-Donne africane nella narrativa imperialista. Fascismo e romanzi-
-Editore Aracne -Genzano di Roma-
DESCRIZIONE
Africa, terra d’elezione del piacere; donne africane, “carne da maschi” alla mercé del conquistatore. Il saggio analizza i dispositivi lessicali e metaforici del mito imperiale fascista, espressi in una dozzina di romanzi coloniali scelti con cura, per poi focalizzare l’attenzione sulla rappresentazione letteraria dei corpi femminili colonizzati e sul loro rapporto di sudditanza verso militari e coloni di stanza in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia. Romanzi in cui abbondano i richiami sessuali e che offrono una casistica completa di comportamenti, ripetitivi ma con sfumature diverse. Aprendo a nuove prospettive di studio testuale e stilistico, il saggio è uno spaccato insieme storico e letterario, documento sia della retorica parodistica che della smaniosa velleità imperialista del regime fascista.
ha un suo tratto assegnato anche la tua pena: …………..
Il paesaggio collinare di Urbino,
che innocente appare quercia per quercia
mentre colpevole muore zolla per zolla,
é politicamente uguale
al centro storico di Torino
che crolla palazzo per palazzo
o ai giardini della utopica lvrea
ricca casa per casa;
tutti nella nebbia che sale
del mare aureo del capitale.
L’unità di tutti i democratici.
Ma chi di loro e di noialtri
Può stare sempre unito con gli altri?
Seno diverse le entrate, le uscite e i nastri
di registro, di paga, di cure termali,
di premi, compensi, indennizzi in caso di disastri.
Sono divisi i beni, le aliquote, i mali
Perfino i giorni e il corso degli astri.
Non ‘e vero che siamo tutti uguali,
noi siamo una serie di impiastri
stesi fra i civili e gli animali.
da POESIE 1946-66
L’amor di sé L’alba ancora non lascia
l’ultima onda notturna;
ancora trattiene l’ambascia
di persistere sola, recisa
ogni corda l’aria stessa, la fascia
del proprio lucore indivisa
dalla tela nera che s’accascia
non dietro, ma sotto tra l’intrisa
minuta rena della sua diaccia
incerta orma, alterna, lisa
dalla sua labile irriverente traccia.
La direzione è opposta
al verso del piede che frena
e dello sguardo che accosta
trepido la prima spalla terrena
libera, non tesa una mano opposta
per indicare una scena
seppure piccola, appena opposta
alla nera matassa, alla vulva oscena
della notte, incinta, non deposta…
Ma spinta di fronte alla vista di sé
pallida stenderà la colpa
lucente alta sopra la testa
e si scioglierà in vapore dentro
l’imprendibile sabbia.
Niente l’assorbe né la desta
e solo l’onda notturna
più larga sotto la chiglia
della luna dentro la nuova urna
le toccherà un gomito e le ciglia
ancora lucide del rimpianto:
perla della conchiglia
dell’amore di sé.
D’autunno è con noi D’autunno è con noi
ogni foglia e ghianda
ed è raggiunto il cielo.
Fra le avellane svolazza
la palomba ferita,
freme il sottobosco
agli scoppi
dei ricci di castagna.
Dolcissima è l’ultima uva
celata fra i pampini rossi,
sul fianco dei monti sale
il fumo delle carbonaie.
A sera
io provo il caldo smemorato
delle castagne,
del torbido vino,
il più nudo corpo
della mia donna.
Tu sei l’uomo Tu sei l’uomo
che nelle fiere
appresti il tiroasegno
con il gallo di ferro
che colpito scoppia
sulla polvere da sparo
nel selciato.
Che scavi il pozzo,
che porti a maggio
la croce di canna
nel campo di grano.
Tu freni il puledro,
conduci la volpe prigioniera
a tutte le case;
tu fischi ai bovi
nell’abbeverata
che hanno le rane nell’orme.
Tu sei l’uomo
che porti alle ragazze
il geranio e lo sposo.
Tu arroti i coltelli e le falci.
Tu insegni il fischio ai merli
ed hai l’erba che sana
il morso della vipera.
Domani è già marzo Domani è già marzo e la strada
scopre tra i frutteti il petto della contrada.
A marzo il contadino
riordina gli attrezzi e libera i confini.
A marzo i contadini
scendono verso i paesi;
si fermano nelle piazze mercatali
davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami
che odorano sotto i portali di pietra fiorita,
davanti ai negozi di ferramenta,
davanti a tutti gli spacci
con un sentore d’acqua muffita.
I vecchi si fermano alle porte;
i giovani salgono le vie cittadine.
Ormai li mischia aprile,
mese senza paura,
e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,
i mietitori, i braccianti, i legnaioli,
i muratori di campagna, gli innestatori,
gli scavatori di pozzi e di vigna,
i cercatori d’acqua e i cacciatori.
Il giorno nella città non ha paura,
stretto tra le mura è sempre luminoso,
e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;
preso alla mattina presto nei mercati,
nella profonda luce che rispecchiano
le facciate nobiliari o i porticati;
guidato per le vie al suono del selciati
sino ai vertici gentili dei rioni;
alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese
su tutte le piazze, una sopra l’altra,
di mattone o di pietra,
non è vinto dalla foglia incerta,
non morto nella morte degli insetti;
non arato, seminato, sarchiato,
faticato ora per ora,
dalla mattina alla sera.
Il giorno gira nella città il suo dolce sole,
muove il ventaglio alto delle nubi,
e chiama dal mare l’amorosa luce serale
che si stende su tutte le terrazze,
sui giardini pensili, sull’arcate
dalle quali soffia l’Appennino.
Si congiunge alla notte per le strade,
quando vicino s’odono risate di ragazze
verso i torrioni e voci da tutti i portoni.
Porgimi, amore Porgimi, amore
il tuo ramo fiorito
la mente mattutina
nel cui cespo chiaro
ai venti incerti di ottobre
ripara l’allodola ferita,
l’azzurro ginepro degli altipiani
prossimi alla marina.
O la tua pietra
in bilico sul fiume,
la perduta foglia di salice
sull’acqua,
l’alga tenebrosa
dove un invisibile pesce respira.
Amore, amore,
porgimi del tuo albero
il frutto più alto
così la tua uva nascosta
e il piccolo orto
dal pettirosso fedele;
il tuo cavallino
dalla coda leggera,
la vipera che ti beve
il latte nel seno,
l’amoroso gallo
che ti sveglia
e la civetta compagna
alle tue notti di luna.
Porgimi, amore,
il tuo mutabile tempo
giovanile,
l’immobile sole
e il quarto di luna
della tua esatta stagione.
Mia quaglia Della chiarissima quaglia
che nasce sulla spiaggia
agli approdi dei templi,
nell’ora che la luna di marea
rotola sabbia
e pesci luminosi,
tu hai lo smarrimento
e l’attonito canto.
Conosci il canneto
dove l’insetto sorpreso
annega nelle gocce,
il campo spiumato
alle piogge meridiane del grano.
Sul tuo collo
è giugno
stagioni delle falci
dal tenero filo,
luglio sulle spalle
con steli d’avena,
agosto sulla schiena
dorme come un cacciatore.
La vergine I sassi bianchi
sono le tue spalle
gli alberi la tua statura;
è la tua gola che batte
se una rosa si muove
non vista nel giardino.
Dì pure al vento
di perdere il tuo canto
nella voce dei fossi,
al rosmarino
di chiudere i sentieri.
L’innocente starna
si leva alta sul bosco
e m’indica il tuo cammino.
Breve biografia di Paolo Volponi-(Urbino, 6 febbraio 1924 – Ancona, 23 agosto 1994). Scrittore, poeta e narratore. Nelle sue opere si affermare l’esigenza di una razionalità capace di affermare le più integrali possibilità dell’uomo e di mirare ad una libera espansione delle sue facoltà corporee e mentali, a uso positivo del lavoro, della scienza e della tecnica. Nel 1975 divenne presidente della Fondazione Agnelli, ma fu costretto a lasciare tale incarico per la sua adesione al partito revisionista , sgradita ai vertici della Fiat. Nel 1991 si oppose alla dissoluzione del PCI e aderì a Rifondazione Comunista, che a suo avviso “manteneva viva la speranza di un mondo più giusto e più razionale. Nel suo ultimo romanzo “Le mosche del capitale”, narra la vita di un manager la cui genialità viene schiacciata in azienda dalle cieche logiche di potere e di guadagno. Tra le opere poetiche ricordiamo: Memoriale; Poesie e poemetti; Con testo afronte; Le mosche del capitale; Nel silenzio campale.
Chantal Delsol -La fine della cristianità e il ritorno del paganismo-
Edizioni Cantagalli-Siena
Descrizione
Il futuro dell’Occidente è pagano. Siamo in un declino da spossatezza, barbarie e cancel culture. Sedici secoli di cristianesimo stanno per finire e oggi siamo testimoni di un’inversione normativa e filosofica che inaugura una nuova era; un’era che non sarà atea o nichilista, come molti credono, ma pagana. La cristianità ha esaurito il suo tempo lasciando spazio a nuove religioni, ad un politeismo che venera gli alberi, la terra, le balene. La transizione è brutale, difficile da accettare per i difensori di un’epoca in via di estinzione.
Dovremmo rimpiangere i tempi passati quando il divorzio era proibito come così l’istruzione superiore delle ragazze? Dobbiamo vivere nella speranza che la cristianità risorga dalle sue ceneri affermando la sua forza morale? Chi vive in questa malinconica nostalgia è già stato cancellato da un mondo che, nel bene o nel male, ormai è cambiato radicalmente.
Il grande Pan è tornato. Il cristianesimo deve inventarsi un altro modo per sopravvivere. Quello del semplice testimone. Dell’agente segreto di Dio.
Breve Biografia di Chantal Delsol
Chantal Delsol (Parigi 1947) filosofa, scrittrice, docente di filosofia politica, autorevole protagonista del mondo intellettuale francese. Editorialista di «Le Figaro», è membro della Académie des Sciences morales et politiques dell’Institut de France. Autrice di importanti opere tradotte in diverse lingue, tra le quali ricordiamo: Le Souci con-temporain (1996, 2004), premio Mousquetaire; L’Étatsubsidiaire (1992), premio della Académie des Sciences morales et politiques, trad. it. Lo Stato e la sussidiarietà; Histoire desidéespolitiques de l’Europe centrale, con Michel Maslowski (1998), premio della Académie des Sciences mo-rales et politiques; Éloge de la singularité, essai sur la modernité tardive (2000), premio Raymond-de-Boyer-de-Sainte-Suzanne dell’Accademia francese, trad. it. Elogio della singolarità. Saggio sulla modernità tardiva.
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
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Edizioni Cantagalli srl
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Non abbiamo ancora preso piena coscienza della pro- fonda trasformazione che si sta producendo nel nostro tempo: la fine di una civiltà vecchia di sedici secoli. Dopo molte esitazioni, uso questa agghiacciante parola: “ago- nia”. Infatti la morte della cristianità1 non è affatto una morte improvvisa. D’altronde, salvo poche eccezioni, le civiltà non conoscono una morte improvvisa: si estin- guono a poco a poco, in numerosi sussulti. La cristianità combatte da due secoli per non morire, e in questo con- siste quella commovente ed eroica agonia. È così antica che ha creduto all’inizio di poter beneficiare di una sorta di immortalità: non era forse segnata dal sigillo della tra- scendenza? E poi si è creduta, come certi anziani, troppo vecchia per morire. La Chiesa è eterna per i cattolici: ci sarà sempre un gruppo di fedeli, sia pure sparuto, a costitu- irla. Ma la cristianità è qualcosa di completamente diverso. Si tratta della civiltà ispirata, ordinata, guidata dalla Chie- sa. Sotto questo aspetto possiamo dire che la cristianità è durata sedici secoli, dalla battaglia del fiume Frigido, nel 394, fino alla seconda metà del XX secolo, con il successo dei sostenitori dell’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Le cosiddette riforme sociali sono essenziali per ca-
1 In francese il termine Chrétienté ha l’iniziale maiuscola, che va usata per distinguere le civiltà (Islam come civiltà e islam come religio- ne, per esempio). In italiano abbiamo optato per l’iniziale minuscola, dato che tale distinzione abitualmente non è così categorica (ndc).
pire l’inizio e la fine. Infatti questa è davvero una civiltà, in altre parole: un certo modo di vivere, una visione dei confini tra il bene e il male.
L’incredibile energia con cui la cultura cristiana lotta da due secoli per non morire dimostra chiaramente che ha davvero formato un mondo, un mondo coerente in tutti gli ambiti della vita, chiamato cristianità. Non sono d’accordo con Emmanuel Mounier quando dice che non c’è stata alcuna civiltà cristiana: «La cristianità è una “spa- ventosa illusione” […]. Il cristianesimo è un’alternativa nel fondo del cuore […], non un consolidamento che si sta- bilisce con il tempo e con il numero»2. Mounier descrive qui il suo desiderio, non certo la realtà. Il cristianesimo ha costruito una civiltà, che è vissuta secondo le sue leggi e i suoi dogmi, tra mille difficoltà, per sedici secoli.
L’eredità controrivoluzionaria
La stagione dei Lumi, che inizia forse molto presto (con Montaigne? con Vico?) e culmina nella grande Rivoluzio- ne, mette in discussione la cristianità, attacca la civiltà cri- stiana, cioè dei modi di essere, una morale, delle convin- zioni profonde.
La Rivoluzione francese non si è potuta compiere se non in opposizione al cristianesimo, che era fin dall’origi- ne e fino a poco tempo fa, ce ne dimentichiamo troppo, il principale nemico della modernità3.
2 e. mounier, Cristianità nella storia, Ecumenica Editrice, Bari 1979, pp. 227-228 (or. fr. Feu la Chrétienté [1950], Desclée de Brouwer, Paris 2013, p. 51).
3 Con l’eccezione, ovviamente, dei protestanti. Il termine cristia- nesimo qui include essenzialmente cattolici e ortodossi.
Gli storici hanno mostrato chiaramente quanto la Ri- voluzione francese del 1789, che è la quarta del suo genere in Occidente, sia stata particolare rispetto alle precedenti. Le rivoluzioni olandese, inglese e americana, per rove- sciare il vecchio ordine sociale, si sono appoggiate su una base religiosa come Archimede sulla sua leva. In questi tre paesi regnava la religione riformata, che opponeva pochi ostacoli alle nuove idee. La Rivoluzione francese invece poggiava sul nulla, perché la religione cattolica dominan- te ne rifiutava tutti i princìpi, a cominciare dalla libertà e dall’uguaglianza. La conseguenza fu che le prime tre rivo- luzioni non degenerarono in utopie vendicative e ridicole, ma instaurarono regimi stabili e crearono società in cui la politica e la religione potevano appoggiarsi l’una sull’altra. La Rivoluzione francese sfociò invece in una guerra perpe- tua tra la Chiesa e lo Stato, con tutte le sue conseguenze: quando si priva completamente della vita spirituale, la po- litica cade inevitabilmente in eccessi sinistri. Quanto alla Chiesa, ridotta allo stato di nemico pubblico e perenne- mente in rivolta contro le leggi e i costumi, andava lenta- mente indebolendosi.
Le prime rivoluzioni moderne fondate sulla libertà fu- rono delle conquiste protestanti. Per questo le democrazie anglosassoni di oggi non hanno rifiutato i riferimenti re- ligiosi all’interno perfino della politica: non si disdegna la propria culla. D’altra parte, come scrive Pascal Ory:
«La Rivoluzione francese, al contrario delle altre tre, non si è potuta appoggiare a una religione che, questa volta, era cattolica, apostolica e romana. I valori che sosteneva si contrapponevano frontal- mente a quelli del Magistero romano, facendo del-
la Chiesa cattolica per più di un secolo il principale organismo antiliberale del mondo occidentale»4.
A partire dall’inizio del XIX secolo, infatti, la Chiesa cat- tolica si erge come baluardo contro la modernità. E poiché la libertà moderna si fa strada come un destino ineluttabile e non può crollare, dal momento che sono i suoi avversari a rendersi ridicoli, la Chiesa nel giro di un secolo e mezzo perderà a poco a poco il suo potere, il suo credito e la sua influenza: «I secoli moderni sono una crociata contro il cri- stianesimo», diceva José Ortega y Gasset5. È la caduta della cristianità come civiltà cristiana.
La cristianità come civiltà è il frutto del cattolicesimo, religione olistica, che sostiene una società organica, rifiuta l’individualismo e la libertà individuale. Era naturale che si scontrasse con la modernità e, una volta arrivata quest’ul- tima al proprio apice, il suo destino era quello di scompa- rire. Quando in occasione del Concilio Vaticano II, negli anni ’60 del XX secolo, la Chiesa riconobbe finalmente la libertà religiosa, «rivoluzione copernicana» (J. Isensee) preparata dall’enciclica Pacem in terris di Giovanni XXIII, nel 1963, ciò avvenne nel corso di accesi dibattiti interni6. E infatti si trattava addirittura di proclamare esattamente il contrario di quanto aveva decretato Pio IX nel Sillabo,
4 ory, Qu’est-ce qu’une nation?, Gallimard, Paris 2020, p. 161.
5 J. ortega y gasset, Il tema del nostro tempo. La vita come dialogo
tra l’io e la circostanza, SugarCo, Milano 1985, p. 116 (or. spagn. El tema de nuestro tiempo. El ocaso de las revoluciones. El sentido histórico de la teo- ría de Einstein, Calpe, Madrid 1923).
6 J.-m. mayeur (dir.), Storia del cristianesimo. Religione-Politica-Cul- tura, vol. 13, Crisi e rinnovamento dal 1958 ai giorni nostri, Borla-Città Nuova, Roma 2002, pp. 79 e 107 (or. fr. Histoire du christianisme, t. XIII, Crises et renouveau, de 1958 à nos jours, Desclée, Paris 2000, pp. 69 e 109).
un secolo prima… Che cosa significa questo capovolgi- mento, e qual è il suo scopo? Si può capire che la Chiesa non voglia, di fronte agli assalti della modernità, rimanere una fortezza assediata. Tuttavia essa è la sentinella di una verità più che di una reputazione. È molto difficile com- prendere questo evidente cambiamento di rotta, che rati- fica la fine dell’olismo cattolico e un timido ingresso nella società moderna dell’individualismo – poiché significa che «l’uomo deve essere considerato non come l’“oggetto” della vita sociale o come uno dei suoi elementi passivi, ma come il suo “soggetto”, il suo fondamento e il suo fine»7. Tuttavia, anche se la Chiesa avesse voluto, così facendo, riconciliarsi con i tempi, sarebbe stato troppo tardi. La tar- da modernità, che inizia dopo la seconda guerra mondiale, considera la Chiesa come un’istituzione decisamente ob- soleta, perché poggia su una verità e fa uso dell’autorità per sostenerla. Durante la seconda metà del XX secolo e l’inizio del XXI, le divergenze si accumuleranno. Il liberali- smo/libertarismo imperante rappresenta l’esatto opposto del modo di pensare ecclesiale.
Oggi, la stragrande maggioranza del clero e dei fedeli è legata ai moderni princìpi di libertà di coscienza e di re- ligione – tranne qualche piccolo gruppo che peraltro non oserebbe difendere apertamente le proposizioni del Silla- bo. E più ancora: la maggior parte del clero e dei fedeli nutre rammarico e rimpianto ricordando la radicalità del Sillabo.
A partire dall’inizio del XIX secolo incomincia la lun- ga campagna di difesa cristiana. Antoine Compagnon ha mostrato fino a che punto, nei due secoli che ci hanno pre-
ceduto, abbia sovrabbondato la letteratura antimoderna8. All’interno di questa letteratura, subito dopo la Rivoluzione emerge, e sempre più chiaramente, l’ossessione della fine della cristianità.
Il mio intento non è quello di fare la cronistoria di que- sta presa di coscienza con i suoi drammatici sussulti, ma semplicemente di mostrare, brevemente e a mo’ di in- troduzione, come il pensiero cristiano abbia progressiva- mente rinunciato alla cristianità. Non si può definirlo un tradimento, anche se si tratta di una serie di concessioni, ognuna delle quali vorrebbe essere l’ultima mentre già lascia la porta aperta a quella successiva. Il tradimento in effetti presuppone un’alternativa, ma in questo caso non si vede altra scelta possibile – le soluzioni estreme per salva- re la cristianità sono state tentate nel XX secolo e si sono rivelate peggiori del male. Non si può chiamarlo una ri- nuncia, che presuppone un’indifferenza, una fatica, quan- do si guarda all’estrema combattività, alla fede ardente che anima tutta una genealogia di scrittori cristiani, da Juan Donoso Cortés fino a William Cavanaugh, passando per Jacques Maritain e tanti altri. Questa storia di due secoli segna piuttosto una graduale assuefazione a una situazio- ne inizialmente ritenuta inaccettabile, una lunga catena di compromessi di varia portata e, alla fine, una situazione in cui non resta nulla. È la storia di una sconfitta dove tutto è stato aspramente conteso, ma dove nulla è stato salvato, e come si vedrà, nemmeno l’essenziale: la storia concreta di un’agonia, o se si vuole, di una lotta all’ultimo sangue, persa in anticipo.
8 A. ComPagnon, Gli antimoderni, Neri Pozza, Vicenza 2017 (or. fr. Les antimodernes, Gallimard, Paris 2005).
La fine della cristianità e il ritorno del paganismo è Disponibile in libreria dall’ 11 novembre 2022.
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Indirizzo: Str. Massetana Romana 12
53100, Siena (SI)
Ma ci muovevamo in modi diversi
intorno al fuoco chiaro.
Facevamo dei versi, ballavamo,
barcollavamo appoggiandoci sugli altri.
Fu la nostra magia,
fu il sole stesso, una generosità
senza fine, una fine serena.
Fu, cazzo, la mimesi del nirvana.
Di quanto eravamo capaci.
Non di tanto, sembra, allora,
la sorte non ci credette:
la luce sparì
come dalle mani dei nostri antenati.
Bene, chiamiamo quel che successe: arte.
(Gattomerlino ed., 2011, trad. it: Maarja Kangro)
Maarja Kangro (Tallinn, 1973) da La farfalla dell’irreversibilità
LA FARFALLA DELL’IRREVERSIBILITÀ
“ancora” è una grande parola
lentamente e velocemente
ancora
ancora una volta gli uomini alla radio
si complimentano di essere sulla strada giusta
e discutono della ciclicità del tempo
la strada giusta gira intorno, anch’io
riconosco le pelli giovani sulla spiaggia
e l’altoparlante canta et si tu n’existais pas
gli uomini alla radio parlano di come tutto è
legato con tutto, uno dice con voce sonora: “l’effetto farfalla”
io dispiego le ali
il tempo ciclico favorisce il buon sonno
un sonno da cui crediamo di risvegliarci
e ancora
sbatto le ali
i brav’uomini alla radio iniziano a tossire
le sbatto più forte e si alza il vento
gli uomini tossiscono ansimando, l’etere si ribella
le navi e i bagnanti annegano, l’ultimo sogno
sarà grigio e tempestoso
pensiamo alla parola che non c’era prima
c’è stata ora
e adesso non c’è più
IL DONATORE
In una piccola libreria
di un centro commerciale
cercando un regalo
è tornato il vecchio vizio
di strappare con i denti le cuticole intorno alle unghie.
Ho preso l’antologia della poesia ungherese,
mentre il sangue cominciava ad uscirmi dal pollice destro.
Non aspettavo una tal pioggia,
ma sulla foto di Sandor Weöres
ho lasciato una grossa macchia rossa.
Spaventato/a, ho rimesso a posto il libro,
Ho preso l’antologia della poesia ungherese,
mentre il sangue cominciava ad uscirmi dal pollice destro.
Non aspettavo una tal pioggia,
ma sulla foto di Sandor Weöres
ho lasciato una grossa macchia rossa.
Spaventato/a, ho rimesso a posto il libro,
ne ho preso un altro Il grido invernale del falco
di Mikhail Lotman. Sul testo di Brodsky
ho lasciato una pozzanghera di gratitudine.
Avevo già a casa alcuni libri:
Bourdieu e Geertz,
Huizinga e Sartre.
Ma volevo lasciare a tutti un souvenir.
Nero, bianco e rosso. Rosso, bianco e nero.
Come una bandiera di qualche stato dell’Asia.
Poi ho pensato: perché non marcare anche i romanzi rosa?
Avevo tanto sangue e non sono avara.
Facce ispirate e sanguigne.
Ad un certo punto la commessa ha iniziato a tossire.
Mi sono ricordata/o del regalo
e sono uscita/o,
non chiedendo compenso per il sangue.
Poco sangue versato per la cultura.
Magari però ne avrei versato di più,
se me l’avessero chiesto.
IL VECCHIO AMANTE
Quando sotto i pantaloni neri
si vede una gamba bianca e pelosa,
la guardo, naturalmente.
Guardo la pancia sotto la giacca
che non è cresciuta molto.
Guardo le mani: tra le persone sul palcoscenico,
le sue sono le più sottili.
Gli occhi.
Non li dovrei guardare, ormai è tardi.
Inizia a parlare,
divento tesa,
e quando si frantuma una frase,
faccio scricchiolare la sedia.
Sono un genitore al concerto di scuola.
Poi ci offrono torte e uva.
Entro nell’altra sala, si sa,
solo per prendere da bere.
Guarda caso. Salve.
Esamino i suoi occhi, il collo
e l’inguine: caldi, un metro da me.
Mi chiedo se i colonizzatori
di una volta pensano cosi.
Una volta questa terra era nostra.
Come toccarla adesso?
Voi, come ce la fate adesso –
non troppo bene, vero?
Avete fame ed epidemie,
guerre e dittatori
che noi dobbiamo trattenere.
Sappiamo: baracche e auto al fuoco,
bambini con pance gonfie dalla fame.
I suoi denti non sono putrefatti,
le guance non appassite,
gli occhi non rossi.
Giudicando dall’alito,
non si è messo a bere.
La colonizzatrice lo esamina disturbata.
Dove sono allora le mie tracce,
il trauma dell’Altro, la mia giustificazione storica?
Mangiamo l’uva
e beviamo cognac,
adesso si che mangiamo l’uva
e beviamo cognac.
AMIANTO
Già da bambina?
Saltavi e
facevi scricchiolare la catasta di Eternit?
Le scarpe da ginnastica blu, il crisolito bianco.
Ho visto in un ingrandimento
la fibra di 10 micrometri
penetrare nell’apparato respiratorio.
Giocavate al pesce affumicato
con un pezzo di Eternit?
L’avete addentato
come il peccato originale?
Come l’albero della conoscenza del bene e del male:
in realtà non si sente niente,
non si capisce molto,
10μm, un operaio al cantiere coi pantaloni sporchi,
l’agonia di un uomo privo di conoscenza,
venti o quarant’anni, un’escrescenza alla pleura, il mesotelioma,
il tessuto connettivo che prolifera nei polmoni.
Sì, ogni anno fiorisce il lillà,
e ogni tanto una grande passione.
Le fibre calano lentissime
ed invisibili come il futuro.
Ehi, ma perché ti arrabbi?
Vedi, ecco il mio nuovo vino preferito.
Te lo compro, beviamo un sorso stasera.
Breve biografia di MAARJA KANGRO nata a Tallin, il 20-12-1973, è una scrittrice estone.Figlia del compositore Raimo Kangro e della scrittrice Leelo Tungal, si è laureata in lettere all’Università di Tartu nel 1999. Ha pubblicato tre volumi di poesia, una raccolta di racconti e un libro per bambini. Ha scritto libretti per opere liriche di Raimo Kangro, Tõnu Kõrvits, Tõnis Kaumann e Timo Steiner. Ha tradotto dall’italiano, inglese, tedesco e altre lingue (tra l’altro Andrea Zanzotto[, Valerio Magrelli[, Giacomo Leopardi, Umberto Eco, Giorgio Agamben, Hans Magnus Enzensberger). E’ ospite con Milo de Angelis del convegno Pordenonelegge 2011.
Questo romanzo è la storia dell’amore impossibile fra un padre e una figlia che quasi non si conoscono e si ritrovano insieme, per qualche settimana, in un albergo sul lago di Lugano. Il padre è il corrispondente da Bonn di un grande giornale di Milano (in cui sarà facile riconoscere il «Corriere della Sera»), uomo disincantato, lucido, pieno di soprassalti della memoria, di idiosincrasie, di occultate amarezze e nostalgie, ma al tempo stesso con qualcosa di eternamente adolescente, agile e acerbo; la figlia è una ragazza di diciotto anni, che è stata messa in collegio dopo la morte della madre e ben poco ha visto del mondo, ma vive una sua vita intensa di fantasticherie grandiose, di passioni sospese e avvolgenti. La loro convivenza in albergo sviluppa, si può dire fatalmente, un terribile amore: soprattutto da parte della figlia, prorompente e ingenua, eppure dotata di una strana maturità, che rende il rapporto col padre tanto più paradossale. Questa figlia, infatti, non gli si vuole offrire come amante, ma come moglie, e oltre tutto come una moglie protettiva, conscia di quel lato infantile che al padre, poi, appartiene realmente. Diviso fra l’attrazione e la ripulsa per questa «calamità» che si abbatte sulla sua vita, mentre tenta vanamente di fare chiarezza in se stesso e nel suo passato, il padre crede di sfuggire all’incesto buttandosi in una rapida avventura con un’amica della figlia. Ma questo non farà che aiutare il gioco a precipitare nel dramma. La vicenda ha luogo in un tempo sospeso, che può essere anche oggi. Il décor svizzero è accennato con pochi, sapientissimi tocchi, come anche una certa atmosfera di morosità lacustre in cui è immersa la vicenda. Domina, invece, l’opera paziente dello scandaglio psicologico, l’indagine sulle ombre della psiche, sui guizzi dei desideri, e in questo Morselli si muove con la stessa precisione e sicurezza con cui sapeva ricostruire l’operazione militare di cui si parla in Contro-passato prossimo. Spostando continuamente la luce dal giornalista, convinto di essere corazzato dall’esperienza, alla giovane figlia, che alla vita non ha fatto ancora in tempo neppure a esporsi, Morselli riesce a delineare con straordinaria finezza quella zona intermedia in cui questi due personaggi, fino allora vissuti in mondi senza contatto, si incontrano e si scoprono fino a scoprirsi complici e a spaventarsi della propria complicità, sfuggendola e ricadendovi in un circolo senza uscita.
Breve biografia di Guido Morselli
Guido Morselli (Bologna 1912 – Varese 1973) narratore italiano. Condusse una vita schiva e ritirata, per lo più in una villa a Gavirate, presso Varese. I suoi romanzi furono tutti respinti dai vari editori a cui vennero via via presentati e i continui rifiuti indussero M. al suicidio. Solo dopo la morte cominciarono a essere pubblicate le sue opere, tutte improntate a una grande perizia stilistica e a un’originale costruzione d’intrecci. Situazioni di fantapolitica o di fantastoria sono il pretesto per far emergere la paradossalità delle vicende umane: Roma senza papa (1974) racconta la perdita d’identità di una chiesa tesa al rinnovamento; Contro-passato prossimo (1975) ipotizza una diversa conclusione della prima guerra mondiale; Divertimento 1889 (1975) è la nostalgica rievocazione della fin-de-siècle attraverso il racconto di un’avventura galante di Umberto I; Il comunista (1976) descrive la crisi della fede politica di un deputato emiliano; Dissipatio H. G. (1977) traccia il profilo angoscioso di un mondo senza genere umano. È notevole, in tutti questi romanzi, la capacità di ricostruire i caratteri e i personaggi di diverse culture e ambienti sociali. Scrisse saggi di argomento letterario (Proust o del sentimento, 1943; Realismo e fantasia, 1947) e uno in difesa della fede religiosa: Fede e critica (1977, postumo). Nel 1987 è uscito il Diario di M. per la cura di V. Fortichiari.
Guido Morselli-Per anni i suoi libri vennero Sistematicamente rifiutati dalle maggiori Case Editrici italiane. Rifiuti che pesarono sul morale dello scrittore che si suicidò nel 1973. Oggi Morselli gode di considerazione e prestigio tra gli addetti ai lavori, ma il suo nome e la sua innovativa opera rimangono sconosciuti ai più.
Scritti e discorsi di politica internazionale (1972-1984)-
A cura di Alexander Höbel- Donzelli Editore -Roma
Scheda libro
Scheda del Libro-Passione, rigore, propensione ad anticipare i tempi e a superare steccati: ciò che ha segnato l’azione di Enrico Berlinguer nella politica italiana emerge con ancora maggior forza in campo internazionale. È quanto rivelano i discorsi, gli articoli e le interviste raccolti da Alexander Höbel in questo volume, a partire dal 1972, quando Berlinguer assume la guida del Pci. Sono gli anni degli euromissili, dell’invasione sovietica in Afghanistan, dell’escalation nucleare, della guerra in Libano; ma lo sguardo del segretario sa andare anche oltre e in profondità. Per la prima volta nella storia, intuisce, il mondo è strettamente interconnesso e il suo cuore non è più l’Occidente: è necessario cooperare con le nuove realtà emergenti, anche per il bene stesso dei paesi industrializzati, i quali solo in questo modo potranno uscire dalla crisi. Una capacità di visione che coinvolge la Cee e l’intera Europa («senza un contributo ai problemi dell’Est – afferma – non vi sarà sicurezza e sviluppo») e include l’Italia, per cui l’«austerità» qui invocata diventa strumento globale di efficienza e giustizia, per superare un sistema caratterizzato dall’individualismo più sfrenato, dal «consumismo più dissennato». Lo stesso Pci, di cui con orgoglio, in uno straordinario discorso pronunciato nel 1976 a Mosca, al congresso del Pcus, rivendica la storia all’insegna della democrazia e della libertà, deve intraprendere una «terza via» che vada oltre il modello socialdemocratico e il «socialismo reale», accogliere le spinte anticapitalistiche provenienti anche dai movimenti di ispirazione cristiana, aprirsi alle istanze ambientaliste, alle battaglie femministe. È la pace l’obiettivo su cui è costantemente focalizzato Berlinguer; una meta legata a multipolarismo e cooperazione, che si fa nelle sue parole tema spinoso e urticante, pungolo che sollecita all’azione, che impone una battaglia intransigente e a tutto campo contro le diseguaglianze, non solo economiche, perché «una pace non precaria, ma solida, duratura, per essere tale non può che essere fondata sulla giustizia».
Autore-Enrico Berlinguer
Enrico Berlinguer (Sassari, 1922) aderisce al Pci nel 1943. Segretario generale della Fgci nel 1949, dal ’50 dirige la Federazione mondiale della gioventù democratica. Nel ’58 entra nella segreteria del Pci guidata da Togliatti; nel ’60 è responsabile dell’organizzazione; dal 1969 affianca Luigi Longo come vicesegretario. Segretario del Pci dal ’72, avvia la politica del compromesso storico e dell’eurocomunismo. Dopo la fine della «solidarietà nazionale» lancia l’«alternativa democratica», impegnandosi nella lotta contro gli euromissili. Muore l’11 giugno 1984 durante la campagna elettorale per le elezioni europee.
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Paolo GENOVESI- Fotoreportage “Il Borgo di CANTALICE “ (Rieti)
Cenni storici- Il nome del borgo di Cantalice deriva da Cata Ilex e fa riferimento a un leccio che secondo la tradizione nacque nella fenditura di una roccia sul retro della Chiesa di Santa Maria delle Grazie. Le prime notizie del paese risalgono all’anno 1081 e la sua importanza strategica fu confermata dal fatto che fu scelta come roccaforte da Rocca di Sotto, Rocca di Sopra e Rocchetta per difendersi dai nemici. Dopo essere stata donata al re Carlo d’Angiò nel XIII secolo dal papa, per proteggerlo meglio dal popolo germanico e dagli svevi, Cantalice attraversò un periodo di dure lotte contro le città di Rieti e l’Aquila, contro le quali trionfò grazie all’aiuto degli Aragonesi. Il periodo di massimo splendore lo raggiunse durante il dominio di Margherita d’Austria nel 1571. Seguì poi il decadimento del borgo a causa della presenza del brigantaggio e delle lotte intestine tra le signorie del borgo.
Nel cuore della Sabina, a due passi dal Monte Terminillo e alle falde dei Monti Reatini, nel piccolo borgo di Cantalice il tempo sembra essersi fermato. La sua bellezza è anche legata alla sua posizione geografica, abbarbicata come un presepe a un’altezza che sfiora i 660 mt. La vista che si gode dal borgo spazia su tutta la sottostante valle reatina, oggi occupata dalla Riserva Naturale dei Laghi Lungo e Ripasottile.
Quanto è difficile raccontare le foto di Carmelo Cuscunà in arte Melò? Non basta sfogliare un book fotografico per trovare un filo conduttore della sua arte. Devi avere la pazienza di un archeologo per andare alle origini, senza sottovalutare gli indizi, i documenti e le informazioni. Oppure procedere come un botanico che, con calma, sfoglia un fiore nuovo per carpirne la struttura, poi seziona il seme per vedere cosa c’è dentro e , quindi, ha bisogno di tempo farlo germinare per scoprire le sue potenzialità e, infine, si lascia sorprendere. Questi sono i ritratti di Melò.
Denise è la modella che sa accendere lo “scatto” della fotocamera , poi occupa e sa occupare lo spazio dell’inquadratura, così come i poeti che, con le parole, dipingono l’immaginario dei tramonti. Lei delimita le dimensioni sfuggenti, forse oniriche , della luce in un dipinto fotografico che Melò, con maestria e da artista, padrone della fotocamera, codifica per il risultato che noi tutti possiamo ammirare. Denise sa incarnare pienamente sia lo spirito fatto di condivisione, della sua calma, sia la sapiente padronanza dell’arte fotografica di Melò che ne trae una musica “barocca” dal volto di questa modella. Melò è un fotografo che non tende mai all’ovvio, che non cerca aderenza iperrealistica ma che trasforma , accarezzando con la fotocamera, ciò che cattura l’obiettivo. Troviamo così, nelle foto che ritraggono Denise, colori tenui che sanno riportarci verso dimensioni sfuggenti, forse oniriche, dove Melò conduce e sa condurre l’osservatore. Possiamo infine chiosare dicendo che, l’arte fotografica di Melò, dà piacere anche senza conoscenza, un’arte della fotografia fruibile indipendente dal concetto. Ed è così che l’immagine di Denise può aprirsi a letture soggettive che sanno, sicuramente, ricondurre l’osservatore verso mondi personali , non verbali, fatti d’impressioni estetiche.
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