CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito. La mostra a Bologna-
Che Guevara Tú y todos un percorso espositivo per raccontare un personaggio chiave della storia del ‘900, attraverso una ricca e inedita documentazione e con il supporto dell’Università degli Studi di Milano e dell’Università IULM nella ricostruzione del contesto storico. Il progetto è stato ideato e realizzato da Simmetrico Cultura, prodotto da ALMA e dal Centro de Estudios Che Guevara de l’Avana, il cui archivio è stato inserito nel 2013 nel registro UNESCO del programma Memoria del mondo.
La mostra è curata da Daniele Zambelli, Flavio Andreini, Maria del Carmen Ariet Garcia e Camilo Guevara, scomparso nel 2022, a cui la mostra è dedicata, ed è accompagnata da una “colonna sonora” originale composta da Andrea Guerra. Il percorso espositivo si sviluppa filologicamente su tre livelli di racconto, attraverso cui i visitatori rivivranno i giorni e i luoghi, gli stati d’animo e i pensieri, le azioni personali e gli eventi storici che hanno visto protagonista il Che.
Un livello di narrazione di stampo giornalistico ricostruisce il clima geo-politico; un secondo livello sarà dedicato al contesto biografico con i discorsi pubblici, ai pensieri sull’educazione e sulla politica estera, sull’economia e gli accadimenti privati e pubblici di Ernesto Guevara. Il terzo livello, a-temporale e intimistico, rivelerà gli scritti più personali – dai diari alle lettere a familiari e amici, sino alle inedite registrazioni di poesie – dove dubbi, contraddizioni, riflessioni prendono corpo. Da questo livello narrativo emerge l’uomo, l’intensità delle domande che il Che poneva a sé stesso, la difficile scelta fra l’impegno nella lotta contro l’ingiustizia sociale e la dolorosa rinuncia agli affetti e a una vita di certezze.
Un viaggio straordinario nella vita di uno dei personaggi chiave della storia più recente: Ernesto Guevara, il Che, che si racconta in prima persona.
Centinaia di pensieri, di diari, di lettere ci rivelano intimamente una delle personalità che più profondamente hanno segnato un’epoca.
Il percorso espositivo si chiude con l’installazione dell’artista americano Michael Murphy, uno dei pionieri della Perceptual Art, che ha realizzato appositamente per questa mostra un’enorme ricostruzione multidimensionale, una scultura che si trasforma in un passaggio continuo, dall’immagine del volto del Che a quella della sua firma iconica.
La mostra ha impegnato un team di autori, curatori, cattedratici e archivisti. Negli oltre 24 mesi di lavoro, di cui 3 spesi a Cuba presso la sede del Centro de Estudios Che Guevara, sono stati vagliati oltre 2000 documenti tra fotografie, lettere, cartoline, scritti e manoscritti e sono state visionate oltre 97 ore di documentari e 14 di registrazioni dei discorsi ufficiali.
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
CHE GUEVARA tú y todos. L’uomo dietro il mito
Che Guevara: Tú y todos è realizzata da Simmetrico.
Simmetrico Cultura crea e gestisce mostre in Italia e all’estero, mettendo al centro l’uomo, la storia e l’attualità. I suoi progetti espositivi uniscono rigore scientifico, storytelling e tecnologie immersive per un’esperienza coinvolgente. Grazie a contenuti interattivi e social media, le mostre offrono percorsi di approfondimento e condivisione. Simmetrico collabora con istituzioni e enti per eventi culturali su scala internazionale.
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Info:
Museo Civico Archeologico
CHE GUEVARA tú y todos Museo Civico Archeologico Via dell’Archiginnasio 2, Bologna Fino al 30 giugno 2025 Catalogo Edizioni Pendragon www.mostracheguevara.com
L’arte di Daniel Spoerri a Narni-Dal 12 aprile Narni si propone nel panorama dell’arte contemporanea con una serie di eventi promossi dalla Fondazione Caporrella e dal Museo-Fondo Regionale d’Arte Contemporanea Baronissi, organizzati dalla Società Archeoares, e sostenuti dal Comune di Narni con il patrocinio della Regione Umbria e della Fondazione Il Giardino di Daniel Spoerri – Hic Terminus Haeret.
Fondazione Il Giardino di Daniel Spoerri
La mostra “DANIEL SPOERRI. Tableaux-pièges e bronzi”, allestita alla Rocca Albornoz, è dedicata a uno dei maestri del Nouveau Réalisme. Conosciuto per i suoi Tableaux-pièges, Spoerri ha trasformato oggetti di uso quotidiano in opere d’arte, immortalando frammenti di realtà in composizioni inaspettate. In questa mostra, a un anno dalla sua scomparsa, il pubblico potrà ammirare circa 40 sculture in bronzo, testimoni della sua inesauribile ricerca espressiva e della sua capacità di dialogare con la materia.
A Palazzo Eroli, sede del Museo della Città e del Territorio di Narni, la mostra “L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella” esplora un aspetto meno noto ma fondamentale della creazione artistica: il rapporto tra l’artista e l’artiere, tra chi concepisce l’opera e chi la realizza. In esposizione, circa 70 capolavori provenienti dalla collezione della Fondazione d’arte “Vittorio Caporrella” (FFONDARC), con un percorso curato da Massimo Bignardi.
Attraverso le opere di Arman, Agostino Bonalumi, Pietro Cascella, Enrico Baj, Umberto Mastroianni e altri, il pubblico potrà scoprire come il bronzo si trasforma in arte, in un processo che dissolve i confini tra ideazione ed esecuzione.
Uno degli elementi più affascinanti di questa esposizione è la possibilità di entrare idealmente nell’officina dell’artefice, respirando il processo creativo che ha portato alla nascita di sculture oggi considerate veri e propri capolavori.
L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella al Palazzo Eroli e DANIEL SPOERRI
Perché visitare queste mostre
Per scoprire da vicino le opere di Daniel Spoerri, uno dei più grandi innovatori dell’arte del Novecento.
Per immergersi in un percorso che svela il ruolo essenziale dell’artigianato artistico nella creazione delle sculture.
Per ammirare 70 capolavori di artisti internazionali: Arman, Enrico Baj, Giovanni Balderi, Agostino Bonalumi, Pietro Cascella, Tommaso Cascella, César (Baldaccini), Claudio Costa, Gino Filippeschi, Edgardo Mannucci, Franco Marrocco, Umberto Mastroianni, Nunzio, Arturo Pagano, Francesco Roviello, Nicola Salvatore, Paola Elisabetta Simeoni, Daniel Spoerri, Alì Traoré, Luigi Vollaro.
Per vivere un’esperienza culturale unica in due luoghi simbolo della città di Narni: la Rocca Albornoz e Palazzo Eroli.
Inaugurazione
Le mostre L’ETÀ DEL BRONZO. Sculture contemporanee dalla Fondazione Caporrella al Palazzo Eroli e DANIEL SPOERRI. Tableaux-pièges e bronzi alla Rocca Albornoz di Narni saranno inaugurate sabato 12 aprile 2025.
Alle ore 10:30 si terrà la conferenza di apertura presso il Palazzo Comunale. A seguire visita con l’illustrazione dei due percorsi espositivi:
“L’età del bronzo”, Palazzo Eroli, ore 12:00
“Omaggio a Daniel Spoerri”, Rocca Albornoz, ore 16:00
Successivamente, le mostre resteranno visitabili seguendo gli orari di apertura del Palazzo Eroli e della Rocca Albornoz.
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Ascoli Piceno- Palazzo dei Capitani del Popolo la Mostra: Luce nel silenzio Andrea Benetti e Dario Binetti-
Fino al 27 aprile 2025, lo storico Palazzo dei Capitani del Popolo di Ascoli Piceno ospiterà la mostra “Luce nel silenzio”, un’esperienza artistica e sensoriale unica, firmata da Andrea Benetti e Dario Binetti, con la curatela del prof. Stefano Papetti.
L’esposizione si articola in un dialogo tra la luce e l’oscurità, tra il visibile e l’invisibile, attraverso 21 opere che fondono bassorilievo e fotografia, immergendo lo spettatore in un’atmosfera evocativa e mistica. La mostra si ispira alle profondità delle Grotte di Castellana, luogo iconico di silenzi millenari, e porta in superficie suggestioni ancestrali e archetipi visivi che parlano direttamente all’anima.
Andrea Benetti, artista e ideatore del Manifesto dell’Arte Neorupestre, e il fotografo Dario Binetti hanno creato un percorso espositivo in cui le ombre e i bagliori si fondono, restituendo immagini che sembrano emergere da un tempo remoto, in un richiamo alla spiritualità primitiva e alla ricerca di significati nascosti.
Ascoli Piceno- Palazzo dei Capitani del Popolo la Mostra: Luce nel silenzio Andrea Benetti e Dario Binetti
La mostra è promossa da Italian Art Promotion e Alchemical Shadows, con il patrocinio del Comune di Ascoli Piceno e la collaborazione delle Grotte di Castellana, il cui fascino ha ispirato il progetto artistico.
Un ringraziamento speciale al Comune di Ascoli Piceno ed al Comune di Castellana e alla Dirigenza delle Grotte di Castellana per il supporto al progetto.
Walker Evans: la fotografia sociale–Gli esordi tra letteratura e fotografia-Noto per essere uno dei pionieri della Straight Photography – la fotografia diretta, documentaria, spogliata da orpelli artistici – Walker Evans nasce a Saint Louis, Missouri, il 3 novembre 1903. La sua è una famiglia abbiente, il padre lavorava nel settore della pubblicità, per cui la vicinanza alla fotografia risulta essere un aspetto quasi “naturale” per Walker Evans, che fin da piccolo inizia a prendere dimestichezza con la macchina fotografica anche quando la famiglia si sposta prima a Chicago e poi nell’Ohio.
Eppure il primo “amore” artistico per Walker Evans è la letteratura: dopo un breve periodo al Williams College, si trasferisce a New York, dove nutre l’ambizione di diventare poeta e romanziere. Tra i suoi modelli ci sono Joyce, T.S. Eliot e Cummings.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Nella metropoli americana, tuttavia, Walker Evans sperimenta un vero e proprio blocco creativo. A New York è impegnato nei lavori più diversi, e dopo tre anni di insuccessi nel mondo dell’editoria, decide di imbarcarsi per Parigi, capitale culturale dell’Occidente a inizio dello scorso secolo. Anche nella capitale francese, la scrittura non è certo facile per Walker Evans, ma la città gli permette di venire in contatto con il fotografo francese Eugene Atget e con la sua allieva Berenice Abbott, che avranno grande influenza sullo stile di Evans.
Nel 1927 Walker Evans torna a New York ed entra a far parte di un nuovo circolo letterario sempre più aperto ad altre forme d’arte. È in questo contesto che il nascente interesse di Evans per la fotografia diventa una passione a tutti gli effetti.
I grattacieli della Grande Mela e la fisonomia industriale della metropoli americana sono i primi soggetti della fotografia di Walker Evans, senza espedienti estetici.
Nel 1933, Evans è a Cuba per il libro del giornalista Carleton Beals, The Crime of Cuba. All’Avana, stringe amicizia con Ernest Hemingway e immortala con tratti sempre più realistici la vita dell’isola: poliziotti, mendicanti, pescatori. Temendo che alcune delle sue fotografie potessero essere ritenute sovversive e quindi confiscate dal governo cubano, prima di lasciare L’Avana, Evans affida 46 stampe fotografiche a Hemingway. Andati persi, gli scatti saranno ritrovati solo nel 2002.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Walker Evans: l’affermazione durante la Grande Depressione
Il New Deal di Roosevelt, per contrastare la Grande Depressione, favorì in qualche modo la fotografia di diversi artisti, in particolar modo quella di Walker Evans che nel biennio 1935/1936 catturò diversi momenti di vita quotidiana degli americani di provincia. Evans lavorò infatti, percependo uno stipendio regolare, come membro della cosiddetta “unità storica” della Farm Security Administration (FSA), istituzione del Dipartimento dell’agricoltura. Il suo compito era quello di fornire un’indaginefotografica dell’America rurale, principalmente negli stati del Sud degli U.S.A.
Piccole chiese di campagna, lavoratori, insegne sbiadite: Evans immortala l’America del periodo con una fotocamera volutamente obsoleta, come a ribadire il momento di crisi nazionale, proprio come aveva fatto il suo “maestro” francese Eugène Atget nella sua Parigi.
Nel 1941 la collaborazione di Evans con lo scrittore James Agee è al centro di un volume intitolato Let Us Now Praise Famous Men (Sia lode ora a uomini di fama) una serie di fotografie che catturano senza alcun compiacimento estetico la cruda realtà della Grande Depressione.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Protagoniste del libro – accolto con grande entusiasmo dalla critica e ripubblicato nel 1960 – sono le vite di diverse famiglie di coltivatori di cotone, fotografate in zone povere degli Stati Uniti, nella metà degli anni Trenta. A inviare Evans e Agee sul campo era stata la rivista Fortune, che aveva giudicato il materiale raccolto inopportuno per la pubblicazione sul magazine: i soggetti delle immagini di Walker Evans sono ritenuti troppo realisti, complessi e crudi.
La prima mostra personale di Walker Evans al Museum of Modern Art nel 1938 riconosce al fotografo la capacità di avere catturato il vernacolo americano.
Nello stesso periodo Evans inizia a scattare una serie di ritratti di nascosto (Subway Portraits) nella metropolitana di New York. Come per l’America di provincia della Grande Depressione, queste fotografie rivelano momenti senza pretese della vita quotidiana, con grande realismo.
Nel 1945 Evans si unisce allo staff della rivista Time e poco dopo entra a far parte di Fortune, dove continuerà a lavorare nei due decenni successivi.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Nel 1958 sposa Isabelle Storey, una donna molto più giovane di lui, per quello che si rivelerà un matrimonio tormentato che si concluderà con un divorzio poco dopo un decennio. Nel 1965 Walker Evans diventa professore alla Yale University School of Art. Da quel momento ha realizzato alcuni progetti fotografici. Sebbene sempre meno prolifico come fotografo, Evans ha continuato a insegnare fino alla sua morte, avvenuta nel 1975.
Uomo riservato, Walker Evans non amava raccontare molto della sua vita privata ma nel 2008, la sua ex moglie, ha pubblicato un’autobiografia che ritrae il defunto marito come una persona eccentrica, determinata e di spirito, ma anche dotato di un carattere snob egocentrico.
Lo stile di Walker Evans: la poetica del quotidiano
Quando si parla dell’opera del grande fotografo americano, l’etichetta che più ritorna è quella del Realismo Sociale. Fatta questa doverosa premessa formale, va detto che il suo lascito è enorme: molta critica ha parlato di Evans come dell’obiettivo più influente per tutti i fotografi della seconda metà del Novecento.
Walker Evans: la fotografia sociale-
La sua grande intuizione fu quella di rifiutare la visione altamente estetizzata della fotografia artistica – ai tempi il canone prevalente – di cui Alfred Stieglitz fu il più grande fautore. Walker Evans fu tra i primi fotografi a dare risonanza poetica alla quotidianità: le sue immagini più caratteristiche mostrano la vita “normale” americana durante il secondo quarto del secolo, in particolare attraverso la descrizione della sua architettura vernacolare, la sua pubblicità all’aperto, gli inizi della sua cultura automobilistica e i suoi interni domestici.
I suoi soggetti sono (solo) in superficie prosaici e ingenui, ma si può intuire che ciò che chiedeva a questi “eroi” di tutti i giorni fosse un’attitudine ben precisa: essere esemplari nello sforzo coraggioso, a volte ironico, di creare una cultura costruita per dare vita a una grande nazione che non aveva precedenti.
Nella sua fotografia Walker Evans ha sempre scelto di non mettere in evidenza il suo essere artista, un atteggiamento opposto a quello di Stieglitz. Evans si nascondeva come artista, imitando la fotografia vernacolare: un artista che… non interpreta l’artista. È questa la ragione per cui, secondo molta critica, Evans è percepito come un precursore della Pop Art. Anche Rauschenberg, Warhol e Lichtenstein, infatti, scelsero di rappresentare aspetti prosaici, casalinghi e quotidiani.
Walker Evans non era interessato alla politica, la sua fotografia esaltava l’America senza faziosità. Il fatto che fosse interessato ai mezzadri, che stesse fotografando gli effetti del consumismo e quelli dell’industrializzazione… non nascondeva un approccio politico, ma estetico. I progetti commissionati ai tempi dalle riviste più importanti erano una vera e propria forma d’arte e anche in questo, Evans fu un precursore, anticipando di vent’anni altri artisti che – negli anni ‘60 e ‘70 – utilizzarono le riviste per diffondere le proprie idee.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Tra il 1934 e il 1965, Evans contribuì con più di 400 fotografie a 45 articoli pubblicati sulla rivista Fortune. Non solo fotografie, ma anche layout grafici, scrittura di testi di accompagnamento alle immagini.
I suoi soggetti – sia in bianco e nero che a colori – erano insegne delle compagnie ferroviarie, utensili di uso comune, vecchi hotel, resort estivi e vedute dell’America dal finestrino di un treno. Utilizzando il formato foto-racconto giornalistico standard, Evans ha unito il suo interesse per le parole e le immagini, creando una narrativa multidisciplinare di altissima qualità, imitata dalla maggior parte dei fotografi “sociali” degli anni a venire.
Nel 1973, Evans iniziò a lavorare con l’innovativa fotocamera Polaroid SX-70 che si sposava perfettamente con la sua ricerca di una visione concisa ma poetica del mondo: le sue stampe istantanee erano, per il fotografo settantenne infermo, ciò che forbici e carta tagliata erano per l’anziano Matisse. Le esclusive stampe SX-70 sono gli ultimi lavori dell’artista, il culmine di mezzo secolo di lavoro nel campo della fotografia.
L’eredità di Walker Evans
Le immagini di Evans hanno cambiato per sempre il nostro modo di osservare distributori di benzina, sfasciacarrozze, tralicci, architettura rurale, interni di case, strade polverose. I luoghi in cui l’uomo comune vive e lavora. Nel 1938 la mostra American Photographs è il primo evento del MoMA dedicata al fotografo, con un centinaio di scatti: l’allestimento è quanto di più libero si potesse immaginare ai tempi, quasi un omaggio alla personalità di Walker Evans.
La produzione di Walker Evans continuerà negli anni successivi con lo stesso spirito non convenzionale,preannunciando la grammatica della fotografia che nei decenni successivi sarà appannaggio di diversi artisti. Le immagini scattate di nascosto nella Metropolitana di New York, i paesaggi immortalati dai treni in movimento, i ritratti frettolosi per strada: sono tutti approcci contemporanei alla fotografia, non certo comuni un secolo fa.
Walker Evans: la fotografia sociale-
Negli ultimi anni della sua vita Walker Evans trascorre gran parte del suo tempo a raccogliere materiali con inconsueta, quasi ossessiva, meticolosità. Dopo la sua morte, un amico fotografa quelli che erano i suoi ambienti: oggetti ovunque, assurdi assemblaggi di cose che attiravano la sua attenzione, la sua curiosità. L’epitaffio lasciato per questi suoi amati oggetti è indicativo del carattere di Evans: “Do not disturb the arrangement of tin beer caps in this wash bowl” (non disturbate la sistemazione dei tappi delle lattine di birra in questo lavandino).
Walker Evans-Fotografo americano
Breve bografia di Walker Evans (1903-1975).Dopo studi in letteratura e un breve soggiorno a Parigi, divenne un protagonista della vita culturale newyorchese tra gli anni ’20 e ’30. A consacrarlo furono una serie di lavori dedicati a genti e luoghi della Grande Depressione. Nel 1938 il MoMa di New York gli dedicò la prima mostra personale in assoluto riservata a un fotografo.
Evans si rivela grazie all’incarico della Farm Security Administration, ente governativo che intende documentare lo stato degli USA negli anni della Grande Depressione. Insieme a un gruppo fenomenale di talenti quali Dorothea Lange, Arthur Rothstein, Russell Lee e altri, reinventa la fotografia documentaria e realizza alcuni degli scatti più iconici di sempre. Queste fotografie in parte confluiranno nello storico catalogo della sua prima mostra personale, American Photography, una raccolta che ebbe un’enorme influenza anche in Europa. Ma la ricerca di Evans scavalca la dimensione meramente sociale. Nel suo “inventario” anti-retorico di architetture e oggetti la quotidianità, paradossalmente, rappresenta in maniera puntuale il più realistico e irrealistico dei miti: l’America.
Con Sia lode ora a uomini di fama (1941), la potenza dei volti della gente comune, la suggestione delle tracce di una società in sofferta transizione, si accompagna alla letteratura, ai testi potenti e realistici di James Agee. L’incontro tra immagine e scrittura è qualcosa di più di una sperimentazione, diventa all’istante un classico, degno in questo dell’amico Hemingway conosciuto nel 1933 a Cuba
Dai desolati stati del Sud alla metropoli. Evans cerca l’immediatezza della strada, la messa in scena del caso e della serialità: la serie Many are called, realizzata tra il 1938 e il 1940, ma pubblicata solo 25 anni dopo, consiste di fotografie “rubate” nella metropolitana con una macchina fotografica nascosta nel cappotto.
Walker Evans lavorò a stretto contatto con molti scrittori americani e non abbandonò mai la scrittura. Fu assunto come redattore dalla rivista Fortune ed elaborò la forma dei “foto-saggi”: articoli composti da fotografie e testi in base ad argomenti da lui individuati, sviluppati e impaginati. Sono immagini riprese da treni in corsa, oggetti di uso quotidiano, cartelloni pubblicitari. Quella cara vecchia America che stava cambiando per entrare nella sua fase pop, come avrebbe riconosciuto Andy Warhol, suo grande ammiratore. Negli ultimi anni di vita, le precarie condizioni di salute lo portano a effettuare esperimenti, pubblicati poi nel 2001, con la nuovissima e maneggevole Polaroid SX-70. A interessarlo sono ancora gli oggetti comuni scomposti e colti, con immediatezza e talvolta a colori, nelle loro linee essenziali: immagini di lettere, poster, cartoline… immagini di immagini.
Chi siamo
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Perché per noi la fotografia, ancor prima che un lavoro, è in fondo sempre la nostra più grande passione.
Così come assolutamente speciali sono tutti i nostri corsi. Perché non si limitano a spiegare qualche veloce ricetta o trucchetto, ma vanno a fondo, fino al perché delle cose.
In questa maniera i nostri allievi non solo diventano bravi, ma anche consapevoli.
Per questo, negli anni, abbiamo formato migliaia di studenti riconoscenti e soddisfatti.
-articolo di Piero TORRIANO scritto per la Rivista PAN n°5 del 1934-
Biografia di Alberto Salietti (Ravenna, 1892 – Chiavari, 1961) è stato un pittore italiano.
Alberto Salietti-Nasce a Ravenna il 15 marzo 1892, figlio e nipote di decoratori murali. Dopo aver iniziato a lavorare con il padre, frequenta fino al 1914 l’Accademia di Brera, ove ha come maestri Cesare Tallone e Mentessi.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, riprende la sua attività, esponendo dal 1920 alle Biennali di Venezia (nel 1942, ricevendo il Gran Premio per la pittura). Altre esposizioni: l’Internazionale di Barcellona, 1929; l’Internazionale di Budapest, 1936; la Mostra dell’Istituto Carnegie di Pittsburg, 1936; l’Esposizione mondiale di Parigi, 1937; la II e III Quadriennale Roma; la mostra La Bella Italiana, a Milano, nel 1952; il Premio Marzotto, nel 1955 e 1956; il Premio Garzanti nel 1957; il Premio del Comune di Milano nel 1959; la medaglia d’oro a Firenze, al Premio del Fiorino, nel 1961; la XXII Biennale d’Arte alla Permanente di Milano, nel 1961, il premio Bagutta-Vergani.
Salietti è fra i pittori che l’imprenditore Giuseppe Verzocchi contatta per la sua grande raccolta di quadri sul tema del lavoro: Salietti realizza così La vendemmia (1949-1950), quadro che, insieme all’Autoritratto, è oggi conservato nella Collezione Verzocchi, presso la Pinacoteca Civica di Forlì.
È uno dei fondatori del Novecento Italiano, movimento del quale ha ricoperto il ruolo di segretario. I suoi principali soggetti sono paesaggi, ritratti e nature morte. Ha opere in pubbliche gallerie: a Roma (Galleria nazionale d’arte moderna), Firenze, Milano, Torino, Berlino, Zurigo, Monaco, Berna, Montevideo, Cleveland, Mosca, Parigi, Varsavia. Dopo la sua morte, una mostra commemorativa gli venne dedicata a Milano, nel 1964, al Palazzo della Permanente; nel 1967, a Milano, alla Galleria Gian Ferrari; nuovamente alla Gian Ferrari, nel 1969, per le tempere; nel 1970, a La Panchetta di Bari; nel 1971, ancora a Milano, alla Galleria Cortina, per le opere grafiche. Una mostra postuma venne pure organizzata dall’Azienda di Soggiorno e Turismo di Chiavari, nel 1972, a Palazzo Torriglia, con una selezione di opere pittoriche e grafiche.
Pittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTIPittore Alberto SALIETTI
Biografia di Alberto Salietti (Ravenna, 1892 – Chiavari, 1961) è stato un pittore italiano.
Alberto Salietti-Nasce a Ravenna il 15 marzo 1892, figlio e nipote di decoratori murali. Dopo aver iniziato a lavorare con il padre, frequenta fino al 1914 l’Accademia di Brera, ove ha come maestri Cesare Tallone e Mentessi.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, riprende la sua attività, esponendo dal 1920 alle Biennali di Venezia (nel 1942, ricevendo il Gran Premio per la pittura). Altre esposizioni: l’Internazionale di Barcellona, 1929; l’Internazionale di Budapest, 1936; la Mostra dell’Istituto Carnegie di Pittsburg, 1936; l’Esposizione mondiale di Parigi, 1937; la II e III Quadriennale Roma; la mostra La Bella Italiana, a Milano, nel 1952; il Premio Marzotto, nel 1955 e 1956; il Premio Garzanti nel 1957; il Premio del Comune di Milano nel 1959; la medaglia d’oro a Firenze, al Premio del Fiorino, nel 1961; la XXII Biennale d’Arte alla Permanente di Milano, nel 1961, il premio Bagutta-Vergani.
Salietti è fra i pittori che l’imprenditore Giuseppe Verzocchi contatta per la sua grande raccolta di quadri sul tema del lavoro: Salietti realizza così La vendemmia (1949-1950), quadro che, insieme all’Autoritratto, è oggi conservato nella Collezione Verzocchi, presso la Pinacoteca Civica di Forlì.
È uno dei fondatori del Novecento Italiano, movimento del quale ha ricoperto il ruolo di segretario. I suoi principali soggetti sono paesaggi, ritratti e nature morte. Ha opere in pubbliche gallerie: a Roma (Galleria nazionale d’arte moderna), Firenze, Milano, Torino, Berlino, Zurigo, Monaco, Berna, Montevideo, Cleveland, Mosca, Parigi, Varsavia. Dopo la sua morte, una mostra commemorativa gli venne dedicata a Milano, nel 1964, al Palazzo della Permanente; nel 1967, a Milano, alla Galleria Gian Ferrari; nuovamente alla Gian Ferrari, nel 1969, per le tempere; nel 1970, a La Panchetta di Bari; nel 1971, ancora a Milano, alla Galleria Cortina, per le opere grafiche. Una mostra postuma venne pure organizzata dall’Azienda di Soggiorno e Turismo di Chiavari, nel 1972, a Palazzo Torriglia, con una selezione di opere pittoriche e grafiche.
Libero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTI
Articolo di Ugo OJETTI scritto per la Rivista PAN n°6 del 1934
Biografia di Libero Andreotti nacque a Pescia il 15 giugno 1875.Dagli otto ai diciassette anni lavorò nell’officina di un fabbro, frequentando un corso per il conseguimento del diploma di maestro elementare.
A Lucca incontrò Alfredo Caselli e Giovanni Pascoli stimolano i suoi interessi artistici e culturali.
Nel frattempo lo zio Ferruccio Orsi gli trovò un impiego presso la Libreria Sandron di Palermo; qui lo assunse il Principe Tasca di Cutò come redattore e illustratore del settimanale La battaglia.
Nel 1899 si recò a Firenze dove iniziò l’attività di caricaturista, illustratore e pittore. Strinse amicizia con Enrico Sacchetti che gli dedicò il libro Vita d’artista e con lo scultore Mario Galli nel cui studio iniziò a modellare piccole statuine colorate.
Trasferitosi a Milano si occupò di scultura, catturando l’attenzione del noto pittore Vittore Grubicy che iniziò ad occuparsi della sua carriera.
Nel 1905 espose per la prima volta alla Biennale di Venezia e due anni dopo si stabilì a Parigi; qui presentò una quarantina di dipinti alla mostra sui divisionisti italiani organizzata dallo stesso Grubicy nella Serre de l’Alma.
Nel 1911 si tenne la sua prima grande mostra alla Galerie Bernheim Jeune, dove espose 51 opere. Tre anni più tardi, con lo scoppio della guerra, decise di tornare a Firenze dove strinse una grande amicizia con Ugo Ojetti che lo introdusse nei maggiori centri artistici del Nord Italia.
Molte delle opere eseguite tra il 1914 e il ’21 furono acquistate da Ojetti che nel 1920 gli dedicò un importante saggio su “Dedalo”.
Nel 1923 sposò Margherita Carpi. L’anno successivo eseguì il monumento ai caduti di Saronno, in maggio vinse il concorso per il monumento alla Madre italiana per la chiesa di Santa Croce a Firenze.
Con Carena e Alberto Magnelli, nel 1929 dette vita a Firenze ai “mercoledì dell’antico Fattore”, dal nome della trattoria punto di ritrovo di artisti, letterati e musicisti.L’anno seguente istituì il premio letterario dell’Antico Fattore.Libero Andreotti morì improvvisamente il 4 aprile 1934
Libero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTILibero ANDREOTTI e il Ritratto-Articolo di Ugo OJETTI scritto per la Rivista PAN n°6 del 1934
Libero Andreotti
Biografia-UGO OJETTI
Ugo Ojetti
Biografia di Ugo Ojetti –
Ugo Ojetti,Figlio della spoletina Veronica Carosi e del noto architetto Raffaello Ojetti, personalità di vastissima cultura, consegue la laurea in giurisprudenza e, insieme, esordisce come poeta (Paesaggi, 1892). È attratto dalla carriera diplomatica, ma si realizza professionalmente nel giornalismo politico. Nel 1894 stringe rapporti con il quotidiano nazionalista La Tribuna, per il quale scrive i suoi primi servizi da inviato estero, dall’Egitto.
Nel 1895 diventa immediatamente famoso con il suo primo libro, Alla scoperta dei letterati, serie di ritratti di scrittori celebri dell’epoca[1] redatti in forma di interviste, genere all’epoca ancora in stato embrionale. Scritto con uno stile che si pone fra la critica ed il reportage, il testo viene considerato, e come tale fa discutere, un momento di analisi profonda del movimento letterario dell’epoca. L’anno seguente Ojetti tiene a Venezia la conferenza “L’avvenire della letteratura in Italia”, che suscita un vasto numero di commenti in tutto il Paese.
I suoi articoli diventano molto richiesti: scrive per Il Marzocco (1896-1899), Il Giornale di Roma, Fanfulla della domenica e La Stampa. La critica d’arte occupa la maggior parte della sua produzione. Nel 1898 inizia la collaborazione con il Corriere della Sera, che si protrae fino alla morte.[2]
Tra il 1901 e il 1902 è inviato a Parigi per il Giornale d’Italia; dal 1904 al 1909 collabora a L’Illustrazione Italiana: tiene una rubrica intitolata “Accanto alla vita”, che poi rinomina “I capricci del conte Ottavio” (“conte Ottavio” è lo pseudonimo con cui firma i suoi pezzi sul settimanale). Nel 1905 si sposa con Fernanda Gobba e prende domicilio a Firenze; dal matrimonio tre anni dopo nasce la figlia Paola. Dal 1914 abiterà stabilmente nella vicina Fiesole. Invece trova nella villa paterna di Santa Marinella (Roma), soprannominata “Il Dado”, il luogo ideale in cui riposarsi, trascorrere le sue vacanze e scrivere le sue opere.
Partecipa come volontario alla prima guerra mondiale. All’inizio della guerra riceve l’incarico specifico di proteggere dai bombardamenti aerei le opere d’arte di Venezia. Nel marzo 1918 fu nominato “Regio Commissario per la propaganda sul nemico”. Fu incaricato di scrivere il testo del volantino, stampato in 350 000 copie in italiano e in tedesco, che fu lanciato il 9 agosto, dai cieli di Vienna dalla squadriglia comandata da Gabriele D’Annunzio.[3]
Nel 1920 fonda la sua rivista d’arte, Dedalo (Milano, 1920-1933), dove si occupa di storia dell’arte antica e moderna. Dall’impostazione della rivista dimostra una sensibilità e un modo di accostarsi all’arte e di divulgarla diversi dai canoni del tempo. La rivista diventa subito occasione d’incontro tra critici, intellettuali, artisti come Bernard Berenson, Matteo Marangoni, Piero Jahier, Antonio Maraini, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Pietro Toesca, Lionello Venturi e Roberto Longhi. L’idea di base della rivista è che l’opera d’arte abbia valore di testimonianza visibile della storia e delle civiltà più di ogni altra fonte. Nel 1921 avvia una rubrica sul Corriere utilizzando lo pseudonimo “Tantalo”. Tiene la rubrica ininterrottamente fino al 1939.
Sul finire del decennio inaugura una nuova rivista, Pegaso (Firenze, 1929-1933). Infine, lancia la rivista letteraria Pan, fondata sulle ceneri della precedente esperienza fiorentina. Tra il 1925 e il 1926 collabora anche a La Fiera Letteraria. Tra il 1926 ed il 1927 è direttore del Corriere della Sera.
È tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1925 ed è nominato Accademico d’Italia nel 1930. Fa parte fino al 1933 del consiglio d’amministrazione dell’Enciclopedia Italiana. Ojetti organizza numerose mostre d’arte e dà vita ad importanti iniziative editoriali, come Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi per l’editrice Treves e I Classici italiani per la Rizzoli. Sul significato dell’architettura nelle arti ebbe a dire:
«l’architettura è nata per essere fondamento, guida, giustificazione e controllo, ideale e pratico, d’ogni altra arte figurativa»
La finestra di Ojetti a villa Il Salviatino con una targa che lo ricorda
Collaborò anche con il cinema: nel 1939 firmò l’adattamento per la prima edizione sonora de I promessi sposi, che costituì la base della sceneggiatura per il film del 1941 di Mario Camerini.
Aderì alla Repubblica Sociale Italiana[4]; dopo la liberazione di Roma, nel 1944, fu radiato dall’Ordine dei giornalisti. Passò gli ultimi anni nella sua villa Il Salviatino, a Fiesole, dove morì nel 1946.
Antonio Gramsci scrisse che « la codardia intellettuale dell’uomo supera ogni misura normale ». Indro Montanelli lo ricordò sul: « È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell’Avanti! e del primo Popolo d’Italia, per l’editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l’articolo di arte e di cultura ».
Opere
Letteratura
Paesaggi (1892)
Alla scoperta dei letterati: colloquii con Carducci, Panzacchi, Fogazzaro, Lioy, Verga (Milano, 1895); ristampa xerografica, a cura di Pietro Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1967.
Scrittori che si confessano (1926),
Ad Atene per Ugo Foscolo. Discorso pronunciato ad Atene per il centenario della morte, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928.
Profondo conoscitore ed appassionato studioso d’arte, Ugo Ojetti ha pubblicato sull’argomento diversi importanti libri:
L’esposizione di Milano (1906),
Ritratti d’artisti italiani (in due volumi, 1911 e 1923),
Il martirio dei monumenti, 1918
I nani tra le colonne, Milano, Fratelli Treves Editori, 1920
Raffaello e altre leggi (1921),
La pittura italiana del Seicento e del Settecento (1924),
Il ritratto italiano dal 1500 al 1800 (1927),
Tintoretto, Canova, Fattori (1928),
Atlante di storia dell’arte italiana, con Luigi Dami (due volumi, 1925 e 1934),
Paolo Veronese, Milano, Fratelli Treves Editori, 1928,
La pittura italiana dell’Ottocento (1929),
Bello e brutto, Milano, Treves, 1930
Ottocento, Novecento e via dicendo (Mondadori, 1936),
Più vivi dei vivi (Mondadori, 1938).
In Italia, l’arte ha da essere italiana?, Milano, Mondadori, 1942.
Romanzi
L’onesta viltà (Roma, 1897),
Il vecchio, Milano, 1898
Il gioco dell’amore, Milano, 1899
Le vie del peccato (Baldini e Castoldi, Milano, 1902),
Il cavallo di Troia, 1904
Mimì e la gloria (Treves, 1908),
Mio figlio ferroviere (Treves, 1922).
Racconti
Senza Dio, 1894
Mimì e la gloria, 1908
Donne, uomini e burattini, Milano, Treves, 1912
L’amore e suo figlio, Milano, Treves, 1913
Teatro
Un Garofano (1902)
U. Ojetti-Renato Simoni, Il matrimonio di Casanova: commedia in quattro atti (1910)
Reportages
L’America vittoriosa (Treves, 1899),
L’Albania (Treves, 1902); nuova edizione, con cartina originale “La Grande Albania”, in Ugo Ojetti, Olimpia Gargano (a cura di), L’Albania, Milano, Ledizioni, 2017.
L’America e l’avvenire (1905).
Raccolte di articoli
Articoli scritti fra il 1904 e il 1908 per L’Illustrazione Italiana: I capricci del conte Ottavio (due voll., usciti rispettivamente nel 1908 e nel 1910)
Articoli per il Corriere della Sera: Cose viste (7 voll.: I. 1921-1927; II. 1928-1943). L’opera è stata anche tradotta in lingua inglese.
Memorie e taccuini
Confidenze di pazzi e savi sui tempi che corrono, Milano, Treves, 1921.
Vita vissuta, a cura di Arturo Stanghellini, Milano, Mondadori, 1942.
I Taccuini 1914-1943, a cura di Fernanda e Paola Ojetti, Firenze, Sansoni, 1954. [edizione censurata, con molti passi espunti]
Ricordi di un ragazzo romano. Note di un viaggio fra la vita e la morte, Milano, 1958.
I taccuini (1914-1943), a cura di Luigi Mascheroni, prefazione di Bruno Pischedda, Torino, Aragno, 2019, ISBN 978-88-841-9989-8.
Aforismi
Ojetti è celebre anche per i suoi aforismi, massime e pensieri, molti dei quali sono raccolti nei 352 paragrafi di Sessanta, volumetto scritto dall’autore nel 1931 per i suoi sessant’anni e pubblicato nel 1937 da Mondadori.
Lettere
Venti lettere, Milano, Treves, 1931.
Lettere alla moglie (1915-1919), a cura di Fernanda Ojetti, Firenze, Sansoni, 1964.
Intitolazioni
Presso il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi si è tenuta una mostra dedicata alle fotografia scattate per la rivista e che costituiscono il Fondo Ojetti.[7]
Roma -Alla Galleria Maja Arte Contemporanea personale dell’Artista Luisa Lanarca-
Roma-Maja Arte Contemporanea è lieta di presentare la personale dell’Artista italiana Luisa Lanarca, alla sua prima collaborazione con la galleria. L’esposizione è la terza e ultima di un ciclo di tre mostre — “Quando filo, colore, parola s’intrecciano” — a cura di Giovanna Dalla Chiesa, che mette a confronto il lavoro di tre artiste: Alice Schivardi, Luciana Pretta e Luisa Lanarca.
Opera dell’Artista italiana Luisa Lanarca
In mostra una selezione di arazzi eseguiti dal 1980 a oggi con la tecnica della tessitura a due licci, arricchiti, nel corso del processo tessile, da tecniche miste.
Frutto di un percorso creativo che intreccia l’esperienza diretta della materia con un approfondimento teorico basato sugli studi di Percezione Visiva e di Gestalt, questi lavori rivelano una ricerca stratificata e profonda. In alcune opere, ispirate alle poesie di Emily Dickinson, filo, colore e luce si fondono con la parola poetica, che affiora nella trama tessile trasformandola in un’invocazione con richiami alle insegne e alle affiches di fine Ottocento.
Come osserva Giovanna Dalla Chiesa: “Tessere appartiene alla capacità più articolata del pensiero dell’uomo, al suo destino che non è di separazione, ma di integrazione fra le parti che la natura ha previsto doppie per lui – braccia, gambe, occhi, narici, orecchie e soprattutto i due emisferi cerebrali – per stabilire quella relazione da cui dovrà scaturire una nuova creatura, un’opera che a mano a mano disegnerà anche il suo destino.
Luisa Lanarca non è di quelli che arrivano oggi alla tessitura, ma al contrario, che è partita dalla tessitura subito e con maestri importanti, come Laura Marcucci Cambellotti e il suo Laboratorio Tessile. Ciò che rende piuttosto eccezionale il suo percorso è l’uso speculativo sul piano psicologico che ne ha fatto, grazie agli approfondimenti di Percezione Visiva e di Gestalt, appresi alla Scuola di Luigi Veronesi a Milano.
Diversamente da altri, la tessitura ha permesso a Luisa Lanarca, nel suo specifico percorso, quella conoscenza del sé che coincide con la messa a fuoco della propria identità e, nello stesso tempo, un approdo al linguaggio che trova nella poesia, la sua liberazione, emozione e pienezza. L’intreccio fra ragione e sentimento, fra eros e psiche, non può trovare il proprio esito, secondo l’artista, che in una sintesi di quella laboriosità che assomiglia a una silenziosa preghiera, con una luce che attraversa ogni confine, come la parola poetica, e in particolare, come quella di Emily Dickinson, capace di dar voce al suo silenzio.”
Opera dell’Artista italiana Luisa Lanarca
NOTE BIOGRAFICHE
Luisa Lanarca (Roma, 1957) si è formata tra Roma – dove ha frequentato il III Liceo Artistico e, successivamente, il prestigioso Laboratorio Tessile di Laura Marcucci Cambellotti (1975) – e Milano, dove ha studiato Percezione Visiva e Teoria del Colore con Luigi Veronesi presso la Nuova Accademia di Belle Arti.
Sino al 1986 ha affiancato all’attività artistica un intenso impegno didattico, collaborando con il Comune di Reggio Emilia per l’introduzione delle tecniche tessili nell’insegnamento. Ha inoltre tenuto corsi di tessitura presso il Centro Lorenzo Mori di Trequanda, a Radda in Chianti, all’Impruneta, al Castello di Gargonza (Arezzo), a Firenze e ad Abbadia San Salvatore (Siena).
Da anni ha scelto una vita appartata, lontana dalle convenzioni sociali, guidata dalla ricerca di libertà e da un profondo legame con le leggi naturali e cosmiche. La lettura – con Thoreau ed Emily Dickinson tra i suoi principali riferimenti – e la tessitura costituiscono il fulcro della sua esistenza, insieme ai suoi telai e al suo fedele cane Mosé.
Vive tra Roma e Sorano (Grosseto).
Numerose le mostre personali e collettive, tra cui: “Winter O’ Clock”, Limonaia di Villa Mancini, XVI Festival Musicale Savinese, Monte San Savino (2010); “L’ago non abita qui”, CS 376, Cortona (2009); “Festival in Contemporanea. Sezione Arti Visive”, Cantieri La Ginestra, ex Filanda, Montevarchi (2007); “Crossing”, Torretta Valadier, Ponte Milvio, Roma (2004); “Slow Food”, Galleria-Libreria Odradek, Roma (2001); “Concoidi”, Libreria Nove100, Centro Culturale Mara Meoni, Siena (2000); “Per filo e per segno”, Galleria L’Ariete, Bologna (1986); “Arazzo, filo e tessitura”, Rotonda della Besana, Milano (1982).
Informazioni, orari e prezzi
ORARI MOSTRA
Martedì-Venerdì ore 15.30-19.30. Sabato ore 11-13 e 15-19
Altri orari su appuntamento
-Franco Leggeri Fotoreportage-“Il Castello di Torre in Pietra”
Franco Leggeri Fotoreportage-Il Castello di Torre in Pietra, detto anche Castello Falconieri, è un castello situato a Torrimpietra, frazione del comune di Fiumicino, in provincia di Roma. Inizialmente il borgo era un castra attorniato da torri e da mura di cinta. Nel 1254 il castello era proprietà della famiglia normanna degli Alberteschi, poi passò agli Anguillara che, nel 1457, per mano di Lorenzo e Felice Anguillara, per 3000 ducati d’oro lo vendettero a Massimo di Lello di Cecco dei Massimo, quindi passò ai Peretti. Nel 1639 fu venduta ai principi Falconieri. Ferdinando Fuga realizzò la chiesa e lo scalone del piano nobile del castello, indi Pier Leone Ghezzi ne realizzò gli interni, perlopiù gli affreschi inerenti all’anno giubilare 1725. Il Castello che oggi ammiriamo è sostanzialmente quello che ci hanno lasciato i Falconieri. Gli affreschi sono perfettamente conservati: possiamo rivivere i fasti dell’anno giubilare 1725, quando il Ghezzi viene chiamato da Alessandro Falconieri a decorare il piano nobile con scene celebranti la visita al castello del Papa Benedetto XIII. All’interno della chiesa ottagonale, gli affreschi sugli altari laterali sono ulteriori testimonianze della sua opera. Infine, nella seconda metà dell’ottocento, i Falconieri si estinguono e Torre in Pietra conosce un’epoca di decadenza[2]. Nel 1926 passò al senatore Luigi Albertini che ne bonificò le terre secondo le moderne tecniche e la rese tra le più prestigiose aziende zootecniche italiane. Nel 1941 passò a sua figlia Elena Albertini, sposata con il conte Nicolò Carandini, i cui eredi tuttora risultano proprietari del castello-Fonte Wikipedia-
Foto di Franco Leggeri-Le foto del Castello di Torre in Pietra , sono stati scatti eseguiti per provare vari obiettivi e fotocamere Reflex-:NIKON e CANON-
il CASTELLO DI TORRE IN PIETRA
Castello di Torre in Pietra
Il Borgo di Torre in Pietra che sorge in una vasta zona agricola e boschiva protetta in antico da una “Turris in petra” poco distante e ancora esistente.
Il Borgo si identifica essenzialmente nella struttura denominata più specificamente “Castello” cioè l’insieme delimitato da mura, ma comprende anche alcuni edifici ai margini della cinta muraria, abitativi e commerciali (ristorante, cantina). Il Castello, che si ritiene sorga nel luogo della stazione romana Baebiana, ha origine medioevale e di quell’epoca conserva ancora quasi intatta la struttura rettangolare cinta da mura e definita da torri angolari.
Tra i vari edifici c’è il “Palazzo”, una residenza signorile risultato di interventi di ampliamento e di fusione di più edifici preesistenti ad opera delle famiglie Peretti e Falconieri. A difesa del castrum, al di sopra di un fossato ormai colmato, in direzione Roma, si erge una torre angolare con funzione abitativa e di avvistamento, che si affaccia sul cortile medioevale detto dei cavalli, dalla presenza della scuderia e della selleria. Un edificio seicentesco, a destinazione abitativa, è addossato al lato esterno delle mura, che ne costituiscono la facciata verso il giardino, e ingloba al suo interno una delle torri minori medioevali. Il giardino conserva una fontana seicentesca, tratti di basolato romano, platani e pini secolari.
Il Castello di Torre in Pietra nel 1254 è citato tra i possedimenti della nobile famiglia Normanni Alberteschi, poi diviene proprietà degli Anguillara e dei Massimo. Nel 1590 viene acquistato da Camilla Peretti, sorella di Papa Sisto V. Nei primi anni del 600 il Principe Michele Peretti fa costruire nel borgo fortificato una nuova, grande e sfarzosa residenza signorile dall’architetto Michele Peperelli.
Nel 1639 la tenuta e il Castello sono venduti ai Principi Falconieri, che chiamano a lavorare a Torre in Pietra due grandi ingegni del tempo: l’architetto Ferdinando Fuga, che realizza la chiesa e il nuovo scalone di accesso al piano nobile, e il pittore Pier Leone Ghezzi, che esegue gli affreschi nei saloni del piano nobile e su due altari della Chiesa, ancora oggi perfettamente conservati.
Nella seconda metà dell’800 i Falconieri si estinguono e Torre in Pietra conosce un’epoca di decadenza. Il castello passa nelle mani di diverse famiglie, tra le quali i Florio di Sicilia, fino a quando, nel 1926, diviene proprietà del Senatore Luigi Albertini che, insieme ai figli Leonardo ed Elena e al genero Nicolò Carandini, si impegna in un’imponente opera di bonifica della tenuta agricola e di restauro di castello, chiesa e borgo. I lavori sono condotti dall’architetto Michele Busiri Vici, con il contributo del pittore Eugenio Cisterna.
Dal 1990 i figli e nipoti eredi di Elena e Nicolò Carandini conservano e abitano il Castello, aperto a visite ed eventi, e conducono l’azienda agricola e la cantina.
Foto di Franco Leggeri-Le foto del Castello di Torre in Pietra , sono stati scatti eseguiti per provare vari obiettivi e fotocamere Reflex-:NIKON e CANON-
il CASTELLO DI TORRE IN PIETRA
Il Castello di Torre in Pietra è un meraviglioso complesso architettonico di origine Medioevale, con importanti testimonianze di architettura e pittura sei-Settecentesche. Sono ancora perfettamente conservati il fossato, la torre di guardia e le mura di cinta che abbracciano tutto il complesso, all’interno del quale, nel corso dei secoli, sono stati costruiti e trasformati diversi importanti edifici. Domina su tutto il palazzo Seicentesco, posto al centro del Borgo all’interno del quale, salendo al piano Nobile, si possono ammirare i magnifici affreschi, opera del pittore Pier Leone Ghezzi, che ha decorato le sale con una sequenza di paesaggi, trompe l’oeil, scene religiose, figure di nobili e chierici, figure allegoriche, stemmi, ritratti di Cardinali e di Papa Benedetto XIII. Davanti al palazzo un ampio cortile, in parte lastricato da basolato Romano, conduce a due grandi giardini, ombreggiati da platani e pini secolari, con al centro un’antica fontana. Sul lato destro si affaccia la bella Chiesa ottagonale di S. Antonio Abate, opera Settecentesca del celebre architetto Ferdinando Fuga, decorata anch’essa dal Ghezzi. Sulla sinistra, al piano terra di un altro edificio, si raggiunge la vasta Sala Peretti, con il suo imponente soffitto a volta e il bel camino, recentemente restaurata. Una cintura di boschi circonda e protegge il Castello che mantiene il suo carattere affascinante e segreto nonostante la sua vicinanza alla via Aurelia e a Roma.
La storia del Castello di Torre in Pietra L’attuale complesso di edifici ha origini Medioevali e si è costituito nella forma di un castrum, un villaggio agricolo fortificato attorno a una residenza signorile, secondo un modello di insediamento rurale molto diffuso all’epoca nella campagna Romana; lo si può veder ancora oggi osservando le torri, il bastione, il fossato e le mura di cinta.
Il primo documento nel quale si descrive questo insediamento con l’antico nome di “Castrum Castiglionis” è un testamento che risale al 1254, nel quale viene menzionato tra i beni che un Nobile della famiglia Romana dei Normanni Alberteschi lascia in eredità a uno dei suoi figli. Diventa in seguito proprietà degli Anguillara e dei Massimo.
Il nome di Torre in Pietra, che deriva da una Torre isolata costruita su un roccione di pietra nei pressi del castello, è indicato per la prima volta in una pianta del 1620 dove sono illustrate le tenute dei principi Peretti. Nel 1590, infatti, la tenuta venne acquistata da Camilla Peretti, sorella di Papa Sisto V°, e Michele Peretti, nipote del Papa, commissionò all’architetto Francesco Peperelli la costruzione di una nuova residenza signorile sui resti del castrum Medioevale.
Al piano Nobile alcune sale, secondo l’usanza del tempo, vennero rivestite con pannelli di cuoio decorato, altre affrescate. Il palazzo che noi oggi vediamo conserva ancora quasi intatto il suo impianto seicentesco e lo stemma Peretti campeggia ancora sul portone d’ingresso. Ma l’altissimo tenore di vita intaccò irrimediabilmente il loro patrimonio familiare e così, nel 1639, i Peretti dovettero vendere il castello e la tenuta al principe Orazio Falconieri.
I Falconieri, che ebbero Torre in Pietra tra i loro possedimenti per più di due Secoli, erano dei potenti banchieri che raggiunsero l’apice del potere e della ricchezza quando nel 1724 Alessandro, nipote di Orazio, fu nominato Cardinale dal Papa Benedetto XIII°. Tra il 1712 e il 1725, Alessandro volle mutare in parte l’aspetto seicentesco del Castello, chiamando due ingegni del suo tempo: l’architetto Ferdinando Fuga e il pittore Pier Leone Ghezzi. La chiesa Medioevale venne abbattuta e ricostruita su disegno del Fuga, che progettò anche il nuovo scalone d’ingresso al palazzo. Sia la Chiesa che i saloni del piano Nobile vennero poi affrescati dal Ghezzi.
Dal 1870 il castello e la tenuta passarono nelle mani di numerosi proprietari (i Carpegna, i Florio, la Società Bonifiche Agrarie) e conobbero un lungo periodo di abbandono, fino a quando nel 1926 divennero di proprietà del Senatore Luigi Albertini. Egli, avendo dovuto abbandonare la direzione del Corriere della Sera per la sua opposizione al fascismo, dedicò tutte le sue risorse a una imponente opera di bonifica dei terreni paludosi, di avvio di un’azienda agricola modello, e di restauro del castello, della chiesa e del borgo, coadiuvato dal figlio Leonardo Albertini e dal genero Nicolò Carandini.
Matrimoni al castello di Torre in Pietra Il castello è il luogo ideale per celebrare matrimoni religiosi nella Chiesa dedicata a S. Antonio Abate e, grazie alla convenzione con il Comune di Fiumicino, il rito del matrimonio civile.
Visite al castello e alla cantina Organizziamo anche visite guidate al Castello e alla Chiesa e, in collaborazione con la Cantina, degustazioni di vini e visite guidate della Cantina.
Torrimpietra è stata la quarantaseiesima zona di Roma nell’Agro romano, indicata con Z. XLVI, istituita con delibera del commissario straordinario n. 2453 del 13 settembre 1961 e soppressa con delibera del commissario straordinario n° 1529 dell’8 settembre 1993[2] a seguito dell’istituzione del comune di Fiumicino, avvenuta con legge regionale n. 25 del 6 marzo 1992.
Il toponimo deriva dalla Torre In Pietra, castello del XIII secolo.
Chiesa di Sant’Antonio Abate, su via Francesco Marcolini.
Chiesa di San Pietro
Chiesa della Misericordia
Economia
Fino alla fine degli anni novanta del Novecento l’economia comunale, tra cui l’allevamento di bovini, era legata principalmente all’azienda locale, denominata appunto Torre in Pietra, che produceva latte fresco pastorizzato e yogurt, un tempo appartenuta ai proprietari della Tenuta Torre in Pietra; lo storico marchio ha poi spostato la sua produzione altrove e oggi non è più legato alla realtà locale. È ancora in attività invece la produzione di vino nella storica cantina del castello[3].
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Descrizione del libro di Susanna Pozzoli -Venetian Way-Marsilio Editori-Un patrimonio di immagini del saper fare veneziano e veneto, uno straordinario omaggio alla città lagunare e alle sue maggiori realtà produttive in terraferma, raccolto in un volume perché non vada perduto e viva oltre i tempi e i modi del momento espositivo. Susanna Pozzoli è qui autrice a tutto tondo, avendo lavorato sia come fotografa sia come autrice dei testi: racconti brevi delle sue esperienze, professionali e umane, vissute nel tempo trascorso nelle ventuno botteghe e imprese artigiane di eccellenza, protagoniste speciali di questo lavoro autoriale. Aprono la pubblicazione una nota di Michelangelo Foundation e la prefazione di Franco Cologni. Un testo introduttivo di Toto Bergamo Rossi, direttore di Venetian Heritage Foundation, mette in risalto il valore storico e di patrimonio vivente che queste realtà incarnano per Venezia e il Veneto. La storica dell’arte Barbara Stehle è stata invitata a presentare l’aspetto artistico del progetto Venetian Way, esposto a Homo Faber 2018.
Susanna Pozzoli
Autore SUSANNA POZZOLI, fotografa italiana residente a Parigi, ha curato progetti espositivi di ampio respiro principalmente dedicati al savoir faire artigianale. La sua ricerca personale associa alla fotografia testi e video da lei realizzati. Nel 2018 crea Venetian Way, ampio lavoro esposto alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia per Homo Faber. Nel 2019 è finalista del Premio Fondazione VAF ed espone al Museo MART di Rovereto la serie Casa Costanza. Incontro con Meret Oppenheim.
Conosco Susanna Pozzoli ormai da una decina di anni e trovo difficile collocare il suo lavoro in una tipologia fotografica. Credo che sia importante sottolineare che spesso i suoi lavori raccontano delle storie, in cui ci viene proposto di entrare. Ci interessa riuscire a ravvisare una “metodologia” operativa comune alle diverse storie. È importante qui sottolineare che Pozzoli racconta delle storie ma il suo lavoro nulla ha a che fare con il fotoreportage. Abbiamo, quindi, chiesto a Susanna se c’è un modus operandi comune, che la guida.
Susanna Pozzoli – La dimensione narrativa nel mio lavoro è molto presente ed è un fil rouge che seguo nel processo di lavoro. Molti dei progetti che ho sviluppato sono a cavallo tra la ricerca e la creazione: il racconto di un luogo reale che ho fotografato in un momento specifico, un’evocazione molto libera del suo passato grazie alle tracce che rimangono. Credo che le mie fotografie siano un po’ come uno schizzo che mostra giusto qualche elemento scelto. Non mi pongo mai come unico obiettivo quello di documentare o informare. Non sono né una giornalista, né un’artista che lavora in modo puramente astratto con la fotografia. Allo stesso tempo, mi rendo conto che l’estetica, la composizione, la buona esecuzione sono importanti per me. Sono esigente in questo senso e curo l’esecuzione e la stampa, che realizzo dal 2009 con lo stesso stampatore, Roberto Berné. Questo stare tra le discipline, non semplice per definirsi e a volte complicato anche per chi osserva il lavoro, è per me naturale, innato. Si è definito molto presto, continua a svilupparsi, cambia, ma resta una costante. Non sono alla ricerca della “bella immagine”, né di quella che cruda e diretta cerca una sorta di neutralità. La relazione tra le singole fotografie, il loro ordine, la presenza o meno di testi, di suoni o di oggetti in un’installazione sono fondamentali.
Quando l’idea di un progetto arriva, è sempre chiara e allo stesso tempo complessa e strutturata in più momenti: inizio con una fase di studio e documentazione; segue un periodo di riprese fotografiche, interviste o video, scrittura e si conclude con una lunga fase di selezione, rielaborazione, montaggio e creazione di un volume e/o di una mostra. I progetti sono sempre lunghi, a volte richiedono anni per vedere la luce e ovviamente, creando, incontrando la realtà, tutto prende una forma diversa da quella prevista nei miei progetti teorici elaborati e scritti. Ho sempre più lavori in corso e il ritmo è variabile. Sono lenta, molto, ho bisogno di far riposare le esperienze. Il materiale che alla fine mostro è una piccola parte del lavoro prodotto e scegliere cosa non mostrare per arrivare all’essenza di un racconto è molto importante e non istintivo. In questa fase mi avvalgo dell’occhio fresco e fidato di alcune persone che negli anni sono diventati i miei consiglieri. Ci sono progetti che per mancanza di fondi o per altre ragioni rimangono nel cassetto, sono stati pensati, studiati, fotografati, ma poi restano lì, in attesa del momento propizio o di quell’urgenza personale che li rende prioritari. Inutile dire che non sono legata al concetto di “attualità”.
Lavoro pensando a serie di immagini, quasi sempre correlate da altri elementi. Direi che ogni insieme è un racconto per frammenti.
I soggetti scelti, possono essere legati alla mia storia personale, o interessarmi per la loro unicità. Di solito un’idea diventa insistente e comincio a sondare, a leggere, oppure torno a fotografare lo stesso luogo, a prendere appunti, diventa un pensiero fisso, un asse di ricerca.
Un aspetto che mi interessa è la dimensione corale di ogni esperienza personale, allo stesso tempo unica, irripetibile e condivisibile, spesso simile a quella di altri, spesso legata a molte altre storie coeve. Davanti a un racconto in immagini, spero di risvegliare le emozioni personali di chi osserva. Il legame tra le esperienze umane affettive, la relazione tra persone e luoghi, gli oggetti amati o gli strumenti di lavoro/passione sono le trame del mio lavoro. Raramente includo ritratti nei miei progetti personali, anche se nella mia ricerca la presenza umana è tangibile, oserei dire, sempre presente.
A volte vorrei slegarmi da questo “metodo”. Ho cassetti di fotografie che mi sembrano certo riuscite e “belle”, ma che nell’epoca in cui vivo, dove l’accessibilità al mezzo fotografico è così diffusa, non hanno, per me, molto senso. Non fotografo tutto quello che incontro, non ho sempre la macchina con me (quella è stata una fase di apprendimento), ma quando sono dentro un progetto è un’immersione completa e la notte mi sveglio pensando a cosa devo fotografare.
Dagli anni della mia formazione ho sentito la necessità di delimitare i miei soggetti, di identificare una storia o un luogo da raccontare dandomi però la libertà di farlo con uno sguardo autoriale, libero, che inviti lo spettatore a intuire quello che non si vede. Lettrice appassionata, amo le descrizioni precise, ma asciutte in cui la fantasia del lettore deve cucire tra le parole una propria visione. Questo è quello che cerco di fare con il mio lavoro che negli anni ha abbracciato la scrittura, il video e in alcuni casi è diventato una presentazione multimediale. Nel futuro vorrei diventasse più aperto al caso, alla sperimentazione. Da un po’ faccio esperimenti in questo senso.
Angela Madesani – Vogliamo parlare del tuo recente lavoro, in fieri, Simonne la cui protagonista è una vecchia casa “addormentata” nel centro della città di Doudeville, Seine-Maritime, in Normandia, la capitale del lino. Un edificio che non è più abitato dal 2014 e che dal 1720 è di proprietà della stessa famiglia, i Guérin.
S.P. – I villaggi semi abbandonati nel cuore della Francia sono molti e mi sono sempre piaciutitantissimo. Alcuni dietro a un’apparante povertà mostrano segni di antiche attività, di una presenza importante di persone e beni, di passaggio e dinamismo… Ci sono case abbandonate perché senza eredi, altre per litigi e altre sono semplicemente sospese, in attesa di decidere quello che sarà di loro.
La casa che è diventata la protagonista di questo progetto è proprio nel centro di un paese, poco abitato e fuori dai percorsi turistici in Normandia. Le imposte chiuse, la lunga bottega al primo piano e una bellissima facciata a nord (“pignon nord”) in stile tradizionale, hanno attirato la mia attenzione. Con Delphine Garcia, pittrice che vive nel territorio e lavora spesso a Doudeville, abbiamo notato che in alcuni giorni, la luce del pian terreno era accesa e l’imposta semiaperta… La casa non era quindi abbandonata! Abbiamo deciso di cercare un contatto per entrare in questo edificio e abbiamo infine incontrato il proprietario, nipote dell’ultima residente Simonne Guérin che nel corso della sua vita ha abbandonato i piani superiori, per vivere al pian terreno. La casa è stratificata per epoche. In alto la soffitta, poi i due piani dove hanno vissuto sino agli anni Ottanta e poi il pian terreno dove tutto è più caotico e moderno. Il proprietario ci ha accolte e ha raccontato la storia di questa casa dove è nato e cresciuto e a cui è molto affezionato. Ci ha parlato della sua famiglia, i Guérin, di sua madre e della zia Simonne, che non si è mai spostata, e ha tenuto il negozio aperto sino a quando ha potuto, molto anziana. Era una famiglia conosciuta per la vendita e la confezione di lino. Mi ha edotta sull’evoluzione storica di questa “città” che è stata un centro economico internazionale importante. Qui, proprio in questa piazza oggi sempre deserta, trasformata in un parcheggio senza charme, si affaccendavano i compratori di lino. Un mondo lontano, difficile da immaginare. Il declino di Doudeville è legato alla delocalizzazione della filiale del lino, un grande cambiamento avvenuto durante la prima ondata di mondializzazione. Eppure questo mercato e la sua attività sono documentati da moltissime fotografie e stereo-fotografie di fine Ottocento e inizio Novecento.
Nell’arco di un anno, con Delphine sono ritornata più volte a fotografare. Nella casa “addormentata” tra le ragnatele, troviamo abiti e cappelli per i giorni di festa, ma anche utensili e strumenti da lavoro, bottoni, materie prime e ricordi che si sono andati a perdere tra cose accumulate senza valore, polvere e confusione. Il progetto è stato realizzato in fotografia medio formato a colori ed è un “gioco”: alcuni oggetti sono stati messi in scena, altri sono stati fotografati proprio lì dove li ho trovati. L’idea alla base di questa serie è quella di una visita della casa sotto la guida della defunta Simonne che, secondo me, vive ancora qui sospesa e che ci ha accolte con benevolenza. I giorni spesi a Doudeville, con il cielo grigio in piena estate, la luce bianca e fioca tra i fantasmi del passato, sono stati una fantastica caccia al tesoro.
A.M. – Ancora una volta la storia di una casa, di una famiglia. Forse in tutto questo c’è un legame con la tua vicenda personale, alla quale hai dedicato il libro Passato Prossimo?
S.P. – Passato Prossimo è stato per me estremamente importante. Iniziato insieme alla mia passione per la fotografia, in modo informale e poi negli anni pensato e ripensato, ripreso e abbandonato. Il soggetto è certo legato alla mia famiglia, ma anche alla storia in senso più ampio. Partendo da un salumificio, costruito nel 1954 a Chiavenna, in provincia di Sondrio e quindi dismesso negli anni Ottanta, ho deciso di tracciare il racconto di una storia familiare concentrandomi sulla relazione tra attività di piccola impresa tramandata e nucleo familiare. In filigrana emerge l’attaccamento al territorio che questa eredità ha creato per più generazioni e che si è perso con la mia. La mia famiglia, come molte altre in Italia, ha sviluppato un’attività che è stata tramandata di generazione in generazione. Dal 1872 il salumificio Pozzoli ha seguito le tracce della storia, ritmata dalle guerre, dalle crisi, da povertà e ripresa, dalle divisioni familiari e dalla fratellanza e dal mutuo sostegno. Tutto ciò in un territorio che ha avuto un’importanza storica e internazionale, trovandosi al centro della Mitteleuropa sul confine tra Italia e Svizzera proprio al centro delle Alpi. Con l’apertura del passo del Brennero ha perso centralità, ricchezza, passaggio e forza produttiva. I racconti sono stati raccolti all’interno di interviste audio fatte ai membri della mia famiglia, ai nonni, a persone cha hanno lavorato, al Tiglio, la fabbrica realizzata con piastrelle rosa e essiccatoi in legno, con tutte le guide per l’aria da aprire e chiudere a mano, per i prosciutti crudi e le bresaole. Un luogo che da bambina trovavo magico, con il suo grande giardino dismesso, spazi vuoti, scale… Mio nonno paterno mi portava a giocare proprio lì. Erano momenti di fertile immaginazione nutriti dal suo racconto: “qui c’erano le vasche dove a mano facevano i salami, si mettevano in fila gli operai e…”. Negli anni successivi è mio padre che mi ha accompagnata e ha raccontato tra nostalgia e stupore quel tempo passato. Al Tiglio, le tracce del passaggio di chi ha lavorato, gli utensili dismessi, ganci, pese, ma anche gli elementi dell’ufficio, lampadari, cartoni vuoti, sono stati tra i primi soggetti che ho fotografato. È un mestiere che si lascia indovinare tra la polvere e il silenzio assoluto di questo luogo, con la natura che poco a poco ha conquistato e piegato l’edificio. La possibilità di stare sola con la mia macchina fotografica mi ha regalato momenti di creatività e introspezione.
Ho ripreso in mano questo progetto quando vivevo a New York, nel 2008, ero già stata per molti anni a Parigi e tornavo regolarmente al Tiglio per fotografare, ma è nel contesto di Harlem, lontano dal tessuto familiare che mi sono detta che andava finito. Il lavoro è stato presentato nella sua forma finale nel 2010 con una mostra e una pubblicazione sostenuta dalla Fondazione Credito Valtellinese a Sondrio. In mostra una serie di cassettoni, raccontavano, grazie a montaggi audio, aneddoti e ricordi di lavoro e di vita condivisa. In otto tappe è la storia di una piccola attività e di una famiglia che possiamo vedere. Una selezione di fotografie d’epoca forma dei collages, che fanno da sottofondo alle fotografie in medio formato della fabbrica. Le voci animano una mostra dove le fotografie di questo luogo dismesso comunicano la forza del silenzio e della natura che ora dominano.
Dopo un importante sviluppo negli anni, la cessione dell’attività a un grande gruppo diventato socio, ha creato una cesura anche familiare. Senza un progetto di lavoro perché restare in un paese? Questa è un po’ la conclusione, senza giudizio di questo lavoro. Un’apertura, una perdita, un segno dei tempi?
Il lavoro era tanto, la fatica e l’impegno presenti ogni giorno perché un salumificio non può mai chiudere e ai tempi era il sapere tramandato che permetteva di reagire ai cambiamenti atmosferici per far sì che il prodotto maturasse e fosse pronto per la vendita. Per generazioni le famiglie sono rimaste legate a tradizioni, obblighi e responsabilità a volte pesanti e certamente complesse, ma forti. Il coinvolgimento iniziava da bambini, tutta la famiglia era coinvolta. “Casa” era prima di tutto nella mia famiglia il lavoro vissuto come impegno, tramandato con passione e fonte costante di interesse e attività. La mostra includeva Girotondo, un video composto di Super 8 d’epoca e di una camminata di mio padre dentro il Tiglio dismesso. Un’immersine nel ricorso sulle musiche originali di Ctrl-alt-suppr, un gruppo musicale underground parigino.
A.M. – Ci puoi raccontare la tua storia, gli anni della formazione?
S.P. – Ho iniziato a sognare di viaggiare e fotografare quando ero ragazzina. Dal mio paesino tutto attorniato di montagne questa prospettiva mi sembrava fantastica. Mi affascinavano le macchine fotografiche e cercavo di usare quelle di mio padre di nascosto. Da allora, mi è restata l’idea che ci sia qualcosa di magico nell’atto di fotografare: decidere di inquadrare un luogo, una persona, un oggetto in un certo modo, scegliendo quali dettagli far emergere, cosa includere e cosa escludere in un momento preciso, forse unico, per poi poterlo ritrovare fissato per l’eternità. Ho studiato Lingue e Letterature straniere a Bergamo e ho seguito un corso serale per l’apprendimento di base della tecnica fotografica a colori e in bianco e nero e l’uso del flash. Ho lavorato come fotografa per i matrimoni. Allora, la fotografia era solo analogica e l’apprendimento non era rapido. Oggi mi dico che è stata una bella scuola. Poi ho avuto la bellissima opportunità di frequentare l’Atelier Reflèxe, una scuola indipendente di insegnamento fotografico a Montreuil, appena fuori Parigi, dove ho frequentato fotografi importanti. Ero a Parigi con il progetto Erasmus ma ho deciso di conseguire una doppia laurea. Studiavo storia dell’arte alla Sorbonne, dove ho finito il mio percorso con un master in Multimédia. A Milano sono stata assistente di Ramak Fazel, eccezionale fotografo che allora lavorava molto su commissione per il mondo del design e ho lavorato in diversi archivi, catalogando fotografie. Tutto questo mi ha insegnato a affinare lo sguardo e a sviluppare delle capacità tecniche. Direi che in qualche modo la mia formazione si è conclusa con l’esperienza alla galleria Carla Sozzani di Milano, dove per circa due anni ho partecipato alla creazione di mostre, occupandomi di molti aspetti e apprendendo sul campo come si crea un progetto espositivo, come si struttura la comunicazione, come si lavora in équipe e tutti gli aspetti pratici necessari. Nel 2007 ho lasciato Milano e questo lavoro, con un po’ di follia, mi sono trasferita a New York e ho ricominciato da capo, mettendo la mia creatività al centro, concentrandomi su progetti fotografici e video.
A.M. – Tra i tuoi lavori che prediligo, che trovo più densi di contenuto, è quello che hai dedicato a Meret Oppenheim e alla sua casa di Carona in Svizzera, intitolato appunto Un’estate con Meret Oppenheim. Un’artista, tu, che entra nel luogo dell’anima di una delle più grandi artiste del XX secolo, Meret. È un lavoro in cui sei riuscita a trasmettere perfettamente l’atmosfera di quel luogo, o forse quella che io suppongo essere l’atmosfera di quel luogo: non ci sono mai stata.
S.P. – Barbara Stehle che ha scritto un bellissimo testo per la pubblicazione nella collana della Fondazione VAF Stiftung-Manfredi dal titolo Un’estate con Meret Oppenheim nel 2021, punto finale della mia ricerca, ha definito questo progetto come un omaggio a Meret Oppenheim: mi piace. Forse effettivamente, ho cercato nel lungo processo di creazione di questo volume ispirazione, una guida personale verso la libertà e la forza di autodeterminazione e autonomia che Meret ha incarnato nelle sue scelte di vita e nel suo essere artista. In un certo senso studiandola, parlando di lei con chi bene l’ha conosciuta ho potuto incontrarla e apprezzarne tante sfumature. Lisa Wenger, nipote di Meret è stata il mio principale supporto, con il suo aiuto abbiamo ritrovato le tracce di Casa Costanza nella corrispondenza di M.O. e in numerosi ricordi. Suo fratello Michael e la loro madre Birgit Wenger, cognata di Meret Oppenheim, che ho potuto intervistare, a quasi cento anni, proprio a Carona, si sono prestati al gioco con generosità e apertura. L’architetto Aurelio Galfetti che ha lavorato, quando era molto giovane, fresco di studi con Meret Oppenheim al restauro di Casa Costanza ha condiviso i suoi ricordi. Jacqueline Burckhardt e Bice Curiger amiche intime e collaboratrici negli ultimi anni di vita dell’artista ne hanno fatto un ritratto pieno di vita. Questa vitalità, il gusto leggero ma non lezioso, ironico ma molto attento e profondo di Meret Oppenheim aleggiano in tutta Casa Costanza, un luogo unico, firmato M.O. Si tratta quindi di una casa – opera d’arte totale, Gesamtkunstwerk, che è stata per l’artista un luogo molto importante, rimasto dall’infanzia sino agli ultimi mesi della sua vita, il centro affettivo, l’heimat.
Il progetto è nato dalla mia lettura delle biografie su Meret Oppenheim. Intorno al 2014 il lavoro di Oppenheim e la sua storia, le sue poesie mi hanno catturata, ispirata e incoraggiata a approfondire la sua conoscenza. In Afferrare la vita per la coda di Martina Corgnati un intero capitolo è dedicato a Carona e alla storia unica di Casa Costanza, che ha accolto Meret bambina in un ambiente stimolate, aperto all’arte e alla cultura, per poi essere da lei trasformato e restare per le generazioni future. L’edificio, acquistato nel 1917 dai Wenger, ha una curiosa facciata settecentesca e la casa, su più piani con un giardino interno, si è trasformata nel tempo da casa contadina a palazzetto con passaggi, scale, un ballatoio e un grande soggiorno signorile al primo piano. Nel 1967-68 Meret Oppenheim ha potuto realizzare un suo grande sogno: restaurare e reinventare Casa Costanza trasformandola e modificandola, scegliendo quali pezzi e opere tenere, cosa buttare, cosa valorizzare. Ha eseguito degli interventi pittorici, ha realizzato pezzi di design e scelto il luogo giusto per ogni oggetto. Senza entrare nel dettaglio, direi che Meret ha reso questa casa un insieme particolare, unico e riconoscibile. Per chi ama il suo lavoro ogni angolo parla di lei e della famiglia in cui è nata. Ci sono testimonianze delle sue amicizie, artisti che hanno lasciato a lei o creato proprio qui in vacanza piccoli pezzi dai suoi disegni o ready made, il tutto unito a ricordi della sua infanzia, bellissimi giochi vintage e libri illustrati dell’amata nonna di Meret, Lisa Wenger (omonima della nipote), illustratrice e scrittrice di libri per ragazzi, una donna brillante tra le prime a studiare all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf che ha stimolato e nutrito la creatività della nipote.
Nel mio lavoro le voci delle persone che ho intervistato per raccontare questa storia si intrecciano e le fotografie a colori, realizzate con pellicola medio formato 6×6, non mostrano tanto la casa, la sua architettura quanto le tracce dell’artista surrealista. Il mio desiderio era quello di evocare la sua presenza, di far emergere il suo stile, le sue scelte originali (ancora più se si pensa al periodo storico). Casa Costanza è un luogo privato e vissuto e non un museo. La famiglia rispetta il volere di Meret Oppenheim e le sue richieste: nulla è stato spostato dal 1968, tutto resta in un insieme molto originale e pensato in ogni minimo dettaglio. C’è qualcosa di magico e sospeso, un bel silenzio e tantissima cura.
A.M. – Nel corso degli anni hai fatto anche molti lavori su committenza. Come ti poni in questi due diversi frangenti operativi? Ci sono degli atteggiamenti comuni?
S.P. – Il lavoro su commissione è una parte importante della mia attività e negli anni si è sempre più avvicinato al mio lavoro personale per temi e interessi, anche se restano numerose differenze in termini di metodo, scopo e risultati. Non ho mai preso questo aspetto alla leggera. Sono felice di essere stata scelta per ritrarre o raccontare un determinato luogo, una bottega artigiana, o per fare una documentazione di una realtà. Che sia un ritratto d’attore per un porfolio o un progetto lungo e ambizioso è sempre un’avventura. Va detto che ci sono molte restrizioni da considerare e a volte il committente ha una visione che non sposa totalmente la mia, ma ho sempre messo impegno e passione nel mio lavoro. Da diversi anni ho realizzato il lavoro su commissione quasi esclusivamente in digitale per motivi di costi e tempistiche, nonostante io ami l’analogico.
Ho avuto delle bellissime opportunità che mi hanno permesso di viaggiare e conoscere l’Italia e la Francia, dove vivo da diversi anni, e di fare tantissimi incontri. Cerco nei miei lavori su commissione di proporre una visione, di mettere un po’ del mio modo di guardare il mondo anche nelle fotografie che possono sembrare meno “importanti”. Negli anni, questo mestiere è cambiato moltissimo. Ci vorrebbe troppo tempo per raccontarne l’evoluzione, ma certamente quello che è stato sino all’avvento del digitale e prima della diffusione dei social networks è lontanissimo da ciò che oggi i fotografi fanno come lavoro. Il mondo è cambiato in modo evidente, la fruizione dell’immagine è rivoluzionata, e il mestiere di fotografo è stato stravolto.
Negli anni quello che ha caratterizzato il mio lavoro su commissione è la specializzazione nei mestieri dell’arte, iniziata nel 2010. Fotografo artigiani al lavoro, botteghe, manufatti in produzione per fondazioni quali la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte di Milano, la Michelangelo Foundation di Ginevra, ho lavorato per l’INAM, Istituto Nazionale dei Mestieri d’Arte di Francia, ma ho anche fotografato direttamente per maison tra cui Cartier e per artigiani in tutta Europa. Nel 2018 ho realizzato una mostra, dal titolo Venetian Way, che ha avuto luogo presso la Fondazione Giorgio Cini a Venezia, per la biennale, dedicata all’eccellenza artigiana Homo Faber. Per questo grande progetto espositivo sostenuto da Michelangelo Foundation ho lavorato sul mondo dell’artigianato del Veneto. 21 mestieri scelti, ma fotografati con libertà autoriale piena. Ho scattato in pellicola medio formato e il progetto ha richiesto quasi due anni. Nel 2021, con una diversa selezione e un testo, un racconto che ho scritto per ogni artigiano o realtà, è nato l’omonimo volume pubblicato da Marsilio che racconta le storie dei protagonisti del nobile lavoro dell’artigiano.
Gestire l’agenda tra lavoro personale e commissione non è semplice. Lavorare su commissione resta una bellissima chance che mi ha dato la possibilità di essere autonoma economicamente e di restare legata al mondo del lavoro attivamente. Ho avuto la possibilità di scoprire universi che non avrei mai scoperto seguendo solo i miei interessi Le difficoltà sono, però, molteplici: a volte vorrei proporre un lavoro più originale o avere più comprensione e libertà, molto spesso è la rapidità richiesta e limiti economici a creare forti barriere.
A.M. – Tracce a Montespluga è un progetto iniziato nel 2022 per raccontare un luogo, dovetuo nonno aveva una casa, in un momento storico di cambiamento ambientale, che comporta un profondo mutamento del rapporto tra uomo e territorio. Un altro ambito del nostro contemporaneo di grande interesse.
S.P. – Ti sto scrivendo da quello che per quest’estate sarà il mio studio. Sono a 1908 metri d’altezza sul livello del mare, in Valchiavenna a due passi dal confine con la Svizzera, sulla via dello Spluga. Lo spazio in cui lavoro è un container trasparente che si affaccia sul lago artificiale di Montespluga e le macchine con targhe internazionali rallentano davanti a mia questa grande vetrata, un po’ incuriosite.
Mi trovo in un luogo molto particolare, dove la bellezza naturalistica si confronta da tempi remoti con un forte impatto dell’uomo, il suo controllo e lo sfruttamento delle risorse idriche, geologiche, di pascolo. Il paesaggio è disegnato dal serpente di strada, dalla diga con le sue imponenti sponde. La natura è forte, quasi lunare, tratteggiata dall’erosione del vento e della neve. Per molti anni Montespluga in inverno era ricoperta di neve, c’erano ghiacciai di nevi perenni a pochi chilometri, ghiacciai che oggi si sono sciolti.
Questo luogo è legato a ricordi d’infanzia e per me ha una magia unica. Il clima è mutevole, c’è una fortissima presenza degli elementi: acqua, vento, sole… Tutto è contrastato qui.
Negli ultimi anni i cambiamenti climatici in atto sono sempre più evidenti. La flora, perennemente in evoluzione, si è modificata sensibilmente con la presenza di nuove specie pioniere e una diffusione di larici in altezze che una volta sarebbero state impossibili. Per tutto il 2022 la siccità impressionante ha dato forma a un territorio secco, con colori insoliti per Montespluga: l’erba gialla, le rocce sempre più esposte, zolle secche nella piana del lago… Invece questa estate piogge e freddo insoliti, temporali violenti ritmano le giornate. I pascoli sono verdissimi ma zuppi e a volte insidiosi per il pascolo.
L’idea di questo lavoro è quella di fotografare Montespluga tra il 2022 e 2023 e di raccogliere le impressioni di chi la conosce, abita e vive. La prospettiva scelta è quella della percezione personale più che scientifica, il racconto legato alla flora. È un viaggio sensibile, non una documentazione, anche se per questo lavoro posso contare sull’appoggio di studiosi del clima che mi stanno permettendo di capire esattamente cosa significano le curve sulle precipitazioni, come cambia il terreno, la sua struttura. La collaborazione più importante è quella con Saul Caligari, giardiniere e studioso, grande conoscitore del territorio, che partecipa attivamente al progetto sin dal suo inizio. Alterniamo momenti dedicati alle riprese fotografiche, passeggiate esplorative, interviste e momenti di lavoro a distanza. Inoltre ho il sostegno di Barbara Bonnefoy, professore in psicologia ambientale all’Università di Parigi-Nanterre (Francia), che si occupa in particolare delle reazioni psicologiche che si attivano nei singoli individui e nelle comunità nei confronti dell’ambiente e dei suoi cambiamenti.
Nei mesi di luglio e agosto 2023 lavoriamo a Montespluga. Ho creato degli atelier aperti al pubblico tutti i sabati, raccolgo materiale vintage (vecchie foto, cartoline, pubblicità). Fotografo, intervisto i “caricatori” che hanno portato le mucche in alpe per i mesi estivi e i pochi residenti e i turisti di passaggio. Tutti e tre, Caligari, Bonnefoy e io, insieme dibattiamo di quello che giorno per giorno scopriamo o verifichiamo in termini di flora, rapporti sociali e paesaggio-clima.
L’idea è quella di dare voce a chi questo luogo lo conosce per staccarsi dalla nostalgia e cercare di attivare uno sguardo attento sul presente, prima di tutto sulla flora e sulle condizioni climatiche effettive.
Come sarà Montespluga tra 50 anni? Questa è l’ultima grande domanda che pongo a tutti e che aiuta a osservare il presente per immaginare il futuro.
Una volta terminata la fase di raccolta di tutti materiali, il progetto tornerà completamente nelle mie mani per fare una selezione, rielaborazione e creazione dei contenuti che saranno raccolti in una mostra e spero in una pubblicazione composta di frammenti, in qualche sorta un racconto allo stesso tempo corale e autoriale.
ROMA-Gianicolo –Mausoleo Ossario Garibaldino-Franco Leggeri Fotoreportage-Il Mausoleo Ossario Garibaldino sorge sul Gianicolo nella località detta Colle del Pino, dove tra il 30 aprile e i primi giorni del luglio 1849, guidata da Giuseppe Garibaldi, si svolse l’ultima strenua difesa della Repubblica Romana proclamata il 9 febbraio dello stesso anno.
ROMA-Gianicolo-Mausoleo Ossario Garibaldino
Progettato dall’architetto Giovanni Jacobucci (1895-1970) e solennemente inaugurato il 3 novembre del 1941, dopo due anni di lavori, il Mausoleo accoglie i resti dei caduti nelle battaglie per Roma Capitale dal 1849 al 1870.
progettato dall’architetto Giovanni Jacobucci ed inaugurato nel 1941 per rendere omaggio ai morti per Roma nelle diverse campagne risorgimentali. In un frangente storico in cui permaneva in Italia l’istituto monarchico, il fascismo decise infatti di non limitare il ricordo ai caduti della Repubblica Romana ma di estenderlo ai partecipanti delle campagne del 1867 e del 1870. Nella cripta è sepolto il poeta Goffredo Mameli. Morto il 6 luglio del 1849, il corpo venne portato alla Chiesa delle Stimmate. Dopo la fine del potere temporale della Chiesa, la salma del patriota genovese fu traslata al Verano nel 1872, fino, appunto, alla realizzazione dell’imponente Mausoleo. Sulla tomba sono incise le parole della madre Adelaide Zoagli: “Però il mio dolore è profondo e lo tengo sacro, è tutto per me. Cerco di essere degna del figlio. E d’una italiana, me lo divinizzo, lo considero come un martire, e come tale non lo piango”.
Per informazioni più dettagliate sulla storia della Repubblica Romana si rimanda al sito dell’Associazione Amilcare Cipriani – Comitato Gianicolo, da oltre 20 anni impegnata nella valorizzazione dell’epopea del 1849, tramite iniziative culturali, pubblicazioni, visite guidate e cura dei pannelli esplicativi: www.comitatogianicolo.it
Articolo scritto da Marco Valerio Solia
-Il MAUSOLEO OSSARIO GARIBALDINO fu inaugurato nel 1941-
Nel Mausoleo si trova la Tomba di Goffredo Mameli e della garibaldina Colomba Antonetti Porzi– l’unica donna che è rappresentata con il mezzo busto, tra gli eroi garibaldini, nella Passeggiata del Gianicolo-
garibaldina Colomba Antonetti Porzi
Di seguito voglio pubblicare (una piccolissima sintesi) la storia della morte della Contessina COLOMBA che fu raccontata anche da Garibaldi,dal Guerrazzi e dall’Orsini-
-La morte di Colomba-
Il tentativo di difesa a Porta San Pancrazio avvenne il 13 giugno del 1849 con la presenza del generale Garibaldi, un colpo di cannone francese aveva aperto una breccia sulle Mura Gianicolensi. Lì subito accorse Colomba che, insieme ad altri, si dette da fare per rattoppare la breccia, quando improvvisamente venne colpita da una palla di cannone. Ella, gravemente ferita, venne subito soccorsa dal marito ma, poco dopo spirò tra le sue braccia. La leggenda narra che prima di spirare l’eroina gridasse “Viva l’Italia”.
Della gloriosa fine di questa grande patriota ne parlò anche Giuseppe Garibaldi che nelle sue “Memorie” riferì: “La palla di cannone era andata a battere contro il muro e ricacciata indietro aveva spezzato le reni di un giovane soldato. ll giovane soldato posto nella barella aveva incrociato le mani, alzato gli occhi al cielo e reso l’ultimo respiro. Stavano per recarlo in ambulanza quando un ufficiale si era gettato sul cadavere e l’aveva coperto di baci. Quell’ufficiale era Porzi. Il giovane soldato era Colomba Antonietti, sua moglie, che lo aveva seguito a Velletri e combattuto al suo fianco”. La salma di Colomba venne sepolta nella Chiesa di San Carlo ai Catinari, nella Cappella di Santa Cecilia ed il rito funebre venne officiato dal cappellano don Ugo Bassi, e sulla bara venne poggiato un abito femminile tutto ricoperto di rose bianche. Nel 1941 le sue spoglie vennero traslate nell’ossario Garibaldino sul Gianicolo. Di questa splendida figura molte personalità tracciarono ammirati ritratti tra i quali il Guerrazzi, l’Orsini, ed anche Garibaldi, che così scrisse: “mi fece ricordare la mia povera Anita, la quale essa pure era sì tranquilla in mezzo al fuoco”.
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