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Escher a Roma, in mostra a Palazzo Bonaparte fino al 1° Aprile 2024-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Escher a Roma, in mostra a Palazzo Bonaparte fino al 1° Aprile 2024-
Articolo di Francesca Graziano per la Rivista Altritaliani.
L’artista olandese innamorato dell’Italia è a Palazzo Bonaparte (Piazza Venezia) con una grande mostra che celebra il centenario del suo arrivo nella Capitale. A Roma visse ben 12 anni e sono stati anni che ebbero una forte influenza su tutto il suo lavoro. Questa preziosa retrospettiva, circa 300 opere, comprende numerosi lavori inediti accanto a quelli più celebri. Ne scrive Francesca Graziano per Altritaliani.
Dopo diversi viaggi in Italia iniziati nel 1921 Maurits Cornelis Escher (Leewarden 1878-Laren 1972) si trasferisce a Roma assieme alla moglie svizzera Jetta Umiker, qui nascono, nel 26 e nel 28, i due figli George e Arthur. Dalle alture del Gianicolo, dove vive, dalle passeggiate a Villa Sciarra, a San Pietro, sulla via Appia, trae le prime, esaltanti impressioni per le sue celebrate “Vedute romane”. Il periodo romano durato 12 anni ebbe una forte influenza su tutto il lavoro successivo, fortemente impegnato nella produzione di litografie e incisioni di paesaggi, scorci, architetture e vedute di quella Roma antica e barocca che amava indagare soprattutto di notte, quando i dettagli architettonici risultavano più evidenti, seduto su una seggiolina pieghevole e con una piccola torcia appesa al risvolto della giacca. Nasce la serie dei 12 “Notturni romani” prodotta nel 1934 – tra questi “Colonnato di San Pietro”, “San Nicola in Carcere”, “Piccole chiese, Piazza Venezia”, “Santa Francesca Romana”…
Poi i viaggi nel centro e nel sud dell’Italia, ancora avventurosi come durante il Grand Tour: lo ispirano prospettive fantastiche, paesaggi strani e affascinanti, di essi coglie le vertigini, i sospesi silenzi. “San Gimignano” “Scanno”, “Ravello”, “Tropea”, “Pentidattilo”, “Rossano”, “Segesta”: i luoghi più pittoreschi della Toscana, dell’Abruzzo, della Calabria, della Sicilia vengono restituiti in opere di assoluto virtuosismo e insuperata perfezione formale tramite le tecniche incisorie della xilografia, della litografia e linoleografia.
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Quando l’atmosfera in Italia comincia a farsi pesante, per le mutate condizioni dovute al regime fascista, siamo nel 1935, Escher decide di chiudere la splendida parentesi italiana e si trasferisce in Svizzera, a Château d’Oex, due anni dopo in Belgio, per poi stabilirsi definitivamente a Baarn nei Paesi Bassi. Inizia la seconda fase della sua produzione, quando, non più sollecitato dallo splendore dei paesaggi italiani, si dedicherà completamente alle sue spiazzanti “immagini interne”, un percorso vertiginoso, labirintico, un lavoro sulla percezione visiva che ne fa un unicum nella produzione artistica del secolo. Potente stimolo per la creazione, l’opera della maturità, potenziando abilità già presenti nei disegni e nelle incisioni precedenti, amplifica il quotidiano, attiva abilità intellettive innescando processi che lo portano a registrare e attivamente rielaborare le immagini percepite.
Nell’intricato percorso dei suoi mondi che intrecciano arte, matematica, scienza, fisica, design, Escher parla ancora al pubblico contemporaneo con una grande varietà di temi. L’antologica di Roma, circa 300 opere, comprende numerosi lavori inediti accanto a quelli più celebri, come Mano con sfera riflettente (1935), Vincolo d’unione (1956), Metamorfosi II (1939), Giorno e notte (1938), la serie degli Emblemata. Lungo il percorso una ricostruzione dello studio che Escher aveva a Baarn in Olanda espone gli strumenti originali con i quali il biondo olandese produceva le sue opere e il cavalletto che portò con sé durante i suoi viaggi.
Curata da Federico Giudiceandrea e da Mark Veldhuysen con il patrocinio del Comune di Roma e dell’Ambasciata e Consolato Generale dei Paesi Bassi, prodotta e organizzata da Arthemisia in collaborazione con la M. C. Escher Foundation e Maurits, la grande mostra di Palazzo Bonaparte a Roma celebra i cento anni dell’arrivo di Escher nella Capitale.
È suddivisa in otto sezioni ognuna delle quali esplora un aspetto diverso del suo lavoro, dagli inizi al lungo soggiorno italiano, passando per le Tassellature ispirate alle architetture dell’Alhambra, alle molto famose Metamorfosi. Seguono Struttura dello spazio con la già citata “Mano con sfera riflettente”, Paradossi geometrici (“Salire e scendere”, “Belvedere”, “Galleria di stampe”, “Relatività”), Lavori su commissione per finire con Eschermania, ampia carrellata sulla fortuna dell’artista olandese divenuto fonte di ispirazione per creativi di ogni genere soprattutto a partire dagli anni ’50.
Se siete fermamente convinti che la vostra percezione delle cose coincida perfettamente con la realtà, preparatevi allora a precipitare in un abisso di contraddizioni e di incongruenze, in un labirinto di emozioni e di conflitti. La preziosa retrospettiva in corso a Roma permette di immergersi totalmente nel suo mondo fantastico, paradossale, interagire con la psicologia della forma fra sperimentazioni percettive ed illusioni ottiche, cogliere le straordinarie intuizioni di un artista che magicamente sintetizza gli esiti della pittura fiamminga, la fantasia debordante di Bosch, il Surrealismo, l’Art nouveau e l’Optical Art anni ’60. In poche parole vi farà verificare quanto le vostre credenze siano erronee o perlomeno discutibili.
Enigmatiche, originali, perfette, le incisioni di Escher raffigurano paesaggi, prospettive da punti di vista diversi, strani, ambigui, contraddittori, mostrano realtà più complesse e inquietanti. A seconda dell’intensità e dello stile cognitivo di ognuno, evolvono verso importanti esperienze emozionali che da un intenso godimento estetico possono portare a forme più o meno stressanti di conflitto, ansia, curiosità, sempre destinate a non passare mai, comunque, nell’indifferenza.
Mago della percezione visiva e delle configurazioni illusorie, l’artista olandese, cospargendo di indizi la sua opera, chiama l’osservatore a parteciparvi attivamente, quasi costringendolo ad impegnare le sue esigenze di congruenza, simmetria, regolarità. Effetti tunnel ed effetti schermo, completamento visivo, ambiguità, conferme o dis-conferme dei propri schemi mentali: con Escher si è continuamente chiamati ad intuire, andare oltre, produrre parti non concretamente rappresentate, completare con la propria percezione le immagini proposte, immergendosi completamente nel gioco allusivo, allucinatorio delle sue metamorfosi. Chiaroscuri, ombre, colore, tessitura degli oggetti (fu affascinato dai mosaici moreschi dell’Alhambra a Granada e dalle decorazioni della Mesquita di Cordova), interposizioni, varietà di prospettiva, suddivisione dello spazio innescano nell’osservatore processi psichici capaci di generare quella particolare colorazione estetica che Freud definì “perturbante “.
Francesca Graziano
Informazioni:
Sito ufficiale della mostra e prenotazioni: www.mostrepalazzobonaparte.it/mostra-escher.php
T. + 39 06 87 15 111
Andrea Molesini-Non si uccide di martedì-Sellerio Editore- Biblioteca DEA SABINA
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Andrea Molesini-Non si uccide di martedì-
-Sellerio Editore-
Fa piacere segnalarvi il nuovo romanzo dell’apprezzato scrittore veneziano Andrea Molesini. Ambientato tra Venezia e Rodi nel settembre del 1938, un’epoca di crisi che assomiglia un po’ alla nostra, Non si uccide di martedì è una commedia nera e satirica dal gusto anglosassone. Attorno al testamento di una vedova molto ricca si dispiegano torbide relazioni familiari e intrecci criminali, mentre Venezia si affaccia prepotente con la Giudecca e le chiese, il Caffè Florian e l’eterna magia dell’acqua. Autore, tra gli altri libri, di Non tutti i bastardi di Vienna, Molesini è anche fondatore di una casa editrice di poesia raffinata che vi abbiamo presentato QUI.
Indubbiamente Andrea Molesini è bravo, sa bene come si racconta una storia, e sa raccontare storie complesse, interessanti, intriganti, muovere un insieme di personaggi come nel celebrato Non tutti i bastardi sono di Vienna, Premio Campiello 2011, e nel più recente Il rogo della Repubblica. Romanzi che si possono dire storici, dove la creatività sopperisce e allarga la frequentazione di archivi, l’uso di documenti. Il risvolto di copertina di questo Non si uccide di martedì ci avverte che anche qui siamo in presenza di un romanzo storico, forse di minor impegno, visto che il numero di pagine si aggira intorno alle duecento e il sempre medesimo risvolto ci dice che ci troviamo nel 1938, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, proprio mentre a Monaco si discutono i destini futuri dell’Europa, con tragici esiti.
Ma forse questo, prima di essere un romanzo storico è qualcos’altro. Forse è un racconto giallo, termine abbastanza bruttino che si usa in Italia per dire che ci troviamo in presenza di una storia in cui c’è un crimine, una vittima quindi un colpevole e, solitamente, un investigatore che conduce le sue indagini per smascherarlo, che, però, qui non c’è, se non molto marginalmente.
Questa è una storia in cui il delitto e il suo svelamento avvengono tutti, letteralmente fatti in casa, è un home-made crime, come le torte di mele della mamma, fatte appunto in casa. Piccolo inciso: chi non ha scritto, o pensato di scrivere un thriller o un crime o un horror alzi la mano… se ne scrivono tanti, tantissimi, probabilmente troppi nell’illusione, da parte delle case editrici, innanzitutto, di vendere copie, tantissime copie; praticamente ogni angolo d’Italia possiede un investigatore, a differenza dall’America, più raramente privato, in Italia si usa meno, che ha il compito di alzare il velo sul più efferato dei delitti, investigatore a cui solitamente piace mangiare, senza una famiglia regolare, con una buona dose di geniale intuito.
Ecco tutti questi elementi, tipici del noir italiano attuale, li troveremo meno in Non si uccide di martedì, che cerca anche altrove i suoi modelli e i suoi riferimenti. […] Molesini per scrivere questo suo racconto ha sicuramente guardato agli illustri inventori del genere, Agatha Christie su tutti, la sua ambientazione è quella stessa, un gruppo di benestanti, o presunti tali nell’Italia o, meglio, nelle sue colonie alla fine degli anni Trenta. Ma nella miscela originale inserisce una buona dose d’ironia e qualche sottesa preoccupazione moralistica.
In un’intervista sul Piccolo di Trieste, Molesini dichiarava di aver voluto creare una storia satirica ma divertente pensando allo spirito del film di Hitchcock La congiura degli innocenti, o A Murder considered as one of the Fine Arts (L’omicidio come opera d’arte) composto, poco prima della metà del diciannovesimo secolo, da Thomas de Quincey, uno scrittore inglese della prima età vittoriana che fa ricorso ad una dose massiccia di humor nelle sue opere. Un filone umoristico ma anche moralistico che esiste, nella letteratura inglese, anche da prima dell’Ottocento basti a pensare Jonathan Swift e alla sua Modest proposal, caustica e surreale proposta per risolvere la miseria dell’Irlanda. Andrea Molesini compone dunque un racconto zeppo di riferimenti, ma abbastanza raro nella tradizione italiana che, comunque, non si sottrae alla sfida di lanciare qualche interrogativo di peso, del tipo: “Fino a dove siamo disposti a spingerci per il nostro personale guadagno?” o “Quale limite è disposta a fissare la nostra coscienza?”. Ad ognuno spetta l’ardua risposta e il libro ce lo chiede direttamente, senza mezzi termini.
Non solo per questo rapporto fra il piccolo, i fatti dei protagonisti e il grande, i grandi interrogativi morali, la grande storia europea, in Non si uccide, abbiamo l’impressione di trovarci continuamente nelle sabbie mobili, tutto si muove e ogni personaggio, il maritino tonto e la sposina ingenua piuttosto che l’avvocato spiantato, diventano qualcos’altro, piccoli mascalzoni più o meno in gamba, in un gioco metamorfico quasi ovidiano dove ognuno dà il meglio del suo peggio. Alla fine la verità, se verità la possiamo chiamare, che emerge è quella per cui non ci possiamo mica fidare di nessuno, nessuno è quello che sembra, tutti hanno un alias dentro di sé, pronto a prendere il sopravvento, ma questo lo avevano capito piuttosto bene anche il dottor Freud e Robert Louis Stevenson già qualche tempo fa.
Il libro si apre con una tradizionale immagine veneziana: un avvocato, non certo di grido, sfoglia il Corriere della Sera al Caffè Florian di piazza San Marco e si conclude con un perfetto cerchio nuovamente a Venezia, ma la sua azione centrale si svolge nell’isola di Rodi, che dal 1912 al 1945 fu italiana e che per un periodo fu governata dall’ex ministro dell’istruzione De Vecchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, che applicò con efferato rigore le leggi razziali nella isole del Dodecaneso; la tragedia degli ebrei di Rodi è oggi ricordata da un museo, il libro serve anche a richiamare alla nostra memoria questa pagina vergognosa, e di conseguenza altre ancora potrebbero tornarci alla mente per tanti altri aspetti del colonialismo italiano su cui la riflessione andrebbe approfondita. Il dominio italiano nelle isole greche non fu tutto il miele che tanta pubblicistica vuotamente nazionalistica vorrebbe farci credere. Ciò non toglie che, come sopra detto, le caratterizzazioni storiche rimangono sullo sfondo, sono un fondale in cui prendono vita le azioni dei protagonisti della storia.
Una storia breve che si svolge in un tempo ristretto, un mese nemmeno, in cui ognuno dei personaggi ha il tempo per divenire qualcos’altro, come già sottolineato, anche per passare dalla vita alla morte, anche viceversa dalla morte alla vita. Non vorrei sembrare nemmeno troppo criptico, ma la difficoltà nel parlare di un noir, chiamiamolo così per comodità, è anche quella di non rivelare troppo della sua trama, se non che gusto c’è a leggerlo, poi. Così è anche per il racconto di Molesini che riserva diverse sorprese man mano che si procede nella lettura.
Una annotazione merita la scrittura dell’autore veneziano, capace di tenere saldamente in mano lo svolgimento della vicenda, variando registro linguistico all’occorrenza, i bicchieri divengono tumbler se siamo fra persone o in un luogo in cui è necessario, si fa per dire, chiamarli così. Ma le domestiche parlano con le loro padrone in dialetto, deliziosamente. Così si caratterizzano una serie di personaggi, alcuni dei quali, come le domestiche venete, ricorrenti nella narrativa di Molesini che, sinceramente, mi sembrano molto riuscite: sagge, scaltre e più che collaboratrici delle complici delle loro padrone. Ecco come in tutti racconti updated, anche in Non si uccide di martedì, le fila del gioco sono rette dalle donne, padrone e domestiche ereditiere e ricche nobildonne, mentre gli uomini fanno la figura di tonti e maldestri, sempre disposti al facile guadagno e alla scappatella sentimentale, facili da abbindolare facendo leva sulle loro vanità.
Andrea Molesini ha detto di aver scritto Non si uccide di martedì, anche per aver avuto bisogno di divertimento e humor dopo la stesura di una storia cupa come Il rogo della Repubblica, sarà pure vero, ma non per questo quest’ultima sua fatica manca di intelligente gioco intellettuale e anzi, dietro a qualche bocca sorridente ci pone delle questioni intriganti, ci fa pensare insomma, facoltà a cui, visti i tempi in cui la fiducia nel futuro viene a mancare, non sarebbe male ricorrere più spesso.
Roberto Dedenaro
Questa recensione è già apparsa sulla rivista culturale Il Ponte rosso di Trieste, n°96 – ottobre 2023. Come ogni mese, potete scaricare questo nuovo numero e leggere gratuitamente i suoi interessanti contenuti cliccando QUI
LINK INTERNI ALTRITALIANI a firma di Fulvio Senardi:
‘Dove un’ombra sconsolata mi cerca’, un romanzo di Andrea Molesini
‘Il rogo della Repubblica’, di Andrea Molesini. Tra storia e finzione un avvincente romanzo.
IL LIBRO:
Andrea Molesini
Non si uccide di martedì
Sellerio editore, Palermo 2023, pp.198, euro 14,00
Scheda del libro sul sito dell’editore e trailer da visionare su YouTube: Andrea Molesini racconta Non si uccide di martedì.
RIETI- Dall’Archivio di Stato la storia del mobilificio Nicoletti-Rinaldi-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
RIETI- Dall’Archivio di Stato la storia del mobilificio Nicoletti-Rinaldi-
a cura di Alfredo Pasquetti e Daniele Scopigno
«Il mobilificio Nicoletti-Rinaldi e l’armadio della memoria», il nuovo libro dell’Archivio di Stato. La presentazione domenica 8 ottobre 2023.E’ prevista l’apertura straordinaria della mostra sul Terminillo
In occasione della presentazione saranno distribuite delle copie del libro.
RIETI- 3 ottobre 2023- Ferro e legno, vernici e cere, squadre e scalpelli. È la ditta Fratelli Nicoletti, una fabbrica di mobili tra arte e artigianato che ha segnato la storia imprenditoriale della città, divenendo prima il tema di una mostra dell’Archivio di Stato di Rieti, nel 2021, e ora una raccolta di saggi.
Il volume, dal titolo I Nicoletti-Rinaldi di Rieti e l’armadio della memoria. Un archivio e una storia d’impresa, a cura di Alfredo Pasquetti e Daniele Scopigno per le edizioni Il Formichiere, sarà presentato l’8 ottobre alle 16,30 nella sede dell’Istituto archivistico reatino in occasione della Domenica di Carta, l’iniziativa del Ministero della cultura dedicata al patrimonio di archivi e biblioteche. Alla presentazione interverrà Edoardo Currà, presidente dell’Associazione italiana per il patrimonio archeologico industriale.
Il testo è, infatti, il frutto della collaborazione dell’Archivio di Stato di Rieti con l’Aipai e la Alessandro Rinaldi Foundation e fa il punto sul lavoro che l’Istituto reatino svolge ormai da quattro anni sul complesso documentario dell’azienda nata nel 1914 con i fratelli Nicoletti e poi prosperata sotto la guida di Alberto Rinaldi fino al 1989. La ditta si è dedicata per decenni soprattutto alla produzione di mobili in legno e serramenti in ferro, la sensibilità di Rinaldi ha preservato una parte considerevole dell’«archivio del prodotto»: quasi 7mila progetti di squisita qualità grafica che, unitamente ai registri, ai cataloghi, al materiale fotografico e tecnico, sono stati donati all’Istituto reatino del MiC nel 2019 dagli eredi di Alessandro Rinaldi, figlio di Alberto.
Il volume, che fa parte della collana Quaderni di Aipai de Il Formichiere, vede i contributi, oltre che dei curatori, di Renato Covino, Roberto Lorenzetti, Ilaria Camerini, Martina Marconi e Antonella Mulè, mettendo a fuoco la storia del fondo, le vicende dei suoi soggetti produttori, il tema delle committenze (spesso di altissimo livello) e le questioni conservative, oltre a situare le carte e l’avvincente epopea aziendale che raccontano nel più ampio panorama nazionale degli archivi d’impresa e nel contesto socio-economico che ha visto compiersi la parabola dell’opificio.
Un’appendice è, inoltre, dedicata al Terminillo attraverso la raccolta fotografica di Alberto Rinaldi, già presidente del Cai di Rieti come il fratello Domenico. Un aspetto che si lega alla mostra in corso, L’invenzione del Terminillo. Rieti e la «montagna di Roma», allestimento che in occasione della presentazione sarà visitabile con un’apertura straordinaria con orario di ingresso 16,30-18,30.
Nel corso dell’incontro sarà, infine, presentata la “mostra virtuale” dedicata alle carte Nicoletti, consultabile da domenica 8 ottobre sulla piattaforma digitale Movio (Mostre virtuali online) messa a disposizione dall’Istituto centrale per il catalogo unico del Ministero della cultura.
In occasione della presentazione saranno distribuite delle copie del libro.
Maurizio Leggeri fotoreportage-Roma- La via Appia antica- Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINAMaurizio Leggeri fotoreportage-Roma- La via Appia antica-
La via Appia antica vista da due illustri viaggiatori del 1700.
Montesquieu:“ Avvicinandoci a Roma s’incontrano tratti della Via Appia, ancora integri. Si vede un bordo o margo che resiste ancora, e credo che abbia più di tutto contribuito a conservare questa strada per duemila anni: ha sostenuto le lastre dai due lati ed ha impedito che cedessero lì, come fanno le nostre lastre in Francia, che non hanno alcun sostegno ai bordi. Si aggiunga che queste lastre sono grandissime, molto lunghe, molto larghe, e molto bene incastrate le une nelle altre; inoltre questo lastricato, poggia su un altro lastricato, che serve da base. Le strade dell’imperatore sono fatte di ghiaia messa su una base lastricata, ben stretta e compressa. Dopo, vi hanno messo un piede o due di ghiaia. Questo renderà la strada eterna. C’è da stupirsi che in Francia non si sia pensato a costruire strade più resistenti? Gli imprenditori sono felici di avere un affare del genere ogni cinque anni”.
Montesquieu, Viaggio in Italia, 1728-1729.
Charles de Brosses:“E’ questo, o mai più, il momento di parlarvi della Via Appia, cioè il più grande,il più bello e il più degno monumento che ci resti dell’antichità; poiché, oltre alla stupefacente grandezza dell’opera, essa non aveva altro scopo che la pubblica utilità, credo che non si debba esitare a collocarla al di sopra di tutto quanto hanno mai fatto i Romani o altre nazioni antiche, fatta eccezione per alcune opere intraprese in Egitto, in Caldea e soprattutto in Cina per la sistemazione delle acque. La strada, che comincia a Porta Capena, prosegue trecentocinquanta miglia da Roma a Capua e a Brindisi, ed era questa la strada principale per andare in Grecia e in Oriente. Per costruirla hanno scavato un fossato largo quando la strada fino a trovare uno strato solido di terra……Codesto fossato o fondamento è stato riempito da una massicciata di pietrame e di calce viva, che costituisce la base della strada, la quale è stata poi ricoperta interamente di pietre da taglio che hanno una rotaia. E tanto ben connesse che, nei posti dove non hanno ancora incominciato a romperle dai bordi, sarebbe molto difficile sradicare una pietra al centro della strada con strumenti di ferro. Da ambedue i lati correva un marciapiede di pietra. Sono ben quindici o sedici secoli che non soltanto non riparano questa strada, ma anzi la distruggono quanto possono. I miserabili contadini dei villaggi circostanti l’hanno squamata come una carpa, e ne hanno strappato in moltissimi luoghi le grandi pietre di taglio, tanto dei marciapiedi che del selciato. E’ questa la ragione degli amari lamenti che fanno sempre i viaggiatori contro la durezza della povera Via Appia , che non ne ha nessuna colpa; infatti, nei posti che non sono stati sbrecciati, la via è liscia, piana come un tavolato, e persino sdrucciolevole per i cavalli i quali, a forza di battere quelle larghe pietre, le hanno quasi levigate ma senza bucarle. E’ vero che, nei luoghi dove manca il selciato, è assolutamente impossibile che le chiappe possano guadagnarsi il paradiso, a tal punto vanno in collera per essere costrette a sobbalzare sulla massicciata di pietre porose e collocate di taglio, e in tutti i sensi nel modo ineguale. Tuttavia, nonostante vi si passi sopra da tanto tempo, senza riparare né aggiustare nulla, la massicciata non ha smentito le sue origini. Non ha che poche o punte rotaie ma solo, di tanto in tanto, buche piuttosto brutte”.
Charles de Brosses, Viaggio in Italia, 1739-1740.
a.c. Franco Leggeri-Associazione DEA SABINA-Foto di Maurizio Leggeri
Poesia di Federico García Lorca
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poesia di Federico García Lorca
[TRISTE OSSERVAVO I CAMPI SEMINATI]
Triste osservavo i campi seminati.
Era una sera limpida.
Assopito tra le foglie di un librone
Shakespeare mi teneva compagnia…
«Sogno di una notte di mezza estate»
Era il librone.
Riposando
Nella terra stavano gli aratri.
Ed era tristezza umana,
La tristezza di quei marchingegni
Assopiti accanto all’acqua.
Come son belle le nubi dell’autunno!
In lontananza latrano i cani.
E fra gli uliveti lontani appaiono
Le mani della notte.
La mia distanza
Interiore diviene oscura.
Di ragnatele è coperto il mio cuore…
Quel demone di Shakespeare!
Che veleno m’ha versato in cuore!
Temibile casualità è l’amore!
Ci assopiamo e una fata
Fa sì che al risveglio adoriamo
Il primo che passa.
Che immensa tragedia! E Dio, a cosa pensa?
Gli si son rotte le ali?
O forse inventa un altro strano congegno?
In cui infondere un’anima?
Non sarà Dio un artista un po’ tocco?
Dammi, Sant’Agostino, le tue pallide mani
E i tuoi occhi d’ombra
E la tua fiamma!…
Questi tranquilli fiori del fossato
Sono come le mie parole
Frutti per i denti del vento
E poi per il nulla?
E quel leccio che ha quasi bocca
E braccia e sguardo,
Lascerà l’edera del suo spirito
Per sprofondare senz’anima?
E poi il cuore, a che ci serve?
Per lasciarlo in un lungo sentiero
Appeso ad un altro petto
O per sotterrarlo nella neve bianca
Quando sentiamo sulla nostra fronte
Il freddo della canizie?
…………………………………
…………………………………
Com’è lontano il monte!
Amico William!
Mi stai ascoltando? Sì?
(I rami
Secchi degli alberi
Sospirano in silenzio sull’acqua).
***
Quanta ombra! Mio Dio!
Ora mi ricordo di te… Ora la speranza
Come un fiore versa il suo polline d’oro
Sulla mia fronte malata.
Grazie, Signore!
Due ombre silenziose
Passano lungo il sentiero.
Una è il genietto di Descartes.
L’altra ombra è la Morte…
Sento i loro sguardi
Come baci di piombo sulla mia pelle.
Si sono zittite le rane!
Già s’allontanano! Ahi, quale sentiero
Porterà alla mia casa?
Questo? Quello? Oppure quel viottolo?
Che confusione!…
Le rane
Iniziano in sordina i loro canti
Senza armonia alcuna!
E là dove s’incrociano i sentieri
Già vedo sulla montagna
Una caricatura della sfinge
Che ride a crepapelle!
***
Poi, nella solitudine della mia stanza
E al calore della lampada, pensai:
Tutti viviamo nell’oscuro bosco
Che Shakespeare s’immaginò.
C’è chi si semina gigli in petto
E gli nascono ortiche.
C’è chi canta
Credendosi allodola del mattino,
E il suo flauto resta muto.
Ma, Signore, è il cuore cosa
Così fragile e così falsa?
Penso sereno alla mia tristezza.
È ormai giunta l’alba
E vedo su ogni seggiola della mia stanza
Seduto un gran fantasma.
23 ottobre 1917
Da: Federico García Lorca, Maria Maddalena e altri inediti, a cura di P. Menarini, Nuova Compagnia Editrice 1995.
Nel 1995 la Nuova Compagnia Editrice pubblicò nella “biblioteca di clanDestino” sei poesie inedite di Federico García Lorca. Edite per la prima volta in Spagna nel 1988 in una tiratura di soli 250 esemplari, venivano allora tradotte in lingua italiana da Piero Menarini, docente di Lingua e Letteratura spagnola all’Università di Parma e uno dei massimi esperti del poeta spagnolo. Oggi vogliamo proporre ai nostri lettori il secondo di questi inediti, [Yo estaba triste frente a los sembrados].
Federico García Lorca (Fuente Vaqueros, 1898 – Víznar, Granada, 1936), poeta e drammaturgo, è stato una delle voci più originali del Novecento spagnolo. Morì durante i primi giorni della guerra civile, fucilato dai franchisti. I versi che seguono sono il prodotto del periodo più precoce della produzione lorchiana: in essi riscopriamo un Lorca religioso e shakespearino, in cui il sentire e il sapere, l’emozione affettiva e lo stimolo culturale, si susseguono e si alternano con tipico fare giovanile.
RAFFAELE LA CAPRIA nasce 3 OTTOBRE 1922 -Biblioteca DEA SABINA
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RAFFAELE LA CAPRIA nasce 3 OTTOBRE 1922
Da Lettera 43
“La parte biografica e indispensabile, e richiesta. Benissimo, allora diciamo: nato a Napoli nel 1922. E poi? Poi niente.
Quando mai a uno scrittore italiano capitano nella vita cose ed eventi memorabili, da raccontare?
lo non sono stato cercatore d’oro in Alaska come London, non ho dato la caccia alle balene come Melville, non ho attraversato un tifone con un veliero come Conrad, non ho venduto armi a un ras abissino come Rimbaud, non ho percorso a piedi la Patagonia o l’Australia come Chatwin. E allora? Cosa diciamo? Diciamo che gli scrittori italiani sono quasi tutti sedentari e casalinghi, e lo restano anche se viaggiano occasionalmente qua e la. E così sono stato io”.
Così, qualche libro fa, si raccontava Raffaele La Capria, tra i maestri italiani della letteratura italiana dell’ultimo secolo, Premio Strega nel 1961 per il suo celebre ”Ferito a morte”, saggista, poeta, sceneggiatore e presidente della giuria del Premio Malaparte (di cui è protagonista sin dalla fondazione nel 1983), che oggi compie 96 anni.
Non un pioniere in cerca d’oro, come diceva, ma il figlio di quella Napoli, in cui nacque il 3 ottobre 1922 e in cui sarebbe cresciuto tra compagni di scuola come Peppino Patroni Griffi, Francesco Rosi, Antonio Ghirelli e il futuro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Amici, ha spesso ammesso, ”senza i quali non sarei diventato quello che sono”.
Da sempre,, infatti, per La Capria vita e sentimenti personali hanno alimentato pagine e scritti, sin da quel ”Un giorno d’impazienza” del 1952 che con ”Ferito a morte” e ”Amore e Psiche” avrebbe poi formato la trilogia dei ”Tre romanzi di una giornata”.
La sua Napoli, Roma che è diventata la sua casa, Capri con la sua bellezza malinconica e struggente, sono le sue muse (”La neve del Vesuvio”; ”Capri e non più Capri”; ”L’occhio di Napoli”; ”Napolitan graffiti: come eravamo”, ”Un amore al tempo della Dolce Vita”; ”Quando la mattina scendevo in piazzetta”).
Ma ecco poi anche l’autobiografico ”L’amorosa inchiesta”, con le epistole indirizzate al primo amore, alla figlia e al padre; ”Guappo e altri animali” intitolato al suo amato cane; o ”A cuore aperto”, memoir di convalescenza dopo l’infarto che lo colpì nel 2006, in cui La Capria ricuce lungo il filo della memoria ricordi personali, meditazioni filosofiche ed esperienze letterarie.
Da quasi 60 anni accanto al grande amore della sua vita, la sua seconda moglie Ilaria Occhini, incontrata proprio l’anno dello Strega (”lo scrittore e l’attrice”, titolavano i giornali di gossip nei primi giorni dei loro incontri), La Capria ha vinto anche il Premio Campiello alla carriera nel 2001.
Firma delle pagine culturali del Corriere della Sera, condirettore della rivista letteraria Nuovi Argomenti, autore di radiodrammi è stato anche co-sceneggiatore di molti film di Francesco Rosi, come ”Le mani sulla città” e ”Uomini contro”, collaborando anche con Lina Wertmueller per ”Ferdinando e Carolina”.
E la vita di Dudù La Capria, come lo chiamano affettuosamente gli amici, è ancora protagonista degli ultimi lavori, da ”Novant’anni di impazienza. Un’autobiografia letteraria”, ”regalo” per il proprio compleanno a cifra tonda, fino ”Ai dolci amici addio” nel 2016.
Il suo segreto? Forse in un consiglio regalato al pubblico di una serata omaggio a lui dedicata a Roma qualche mese fa: ”Dobbiamo accostarci con meraviglia alle cose. Come fosse sempre la prima volta”.
Da Lettera 43
Antonia Pozzi: la porta che si chiude -3 dicembre del 1938-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Antonia Pozzi: la porta che si chiude -3 dicembre del 1938.
Quando Antonia Pozzi arrivò, la mattina del 2 dicembre 1938, la neve aveva rivestito di bianco la campagna intorno all’ abbazia di Chiaravalle. Lasciò la bicicletta e si sedette a pochi metri da una roggia, come in Lombardia chiamano i piccoli corsi d’ acqua che traversano i campi. Aveva con sé un barattolo di pasticche. Le ingoiò con una sola sorsata d’ acqua e poi si sdraiò sulla neve, dove la trovarono ancora viva. Morì poche ore dopo.
Lo sguardo di Antonia Pozzi, che si era allargato quasi all’infinito per cogliere l’essenza del mondo e della vita, si spegne per sempre mentre cala la notte con le sue ombre viola. Adagiata su un prato innevato di Chiaravalle, imbottita di farmaci e tristezza, se ne andava Antonia Pozzi. Lo sguardo perso nello sguardo senza pupilla del cielo. Aveva ventisei anni.
La porta che si chiude
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
Antonia Pozzi, considerata oggi una delle voci più belle e intense del novecento italiano, riposa a Pasturo (Valsassina) nel paese dove ancora si respira il respiro della sua anima e dove le hanno dedicato dei cartelli con le sue poesie.
Fonte- Sitting on the dock of the bay²
Fjodor Savintsev fotografo: Le dacie russe di campagna-Biblioteca DEA SABINA
Biblioteca DEA SABINA
Fjodor Savintsev fotografo: Come in un romanzo, viaggio nelle autentiche dacie russe di campagna.
Il fotografo Fjodor Savintsev ci apre le porte delle casette in legno del villaggio di Kratovo, vicino Mosca, per raccontare e immortalare un patrimonio architettonico fragile e bellissimo. I suoi scatti serviranno a promuovere una fondazione per la tutela delle antiche dacie private che caratterizzano la campagna russa. Sembrano uscite da un film di Nikita Mikhalkov. O da un racconto di Anton Chekhov. Sono le dacie russe di campagna. Casette in legno, solitarie e circondate dal bosco, immerse in un silenzio che sembra irreale. Le dacie russe sono ora al centro di un interessante progetto realizzato dal fotografo Fjodor Savintsev, conosciuto per aver pubblicato i propri scatti su importanti riviste internazionali.
La pandemia come forma di ispirazione
Il progetto è nato durante i difficili momenti della pandemia; quando la gente era costretta a stare chiusa in casa, o a cercare rifugio nelle proprie dacie di campagna, lontano dalle folle delle città. “Il progetto ‘Le dacie di Kratovo’ prende il nome da un villaggio di periferia vicino a Mosca – racconta il fotografo -. Tutto è iniziato quando sono tornato a casa dei miei genitori per aiutarli nel momenti difficili della pandemia. E così ho iniziato a raccogliere immagini documentarie delle vecchie dacie della periferia di Mosca”.
Un viaggio affascinante nel passato. Un passato inciso nelle assi di legno, nelle cornici intagliate delle finestre, nei tetti spioventi che disegnano geometrie fantasiose, spesso frutto del gusto personale degli abitanti che le hanno costruite. Queste casette, infatti, il più delle volte sono state realizzate dalla gente comune, che in passato non si affidava ad architetti e costruttori. Il risultato è un “patchwork” unico di forme e colori.
“Mi sono visto come un archivista che raccoglie informazioni e documenti – spiega Fjodor Savintsev -. In teoria, questo lavoro dovrebbe essere fatto da professionisti dell’architettura. Ma ho creato una tendenza affascinante che si è diffusa in diverse città. E noto un interesse crescente nello studio delle dacie a livello storico”.
L’evoluzione dei suoi lavori
Nel corso degli anni l’attenzione di Savintsev si è spostata dai soggetti umani agli oggetti immobili. Un passaggio “fluido”, come lo ha definito lui stesso, mosso dal desiderio di raccontare l’architettura come se fosse un ritratto.
“In generale nella mia carriera hanno prevalso i soggetti umani sull’architettura, ma adesso guardo anche le case attraverso la forma del ritratto. Faccio ritratti di case”, dice Savintsev, che ha sviluppato il suo progetto con un metodo di ricerca molto preciso, percorrendo strada per strada, viuzza per viuzza, alla ricerca di casette in legno da fotografare. Spesso si è messo sulle orme dei proprietari, per raccogliere testimonianze e informazioni sulla storia delle case, da poter poi condividere insieme alle immagini.
Trovare i proprietari non è sempre stato facile: Savintsev si è rivolto al suo vasto pubblico di Instagram chiedendo se qualcuno conoscesse la storia di una particolare casa o dei suoi proprietari.
“Instagram è uno strumento mediatico che mi permette non solo di condividere le mie foto con il pubblico, ma anche di costruire legami significativi, dando la possibilità alla gente di contattarmi direttamente. Più di qualche volta infatti sono stato contattato dai proprietari”, spiega.
Per il fotografo documentarista, ottenere l’accesso alle case è di fondamentale importanza; ma spesso la gente si sente in soggezione davanti a obiettivi e macchine fotografiche, perciò Savintsev scatta le sue immagini sempre con lo smartphone.
“Viviamo in un’epoca in cui le persone sono morbosamente a disagio quando vedono attrezzature professionali e credono che violino i loro confini privati. L’iPhone non provoca una tale reazione”, racconta Savintsev.
Al momento Savintsev sta aiutando a restaurare cinque case e ha in programma di creare una fondazione per aiutare il recupero delle dacie private. “L’obiettivo è preservare il patrimonio dell’architettura in legno – spiega -. Lo Stato non stanzia fondi per mantenere gli immobili privati, e spesso case come queste finiscono in rovina. Ma sono molto interessanti dal punto di vista del nostro patrimonio culturale, anche se sono di proprietà privata. Quindi, l’idea della fondazione è di aiutare a preservare l’aspetto autentico e originale di queste dacie, anche se private”.
Castello di ORVINIO(Rieti)- Fotoreportage in B/N del 1935-Biblioteca DEA SABINA
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Castello di ORVINIO(Rieti)- Fotoreportage in B/N del 1935
Orvinio è un comune italiano di 387 abitanti della provincia di Rieti, in Lazio, che si erge su un colle attorno al suo imponente Castello appartenente al Casato dei Marchesi Malvezzi Campeggi.Orvinio fa parte del club dei borghi più belli d’Italia