Torrita Tiberina-(RM)- Fondazione Mario & Maria Pia Serpone
Parco d’Arte Contemporanea nel cuore della Sabina
La Collezione-La Fondazione Mario e Maria Pia Serpone, un parco d’arte contemporanea nel cuore della Sabina, a soli 40km da Roma. Le opere della collezione sono orientate in corrispondenza con le stelle madri della costellazione del Toro dando forma ad un’architettura invisibile che accompagna i visitatori a scoprire installazioni all’aperto di artisti come Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Bruno Munari e Luca Maria Patella, per citarne alcuni. Oltre a ciò, la Fondazione è orgogliosa di ospitare due rarità nel panorama artistico internazionale: un ‘bottle crash’ di Shozo Shimamoto, la quale opera è un work in progress oggetto di performance annuali; e la cappella Nitsch, una cappella che il fondatore dell’azionisimo viennese Hermann Nitsch ha allestito con sue opere create in loco. Un luogo d’incontro per quanti celebrano l’amore, la libertà, la pace e l’equilibrio nel rispetto reciproco di tutte le forze che governano la natura, l’istituzione ha come centro d’interesse lo studio, la riflessione e la diffusione dell’arte contemporanea. La fondazione è visitabile esclusivamente su prenotazione.
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Per info e per organizzare una visita, scrivere a: info@fondazioneserpone.org.
La collezione permanente
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Una fondazione dove opere d’arte contemporanea contornano il prato, ne seguono le curve, lo impreziosiscono con significati estetici e lo ridisegnano, nobilitando lo spazio con installazioni ambientali a cielo aperto, con performance e con tutto quanto possa prendere forma d’arte attraverso il linguaggio del contemporaneo, in perfetta relazione con l’ambiente.
La cappella Nitsch
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Uno spazio nel bosco concepito come una piccola cappella, il cui progetto, sottoposto al parere dell’artista, ha riscontrato la sua piena approvazione. Hermann Nitsch ha dato, infatti, la sua totale disponibilità per l’allestimento e arredamento della stessa, con opere ed installazioni da realizzarsi in loco.
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Hermann Nitsch, artista austriaco, massimo esponente dell’azionismo viennese, filosofo, musicista e pittore dal 1957 si dedica alla concezione del suo “Orgien Mysterien Theater”(OMT): forma di arte totale che coinvolge tutti e cinque i sensi. Per Nitsch, teatro, palcoscenico, musica, architettura e natura divengono imprescindibili l’uno dall’altro.
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Nelle sue opere si evidenzia l’aspetto drammatico di una “liturgia ematica”, che ripercorre concettualmente il processo di sublimazione dolorosa del “sangue glorioso”. Il sacrificio diviene elemento centrale di un processo di identificazione-coinvolgimento, che travolge i tradizionali schemi comportamentali.
L’opera di Nitsch è riconosciuta a livello mondiale. L’Austria e precisamente Mistelbach gli ha dedicato un museo personale, così come anche la Fondazione Morra a Napoli gli ha dedicato un museo a lui intitolato, inaugurato nel 2008; inoltre le sue opere sono presenti nei più importanti musei di arte contemporanea.
Contattaci-Per organizzare una visita della Fondazione Serpone, un evento privato o per avere maggiori informazioni sui nostri progetti e collaborazioni, inviaci una mail: info@fondazioneserpone.org
Cercaci su Google Maps: Fondazione Serpone Viale Marconi, 5 (S.P. Tiberina 15a, Km. 37,100) 00060 Torrita Tiberina, Roma
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone Cappella Nitsch
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone-Cappella Nitsch
Torrita Tiberina, Roma-Fondazione Mario e Maria Pia Serpone Cappella Nitsch
È stata la capitale d’Israele dal 1948 al dicembre 1949[2][3] ed è ancora sede della maggior parte delle ambasciate straniere presso quello Stato[4], dato che la proclamazione da parte di Israele di Gerusalemme come capitale nel 1980 non è riconosciuta da diverse risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite[5] e un numero limitato di Stati ha l’ambasciata in tale città[4].
La giurisdizione di Tel Aviv è di 50,6 km². La densità di popolazione è di 7.445 persone per km² secondo le stime dell’Ufficio Centrale Israeliano di Statistica, riferite al settembre 2005, quando la popolazione della città ammontava a 876.700, in costante crescita a un tasso annuo dell’1 %. Il 96,1 % dei residenti sono ebrei, mentre il 3,0 % sono arabimusulmani e lo 0,9 % sono arabi cristiani. Secondo alcune stime circa 50.000 lavoratori stranieri non regolarizzati vivono a Tel Aviv[6].
Tel Aviv è il titolo ebraico dell’opera di Theodor HerzlAltneuland, tradotta dalla lingua tedesca da Nahum Sokolow. Sokolow adottò il nome di un luogo sito in Mesopotamia, citato in Ezechiele 3,15: “Giunsi dai deportati di Tel Aviv, che abitano lungo il canale Chebàr, dove hanno preso dimora, e rimasi in mezzo a loro sette giorni”.
Il nome fu scelto nel 1910 fra alcune opzioni, tra le quali “Herzliya“, e fu ritenuto adatto a esprimere l’idea di rinascita dell’antica patria ebraica. Aviv in ebraico vuol dire “primavera” e simboleggia il rinnovamento, mentre Tel indica una “collina” creatasi dalla stratificazione, nel tempo, di vari insediamenti umani e simboleggia il passato storico.
Storia
«Se Tel Aviv fosse in Russia, il mondo esalterebbe il suo piano urbanistico, gli edifici, la sua vita cittadina improntata al sorriso, ‘le sue attività intellettuali, la sensazione di una gioventù al potere. La differenza con la Russia è che invece di essere delle mete per l’avvenire, tutte queste cose sono già realizzate.»
Fondata nel 1909 da un gruppo di residenti della vicina città di Giaffa[7], guidati dal futuro sindaco Meir Dizengoff, il nome della città fa riferimento a un passo della Bibbia: nel Libro di Ezechiele, infatti la “collina della primavera” è proprio il luogo dove – nella visione del profeta – trovano casa gli ebrei in esilio.
Alla fine del 1930 ebbe inizio lo sviluppo dell'”area Yarkon Mouth”, nota come la “Penisola Yarkon River“, prima nell’area circostante l’Aeroporto di Sde Dov, nella zona nord di Yarkon Mouth, e nella zona sud della bocca del fiume Yarkon, in quella che sembra per l’appunto una penisola. La “Tel Aviv International Trade Fair”, nota anche come “Orient Fiera” o “Fiera Levante”, è stata istituita tra il 1932 e il 1936 allo scopo di fare emergere nella città gli stili architettonici che oggi la caratterizzano, in particolare lo Style. Nella parte nord-orientale del campo della fiera internazionale è stato costruito il primo “Maccabiah Stadium“, nel 1932.
Nel 1937, è stato costruito sopra il fiume Yarkon il Wauchope Bridge (in omaggio a Arthur Grenfell Wauchope, Alto Commissario per la Palestina e la Transgiordania tra il 1931 e il 1938), allo scopo di collegare le due sponde della città in occasione della fiera internazionale.
Nel secondo dopoguerra la città si è sviluppata fino a diventare, come conurbazione assieme a città limitrofe, il principale centro israeliano in termini di popolazione ed economia.
Nel settembre 2022, pochi chilometri a sud del Palmahim Beach National Park , è stata scoperta una tomba risalente al regno del faraone Ramses II, tomba ricca di artefatti in ceramica e bronzo che forniscono una panoramica completa dell’arte funeraria della tarda Età del bronzo.[9]
Yarnin Peled -foto di Tel-AvivYarnin Peled -foto di Tel-AvivYarnin Peled -foto dal mare di Tel-AvivYarnin Peled -foto di Tel-AvivYarnin Peled -foto dal mare di Tel-Aviv
Marocco- Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti in mostra a Palermo-
Nicola Fioravanti in mostra a Palermo dal 16 aprile / 22 maggio, “Centro Internazionale di Fotografia Letizia Battaglia”– Un mosaico di colori, architetture ed energia. Il Marocco, con la sua luce mutevole, la forza del vento e del fuoco, i volti delle persone e le scene di vita quotidiana, è il protagonista della mostra “Marocco, Atlante Sentimentale” di Nicola Fioravanti, fotografo di fama internazionale, che si terrà a Palermo, dal 16 aprile al 22 maggio. L’esposizione, ospitata al “Centro internazionale di fotografia Letizia Battaglia” ai Cantieri Culturali alla Zisa, è curata dalla storica dell’arte Daniela Brignone e organizzata dall’Associazione I-design e da Contemporary Concept, con il patrocinio dell’assessorato alla Cultura del Comune di Palermo e del Consolato Generale del Regno del Marocco. L’inaugurazione sarà mercoledì 16 aprile, alle ore 18,00. Ingresso libero.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Il primo incontro tra Fioravanti e il Marocco avviene nel 2010. La sua potenza cromatica diventa subito una fonte di ispirazione, ma servono anni di esperienza prima di riuscire a catturarne davvero l’essenza. Il ritorno, dopo quasi dieci anni, segna un punto di svolta, che è una trasformazione: adesso l’obiettivo non è solo quello di esplorarne i tratti, ma di raccontare l’anima di un popolo e del suo territorio: scoprirne il genius loci per poterlo immortalare. Così nasce “Marocco, Atlante Sentimentale”, una selezione di 40 scatti d’artista di ciò che Fioravanti ha maggiormente amato: le strade e i vicoli, i volti degli abitanti, le architetture di questo straordinario Paese ed è un omaggio alle sue armonie potenti, alle sue combinazioni audaci, all’entusiasmo della sua creatività. Ad ogni angolo si scoprono scene che sembrano disegnate o dipinte, ma che sono in realtà composizioni spontanee di vita quotidiana.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
Fioravanti attraversa le città e i villaggi, soffermandosi sulle strade, sulle kasbah labirintiche, sui banchi dei venditori, sull’operosità degli artigiani e sulle espressioni delle persone che incontra. Ogni scatto è un frammento di questo caotico equilibrio di forme e colori, in un’armonia del tutto naturale. Dalle spezie che tingono l’aria con i loro profumi ai giochi improvvisati dai bambini nei vicoli stretti, dagli sguardi profondi degli anziani alla danza costante fra luci e ombre che placa il frastuono del giorno: il Marocco si rivela in ogni dettaglio, in ogni angolo, nella sua vibrante energia. Questa esposizione segna un momento importante, perché nonostante Fioravanti abbia lavorato in tutto il mondo, è la prima volta che la Sicilia ospita una sua mostra.
Dopo Palermo, la mostra sarà presentata a Rabat, dall’1 al 18 dicembre, presso la “Galerie Bab Rouah”, uno degli spazi espositivi statali più prestigiosi del Regno del Marocco. Situata in una storica porta monumentale della città, la galleria è un punto di riferimento per l’arte contemporanea in Marocco e ospita regolarmente artisti di fama nazionale e internazionale. Esporre in questo luogo iconico, significa entrare in un contesto ricco di storia e simbolo dell’impegno del Regno per la promozione culturale.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Da noi, si mangia con gli occhi”, recita un proverbio marocchino: ed è proprio attraverso lo sguardo – quello attento e profondo di Nicola Fioravanti – che questa mostra diventa un omaggio a un paese dalle mille sfumature, un invito a lasciarsi trasportare dalla sua luce, dal suo ritmo, dalla sua storia. Insh’Allah, “se Dio vuole”, è la frase che ricorre, quasi come una cantilena, che affida le sorti di questo popolo e della sua terra ad Allah, al Divino. Su tutto, cala il silenzio della notte che placa gli animi e, recando la voce del deserto, induce al sonno. Dalla Medina di Casablanca, con i suoi mercati, fino alle strade dipinte di blu di Chefchaouen, immersi in un’atmosfera sospesa nel tempo, questa mostra è una lettera d’amore al Marocco e alla straordinaria tavolozza di colori che ne definisce l’anima. Ed è proprio sul colore che si sofferma l’indagine di Nicola Fioravanti, che esplora il cuore delle medine, con le loro caratterizzazioni cromatiche ben definite che identificano l’anima di questi spazi e del Marocco stesso, che da tempo punta proprio sulla forza e l’efficacia espressiva del colore, per meglio connotare e identificare l’identità dei luoghi, attraverso le suggestioni che questo riesce a trasmettere.
Marocco. Atlante Sentimentale, fotografie di Nicola Fioravanti
“Questa mostra non è solo una testimonianza fotografica di grande maestria, ma un viaggio emotivo nel cuore del Marocco – sottolinea la curatrice Daniela Brignone – dove ogni immagine è un racconto affascinante e coinvolgente che evoca il passato e il presente di una terra fortemente proiettata verso il futuro. Il lavoro di Nicola Fioravanti entra nel profondo della cultura e dell’anima di questo paese, presentato in un luogo, Palermo, che risuona ancora delle tante testimonianze derivate dalla dominazione araba. Ogni scatto è un invito a esplorare l’energia vibrante e la bellezza che permeano ogni angolo, ogni volto, ogni dettaglio. Un viaggio visivo che ci porta ad apprezzare non solo la maestosità del Marocco, ma anche la sua quotidianità, ricca di una forza che è allo stesso tempo delicata e potente”.
L’arte di Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano-
Centro Culturale di Milano.Una grande restrospettiva dedicata all’artista e intitolata Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre, curata da Elena Pontiggia, è esposta dal 17 aprile al 13 maggio presso il CMC Centro Culturale di Milano, con un corpus di circa cinquanta opere, che tracciano l’intenso percorso di una figura di spicco della pittura italiana della prima metà del ‘900.
La mostra ripercorre con andamento cronologico le fasi artistiche che hanno caratterizzato il lavoro di Esodo Pratelli da un’iniziale espressione legata al realismo e più marcatamente al simbolismo, con la realizzazione di opere pittoriche, per poi evolvere nel primo decennio del ‘900 all’adesione al movimento futurista e approdare negli anni Venti al Novecento Italiano. La mostra mette in risalto l’attenzione rivolta dall’artista, oltre che all’olio, anche a numerose tecniche dall’acquerello alla tempera, dal carboncino fino alla lavorazione della ceramica e alla realizzazione di arazzi, evidenziando una spiccata poliedricità. In mostra si ammirano inoltre fotografie e documenti storici che testimoniano il suo percorso artistico e l’attività cinematografica.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Una vita molto intensa, intrisa di una fervida cultura legata al contesto familiare, coltivata grazie a viaggi, permanenze a Parigi, a Roma, oltre a incontri e contatti con importanti esponenti dell’epoca fra cui Boccioni, Carrà, Severini, Marinetti, Gris, Delaunay, Sironi.
Pratelli partecipa attivamente alle iniziative del suo tempo, si ricordano infatti la collaborazione alla nascita della Corporazione delle Arti Plastiche (1923), la docenza e la direzione a Milano della Scuola d’Arte Applicata del Castello Sforzesco (1924 ca. – 1934), la proposta firmata con Sironi, Sarfatti, Funi, Carrà per l’istituzione di un Consiglio superiore per l’arte moderna (1925), la nomina a segretario del Sindacato Fascista Belle Arti di Milano (1927) e l’anno successivo della Lombardia. Decenni molto densi in cui l’artista si è dedicato anche alla creazione di bozzetti per scenografie e costumi di opere liriche, durante i quali non sono mancati momenti di allontanamento dalla pittura, tra il 1935 e il 1950, anni che lo vedono protagonista a Roma, con un’intensa attività in ambito cinematografico, come sceneggiatore e regista.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Un aspetto che contraddistingue la pittura di Pratelli si ritrova nella costante presenza della natura, seppur con declinazioni diverse a seconda della fase artistica nella quale è immerso. Anche nelle tele dove il paesaggio non è il soggetto protagonista, l’elemento naturale emerge in maniera preponderante, cattura l’attenzione e appare carico di significati. Talvolta si tratta di agenti atmosferici, che l’uomo non può controllare e che appaiono ancor più catalizzanti all’interno delle opere.
L’attenzione al segno e alla linearità, accanto alla raffinatezza e all’eleganza del tratto, i toni morbidi e leggeri sono ulteriori caratteri distintivi del lavoro dell’artista, conservati nel corso di tutta la sua carriera. Importanti i maestri cui si è ispirato e ha fatto riferimento nel tempo, da Klimt a Beardsley durante al giovinezza, da Carrà a Sironi in età più matura.
Nell’approfondito testo in catalogo afferma la curatrice Elena Pontiggia in relazione alla sua pittura: “Merita di essere conosciuta per l’intensità di tanti suoi esiti, ma anche per l’esprit de finesse che la percorre. I suoi colori delicati, le sue raffinate composizioni di figure, i suoi temi confidenziali, i suoi paesaggi urbani e i suoi paesaggi senza aggettivi, tutta la sua traiettoria stilistica, insomma, dal simbolismo al futurismo al “Novecento”, cui vanno aggiunti i suoi ultimi decenni tutt’altro che senili, hanno troppo valore per essere relegati nella Scatola delle cose dimenticate, come l’artista intitola un quadro del 1967, che è anche una trasparente metafora della sua vicenda espressiva”.
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Nel percorso espositivo fra i lavori degli esordi è presente la maiolica policroma Estate nella notte (1911), citata e descritta nel carteggio con il cugino Balilla Pratella; con lui coltiva un profondo rapporto epistolare nel corso di tutta la sua vita. All’interno della lettera, l’artista oltre a dichiararsi ceramista descrive gli intenti di quel momento facendo emergere il suo interesse per il simbolo e gli elementi naturali.
Del periodo futurista, dettato dall’interesse per il movimento, delle linee che tendono alla verticalità e a colori più vivaci, si ammirano le tele Frammento della primavera (1913), caratterizzato dal roteare di segmenti in gran parte circolari e i bozzetti per le scene e i costumi dell’opera lirica del cugino Balilla dal titolo L’aviatore Dro (1913). Si tratta della sua prima progettazione scenografica ufficialmente futurista, eseguita per la prima volta nel 1920, nella quale, sia che si tratti di scene sia di figurini, si avverte la predilezione per la sintesi, per una linearità ondulata del tratto e di una tensione verso l’infinito.
In linea con il suo avvicinamento al Novecento italiano l’artista volge a delle rappresentazioni in cui emerge la ricerca di una moderna classicità, dove la plasticità, i volumi, la nitidezza delle forme e la supremazia del disegno sul colore assumono un ruolo centrale. Lo si osserva in Maternità (1922) e nel ritratto della figlia Lilia (1925); qui i soggetti dominano la scena con una solida volumetria, una forma precisa e nitida. In questi anni frequenta Mario Sironi, al quale dedica Ritratto di Sironi (1928); con lui condivide l’interesse per la pittura solida, monumentale e viene influenzato nella scelta di soggetti quali cantieri, fabbriche, periferie, ne è esempio Ciminiere (1924).
Sono inoltre in mostra lavori che attestano il successivo allontanamento dal movimento del Novecento italiano verso un maggior interesse per i paesaggi, per una dimensione quotidiana, casalinga, orientata a una visione più serena e cromaticamente più luminosa, in cui predomina la grandezza della natura. Estate (1930) e La favola del bosco (1931), con ambientazioni quasi fiabesche e legate alla vita di tutti i giorni, con scene intime e tenere, ben rappresentano questa inversione di rotta e l’avvicinamento al realismo magico.
Anche nelle opere degli anni Cinquanta, fra le altre Gatto sulla stufa (1957), successive all’isolamento dal mondo pittorico, i temi sono familiari, fino ad arrivare agli anni Sessanta dove la figurazione è legata a particolari, sempre del quotidiano, ma ancor più intimi e quasi nascosti; come nell’emblematica La scatola delle cose dimenticate (1967).
Accompagna la mostra un’importante e dettagliata monografia di Elena Pontiggia, edita da Silvana Editoriale, ad oggi la più completa sull’artista, che traccia un esaustivo ritratto di Esodo Pratelli e del suo lavoro. Accanto alle numerose tavole a colori, oltre un centinaio, sono pubblicati carteggi inediti dell’artista con personalità a lui vicine nel suo percorso di vita e in quello artistico.
Cenni biografici. Esodo Pratelli (1892 – 1983) nasce a Lugo -Ravenna- dove frequenta il ginnasio e la Scuola di Disegno e Plastica, vince il concorso e la borsa di studio, quindi si trasferisce a Roma. Formatosi all’Accademia di Via Ripetta a Roma, dopo un’iniziale adesione al simbolismo, si avvicina nel 1913 – 1914 al futurismo, entrando in contatto con i maggiori esponenti del movimento durante il suo soggiorno a Parigi. Si dedica alla realizzazione di tele, ceramiche e contemporaneamente scenografie e costumi per L’Aviatore Dro, opera del cugino Balilla Pratella, in stile pienamente futurista. Nel 1915 è richiamato alle armi da cui sarà congedato solo nel 1919, quando a guerra conclusa si stabilisce a Milano. Negli anni Venti è nominato segretario del Sindacato Fascista Belle Arti di Milano e successivamente della Lombardia. Si sposa con Elsa Martina e dal loro matrimonio nel 1922, nasce la figlia Lilia e successivamente, nel 1928, il figlio Giuliano. Aderisce al Novecento Italiano ed è annoverato da Margherita Sarfatti nel “vivaio di giovani forze” del movimento; partecipa nel 1926 alla I Mostra del Novecento Italiano alla Permanente di Milano e a tutte le esposizioni successive in Italia e all’estero. Anni significativi sono il 1927 e il 1928 grazie alla presenza alla Biennale di Brera, con le opere Giulia e Laura e Paese toscano, e per la prima volta alla XVI Biennale di Venezia, dove tornerà ad esporre nel ‘30, ‘32 e ‘34.
Nel 1931 è tra gli artisti della I Quadriennale e nello stesso anno alla Exhibition of Contemporary Italian Painting, organizzata dalla Quadriennale di Roma al Museo di Baltimora.
Il 28 ottobre 1932 nel decennale della marcia su Roma si apre a Palazzo delle Esposizioni la Mostra della Rivoluzione Fascista, per cui Pratelli si occupa della parte artistica di tre sale.
Nel 1935 lascia Milano per tornare a Roma, dove si dedica alla scenografia e regia cinematografica, abbandonando sia l’insegnamento che l’attività espositiva. Nella seconda metà degli anni Cinquanta riprende l’attività pittorica, che continua fino agli ultimi anni della sua vita trascorsi a Roma.
Attualmente importanti opere dell’artista sono custodite in musei nazionali e internazionali, gallerie e collezioni pubbliche e private.
Si ringrazia la Fondazione Massimo e Sonia Cirulli per il significativo prestito.
Centro Culturale di Milano. Nato nel 1981 è un originale spazio di dialogo su molti campi della cultura e dell’arte, in collaborazione con istituzioni, enti privati e pubblici a livello regionale e nazionale, diretto da Camillo Fornasieri.
La sede, situata nel centro di Milano tra Duomo e Piazza San Babila, nel palazzo disegnato dallo Studio Caccia Dominioni, è un luogo per meeting, convegni, presentazioni di libri, esposizioni di mostre ed eventi con artisti, scrittori, intellettuali, dall’Italia e dal mondo.
Fra le mostre si ricordano quelle dedicate a Mario Funi, Carlo Carrà, Trento Longaretti, Maurizio Bottoni, Eugene Smith, Dorothea Lange, Lewis Hine, Edward Burtynsky, Ferdinando Scianna.
All’interno del CMC sono visitabili, coperti dalla struttura in vetro, i ruderi delle Terme Erculee romane del II secolo d.C..
Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre al Centro Culturale di Milano
Coordinate mostra
Titolo Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre
A cura di Elena Pontiggia
Sede Sala Espositiva Centro Culturale di Milano – Largo Corsia dei Servi, 4 – Milano
Date dal 17 aprile al 13 maggio 2025
Inaugurazione mercoledì 16 aprile, ore 18
Orari da lun a ven 10 – 13 / 14:30 – 18; sab e dom 15 – 19
Chiuso domenica 20 aprile S. Pasqua
Apertura speciale lunedì 21 aprile Pasquetta 14:30 – 18
Ingresso libero
Info al pubblico www.centroculturaledimilano.it – Tel. 02 86455162
Come arrivare MM1 e MM4 San Babila – MM3 Duomo – Bus 54, 60, 61,73,84 – Tram 15, 23
Parcheggio sotterraneo per autovetture a pagamento
Coordinate monografia
Titolo Esodo Pratelli. Dal futurismo al “Novecento” e oltre
A cura di Elena Pontiggia
Edizione Silvana Editoriale
Lingua italiano
Pagine 128
Illustrazioni 100
Formato cm 23×28 cm
Rilegatura brossura
Copertina flessibile
ISBN 978-88-366-5898-5
Prezzo € 26
Ufficio stampa
IBC Irma Bianchi Communication
Via Arena 16/1 – Milano
Lucia Steffenini mob. + 39 334 3015713
Marta Casuccio mob. +39 375 8855909
tel. +39 02 8940 4694 – info@irmabianchi.it
testi e immagini scaricabili da www.irmabianchi.it
Bruce Chatwin-L’occhio assoluto-Fotografie e taccuini-
Traduzione di Clara Morena-ADELPHI EDIZIONI
Risvolto-Come si parla di orecchio assoluto a proposito di coloro che sanno riconoscere perfettamente l’altezza dei suoni, si potrebbe parlare di «occhio assoluto» per una qualità che Bruce Chatwin già mostrava nei suoi scritti e che ora ci appare, e si impone, nelle sue fotografie. Riconoscere in ciò che sta attorno a noi – e soprattutto attorno all’occhio, sempre mobile, del viaggiatore – quegli spicchi di realtà che sono altrettante visioni, isolarli dal resto e lasciarli vibrare nella loro pura evidenza ottica: questo è il segno di elezione dell’«occhio assoluto». Le immagini che compaiono in questo libro furono colte in Patagonia e in Mauritania, in Australia e nell’Afghanistan, nel Mali e in Nepal, ma spesso il luogo di origine e l’occasione rimangono indecifrabili, come se la pura accidentalità del viaggiare fosse servita a far emergere ogni volta, in un labile momento, la piena singolarità di un frammento di ciò che è, senza altri attributi, e al tempo stesso il muto stupore dell’occhio che lo coglie. Insieme a queste sorprendenti fotografie appaiono qui per la prima volta lunghi estratti dai taccuini di Chatwin, riserva alla quale era solito attingere per tutte le sue opere. Da due vie, dunque, L’occhio assoluto permetterà di entrare nel segreto – quasi nella percezione stessa – di uno scrittore che rimarrà fra i grandi dei nostri anni.
In copertina
Bandierine delle preghiere, Khumbu, Nepal (fotografia di Bruce Chatwin). 1993 JONATHAN CAPE
ADELPHI EDIZIONI S.p.A
Via S. Giovanni sul Muro, 14 20121 – Milano Tel. +39 02.725731 (r.a.) Fax +39 02.89010337
La Giornata del Made in Italy alla Biblioteca nazionale centrale di Roma-
La Biblioteca nazionale centrale di Roma del Ministero della Cultura partecipa alla Giornata Nazionale del Made in Italy organizzata dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, con una mostra dal titolo Fatto in Italia: tracce di moda tra i libri della Biblioteca nazionale centrale di Roma.
La Giornata nazionale del Made in Italy è celebrata nel giorno dell’anniversario della nascita di Leonardo da Vinci, avvenuta il 15 aprile 1452 ed è dedicata alla promozione della creatività e dell’eccellenza italiana.
La mostra Fatto in Italia: tracce di moda tra i libri della Biblioteca nazionale centrale di Roma esplora la storia di una delle filiere d’eccellenza italiana, quella della moda e del tessile, che rappresenta il cuore pulsante dell’artigianato, della creatività e dell’eccellenza italiana.
Il breve, ma denso percorso espositivo che celebra la moda e il design italiano sarà allestito dal 15 aprile al 15 maggio in due spazi distinti della Biblioteca ed è stato disegnato per offrire al pubblico un affresco della moda italiana attraverso i secoli. Una selezione di opere tratte dai fondi antichi, rari e di pregio e foto e servizi di moda pubblicati dai primi anni del XX secolo in riviste storiche. Le vetrine sono allestite in uno spazio del foyer e in uno spazio della sala Manoscritti.
La sezione dell’esposizione presso la Sala Manoscritti curata dalla dott.ssa Saveria Rito, presenta alcuni dei più celebri trattati cinquecenteschi su abiti e costumi, corredati da illustrazioni magistralmente incise in xilografia (Cesare Vecellio) o in calcografia (Pietro Bertelli) e arricchiti da parti mobili che celano curiosi dettagli, fino a giungere alla monumentale opera di Giulio Ferrario (Il costume antico e moderno di tutti i popoli, 1826-1834) in 21 volumi impreziositi da oltre mille litografie a colori. Si aggiungono altre raffinate edizioni che esaltano l’eccellenza dell’arte italiana del ricamo stampate tra il XVI e il XVII secolo. Vera e propria rarità, infine, il trattato del modenese Giovanni Guerra dedicato alle Varie acconciature di teste usate da nobilissime dame in diverse città di d’Italia (non prima del 1589) costituito da eleganti incisioni in rame che raffigurano pettinature in uso in varie città.
La sezione dell’esposizione ospitata nel foyer della Biblioteca curata dalla dott.ssa Consuelo Labella, è un breve viaggio attraverso le tendenze e le icone di stile tra XIX e XX secolo: in mostra le fotografie e le illustrazioni tratte dalle riviste che hanno contribuito a fare la storia del giornalismo di moda in Italia con immagini che raccontano l’evolversi della moda ed il costume fino al grande riconoscimento internazionale dopo la seconda guerra mondiale. Una sezione speciale è anche dedicata alle acconciature che hanno segnato la storia, simbolo e manifestazione tangibile dell’evoluzione socio-culturale, politica e tecnologica delle civiltà.
La mostra sarà aperta martedì 15 aprile alle ore 17.30 con un incontro speciale in Sala Macchia condotto da Fabiana Giacomotti, storica del costume e giornalista dal titolo “Bibliomoda. Le parole del Made in Italy”. L’incontro introdotto da Consuelo Labella che spiegherà il percorso espositivo, sarà un viaggio alle origini della parola scritta nella moda e nelle mode e spazierà dagli alba amicorum ai social, dal “Giornale della nuova mode di Francia e di Inghilterra” e “La donna galante ed erudita” ai creator, dai compendi di costume alle sfilate live.
La Biblioteca nazionale centrale di Roma vi invita a condividere con noi questa Giornata nazionale del Made in Italy.
Made in Italy
La Giornata del Made in Italy alla Biblioteca nazionale centrale di Roma
15 Aprile 2025, La mostra sarà aperta martedì 15 aprile alle ore 17.30 con un incontro speciale in Sala Macchia condotto da Fabiana Giacomotti, storica del costume.
-Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”-
Articolo di Cesare VIVIANI scritto per la Rivista ORIGINI N°37 anno 1999-
Alfredo CHIGHINE “Il segno e il senso nelle sue Opere”
Alfredo Chighine – cenni biografici:
Alfredo Chighine nacque a Milano il 9 marzo 1914 da padre sardo e madre lombarda. Giovanissimo entrò in fabbrica a lavorare come operaio mentre, cominciati subito i suoi interessi artistici, frequentava il Corso di Incisione all’Umanitaria. Nel 1941 espose alla III Mostra Provinciale al Palazzo della Permanente un dipinto intitolato “Composizione”. Nel 1945 studiò all’Istituto Superiore d’Arte Decorativa di Monza e finalmente all’Accademia di Brera di Milano, dove seguì il corso di scultura. In questo periodo conobbe Giacomo Manzù e fu suo allievo. Aveva stretti rapporti di amicizia e di lavoro con Franco Francese, più giovane di lui di sei anni. Erano gli anni del dopoguerra: Alfredo Chighine entrò nell’ambiente di Brera, che gravitava intorno al Bar Giamaica. Aveva intanto continuato a dipingere. Ma nel 1948 si presentò alla Biennale di Venezia con due sculture in legno. Era poverissimo, gli mancavano i materiali per lavorare, colori, tele, legno, ecc. La scultura “Maternità” del 1946 è fatta con un acero di un viale di Milano, segato e portato a casa di notte. Aveva studio in via Mac Mahon. Qui lo frequentò, primo dei critici a capirne le qualità, Marco Valsecchi. Fondamentale fu in quel momento l’incontro, tramite Valsecchi, con Gino Ghiringhelli. Ne derivò un rapporto di stima, di amicizia e di lavoro che durò fino alla morte di Ghiringhelli nel 1964, e che fu testimoniato da numerose mostre alla Galleria del Milione. Un eccezionale collezionista, Carlo Frua De Angeli, colse allora il valore di Chighine e acquistò molte delle sue migliori opere degli anni cinquanta e primi sessanta. Nel 1956 lasciò lo studio di via Mac Mahon e si trasferì in uno studio in via Rossini 3, che divise col pittore Giordano. Nel 1957 Alfredo Chighine compì il primo viaggio a Parigi. Dal 1958 cominciò a recarsi nell’estate a Viareggio; qui ebbe studio e vi tornò ogni anno, acquisendo nuovi temi e un senso diverso della luce. In quello stesso anno lasciò lo studio di via Rossini e ne sistemò uno, che fu il definitivo, in Corso Garibaldi. Nel 1959 fece un breve soggiorno a Positano e fu colpito dalla violenza cromatica del Sud. Ormai la sua opera si era imposta e la sua vita non ebbe più vicende che non fossero quelle interiori e del lavoro quotidiano di pittura, di grafica e di incisione. Morì a Pisa il 16 luglio 1974.
Chighine alla Galleria Marini: ALFREDO CHIGHINE Pensare con le mani
– Milano Arte Expo-
Chighine alla Galleria Marini: ALFREDO CHIGHINE Pensare con le mani – mostra consigliata da Milano Arte Expo. Inaugurazione giovedì 11 dicembre 2014 alla Galleria Marini (via Appiani 12 vedi MAPPA) – aperta fino al 28 febbraio 2015. Grande omaggio ad Alfredo Chighine (Milano 1914 – Pisa 1974), tra i protagonisti storici della pittura informale italiana. In espsosizione più di quaranta opere eseguite dal 1953 al 1973 a testimoniare tutto il percorso artistico del maestro. Scrive Elisabetta Longari nella presentazione in catalogo “…Pensare con le mani: non riesco a trovare una formulazione alternativa che dia altrettanto precisamente conto della matrice “immanente e pragmatica” propria del laboratorio creativo dell’artista, tanto nella sua prima fase come scultore quanto nella sua attività di pittore, e dei suoi processi, legati soprattutto all’immediatezza del fare, un fare interamente basato su una sorta di intuito fulmineo della mano e dell’occhio (“come se a vedere fossero le mani”) …”. >
E Cristina Casero osserva “…Per Chighine mi sembra che la stagione informale vada intesa, da un lato come la volontà di avvicinarsi alla realtà per restituirne l’essenza vitale, il ritmo, guardando alla natura naturans più che alla natura naturata, dall’altro come un fondamentale esercizio sul piano della prassi pittorica, della costruzione dell’immagine attraverso il lessico della pittura: segno, colore, luce …”
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Ancona THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy-
Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy-Nel panorama culturale di Ancona c’è una novità: si chiama THEIA Gallery(in omaggio alla divinità greca della visione) ed è una “home gallery“, vale a dire un’abitazione che funziona anche come spazio espositivo aperto al pubblico. Dal 12 aprile al 4 maggio, a cavallo di Pasqua e dei ponti di primavera, THEIA (via Cadorna 4, Ancona) aprirà i battenti con una mostra fotografica di Massimo Baldini intitolata Casa nostra. Housing in Italy: una cinquantina di fotografie a colori che esplorano il tema dell’abitazione privata e dell’abitare nel nostro paese.
Ancona-THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
THEIA HOME GALLERY
Lungi dall’essere neutro, lo spazio fisico in cui fare arte è carico di significati e implicazioni dal punto di vista culturale, economico e politico. Per arrivare a varcare la soglia della galleria, del museo, del padiglione fieristico, l’artista partecipa inevitabilmente a liturgie e a logiche commerciali che ne orientano il progetto fin dall’ideazione, nel contesto di un mercato tanto più onnipotente e autoreferenziale quanto più ristretto ed “esausto”, come lo definisce il sempre corrosivo polemista Luca Rossi. Per molti artisti questo si traduce in un’assenza di critica e di confronto e per la scena artistica contemporanea in una crisi di qualità.
Come ripensare allora le vie della circolazione dell’arte? Esistono dinamiche alternative a quelle tradizionali? Richiamandosi a esperienze di “home gallery” già diffuse nel mondo anglosassone e non solo, THEIA nasce da questa esigenza: creare un locus dove fra le opere e il loro pubblico sia possibile un dialogo diretto, nell’atmosfera raccolta della casa dell’artista. THEIA dichiara la propria vocazione fotografica ma ospiterà anche eventi culturali e artistici di altro segno.
Ancona-THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
LA MOSTRA
È vero che costruiamo case per accogliere la porzione di mondo che renda possibile la nostra stessa felicità? Una felicità fatta di cose, persone, animali, piante, atmosfere, eventi, emozioni, immagini e ricordi. Di campagna, di città, rustiche, popolari, signorili: troppo facile liquidare le case degli italiani come altrettanti mostriciattoli edilizi. Guardiamolo più da vicino allora, questo “universo intimo” e allo stesso tempo pubblico, caratterizzato da coesistenze e ibridazioni vertiginose.
Anzitutto il cortile, in cui elementi rurali o suburbani, come l’orto e il giardino, convivono spesso con inserti dell’industrialismo, quali capannoni e silos. Poi richiami alla tradizione classica, come colonne, capitelli, bassorilievi, frontoni, discoboli, Veneri di Milo, David di Michelangelo; l’inesauribile repertorio delle reminiscenze antiche, medievali, rinascimentali, barocche, non di rado compresenti; l’iconografia fiabesca e zoomorfa di nanetti, pastorelli, bambi, aquile, leoncini, scimmiette, cani life-size; la religiosità nazional-popolare incardinata nelle figure della Madonna e di Padre Pio. Infine, uno sperimentalismo anarchico assai congeniale al nostro paese, una scapigliatura architettonica che non finisce mai di stupire: audaci scalinate, archi maestosi, ornamenti neo-neo. Nell’impasto in apparenza incoerente di surreale e banale, inventivo e scanzonato, si disvelano gli arcani dell’italianità, ma anche i modi in cui gli abitanti della penisola cercano, e trovano, la propria felicità.
Massimo Baldini si è laureato in Sociologia economica nell’Università di Firenze. Dopo aver lavorato a lungo nell’editoria, dal 2014 si dedica esclusivamente alla fotografia. Si è occupato in particolare dell’identità italiana, secondo diverse prospettive. Tra le sue mostre personali: Italianité, Parigi, Maison de l’Italie, 2017; A Tour not so Grand, Bologna, Fondazione Carlo Gajani, 2018; White Noise, Milano, Galleria Made4Art, 2022. Italia Revisited # 1, un progetto di lungo periodo sulle trasformazioni del paesaggio italiano, che dialoga idealmente col Viaggio in Italia di Luigi Ghirri ed altri a quarant’anni di distanza, è stato in esposizione a Bologna, Complesso monumentale del Baraccano, 2023, poi a Ravenna, Fondazione Sabe per l’Arte, 2024; nel 2025 sarà al Regierungspräsidium di Friburgo e alla Rathausgalerie di Rheinfelden. In volume ha pubblicato Gli Italiani, con testi scelti da Claudio Giunta, Bologna, Il Mulino, 2019.
Ancona-THEIA Gallery- Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
Mostra: Massimo Baldini. Casa nostra. Housing in Italy
-Gli ARCHI COMMEMORATIVI E TRIONFALI DELLE COLONIE ROMANE.
Copia anastatica dell’Articolo dalla Rivista EMPORIUM n° mese di maggio 1908
Un arco trionfale, o arco di trionfo, è una costruzione con la forma di una monumentale porta ad arco, solitamente costruita per celebrare una vittoria in guerra, in auge presso le culture antiche. Questa tradizione nasce nell’Antica Roma, e molti archi costruiti in età imperiale possono essere ammirati ancora oggi nella “città eterna“.
Alcuni archi trionfali erano realizzati in pietra, a Roma in marmo o travertino, ed erano dunque destinati ad essere permanenti. In altri casi venivano eretti archi temporanei, costruiti per essere utilizzati durante celebrazioni e parate e poi smontati. In genere solo gli archi eretti a Roma vengono definiti “trionfali” in quanto solo nell’Urbe venivano celebrati i trionfi e onorato l’ingresso del vincitore. Gli archi eretti altrove sono generalmente definiti “onorari” e avevano la funzione di celebrare nuove opere pubbliche. Originariamente gli archi erano semplici e avevano una sola apertura (fòrnice), nell’età tardoimperiale si arricchirono con fòrnici laterali e rilievi scultorei decorativi. Sulla sommità, detta attico, erano poste statue e quadrighe guidate dall’imperatore. L’età augustea inaugurò una tipologia grandiosa dell’arco di trionfo; era arricchito con rilievi in marmo o in bronzo che raccontavano le imprese di guerra dell’imperatore.
La costruzione degli archi romani assunse man mano, un ruolo pressoché simbolico. Essi infatti si rifanno alle porte monumentali, allineate alle mura della città, ma da esse si differiscono non tanto strutturalmente, ma, appunto, simbolicamente. Essi sono, infatti, dedicati a grandi imprese compiute da imperatori, generali, quali guerre, conquiste o anche alla semplice edificazione di infrastrutture come ponti e strade. Altro elemento di grande importanza, e quindi da sottolineare, è la circostanza che la monumentalità sia data dalla sovrapposizione di due elementi strutturali: la volta ed il trilite (due colonne che sorreggono un architrave). Di questi due, solo la volta è l’elemento portante: il peso dell’intera struttura è scaricato solamente su di esso e non sulla struttura trilitica.
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Fjodor Savintsev fotografo: Come in un romanzo, viaggio nelle autentiche dacie russe di campagna.
Fyodor Savintsev, born in 1982, is a documentary photographer. In the early 2000s, Fyodor worked as photo journalist, collaborating with the world’s leading photo agencies. His stories have been published in the worlds media. Fyodor’s work is filled with deep meanings and symbolism. The author has his own language and style. Fyodor Savintsev has been having several solo and group exhibitions and has participated in auctions and fairs. He also published photo albums and books. He is playing an active role in the world of photography.
Fjodor Savintsev
Il fotografo Fjodor Savintsev ci apre le porte delle casette in legno del villaggio di Kratovo, vicino Mosca, per raccontare e immortalare un patrimonio architettonico fragile e bellissimo. I suoi scatti serviranno a promuovere una fondazione per la tutela delle antiche dacie private che caratterizzano la campagna russa. Sembrano uscite da un film di Nikita Mikhalkov. O da un racconto di Anton Chekhov. Sono le dacie russe di campagna. Casette in legno, solitarie e circondate dal bosco, immerse in un silenzio che sembra irreale. Le dacie russe sono ora al centro di un interessante progetto realizzato dal fotografo Fjodor Savintsev, conosciuto per aver pubblicato i propri scatti su importanti riviste internazionali.
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Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
La pandemia come forma di ispirazione
Il progetto è nato durante i difficili momenti della pandemia; quando la gente era costretta a stare chiusa in casa, o a cercare rifugio nelle proprie dacie di campagna, lontano dalle folle delle città. “Il progetto ‘Le dacie di Kratovo’ prende il nome da un villaggio di periferia vicino a Mosca – racconta il fotografo -. Tutto è iniziato quando sono tornato a casa dei miei genitori per aiutarli nel momenti difficili della pandemia. E così ho iniziato a raccogliere immagini documentarie delle vecchie dacie della periferia di Mosca”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Un viaggio affascinante nel passato. Un passato inciso nelle assi di legno, nelle cornici intagliate delle finestre, nei tetti spioventi che disegnano geometrie fantasiose, spesso frutto del gusto personale degli abitanti che le hanno costruite. Queste casette, infatti, il più delle volte sono state realizzate dalla gente comune, che in passato non si affidava ad architetti e costruttori. Il risultato è un “patchwork” unico di forme e colori.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Mi sono visto come un archivista che raccoglie informazioni e documenti – spiega Fjodor Savintsev -. In teoria, questo lavoro dovrebbe essere fatto da professionisti dell’architettura. Ma ho creato una tendenza affascinante che si è diffusa in diverse città. E noto un interesse crescente nello studio delle dacie a livello storico”.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
L’evoluzione dei suoi lavori
Nel corso degli anni l’attenzione di Savintsev si è spostata dai soggetti umani agli oggetti immobili. Un passaggio “fluido”, come lo ha definito lui stesso, mosso dal desiderio di raccontare l’architettura come se fosse un ritratto.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“In generale nella mia carriera hanno prevalso i soggetti umani sull’architettura, ma adesso guardo anche le case attraverso la forma del ritratto. Faccio ritratti di case”, dice Savintsev, che ha sviluppato il suo progetto con un metodo di ricerca molto preciso, percorrendo strada per strada, viuzza per viuzza, alla ricerca di casette in legno da fotografare. Spesso si è messo sulle orme dei proprietari, per raccogliere testimonianze e informazioni sulla storia delle case, da poter poi condividere insieme alle immagini.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Trovare i proprietari non è sempre stato facile: Savintsev si è rivolto al suo vasto pubblico di Instagram chiedendo se qualcuno conoscesse la storia di una particolare casa o dei suoi proprietari.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Instagram è uno strumento mediatico che mi permette non solo di condividere le mie foto con il pubblico, ma anche di costruire legami significativi, dando la possibilità alla gente di contattarmi direttamente. Più di qualche volta infatti sono stato contattato dai proprietari”, spiega.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Per il fotografo documentarista, ottenere l’accesso alle case è di fondamentale importanza; ma spesso la gente si sente in soggezione davanti a obiettivi e macchine fotografiche, perciò Savintsev scatta le sue immagini sempre con lo smartphone.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
“Viviamo in un’epoca in cui le persone sono morbosamente a disagio quando vedono attrezzature professionali e credono che violino i loro confini privati. L’iPhone non provoca una tale reazione”, racconta Savintsev.
Fjodor Savintsev fotografo-Reportage “dacie russe di campagna”.
Al momento Savintsev sta aiutando a restaurare cinque case e ha in programma di creare una fondazione per aiutare il recupero delle dacie private. “L’obiettivo è preservare il patrimonio dell’architettura in legno – spiega -. Lo Stato non stanzia fondi per mantenere gli immobili privati, e spesso case come queste finiscono in rovina. Ma sono molto interessanti dal punto di vista del nostro patrimonio culturale, anche se sono di proprietà privata. Quindi, l’idea della fondazione è di aiutare a preservare l’aspetto autentico e originale di queste dacie, anche se private”.
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