girare nel cielo demente,
la macina dello zucchero versa poesie e più semplici mosse.
E come spiegare le rose nella nostra fornace?
Una scimmia molto materna ci porta
a un tavolo coperto di argenteria e di cristalli,
pentole sporche di cristallo che permettevano al vecchio
di vedere attraverso le lacrime:
lui avresti dovuto invitare.
Paradossi e ossimori
Questa poesia si occupa del linguaggio a un livello alquanto piano.
Guardala che ti parla. Guardi da una finestra
o affetti irrequietezza. La sai ma non la sai.
Ti manca, la manchi, le manchi, ti manca. Vi mancate a vicenda.
La poesia è triste perché vuole essere tua, e non può.
Cos’è un livello piano? È quella cosa e altre,
e ne mette in gioco un sistema. Gioco?
Beh, di fatto, sí, ma io ritengo che il gioco sia
una piú profonda cosa esterna, un modello di ruolo sognato,
come nella ripartizione della grazia queste lunghe giornate agostane
senza dimostrazione. A finale aperto. E prima che te ne accorga
si perde nel vapore e nel cicaleccio della macchina da scrivere.
È stata giocata un’altra volta. Penso tu esista solo
per tormentarmi a farlo, al tuo livello, e poi tu non ci sei
o hai adottato un atteggiamento diverso. E la poesia
mi ha deposto dolcemente accanto a te. La poesia è te.
*
Il brivido di un’avventura d’amore
È diverso quando hai il singhiozzo.
Tutto è – cosí tante mani con secondi fini si contendono
la tua attenzione, una sciarpa, uno sbuffo di fuliggine,
o solo un boato di silenzio da una radio.
Cos’è? È una cosa che saprai
con sconcerto quando, alla fine di una lunga coda
al self-service, vassoio in mano, ti dicono che la porta ha chiuso
dopo la seconda guerra mondiale. Siracusa fu dichiarata capitale
di una nazione malconcia, ma il direttorato
aveva altri, reconditi scopi. Proclamare la logica
vittima della verità era uno di questi.
La solitudine di tutti (e la conseguente promiscuità)
profumava i vicoli di paesi che avevamo pensato civili.
Ti ho visto che aspettavi il tram e sono passato di fretta.
Ahimé eri solo un bimbo con l’armatura. Ora quando brindisi ribaldi
fanno vela attorno a un tavolo troppo bene imbandito, ecco le conseguenze
sono solo polvere, malattia e vecchiaia. I bei ricordi
sono solo ciò che sono. Cosí io convoglio qualsiasi cosa
nella mia eventualità, una vena di mercurio
che continua a disperdersi, piú su, piú puntuale
ogni volta. Dirndl maculati di fiori obsoleti,
indossati di nuovo in città, promuovono un dibattito aperto.
*
John Askbery photo by Lynn Davis
da Houseboat Days [I giorni della casa galleggiante]1977
E lei si chiama Ut pictura poesis
Non puoi dirlo piú cosí.
Preoccupato della bellezza devi
uscire allo scoperto, in una radura,
e riposare. Certo, qualsiasi cosa strana ti succeda
è OK. Chiedere di piú non sarebbe
da te, tu che hai cosí tanti amanti,
gente che ti ammira ed è pronta
a fare cose per te, ma tu pensi
non sia giusto, che se ti conoscessero davvero…
Basta cosí con l’autoanalisi. E adesso,
su cosa mettere nella tua poesia-quadro:
i fiori sono sempre belli, specie i delphinium.
I nomi di bambini conosciuti un tempo e le loro slitte,
i razzetti vanno bene – esistono ancora?
Ci sono un sacco di altre cose con le stesse proprietà
delle sunnominate. Ora si devono
trovare alcune parole importanti e molte di basso profilo,
dal suono fiacco. Lei mi contattò
perché comprassi la sua scrivania. D’improvviso la strada fu
follia pura e clangore di strumenti giapponesi.
Prosaici testamenti vennero sparpagliati tutt’attorno. La sua testa
s’allacciò alla mia. Eravamo una biciancola. Qualcosa
andrebbe scritto su come ciò ti condizioni
l’estrema austerità di una testa pressoché vuota
che si scontra con il rigoglioso fogliame Rousseau-simile del suo desiderio di [comunicare
qualcosa nelle intermittenze del respiro, anche se solo nell’interesse
d’altri e per il loro desiderio di capirti e disertarti
per altri centri di comunicazione, cosí che la comprensione
possa avere inizio, e cosí facendo essere disfatta.
Fonte-Pangea. Rivista avventuriera di cultura&idee è un progetto dell’Associazione Culturale Pangea. Direttore editoriale: Davide Brullo; Presidente: Jonathan Grassi.
Aldo BUSI
“Auden non mi capiva. D’altronde, per me la poesia è un mistero”: torna John Ashbery, finalmente. Il primo a tradurlo fu Aldo Busi…
Il primo fu Aldo Busi, che nel 1983, per Garzanti, traduce Autoritratto in uno specchio convesso di John Ashbery. Su Ashbery s’era laureato, a Firenze; l’anno dopo, nel 1984, Adelphi pubblica Seminario della gioventù. Strabiliando l’evento, Busi ne scrive in Vita standard di un venditore provvisorio di collant, edito in origine nel 1985, poi riscritto nel 2001. “Gli mancavano due esami finali e la sua tesi sulla poesia americana moderna, da Walt Whitman al celebre John Aninny che, ispirandosi al dipinto del Parmigianino, aveva scritto Autoritratto di una checca convessa, era a buon punto”. Pare che i due, Aldo & John, sotto la sottana della tesi e l’intrallazzo della traduzione, abbiano avuto una storia. Probabilmente hanno avuto una lite. “Non ci pensava neanche più a cercarsi una stanza, né tanto meno a far visita al supersponsorizzato e marlborizzato John Aninny per sputargli in un occhio”.
L’evidenza della nostra cupa provincialità. Intendo, la fatica con cui qui attecchiscono i giganti d’altrove. Specifico. In questo Paese in cui fioriscono poeti come margherite – poeti, appunto, primaverili: delicati, deliziosi, sfiziosi, sfinenti – non si traducono i Titani. John Ashbery, per dire (di Saint-John Perse, tra gli scandali, ho già detto). Anche Wikipedia sa che “è considerato come il più influente poeta del suo tempo” (facendo fare la sintesi a Langdom Hammer, pavone della Yale: “nessun poeta americano possiede un vocabolario tanto vasto, tanto specifico, né Whitman né Pound”). Eppure, da noi s’è fatta una fatica matta a leggerlo. Oltre alla fatidica edizione del 1983, griffata Garzanti, ci si sono messi piccoli, ostinati, bravi editori (Il Labirinto, le Edizioni l’Obliquo, le Edizioni del Bradipo), fino a Sossella, nel 2008, con Un mondo che non può essere migliore. Ora. Non dico il ‘Meridiano’, che lo fanno a cani & porci oppure ai cari estinti, ma almeno una pubblicazione sontuosa per un editore presente in libreria… Per questo, l’Autoritratto entro uno specchio convesso edito da Bompiani nella neonata collana di poesia ‘Capoversi’ è un evento, sia lode a Damiano Abeni. Purtroppo, Ashbery, che non è nato l’altro ieri – è del 1927 – è morto due anni fa. Quel libro lì, Self-Portrait in a Convex Mirror, pubblicato nel 1975, consente ad Ashbery il Pulitzer, il National Book Award, il National Book Critic Circle Award. Insomma, è considerato tra i grandi libri di poesia del secolo. Era ora, averlo.
*
“Lo speculum o specchio convesso di Ashbery è l’esatto contrario del suo desiderio e volontà, e in questa inclinazione che lo porta a distanziarsi dai padri, lo Stevens tangibile e lo Whitman spettrale, Ashbery costruisce il suo vero clinamen”, scrive Harold Bloom nell’ermetica introduzione, Frantumare la forma, che sta sulla soglia delle poesie. Ashbery doveva essere un tipo simpatico – o insopportabile, il che è uguale. Nell’intervista che gli fa David Remnick nel 1980, poi pubblicata sulla “Bennington Review” (e da cui ho stralciato passi salienti), il nostro dice che delle opinioni di Bloom gli importa il giusto, quasi nulla. Che non vede somiglianze tra la sua poesia e quella di Stevens e di Whitman. Che gli è più prossimo Auden – il quale, clamorosamente, non lo capì. I poeti, si sa, vivono da cobra, tra mistificazione e fraintendimento.
*
Bisogna avere voglia di giocare, di mettersi in gioco, di far capriolare i significati, per apprezzare Ashbery.
L’ora del giorno o la densità della luce
adesa al volto lo mantiene
vivido e intatto in un’onda reiterata
d’arrivo. L’anima instaura se stessa.
Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi
e ancora tornare sana e salva al proprio nido? Essendo
la superficie dello specchio convessa, la distanza aumenterà
considerevolmente; vale a dire quanto basta per asserire
che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto
sospeso, incapace di incedere molto oltre
il tuo sguardo che intercetta il dipinto.
Guardare l’omonimo Parmigianino al Kunsthistorisches Museum può servire. La mano deformata, magra come un levriero; il viso di strabiliante giovinezza. Lo specchio non rispecchia – è un viaggio nel tempo, una sbavatura del destino.
*
John Ashbery
Ashbery rende tutti degli scolaretti, è vero. Petulanti e impudichi. Però, è pur vero che sepolta una generazione – Ashbery, Heaney, Bonnefoy, Luzi, Sereni, mettete chi vi pare – l’altra, la nostra, arranca, in resa. Torna la poesia ‘sentimentale’, dell’ombelico che non si spalanca in abisso ma resta ciò che è: salotto. Oppure la speciosa sociologia del girotondo perbenista. Non è una questione di altezza verbale, mai, ma di tensione di sguardo, di atrofia della retina, sì. (d.b.)
***
Prime letture. “I miei genitori non erano intellettuali. Ma il nonno, che era professore di fisica all’università, adorava i libri. Andavo a visitarlo per immergermi nella sua biblioteca. Mi piacevano molto i libri sui miti greci di Nathaniel Hawthorne, avevo una bella edizione di Shakespeare, con illustrazioni piuttosto inquietanti. Non capivo molto, preferivo le commedie. Poi… Dickens, Sir Walter Scott, Thackeray”.
La poesia è difficile? “I primi poeti furono Shelley, Byron, Longfellow. Leggevo poca poesia da giovane. Probabilmente perché, come tutti, immaginavo che per capire la poesia fosse necessario un corso o qualcosa del genere. Pensavo che fosse impossibile aprire semplicemente un libro e iniziare a leggere. Poi ho scoperto che non era così”.
Amo Auden, disse, distrattamente, che ero come Rimbaud. “Di solito sono connesso a Wallace Stevens, ma mi sembra che W.H. Auden abbia avuto un ruolo più importante nella mia formazione. Fu il primo poeta moderno che ho letto con vero piacere. Mi selezionò per il premio Yale Younger Poets. Le cose andarono così. Non osavo inviare a Auden le mie poesie, allora mandai il mio manoscritto alla Yale University Press. Mi fu restituito. Anche a Frank O’Hara capitò la stessa cosa. Un amico comune, Chester Kallman, parlò a Auden di noi. Aveva deciso di non assegnare il premio quell’anno perché non gli era piaciuto alcun manoscritto. Allora, si è fatto consegnare i nostri manoscritti. Ha scelto il mio. Ha scritto una prefazione piuttosto anaffettiva in cui mi paragonava a Rimbaud – paragone assai lusinghiero, è ovvio, ma non credo fosse un complimento, visto che Auden era assai anti-francese. Qualcuno mi disse di aver chiesto a Auden cosa pensasse della mia poesia: rispose che non era mai stato in grado di capirne un verso!”.
Il distruttore della poesia. “La mia poesia non è legata a una particolare tradizione – lo è un po’ di più se questo legame lo sostiene qualche critico importante. Molte persone si scocciano, alzano le mani e dicono che le mie poesie non sono affatto poesie. Non mi considero un distruttore della poesia, ma uno che, a modo proprio, come può, perpetua una tradizione”.
Harold Bloom? Non lo capisco. “Harold Bloom si sforza di tracciare un percorso di influenze che mi legherebbe a Whitman e a Stevens. Una volta gli ho detto che non avevo letto i testi di Emerson di cui dice che io sarei l’erede. Rispose che comunque ero stato influenzato da lui. Non voleva sentirsi dire che non lo conoscevo. Questa faccenda delle influenze non la capisco. Penso che siano imputate da un critico per supportare le proprie argomentazioni. Un poeta è influenzato da molte cose, non solo dalla poesia, ma anche dal clima, dalla stanza in cui si trova, da qualsiasi cosa – e ogni cosa è egualmente importante”.
Faccio ciò che mi dicono di non fare. “Ciò che mi rimproverano i critici mi fa agire in direzione esattamente contraria alle loro opinioni. Ho sempre seguito il consiglio di Cocteau secondo cui devi leggere le critiche al tuo lavoro e continuare a fare cose che ottengono disapprovazione”.
Preferisco esplorare i luoghi ignoti. “La poesia confessionale non mi convince. Anch’io ho sofferto come tutti, quindi, perché non dimenticarsene e mettersi al lavoro? La poesia mi pare sia altrove. Piuttosto che affrontare le esperienze del mio passato, che mi sono familiari, preferisco con la poesia esplorare luoghi ignoti. Heidegger dice che scrivere una poesia è una esplorazione. Allo stesso modo, sono interessato alle poesie che scriverò più che a quelle che ho già scritto. Il vecchio, davvero, non mi appartiene”.
Per me la poesia è un mistero. “Non so da dove vengano le poesie. È una faccenda misteriosa. Non voglio dire che scrivo in trance, o cose simili. Al contrario, la poesia riguarda il sentirsi più sveglio del normale”.
Le poesie di oggi? Prodotte in serie. “Le poesie spesso vengono prodotte in serie, in quello stile rilassato, in presa diretta, come Ginsberg, pieno di autostrade, di foglie d’autunno, di problemi di coppia, della vita di tutti i giorni. Tutto è risolto in un pensiero piccolo e pulito, che fluttua. Un tono così lo sento in tanti studenti, e mi domando, ‘Bene, è tutto molto bello, ma perché vuoi scrivere in un modo popolare? Perché non vuoi scoprire chi sei?’. Allora, do loro degli incarichi formali. Amo le forme che occupano la mente cosciente per dare estensione all’inconscio: la sestina, la canzone. Il sonetto è troppo breve, poco funzionale, credo”.
Leggete i contemporanei. Per gli altri ci sarà tempo. “I miei consigli al giovane poeta? Leggere quanta più poesia contemporanea possibile senza scoraggiarsi per la difficoltà. Anche Keats diceva che bisogna iniziare leggendo i poeti del proprio tempo più che quelli del passato. Penso, inoltre, che sia utile imitare, consapevolmente, i poeti che ti piacciono davvero. Leggere poesia contemporanea, inoltre, ti evita di scrivere come uno che non hai ancora letto. Spessi dico a uno studente, ‘Pare che tu sia stato influenzato da…’, e lui non ne ha mai sentito parlare…”.
Il lavoro obbliga alla disciplina. “Che i poeti non possano vivere di poesia è un peccato. Sei costretto a fare qualcos’altro finché questo qualcos’altro non diventa sempre più invadente. Se poi i poeti non guadagnano molto con il loro lavoro, il problema è tremendo. Tuttavia, penso che questa situazione favorisca la disciplina. Se sei determinato a scrivere una cosa, la scrivi. Non importano le condizioni esterne, lo faresti comunque”.
Fonte-Pangea. Rivista avventuriera di cultura&idee è un progetto dell’Associazione Culturale Pangea. Direttore editoriale: Davide Brullo; Presidente: Jonathan Grassi.
John Ashbery è uno dei maggiori poeti statunitensi viventi. È attivo dalla metà degli anni Cinquanta (del 1956 è la sua prima raccolta Some Trees). Personalità estremamente autonoma, difficilmente inquadrabile in correnti e scuole, Ashbery è il poeta metamorfico e sperimentale per eccellenza. La sua scrittura si muove costantemente tra la l’assunzione delle forme ereditate e la pressione verso l’informe. La sua esplorazione dell’identità avviene per itinerari ellittici, enigmatici, ambigui, ponendosi agli antipodi del filone “confessionale” della poesia statunitense e del suo capostipite Robert Lowell.
In Italia apparve nel 1983, per Garzanti, Autoritratto in uno specchio convesso con un’introduzione di Giovanni Giudici e traduzione di Aldo Busi. Oggi è finalmente disponibile in Italia un’antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan, alla cui selezione ha collaborato lo stesso autore. Si tratta di Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, Luca Sossella, 2008.
Nota biografica di John Ashbery è un poeta statunitense (Rochester, New York, 28 luglio 1927 – Hudson, 3 settembre 2017). Insieme con Kenneth Koch e Frank O’Hara è stato uno dei New York Poets, che perseguivano un rinnovamento della poesia analogo a quello dei Beats e dei Black Mountain Poets. Nella sua opera confluiscono le problematiche più avanzate delle arti contemporanee, la ripresa dell’eredità modernista e la fusione di poesia e arti visive. Tra le sue opere Some Trees (Alberi, 1956); The Tennis Court Oath (Il giuramento del campo da tennis, 1962); Self Portrait in a Convex Mirror ( 1975; Autoritratto in uno specchio convesso, Milano, 1983); April Galleon (Galleone d’aprile, 1987; Can You Hear, Bird: Poems (1995); Chinese Whispers: poems (2002). Nel 2008 per Luca Sossella esce Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, antologia curata da Damiano Abeni con Moira Egan.
Fonte-Pangea. Rivista avventuriera di cultura&idee
Poesie di Roberto Carifi (Pistoia, 1948), poeta e scrittore tra i più validi dell’era contemporanea.Esperto di filosofia tedesca e francese, oltre che di buddhismo, l’autore toscano si è formato come psicanalista a Parigi ed a Milano seguendo le lezioni di Jacques Lacan.
Dal 2004 la sua esistenza è stata condizionata dai postumi di un grave ictus. Da allora, si è concentrato nella sua ricerca poetica sulla funzione del dolore nella vita umana.
“Nasco filosofo -spiega egli stesso- con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia parla del cielo, delle foreste, degli uomini, fa un salto verso la verità.”
Scrive su di lui il poeta Giuseppe Conte: “Nella sua formazione, mette insieme il rock e Lacan, la filosofia heideggeriana e la militanza nella critica: è a lui che si devono alcuni dei migliori saggi sulla nuova poesia italiana degli ultimi decenni del Novecento. Nel 1995, partecipa alla fondazione del Mitomodernismo. Il suo percorso poetico è però solitario e unico.”
Secondo il critico letterario Andrea Temporelli, “nessun poeta più di Carifi può oggi vantare un universo simbolico e stilistico così identificato e coerente da trasformarsi in vera e propria koiné”.
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