Fotoreportage:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia.
La foresta rossa
Fotoreportage -La Russia è costellata di luoghi sorprendenti creati dalla “mano” magica della natura, che in questo angolo di mondo è stata particolarmente generosa in termini di bellezza e varietà. Il boschetto di cipressi nella valle di Sukko, nel sud paese, pur essendo di origine artificiale, è comunque impressionante! Giudicate voi stessi:La foresta rossa che nasce dall’acqua: un angolo di paradiso nel sud della Russia
RUSSIA-La foresta rossa
Infatti i cipressi della palude (taxodium) non sono mai cresciuti qui e difficilmente sarebbero apparsi se non fosse stato per un esperimento sovietico. Si narra che negli anni ’30 furono portate delle piantine di cipresso dall’America del Nord, nella speranza di sviluppare in URSS una nuova coltura.
RUSSIA-La foresta rossa
Questi alberi furono piantati a 14 km da Anapa, nella valle collinare di Sukko, non lontano dall’omonimo villaggio.
RUSSIA-La foresta rossa
Con il passare degli anni, le piante hanno attecchito perfettamente e sono state oggetto di innumerevoli servizi fotografici e televisivi. Sono finite persino sulle pagine della rivista National Geographic.
Fonte Russia Beyond
Natura sensitiva tra la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino
Testo di Eleonora Diana
Puntata 1
“E questa nostra vita, via dalla folla, trova lingue negli alberi, libri nei ruscelli, prediche nelle pietre, e ovunque il bene”
(William Shakespeare, “As you like it”)
Che le piante fossero degli esseri straordinari e super-eroici lo sosteniamo da tempo, ma essere capaci di rimediare ai disastri atomici sembra proprio una qualità da eroe Marvel.
Da Černobyl a Hiroshima, le piante stanno dimostrando a noi umani una potente volontà di vita: un misto di resilienza, fluidità e capacità di rinascita.
La Foresta Rossa di Černobyl
Il nome evocativo “Foresta Rossa” non indica una zona di qualche remota regione del Nord Europa o una magica foresta in stile “Il Signore degli Anelli”, ma una pineta di circa 4 km2 che subito dopo “l’incidente” di Černobyl virò di colpo al rosso, per poi morire.
Era l’una del mattino, 23 minuti e 46 secondi e successe l’impensabile.
Una serie di violazioni nel protocollo di sicurezza crearono uno spaventoso effetto domino: il reattore n° 4 della Centrale nucleare Vladimir Il’ iČ Lenin, vicino a Černobyl, vide la temperatura del proprio nocciolo aumentare bruscamente, portando l’acqua di refrigerazione a scindersi in ossigeno e idrogeno che, a contatto con l’incandescenza delle barre di controllo, provocò un esplosione, lo scoperchiamento della struttura e un vasto incendio.
Fu così che una nube di isotopi radioattivi si disperse.
Piombò con prepotenza su un’area specifica, distruggendo e contaminando.
É la “Zona” e copre circa 30 km2 dal punto zero, il reattore nucleare.
Fu immediatamente evacuata e abbandonata e qui, mentre foreste di betulle e pioppi sopravvissero, la pineta si trasformò in Foresta Rossa.
A 30 anni di distanza sappiamo che non capitò solo quello.
L’uomo se ne è andato e la “Zona” si è trasformata in una sorta di Parco Naturale involontario.
Ora, senza l’essere umano, ritornano animali come linci, procioni, cavalli di Przewalski, uccelli, alci, cervi, caprioli, cinghiali, volpi rosse, tassi, donnole, lepri, scoiattoli, l’orso bruno e specie a rischio di estinzione.
La popolazione di lupi è sette volte maggiore rispetto alle zone incontaminate circostanti.
Ora, senza l’uomo, sembra che quella zona, disabitata dalla nostra specie, sia popolata dalle altre quanto non sia mai stata.
Ora, senza l’uomo, le piante stanno letteralmente invadendo, come in una giungla post-apocalittica, anche le zone maggiormente colpite dal fall-out nucleare. Crescono sui tetti, si riversano sui terrazzi, spaccano l’asfalto, squarciano i muri, si appropriano di strade a sei corsie.
Come una fenice, quel territorio ora è una delle aree a maggiore biodiversità dell’Ex Unione Sovietica.
E non è tutto.
Stanno ripulendo dalle scorie radioattive, attraverso la loro capacità, unica, di assorbire radionuclidi dall’aria, dall’acqua, dalla terra. Questo processo viene definito con un termine emblematico: fitorimediazione.
L’Eterno Giardino
La Foresta Rossa si sta trasformando in un Eterno Giardino: mancando per ora lombrichi, batteri e funghi, il naturale processo di marcescenza viene estremamente rallentato. Foglie e residui vegetali rimangono a terra per un tempo che sembra, ai nostri occhi, eterno.
L’unico vero nemico è il fuoco. Assorbendo quello che dall’aria cadde a terra, le piante si sono trasformate in scrigni di radioattività: la Foresta Rossa e l’Eterno Giardino non devono bruciare. Mai.
Nonostante sembri una citazione di Ian Malcom, la vita vince sempre.
Tutto avviene in un lungo e incredibile week end dal 18 al 21 di Maggio.La Mille Miglia fa Tappa a ROMA e ritorno a Brescia .La 35esima edizione rievocativa partirà da Brescia il 18 maggio: quattro tappe, passaggio da Roma e ritorno. In forte crescita le domande di iscrizioni.
La Mille Miglia compie 90 anni dalla prima edizione del 1927 e si appresta a disputare la trentacinquesima edizione rievocativa. La manifestazione è stata presentata ieri a Palazzo Loggia, sede del Comune di Brescia. Sono in forte crescita le iscrizioni: 695 sono le domande di partecipazione e 440 saranno le vetture accettate (tutte costruite tra il 1927 e il 1957), provenienti da 41 Paesi di cinque Continenti. Per il quinto anno consecutivo, a curare la corsa su strada più celebre di ogni tempo, sarà 1000 Miglia Srl, società totalmente partecipata dall’Automobile Club di Brescia. Il percorso della Mille Miglia 2017 presenta alcune varianti rispetto al 2016. Da giovedì 18 a domenica 21 maggio saranno attraversati più di 200 comuni, 7 regioni e la Repubblica di San Marino. Tra le novità, spiccano le “prove spettacolo” che le vetture in gara disputeranno in alcune piazze storiche italiane. Le prove cronometrate salgono a 112, più 18 rilevamenti in 7 prove a media imposta. La classifica finale, dopo l’applicazione dei coefficienti sarà così costituita da un totale di 130 tratti a cronometro. Le “prove spettacolo” si correranno nelle piazze di Verona, Castelfranco Veneto, Ferrara, Pistoia, Busseto e Canneto sull’Oglio. Le ultime prove cronometrate della Mille Miglia 2017, decisive per la classifica, saranno disputate in un contesto suggestivo: le piste dei Tornado del 6 Stormo dell’Aeroporto Militare di Ghedi. La Mille Miglia 2017 continuerà a essere disputata in quattro tappe. Il prologo, martedì 16 maggio, sarà il Trofeo Roberto Gaburri, gara di regolarità alla quale prenderanno parte un centinaio di vetture. La partenza avverrà da Viale Venezia, alle ore 14.30 di giovedì 18 maggio. Rispettando la tradizione nata nel 1927 e la prima tappa si concluderà a Padova. Il giorno dopo, venerdì 19 maggio, la seconda tappa porterà i concorrenti a Roma, con la passerella in Via Veneto. Sabato 20, con start alle 6.30, il percorso dalla Capitale resterà invariato fino alla Toscana e si concluderà a Parma da dove ripartirà la domenica per far ritorno a Brescia.
La Mille Miglia è stata una competizione automobilisticastradale di granfondo disputata in Italia in 24 edizioni tra il 1927 e il 1957. Si trattava di una gara di velocità in linea con partenza ed arrivo a Brescia in cui i concorrenti arrivavano fino a Roma attraverso il Centro–Nord Italia. Il nome della gara deriva dalla lunghezza del percorso; infatti, nonostante diverse variazioni nel corso degli anni, rimase lungo circa 1600 chilometri equivalenti a circa mille migliaimperiali. Fu cancellata dopo l’edizione 1957 a causa della tragedia di Guidizzolo.
Dal 1977 la Mille Miglia rivive sotto forma di gara di regolarità storica a tappe la cui partecipazione è limitata alle vetture, prodotte entro il 1957, che avevano partecipato (o risultavano iscritte) alla corsa originale. Il percorso Brescia-Roma-Brescia ricalca, pur nelle sue varianti, quello della gara originale mantenendo costante il punto di partenza/arrivo in viale Venezia all’altezza dei giardini del Rebuffone.
L’edizione del novantesimo anniversario del 2017 è quella con il record di iscritti: 705[1].
Prima della guerra
«Mille Miglia; qualcosa di non definito, di fuori dal naturale, che ricorda le vecchie fiabe che da ragazzi ascoltavamo avidamente, storie di fate, di maghi dagli stivali, di orizzonti sconfinati. Mille Miglia: suggestiva frase che indica oggi il progresso dei mezzi e l’audacia degli uomini. Corsa pazza, estenuante, senza soste, per campagne e città, sui monti e in riva al mare, di giorno e di notte. Nastri stradali che si snodano sotto le rombanti macchine, occhi che non si chiudono nel sonno, volti che non tremano, piloti dai nervi d’acciaio.»
(Giuseppe Tonelli, da: 100 macchine si lanciano da Brescia per le “Mille Miglia”, La Stampa, 27 marzo 1927[2])
La corsa venne ideata ed organizzata, come gara di velocità in linea (non a tappe) da quattro amici in risposta alla mancata assegnazione a Brescia, loro città natale, del Gran Premio d’Italia, organizzato nel nuovo autodromo di Monza.
I quattro, che divennero poi noti come i quattro moschettieri della Mille Miglia, sono il conte Aymo Maggi, pilota e finanziatore, il conte Franco Mazzotti, giornalista, pilota, finanziatore e presidente del RACI di Brescia, Renzo Castagneto, l’organizzatore vero e proprio, e Giovanni Canestrini, il decano dei giornalisti italiani nel settore automobilistico.
Fu scelto un percorso a forma di “otto” da Brescia a Roma e ritorno lungo circa 1600 km, equivalenti a circa 1000 miglia, da cui il nome, suggerito da Franco Mazzotti, di recente ritorno da un viaggio in America. A Mazzotti nel secondo dopoguerra sarà poi intitolato il trofeo “Coppa delle Mille Miglia”, attribuito ai vincitori della gara, che venne quindi denominata anche “Coppa Franco Mazzotti”.
La prima edizione partì alle 13 del 26 marzo 1927, con la partecipazione di 77 equipaggi, 2 soli dei quali stranieri (al volante delle piccole Peugeot 5 CV). Di loro 55 portarono a termine la corsa mentre 22 vetture furono costrette al ritiro. Alla fine un equipaggio bresciano composto da Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi a bordo di una bresciana OM 665 “Superba” S torpedo tagliò per primo il traguardo completando il percorso in 21 ore, 4 minuti, 48 secondi e 1/5 alla media di 77,238 km/h.
Solo dopo l’enorme successo della prima Mille Miglia si decise di ripetere la prova negli anni a venire e l’evento divenne così importante che il tracciato fu modificato per ben tredici volte per far passare la gara anche da altre città.
Preparativi per la partenza della Mille Miglia 1930.
Il 1938 fu segnato da un grave incidente a Bologna, infatti una Lancia Aprilia uscì di strada, finì sulla folla, uccise dieci spettatori, di cui sette bambini, e ferì altre ventitré persone. In seguito a tale sciagura il capo del governo, Benito Mussolini, decise di non concedere più l’autorizzazione per svolgere gare di velocità su strade pubbliche.
Dopo la pausa del 1939, nel 1940, a guerra iniziata, si riuscì a organizzare una nuova gara, chiamata ufficialmente Gran Premio di Brescia delle 1000 Miglia, che consisteva in nove giri di un circuito chiuso triangolare che toccava le città di Brescia, Cremona e Mantova in modo da raggiungere la lunghezza di circa 1000 Miglia.
Tra il 1941 e il 1946 non fu possibile organizzare la corsa a causa della seconda guerra mondiale.
Questa fu l’ultima vittoria di un’Alfa Romeo alla Mille Miglia, l’anno dopo si aprì la schiera di successi Ferrari continuata fino al 1957 e interrotta solo nel biennio 1954-55 dalle vittorie di Lancia e Mercedes-Benz. Proprio alla Mercedes-Benz 300 SLR#722 di Stirling Moss e Denis Jenkinson appartiene il record assoluto della gara con i 1.592 km percorsi in 10 ore, 7 minuti e 48 secondi a 157,650 km/h di media[3]. Il segreto di questa straordinaria prestazione risiedeva in un rotolo di carta lungo quattro metri e mezzo che Jenkinson usò per dirigere Moss durante la gara e su cui aveva annotato le caratteristiche della strada in base alle ricognizioni del percorso effettuate prima della corsa.
Nel 1957 una Ferrari 335 S fu coinvolta in un incidente sulla Goitese nei pressi di Guidizzolo (ma nel territorio comunale di Cavriana), in provincia di Mantova, causato dallo scoppio di uno pneumatico, che costò la vita al pilota spagnoloAlfonso de Portago, al navigatore americano Edmund Gurner Nelson, e a nove spettatori, cinque dei quali bambini. A causa dello shock provocato nell’opinione pubblica la corsa venne definitivamente soppressa. A seguito dell’incidente Enzo Ferrari, costruttore della vettura coinvolta nell’incidente, subì un processo che durò alcuni anni e dal quale uscì assolto.[4]
L’Automobile Club di Brescia effettuò un tentativo per dare continuità alla corsa e nel 1958, nel 1959 e nel 1961, di fronte alla irremovibilità delle autorità che non concessero i nulla-osta necessari per le corse di velocità su strada, organizzò tre edizioni ancora denominate Mille Miglia ma disputate secondo una formula che prevedeva brevi tratti di velocità alternati a lunghe tratte di trasferimento da percorrere alla velocità media di 50 km/h (con penalizzazione per gli eventuali ritardi).
La Mille Miglia rese vittoriosi e noti in tutto il mondo marchi di auto sportive italiane come Alfa Romeo, Lancia e Ferrari.
Escludendo l’edizione del 1940 (svoltasi su un veloce circuito stradale Brescia-Cremona-Mantova) e le ultime tre Mille Miglia del 1958, 1959 e 1961 (edizioni di regolarità e velocità), le altre 23 edizioni della corsa – quelle che potremmo definire le “classiche” Mille Miglia – si sono disputate con partenza e traguardo a Brescia e giro di boa intermedio a Roma, su itinerari di lunghezza prossima ai 1600 km (approssimativamente 1000 miglia). Negli anni sono state ben tredici le variazioni apportate al percorso Brescia-Roma-Brescia, che ha avuto una lunghezza compresa tra un minimo di 1512 km (edizione 1953) e un massimo di 1830 km (edizione 1948) e che ha avuto un senso talvolta “orario” e talvolta “antiorario”.
Poiché il tracciato ha subito nel corso degli anni parecchie variazioni più o meno rilevanti, un confronto delle prestazioni ottenute dai diversi vincitori, anno dopo anno, non è formalmente corretto, in particolare se ci si riferisce ai tempi di percorrenza. È invece invalso l’uso di prendere a riferimento la media oraria per stabilire l’evoluzione delle prestazioni. Ciò premesso, la media ottenuta dai vincitori delle diverse edizioni della Mille Miglia su questo percorso classico Brescia-Roma-Brescia è più che raddoppiata, passata nel corso degli anni dai 77,238 km/h ottenuti nella prima edizione della corsa (1927) dalla OM 665 “Superba” di Ferdinando Minoia e Giuseppe Morandi ai 157,650 km/h raggiunti nel 1955 da Stirling Moss e Denis Jenkinson: questa media oraria non sarà più superata e pertanto verrà unanimemente considerata la “media record” della corsa.
MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017Percorso MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017MILLE MIGLIA edizione 2017
MILLE MIGLIA edizione 2017-MILLE MIGLIA edizione 2017
–Silvio Benco- IL PITTORE GIUSEPPE TOMINZ-Copia anastatica -Articolo dalla Rivista PAN aprile 1934
La formazione di Giuseppe Tominz dovette quindi avvenire alla «scuola del sig. Conti Bazzani» (Diario di Roma, 1817, p. 2), di cui furono allievi Giuseppe Bossi e Felice Giani, esercitandosi nello studio delle composizioni classiche e copiando i maestri del Rinascimento. Particolarmente stimolante dovette essere la restante scena artistica romana, dove poté entrare in contatto con i nazareni e approcciare le mostre d’arte destinate al pubblico borghese.
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Biografia di Giuseppe Tominz-TOMINZ, Giuseppe Giacomo (Tominc Jožef Jakob, Tominc Josip, Tominz Josef)
Nacque a Gorizia il 6 luglio 1790 da Giovanni, commerciante, possidente e tesoriere comunale, e da Marianna Janesig (Janežič). Frequentò le scuole dei piaristi, dove ebbe come insegnante di disegno il viennese Johannes Zeindl, e successivamente fu messo a bottega da Carlo Kebar (1764-1810), ricordato come un «buon ritrattista» (Kociančič, 1854, p. 289). A questo periodo risale la prima opera nota dell’artista, il ritratto miniato di papa Pio VII (Genzano, Palazzo Jacobini), firmato per esteso e datato «Giuseppe Tominz 1802» (una seconda miniatura del pontefice è firmata «Gius. Tominz»). Tominz dovette eseguire anche il ritratto miniato della madre, deceduta nello stesso 1802, opera identificabile con quello visibile sulla tabacchiera nel ”Ritratto del padre” del 1848 (Lubiana, Narodna galerija) e noto anche da una derivazione non autografa (collezione privata). Nel 1809 soggiornò a Gorizia, proveniente da Roma, l’arciduchessa Marianna d’Austria, che s’impegnò a sostenere gli studi accademici del promettente pittore. Il 5 marzo Tominz partì per la città eterna e si stabilì presso l’abate Domenico Conti Bazzani (Mantova 1740/42 – Roma 1818), pittore e assessore alla pittura dello Stato pontificio. Tuttavia le prospettive di una formazione accademica non si concretizzarono a causa dell’occupazione napoleonica e della prematura scomparsa della principessa, morta il 1° ottobre 1809. Tominz dovette guadagnarsi da vivere eseguendo ritratti miniati e disegnando e incidendo. La sua attività calcografica è ricordata dal biografo croato Ivan Kukuljević Sakcinski (Vižintin, 1957) ed è documentata dalla lastra e dal bulino che egli stesso esibisce nell’Autoritratto (Firenze, Galleria degli Uffizi) riferibile agli inizi del periodo romano, quando è registrato come incisore nello Status animarum della parrocchia di S. Andrea delle Fratte per gli anni 1811 e 1812.
La formazione di Giuseppe Tominz dovette quindi avvenire alla «scuola del sig. Conti Bazzani» (Diario di Roma, 1817, p. 2), di cui furono allievi Giuseppe Bossi e Felice Giani, esercitandosi nello studio delle composizioni classiche e copiando i maestri del Rinascimento. Particolarmente stimolante dovette essere la restante scena artistica romana, dove poté entrare in contatto con i nazareni e approcciare le mostre d’arte destinate al pubblico borghese.
Nel 1814, caduto Napoleone, giunse a Roma il conte goriziano Giuseppe della Torre (o Thurn), che Tominz ritrasse in miniatura e forse in un dipinto documentato da un disegno eseguito a contorno (Trieste, Fondazione Scaramangà di Altomonte). Tominz avrebbe copiato anche alcuni pezzi della quadreria della dimora romana del nobile. In quell’anno poté così frequentare la Scuola di nudo dell’Accademia di S. Luca e presentarsi, al termine delle lezioni, all’annuale concorso con uno Studio di Apostolo (Roma, Accademia nazionale di S. Luca). La giuria, presieduta da Bertel Thorvaldsen, assegnò solamente un secondo premio assoluto proprio a Tominz, «goriziano giovine e di grandi speranze, e fornito di rari talenti per cui il suo nome diverrà famoso fra i professori seguaci delle tre alme sorelle» (Diario di Roma, 1814, p. 13). Tominz e il padre Giovanni colsero l’occasione per indirizzare all’imperatore Francesco I d’Austria una richiesta di sussidio. Rimasta senza esito, Tominz l’avrebbe reiterata ancora nel 1821.
Il 2 maggio 1816 Tominz si sposò nella parrocchia di S. Maria in Via con Maria Ricci, figlia della donna di casa di Domenico Conti Bazzani. Dal matrimonio nacquero i figli Augusto Cesare Costantino (Roma 1818 – Trieste 1883) e Raimondo (Gorizia 1822 – Trento 1906).
Sempre nel 1816 Tominz realizzò per lord William Cavendish Bentinck una copia della Madonna di Foligno, lodata sulle pagine del Diario di Roma (1817). L’incarico fu favorito dal goriziano Carlo Catinelli, che aveva prestato servizio nell’esercito inglese sotto il comando del citato gentiluomo e nello stesso 1816 fu a Roma, dove si fece ritrarre da Ingres.
Con la scomparsa di Conti Bazzani, Tominz fece ritorno a Gorizia. La sua presenza in città è ricordata in una lettera che Francesco Giuseppe Savio, consigliere del tribunale, spedì il 22 aprile 1818 al figlio Leopoldo Francesco, allora studente a Lubiana, mentre in una missiva del successivo 10 maggio si premurò di precisare che Tominz «non fa la bassa professione di ritrattista ma di pittore storico» (Tavano, 1984, p. 100). A Gorizia dovette dipingere il capolavoro d’esordio, l’Autoritratto con il fratello Francesco (Gorizia, Musei provinciali), manifesto delle proprie capacità e ambizioni artistiche e omaggio all’amicizia che lo legava al fratello.
Nel 1821 si svolse a Lubiana il Congresso della Santa Alleanza. Fu in quest’occasione che Tominz trovò nel ritratto la sua vera vocazione artistica, anche se inizialmente raggiunse la capitale carniola per copiare il ritratto dell’imperatore Francesco I, fatto giungere appositamente da Vienna. L’opera era destinata all’I.R. Accademia di commercio e nautica di Trieste, che nel 1838 avrebbe commissionato il pendant del Ritratto dell’imperatore Ferdinando I (entrambi si conservano ai Musei provinciali di Gorizia). La copia del ritratto aulico fu esposta nel 1822 nel ridotto del teatro di Lubiana riscuotendo un notevole successo e Leopoldo Francesco Savio la celebrò con un sonetto apparso in tedesco e in traduzione italiana sulla prima pagina dell’Illirisches Blatt dell’8 febbraio 1822. Tominz soggiornò a Lubiana ancora nel 1823, annunciandosi a «mecenati e amici» come «Historienmahler», ovvero pittore storico (Intelligenz-Blatt zur Laibacher Zeitung, 28 febbraio 1823, p. 244; 4 marzo 1823, p. 252).
Al 1825 dovrebbe risalire la pala dell’altar maggiore del duomo di Gorizia, opera pubblica di notevole impegno e potenziale prestigio, che tuttavia palesò il disagio del pittore nel comporre in grande e nell’affrontare un soggetto storico. Di questi limiti dovette prendere coscienza l’artista stesso, che per i temi religiosi si sarebbe in futuro limitato a riproporre invenzioni altrui (Raffaello, Gian Bettino Cignaroli, Pierre Mignard, Odorico Politi), attingendo a stampe di traduzione.
Nel frattempo le commissioni ufficiali provenienti da Trieste, dove già operava Placido Fabris (1802-59), ma soprattutto le notevoli possibilità offerte dalla rapida ascesa economica del porto franco convinsero Tominz a trasferirsi in quella città. L’approdo ufficiale fu sancito dall’annuncio apparso su L’Osservatore Triestino del 9 settembre 1826 (p. 224), nel quale Tominz si accreditò come pittore e «ritrattista a olio» e si propose come insegnante di disegno. Aprì lo studio nella piazza del Ponte Rosso e in seguito si trasferì nella poco distante via S. Lazzaro, alle spalle della chiesa di S. Antonio Nuovo, nella famosa casa delle Bisse.
Iniziò il periodo migliore della sua attività, scandita nei successivi tre lustri da capolavori quali il Ritratto di Giovanni Milost detto Zuan delle Rose (Trieste, Galleria nazionale d’arte antica), il Ritratto dei coniugi Di Demetrio (collezione privata), le Tre dame della famiglia Moscon (Lubiana, Narodna galerija), il Ritratto di Francesco Holzknecht, il Ritratto di Giuseppina Holzknecht, il Ritratto della famiglia de Brucker, il Ritratto di Giorgio Strudthoff, quest’ultimi conservati al Civico Museo Revoltella di Trieste. Tominz si guadagnò il favore della ricca e cosmopolita borghesia mercantile grazie alla verosimiglianza degli effigiati, ritratti con uno stile severo e nobile, alla nitida descrizione dei particolari e alla rapidità esecutiva: ricorrendo all’ausilio di una camera lucida poteva abbreviare le sedute di posa e licenziare un ritratto in pochi giorni. «Sono andata dal pittore perché egli non viene in casa: dice che può fare bene soltanto nel suo studio […] ma bisogna posare tre ore consecutive, poi ancora una volta mezz’ora», annotò il 19 ottobre 1835 nel proprio diario Fanny Toppo Herzog (Mostra di Giuseppe Tominz, 1966, p. 51). Per variare le pose attingeva alle stampe di traduzione (Rembrandt, Édouard-Louis Dubufe, Claude Marie Dubufe).
Dal 21 luglio al 1° agosto 1830 Tominz allestì alla sala Miglietti la sua prima personale triestina con una quarantina di ritratti ai quali l’anonimo recensore conferì «il titolo di parlanti» (L’Osservatore Triestino, 1830, p. 1972). In mostra dovette esserci anche l’Autoritratto alla finestra (Lubiana, Narodna galerija), dove il pittore si affaccia da una finestra contornata di viti, con un fischietto di madre-perla in mano per chiamare uccelli, probabile allusione alle giornate d’ozio trascorse nella villa Sansoussi di Gradišče nad Prvačino (Gradiscutta) nella Valle del Vipacco. Vi fu ospite pure Giuseppe Bernardino Bison (1762-1844).
L’allestimento della personale fu stimolato dalla Prima esposizione triestina di belle arti organizzata nel 1829 dalla Società di Minerva con il dichiarato intento di promuovere i giovani talenti. Ma già alla seconda edizione del 1830 presero parte i maestri, e tra essi Tominz con due ritratti. L’anno seguente, alla Terza esposizione, allestita come le successive nel ridotto del teatro, Tominz si presentò con un Coro di frati, noto da disegni preparatori (Gorizia, Musei provinciali), e con otto ritratti, tra i quali il monumentale Ritratto della famiglia Buchler (collezione privata), commissionato da David Buchler in occasione della nomina a presidente della Camera di commercio. Alla Quarta esposizione del 1832 si presentò con quattordici ritratti, una Veduta di un interno di monastero al quale va riferito un disegno (Gorizia, Musei provinciali) e un Endimione e Diana, rara prova a soggetto mitologico. Infine furono ben ventuno i ritratti alla Quinta esposizione del 1833. Alle mostre esordirono i primi allievi documentati di Tominz: nel 1831 Luigi Capodaglio, l’anno seguente Cristiano de Mayr e nel 1833 Francesco Malacrea (1812-86), che si sarebbe affermato come pittore di nature morte. Nonostante la fama acquisita e la considerazione di Domenico Rossetti, Tominz non entrò nel novero degli artisti che nel 1834 furono scelti dal Magistrato civico per eseguire le sei pale per gli altari laterali della chiesa di S. Antonio Nuovo (furono incaricati Michelangelo Grigoletti, Ludovico Lipparini, Odorico Politi, Felice Schiavoni, Joseph Schönmann e Joseph Ernst Tunner).
Cessate le esposizioni della Società di Minerva, Tominz organizzò nel 1835 una seconda personale nella sala del ridotto. Ai ritratti, tra i quali figuravano quello di Drago Popovich (Trieste, Civico Museo Revoltella) e La famiglia del dott. Dimitrije Frussich (Frušić) (Lubiana, Narodna galerija), uno dei capolavori nel genere della scena di conversazione, l’artista affiancò poco impegnative telette di genere, con accattivanti effetti a lume di candela come nel caso della Donna con candela e un giovinetto (Gorizia, Musei provinciali). La mostra segnò l’esordio ufficiale del figlio Augusto e dell’allievo goriziano Giuseppe Giacomo Battich (1820-52), che dal 1836 avrebbero frequentato l’Accademia di Venezia. Oltre ai due citati, Kukuljević Sakcinski ricorda come terzo allievo Giovanni Madrian (1810-72) (Vižintin, 1957, p. 206).
Nel 1838 il ridotto ospitò una mostra collettiva, ma preponderante fu la parte riservata alla ritrattistica di Tominz e del ferrarese Giovanni Pagliarini (1809-78), da poco giunto in città, che fece proprie le soluzioni compositive del collega goriziano (singolare poi il caso di Caterina Buzzi Bozzini, che posò per entrambi gli artisti). L’esposizione segnò uno spartiacque nella fortuna di Tominz, che fu per la prima volta apertamente criticato dall’abate Francesco Dell’Ongaro sulle pagine de La Favilla. Forse anche in risposta a questa pubblica censura nacque l’irriverente Autoritratto (Trieste, Civico Museo Revoltella), un trompe-l’œil su tavola destinato alla parete di fondo del bagno nella villa Sansoussi. Non dissimile fu l’effetto dell’altro olio su tavola, il Nano ostricaro (Trieste, Civico Museo Revoltella), usato come fermaporta e anch’esso da ricondurre alla tradizione neerlandese delle sagome umane o animali dipinte a grandezza naturale.
Nel 1838 Tominz partecipò all’Esposizione delle opere degli artisti e dei dilettanti nella I.R. Accademia di belle arti in Venezia per onorare la visita di S.M.I.R.A. Ferdinando I inviando il Ritratto di Petar II Petrović Njegoš (Cetinje, Njegošev muzej) e un Ritratto di africano.
Gli anni dal 1840 al 1846 videro Tominz regolarmente presente alle annuali mostre-mercato organizzate dalla Società triestina di belle arti, meglio nota come Filotecnica, costituitasi a Trieste sul modello dei Kunstvereine tedeschi. Nel 1840 espose le due tele già presentate a Venezia e una Donna con lume (Gorizia, Musei provinciali), nel 1841 due ritratti e un Gruppo di due fanciulli (collezione privata), nel 1842 dei ritratti e un paesaggio, nel 1843 il ritratto di una famiglia, nel 1844 una Sacra Famiglia, nel 1845 due ritratti e un solo ritratto nel 1846. Il quinto decennio segnò una progressiva involuzione qualitativa: «Sempre lo stesso modo nel dipingere, un po’ duretto nei contorni, sempre lo stesso colorito, e sempre le stesse figure; colpa forse più del genere che sua» sentenziò Gaetano Merlato (1843, p. 304). La mostra allestita nel 1850, in occasione della visita dell’imperatore Francesco Giuseppe, sancì l’oblio dell’artista: furono esposte ben 115 opere, ma nessuna di Tominz.
Nel 1852 e 1853, secondo una logica propria di una bottega pittorica, Tominz firmò e datò due delle tre pale che il figlio Augusto aveva ideato e dipinto per una chiesa alle Bocche di Cattaro. Del resto la collaborazione tra padre e figlio si può far risalire almeno al 1837, alla pala per i cappuccini di Gorizia ricalcata sul modello dell’Assunta di Reni (Monaco di Baviera, Alte Pinakothek) e già dai contemporanei ritenuta opera di scarso valore.
Ritiratosi nel 1855 a Gradiscutta, Tominz non recise i legami con Trieste: nella primavera del 1856 inviò una Venere che allatta amore e una Madonna col Bambino all’esposizione dell’Istituzione promotrice delle belle arti, e sempre nella stessa città si fece ritrarre nello studio fotografico aperto nel 1862 dal figlio Augusto.
Morì a Gradiscutta il 22 aprile 1866 ed è sepolto nel cimitero del paese in una tomba congiunta con il fratello. Luogo e data del decesso furono annotati anche nel Liber baptizatorum del duomo goriziano, e chiosati con un «Celeberrimus pictor!».
Fonti e bibliografia
Diario di Roma, 5 ottobre 1814, pp. 12 s.; ibid., 18 gennaio 1817, pp. 2 s.; L’Osservatore Triestino, 31 luglio 1830, p. 1972; ibid., 10 novembre 1831, pp. 278 s.; ibid., 26 novembre 1833, pp. 566-568; ibid., 5 novembre 1835, p. 534; F. Dall’Ongaro, Di alcuni ritratti di G. T. e della pittura iconografica, in La Favilla, 2 dicembre 1838; G.J. Merlato, Quarta Esposizione di Belle Arti, in Il Caleidoscopio, 1843, n. 13, pp. 294-304; S. Kociančič, Odgovori na vprašanja družtva za jugoslavensko povestnico, in Arkiv za povjestnicu jugoslavensku, III (1854), pp. 259-309 (in partic. pp. 289, 291); S. Benco, Il pittore G. T., in Pan, 1934, n. 4, pp. 702-712; R. Marini, G. T., Venezia 1952; B. Vižintin, Prilog biografijama slovenskih slikara Josipa Tominca, Matije Tomca, Gaspara Götzla i Josefe Štrus, in Zbornik radova za povijest umjetnosti i arheologiju, 1957, n. 2, pp. 205-209; Mostra di G. T. (catal.), a cura di G. Coronini, Gorizia 1966; J. T, 1790-1866 (catal.), a cura di J. Brumen, Ljubljana 1967; K. Rozman, Der Maler J. T., in Mitteilungen der Österreichischen Galerie, XIX-XX (1975-1976), pp. 111-132; P. Dorsi, Documenti dell’Archivio di Stato di Trieste sull’attività di G. T. (1818-1820), in Arte in Friuli – Arte a Trieste, VII (1984), pp. 111-133; S. Tavano, Nuovi elementi sulla giovinezza di G. T., ibid., pp. 93-110; G. Pavanello, Le arti nel «porto franco», in Neoclassico. Arte, cultura e architettura a Trieste, 1790-1840 (catal., Trieste), a cura di F. Caputo, Venezia 1990, pp. 135-149; A. Tiddia, I nuovi triestini. Ritratti di G. T., ibid., pp. 164-179; F. Magani, G. T. ritrattista goriziano, in Ottocento di frontiera. Gorizia, 1780-1850. Arte e cultura (catal., Gorizia), a cura di G. Pavanello – G. Ganzer – E. Guagnini, Milano 1995, pp. 133-159; G. Pavanello, Le Belle Arti Goriziane, ibid., pp. 14-24; R. Barilli, Ritratti alla lente: G. T., in FMR, XVIII (1999), 131, pp. 21-50; J. T. Fiziognomija slike (catal.), a cura di B. Jaki Mozetič – M. Breščak, Ljubljana 2002; A. Quinzi, G. T., Trieste 2011; A. Quinzi, G. T.: inediti, recuperi, rimandi e nuove attribuzioni, in AFAT, 2012, n. 31, pp. 127-137.
Fonte-Istituto della Enciclopedia Italiana
Biblioteca DEA SABINA –Armando Venè-I VECCHI MULINI SULL’ADIGE-Rivista PAN aprile 1934-
Giuseppe Tominz (Gorizia, 6 luglio 1790 – Gradiscutta, 24 aprile 1866) è stato un pittore italiano, di fama internazionale, considerato il massimo ritrattista di area goriziano-triestina dell’Ottocento.
Autore-Vania Gransinigh–TOMINZ GIUSEPPE- Figlio di Giovanni, Giuseppe nacque a Gorizia il 6 luglio 1790. Avendo dimostrato una precoce predisposizione all’arte, nel 1809 si recò a Roma per completare quella che in patria era stata una prima formazione piuttosto disordinata e priva di punti di riferimento. A quel «pittore Giovanni», che i documenti indicano quale padrino di cresima di T., infatti, non è ancora stato possibile attribuire un’identità precisa, che permetta di individuare con certezza i modelli figurativi a cui il giovane artista ebbe modo di guardare agli esordi della sua carriera professionale. Risalgono a quel periodo il foglio raffigurante la Distruzione di Troia, ispirato alla stampa di analogo soggetto di Ulderico Moro (1807), e il Ritratto di Francesco Moncada, copia dal dipinto di Van Dyck mediata dall’incisione di Raffaello Morghen (1809), opere che, conservate entrambe nelle collezioni dei Musei Provinciali della città isontina, testimoniano la buona volontà, ma la scarsa preparazione artistica del loro artefice. Pare che, a segnare la fortuna del pittore, sia stato l’interessamento dell’arciduchessa Marianna d’Austria, sorella dell’imperatore Francesco I, la quale, giunta a Gorizia nel 1809 poco prima di morire, notò le capacità di T., auspicandone un soggiorno a Roma per completare là i suoi studi. Venuto subitaneamente a mancare al pittore l’appoggio di quest’ultima, egli si rivolse per un aiuto al nobile goriziano Giuseppe della Torre che, generale maggiore di Sua maestà imperiale, si era stabilito in quel torno di tempo nell’Urbe. Partito il 5 marzo di quello stesso anno alla volta della Città eterna, T. vi giunse alla fine del mese per rimanervi nei successivi nove anni, ospite e allievo del pittore mantovano Domenico Conti Bazzani. Seguendo gli insegnamenti di quest’ultimo e frequentando le lezioni della Scuola di nudo all’Accademia di S. Luca, T. perfezionò il proprio stile conseguendo, nel 1814, il secondo premio unico per il disegno con lo Studio di apostolo, oggi conservato presso gli archivi dell’istituzione scolastica. Diverse furono le suggestioni che l’ambiente figurativo della Città eterna dei primi decenni dell’Ottocento poté esercitare sul giovane artista goriziano: oltre alla rinnovata riflessione sulla pittura di matrice classica del Seicento romano, infatti, agirono su di lui anche gli esempi rappresentati dall’attività d’esordio, di impostazione purista, dei Nazareni tedeschi, che lì si erano trasferiti dando vita alla confraternita dei “Lukasbrüder”. A Roma T. conobbe e sposò nel 1816 Maria Ricci, da cui ebbe il figlio Augusto, nato nel 1818. Ad un periodo di poco precedente risalirebbe l’esecuzione dell’Autoritratto con il fratello (1812-1815 ca.; Gorizia, Musei Provinciali), realizzato verosimilmente prima del matrimonio, durante un soggiorno compiuto nella città isontina. Il dipinto, ricco di rimandi simbolici e allegorici, palesa nella composizione il richiamo ai modelli rappresentati da Batoni e Lampi, assai noti in ambito romano. Stando alle evidenze documentarie, T. fece rientro a Gorizia nei primi mesi del 1818, dove ebbe modo di incontrarlo Francesco Giuseppe Savio (V.) che, consigliere del tribunale cittadino, ne scrisse al figlio in alcune lettere rimaste un punto di riferimento fondamentale per ricostruire l’attività professionale del pittore in quei primi anni goriziani. Da queste fonti si evince l’impegno inizialmente profuso da T. sul versante della pittura di storia e solo in un secondo momento rivolto al genere ritrattistico per il tramite della commissione, risalente al 1818, di due copie del ritratto aulico dell’imperatore Francesco I da eseguirsi per il tribunale civico provinciale di Gorizia e per il tribunale commerciale di Trieste. A questi dipinti destinati all’arredo di uffici pubblici, ne fecero seguito molti altri per le città di Fiume e Lubiana, che vanno ad aggiungersi ai due sicuramente di mano del pittore goriziano, raffiguranti nuovamente Francesco I e, successivamente, Ferdinando I in vesti da parata (Gorizia, Musei Provinciali). Dopo aver compiuto un soggiorno a Vienna verosimilmente tra il 1819 e il 1820, T. si dedicò in via quasi esclusiva alla pittura di ritratti, genere nel quale appariva particolarmente versato. Se si eccettua la pala per l’altare maggiore del duomo cittadino, le opere certamente ascrivibili al periodo goriziano consistono in numerosi ritratti, tra i quali spicca il proprio, scanzonato Autoritratto (Trieste, Civico museo Revoltella), realizzato intorno al 1825 per la villa di famiglia di Gradiscutta, poco prima del trasferimento a Trieste, città nella quale fissò la propria residenza fino al 1855. Nel capoluogo giuliano T. trovò l’ambiente sociale più adatto ad accogliere la sua pittura levigata e cristallina, capace di rendere allo stesso tempo e con sorprendente abilità le effigi e l’anima dei suoi soggetti. Alla lunga serie di opere portate a compimento per gli esponenti della borghesia cittadina appartiene anche il Ritratto della famiglia Brucker (Trieste, Civico museo Revoltella), proposto all’attenzione del pubblico nel 1830 in occasione della mostra personale organizzata dal pittore a Trieste, con intenti modernamente promozionali. La tela rappresenta una delle migliori testimonianze della pittura tominziana nella seconda metà degli anni Venti, quando maggiormente si manifestò nell’artista l’adesione alla poetica Biedermeier, che lo indusse ad inserire i ritratti in ambientazioni domestiche e quotidiane. Le opere portate a termine negli anni seguenti evidenziano invece il concentrarsi del pittore sui personaggi effigiati, con una riduzione al minimo delle notazioni ambientali e una più grande attenzione riservata alla resa fisionomica, come testimonia ad esempio il Ritratto di Nicola Botta (Gorizia, Musei Provinciali), risalente verosimilmente alla fine del decennio successivo. Le medesime osservazioni potrebbero essere estese al Ritratto delpadre (Lubiana, Narodna Galerija), tradizionalmente datato al 1848, dove l’anziano Giovanni Tominz è raffigurato mentre con la mano sinistra regge una tabacchiera ornata dal ritratto miniato della moglie, scomparsa nel 1802. Caratterizzata da un rigoroso nitore formale e da una ricercata naturalezza espressiva, l’immagine rappresenta efficacemente l’ultima attività triestina di T., che, nel 1855, decise di ritirarsi a Gorizia, città nella quale fu accolto con ogni onore. Colpito qualche anno dopo da una forma di cecità progressiva, l’artista trasferì definitivamente la propria residenza nella villa di Gradiscutta, dove trascorse, accanto al fratello, gli ultimi anni della propria vita prima di morire il 22 aprile 1866.
A coadiuvare il padre Giuseppe nell’ultimo periodo della sua attività professionale fu il figlio Augusto, che era nato a Roma il 1° febbraio 1818 e che si dedicò alla pittura di genere storico e religioso e alla ritrattistica seguendo le orme del genitore. A lui spetta l’esecuzione delle diciassette tele che ornano il soffitto della sala da ballo di palazzo Revoltella a Trieste, ispirate al tema delle arti e dei mestieri e portate a compimento nel 1859. Nelle sale dello stesso edificio è ospitato anche il Ritratto dell’arciduca Massimiliano d’Austria, realizzato nel 1868 a un anno di distanza dalla scomparsa dello sfortunato fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe I. Dal 1872 e sino alla morte, avvenuta a Trieste il 17 giugno 1883, T. ricoprì la carica di primo direttore del Civico museo Revoltella.
Autore-Vania Gransinigh
Bibliografa –
MARINI, Giuseppe Tominz, Venezia, Edizioni Arti, 1952; Mostra di Giuseppe Tominz. Catalogo della mostra, a cura di G. CORONINI, Gorizia, Comune di Gorizia, 1966; Josef Tominc. Catalogo della mostra, Ljubljana, Narodna Galerija, 1967; K. ROZMAN, Mladnostno delo in zivlenje slikarja Jozefa Tominca, «Srecanja», 4/19 (1969), 35-38; S. TAVANO, Nuovi elementi sulla giovinezza di Giuseppe Tominz, «AFT», 7 (1984), 93-110 (con bibliografia precedente); F. MAGANI, Giuseppe Tominz ritrattista goriziano, in Ottocento di frontiera. Gorizia 1780-1850. Arte e cultura. Catalogo della mostra (Gorizia), Milano, Electa, 1995, 133-137 (con bibliografia precedente); ID., Trieste, 2 novembre 1832: ritratti da un matrimonio di Giuseppe Tominz, «AFT», 15 (1999), 159-164; E. LUCCHESE, Giuseppe Tominz e il ritratto di Isacco Luzzatti (1859), «Archeografo triestino», s. IV, 61 (2001), 172-190; Jožef Tominc. Fiziognomija slike. Catalogo della mostra, a cura di B. JAKI, Ljubljana, Narodna Galerija, 2002; Pinacoteca Gorizia, 25-29, 102-125.
Abbazia di FARFA -Abbazia benedettina situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’Abbazia di Farfa – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
Archeologia
Il complesso medievale dell’abbazia di F. fu quasi completamente demolito poco prima del 1500, quando gli Orsini la ricostruirono. Agli inizi del Novecento, dell’epoca medievale si conservavano soltanto due strutture: un campanile, adiacente alla chiesa di età successiva, e una torre più robusta, il c.d. torrione.Il primo tentativo di recuperare i resti degli edifici di epoca medievale fu quello di Schuster (1921). Riconosciuto il campanile come una delle poche strutture medievali conservate in alzato, nel desiderio di ritrovare l’oratorio costruito dall’abate Sicardo (830-842) egli si persuase che il piano inferiore del campanile fosse una cripta.Altri scavi furono condotti nel 1927 (Markthaler, 1928) e nel 1936 (Croquison, 1938). Markthaler, partendo dall’identificazione di Schuster e dal fatto che l’oratorio era adiacente alla chiesa abbaziale, ipotizzò correttamente che l’antica chiesa si trovasse sul lato nordoccidentale del campanile; a una distanza di m. 30 ca. in direzione N-O scoprì poi una cripta. Invece di trarre le ovvie conclusioni (cioè che questa cripta e non la torre fosse il sito dell’oratorio), Croquison la ritenne estranea a Sicardo e pertinente invece a una chiesa ancora più antica, la cui navata doveva essere perpendicolare rispetto a quella della chiesa dell’epoca degli Orsini.I restauri del 1959-1962, effettuati dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio (Franciosa, 1964), hanno dimostrato come la muratura medievale si sia conservata in tutta la sua altezza all’estremità orientale della chiesa rinascimentale, adiacente al campanile, mentre i saggi al di sotto del pavimento dell’edificio attuale hanno rivelato i muri e un elaborato pavimento in opus sectile pertinente alla navata altomedievale, disposti perpendicolarmente a essa. Al di sopra del livello pavimentale si conserva una piccola parte del muro altomedievale con il ritratto dipinto di un abate, forse Altberto (m. nel 790 ca.). A S della navata sono state scoperte le fondazioni di un muro massiccio e una struttura turriforme, in origine con una scala a chiocciola. Poiché l’abate Ugo all’inizio del sec. 11° descrisse F. come una città munita di mura (Destructio monasterii Farfensis), si è ipotizzato che il muro e la torre facessero parte di una cinta difensiva a protezione dell’abbazia. I più importanti oggetti mobili portati alla luce dagli scavi sono un sarcofago in marmo con una scena di battaglia e l’epitaffio dell’abate Sicardo (Franciosa, 1964).Le fonti scritte, le scoperte archeologiche e le strutture dell’abbazia ancora conservate in alzato sono state più di recente analizzate da McClendon (1980) il quale ha tratto due importanti conclusioni. Innanzi tutto, il campanile non è del sec. 9°, ma dell’11°, come permette di stabilire il confronto con la torre campanaria di S. Scolastica a Subiaco, del 1053. In effetti McClendon ha reinterpretato la torre e le strutture adiacenti come terminazione orientale della chiesa medievale, consistente in un presbiterio rettangolare costruito nel sec. 11° e in origine fiancheggiato da campanili gemelli. Secondo l’archeologo, inoltre, la cripta non è del sec. 8°, ma del 9°, come testimonia la forte somiglianza tra la cripta (e il transetto al di sopra di essa) e la terminazione orientale di S. Prassede a Roma, costruita da papa Pasquale I (817-824) soltanto un decennio prima che Sicardo divenisse abate di F.: si tratterebbe dunque della cripta dell’oratorio di Sicardo.Il primo obiettivo dei più recenti scavi condotti dalla British School at Rome tra il 1978 e il 1985 è stato quello di studiare le due strutture immediatamente all’esterno dell’oratorio, scoperte da Croquison (1938): un muro curvilineo posto a m. 3 all’esterno dell’abside che conteneva la cripta e uno rettilineo emergente dall’angolo del transetto. Nell’ultima campagna è stata scavata quasi tutta l’area tra la cripta e il c.d. torrione, area nella quale attualmente mancano costruzioni, ma dove in precedenza si trovava un grande edificio identificato come il palazzo tardomedievale e rinascimentale del cardinale-abate che amministrava i beni dell’abbazia.Nelle prime fasi degli scavi sembrava che l’edificazione del palazzo avesse cancellato ogni altro edificio preesistente; fortunatamente però nella costruzione del palazzo erano state riutilizzate strutture dell’8° e 9° secolo.Il muro concentrico alla cripta della chiesa medievale scoperto da Croquison, nuovamente scavato, è risultato essere il muro esterno di un ambulacro semicircolare costruito intorno all’abside; realizzato in due periodi diversi, l’ambulacro conteneva alcune tombe, evidentemente di importanti personaggi seppelliti il più vicino possibile alla cripta. La terminazione nordoccidentale della chiesa abbaziale altomedievale quindi consisteva di un transetto con un’abside, al di sotto della quale si trovava una cripta anulare. Adiacente all’abside, a livello della cripta, era un ambulacro semicircolare contenente sepolture. L’ambulacro è elemento del tutto estraneo alla tradizione costruttiva architettonica romana e i confronti più diretti possono essere istituiti con esempi transalpini, come Fulda, dove l’abate Ratgerio (802-817) aveva progettato un transetto, con abside e ambulacro concentrici, consacrato nell’819; da questi esempi deriva la formulazione di F., dove, oltre alle connessioni politiche con l’ambiente carolingio, si erano succeduti alla fine del sec. 8° abati di origine transalpina, come Ragambaldo, Altberto e Mauroaldo, mentre gli abati Benedetto (802-815) e Ingoaldo (815-830) avevano soggiornato rispettivamente a Francoforte e ad Aquisgrana.L’area prospiciente l’oratorio ha una storia complessa: nel sec. 12° o 13° era adibita a giardino e in seguito a cortile della stalla del palazzo del cardinale, ma, prima del sec. 12°, era uno spazio aperto con al centro un pozzo o una cisterna e varie tombe. Dopo un periodo di abbandono, durante il quale subì alla sommità una sensibile erosione, il pozzo-cisterna fu riempito deliberatamente con terra e pietrisco in cui sono state ritrovate due monete dell’imperatore Enrico II (1002-1024).Per spiegare questi elementi si deve considerare il secondo muro scoperto da Croquison, che partiva dall’angolo nordoccidentale del transetto. Gli scavi del 1978-1985 hanno dimostrato che esso si estendeva a O per m. 23; questo provava che vi erano state tre fasi costruttive e che rimaneva abbastanza per mostrare che il muro più antico terminava a m. 18 dal transetto e quindi girava verso N; a m. 3 a N del muro di Croquison vi era una struttura parallela, per la quale potevano essere provate quattro fasi costruttive anteriori al 15° secolo. L’area tra le due strutture parallele presentava numerose tombe al di sotto di un pavimento di calcare.È importante notare che la prima fase di costruzione è più antica dell’edificazione dell’ambulacro esterno alla cripta. Ciò mostra come lo spazio aperto sia anteriore alla costruzione dell’oratorio di Sicardo, che emerge come una struttura monumentale aggiunta alla chiesa abbaziale, occupando negli anni trenta del sec. 9° un terzo dell’area aperta. A parziale compensazione la facciata originale dell’atrio fu sostituita da una nuova struttura spostata di m. 2 a O, testimonianza dell’estensione del portico.Non ci sono prove archeologiche per la datazione di questo spazio aperto; è possibile comunque che la Constructio monasterii Farfensis contenga un indizio nella notizia di una visita a F. nel 705 del duca Faroaldo di Spoleto, la cui scorta aveva scaricato il proprio bagaglio in atrio. Se la parola atrium ha in questo caso un significato letterale, ci si può chiedere se tale atrio facesse parte dell’originario edificio costruito da Tommaso di Morienna verso la fine del 7° secolo.L’interpretazione di queste strutture è ancora incerta. Lo spazio aperto di fronte all’ambulacro dovrebbe essere un atrio attraverso il quale, prima della costruzione dell’oratorio di Sicardo, si entrava nella chiesa. Le strutture parallele dovrebbero consistere in un portico racchiudente il lato sudoccidentale, costituito verso l’interno da un colonnato e verso l’esterno da un muro continuo. Secondo un’ipotesi diversa l’accesso alla chiesa altomedievale sarebbe avvenuto dall’altra estremità e lo spazio aperto sarebbe stato un chiostro o un analogo complesso situato non davanti, ma oltre la chiesa carolingia.Adiacente al lato sudoccidentale dell’atrio-chiostro era un ampio ambiente rettangolare, al quale si addossava un altro più stretto. Si tratta di una struttura in origine molto accurata, con pitture murali almeno sui lati nordorientale e sudoccidentale. All’estremità sudorientale si trovava un ampio ingresso assiale, la cui soglia si conserva al di sotto di ricostruzioni successive. Per quanto è possibile vedere non vi erano aperture nel muro nordoccidentale, né accessi dall’atrio-chiostro; un ingresso sul muro meridionale conduceva alla struttura adiacente. L’ambiente fu modificato in varie occasioni: la prima fase inglobava i resti di muri che sono tardo-romani o altomedievali; nella seconda fase i muri furono nuovamente decorati. In seguito venne costruita una coppia di pilastri contrapposti forse per sostenere un arco, mentre il muro occidentale fu rinforzato. Evidentemente i muri dovevano sostenere un ulteriore peso e la spiegazione più probabile è che sia stato costruito un piano superiore. Contemporaneamente venne aperto un passaggio sul muro nordoccidentale che metteva in comunicazione il grande ambiente con una struttura di dimensioni ancora maggiori, il c.d. torrione, a m. 5 più a O. A una data sconosciuta nell’ampia stanza venne aggiunto un pavimento a mosaico in opus sectile, del quale si è conservato un piccolo frammento.L’ambiente grande e quello più piccolo che vi si addossava, in comunicazione tra loro grazie a un passaggio, costituivano una struttura unica di cui non è accertata la data di costruzione. La decorazione dell’ambiente più piccolo comprendeva una figura stante e un’iscrizione, ora solo parzialmente leggibile; il panneggio della figura e le lettere dell’iscrizione trovano confronti nella fine dell’8° e nel 9° secolo. Le pitture presentano tracce di un incendio e l’intonaco è rossastro a causa del calore; esse sono considerevolmente erose anche dietro l’abside dell’11° secolo. Ciò può costituire la prova non soltanto di un incendio, ma anche di un’epoca di abbandono durante la quale l’ambiente rimase privo di copertura e i dipinti furono così esposti alle intemperie; se questa ipotesi è giusta, il danno potrebbe essere stato causato dall’incendio dell’897 e dal temporaneo abbandono che ne seguì. Inoltre la terminazione nordoccidentale del grande e del piccolo ambiente fu posta al livello della facciata originaria dell’atrio-chiostro, che fu demolito quando Sicardo costruì l’oratorio. Così, mentre i danni provocati dal fuoco e dall’erosione dimostrano che gli ambienti già esistevano nell’897, l’allineamento dei muri alle estremità con quelli del più antico atrio-chiostro prova la loro esistenza già negli anni trenta del 9° secolo. Ne consegue che gli ambienti adiacenti all’atrio-chiostro esistevano all’inizio del sec. 9° e che, come questo, essi subirono gravi danni nell’897.Le dimensioni dell’ambiente maggiore e la presenza delle pitture murali e del mosaico pavimentale fanno ritenere che si tratti di un luogo importante destinato alle riunioni. Si può escludere l’ipotesi della sala capitolare, che il Regestum Farfense (doc. nr. 1153) riferisce essere adiacente alla chiesa, mentre questo edificio non lo era; è più probabile che si tratti del refettorio, anche perché quello di Montecassino, contemporaneo a questa struttura, occupava la stessa posizione. Le firme su un documento di F. indicano però che la comunità comprendeva almeno cento monaci e questa struttura è troppo piccola per poter ospitare un numero così grande di persone. Una terza ipotesi potrebbe spiegare non solo gli ambienti legati tra loro, ma anche il c.d. torrione. Questa massiccia torre (m. 15 ´ 11) ha muri spessi più di m. 2; i lati sono paralleli a quelli dell’ambiente grande e le due strutture erano comunicanti tramite una porta; è quindi da ritenere che l’ambiente e la torre fossero in relazione. La forma e la posizione di quest’ultima – lontana dalla chiesa e all’interno della linea delle difese scoperte nel 1959 – mostrano che non si trattava né di un campanile né di una torre della cinta muraria. Nel piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), nell’area a destra e di fronte alla chiesa principale si trovano edifici destinati agli ospiti. È possibile che sia stata proprio questa la funzione degli ambienti di F.: quello maggiore sarebbe stato nel sec. 11° perfettamente adeguato agli ospiti più ragguardevoli dell’abbazia, compreso l’imperatore; se il c.d. torrione fosse stato compreso nel complesso, il palazzo avrebbe avuto dimensioni considerevoli, con alloggiamenti per il seguito dell’imperatore e una stanza fortificata per il suo tesoro. Non è forse un caso che proprio queste stanze nel sec. 15° fossero state trasformate in palazzo per il cardinale-abate.Il nucleo del palazzo (se si tratta del palazzo) fu costruito prima che Sicardo ampliasse la chiesa e il suo atrio nell’830. Mentre mancano prove dirette per la data della sua costruzione, se ne può trovare un indizio nell’archivio di F. in forma di registrazione di donazioni all’abbazia: i periodi in cui questa riceveva un maggior numero di elargizioni sono anche quelli in cui è più probabile che venissero costruiti nuovi ambienti. Un’analisi delle donazioni mostra che prima di Sicardo si ebbero altri due momenti molto favorevoli: negli anni ottanta del sec. 8°, sotto l’abate Probato, e tra l’810 e l’820, all’epoca degli abati Benedetto e Ingoaldo. Mentre delle attività di Benedetto e Ingoaldo come costruttori non si sa nulla, il registro testimonia che Probato fornì al monastero un nuovo condotto per l’acqua. Presumibilmente il sistema idraulico già esistente si era rivelato inadeguato, anche perché la comunità era divenuta più numerosa. Probato, sotto il quale F. ricevette la protezione di Carlo Magno, sembra quindi colui che con maggiore probabilità può essere indicato come costruttore di un palazzo per il suo più importante benefattore.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), V, Roma 1914, pp. 156-157; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; Constructio monasterii Farfensis, ivi, I, p. 9; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, p. 31.
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
-Il sorgere del sole ultimi giorni di agosto 2022 –
Fotoreportage di Franco LEGGERI
Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 – Fotoreportage di Franco LEGGERI-citando il Poeta Johann Wolfgang von Goethe che così dipinse la nostra Campagna Romana: “Armonia eterea, delle ombre chiare e azzurre, fuse nel vapore che tutto avvolge in una sinfonia di trasparenze lucenti”
Campagna Romana-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Etimologia
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
Note
^ Il Catasto Alessandrino è un corpus di 426 mappe acquerellate voluto nel 1660 dal Presidente delle strade, regnante Alessandro VII, che dimostra lo stato delle proprietà fuori dalle Mura aureliane, organizzato secondo le direttrici delle strade consolari. Lo scopo era di assoggettare a contribuzione fiscale i proprietari dei terreni serviti dalle strade fuori le mura, per assicurarne la manutenzione. Il risultato, per noi moderni, è una rappresentazione fedelissima, minuziosa e pittoricamente assai interessante, della situazione dell’Agro romano al momento della sua stesura. Nelle piante vengono riportati anche costruzioni, monumenti, acque ecc., successivamente modificati e/o scomparsi, nonché informazioni sulle tenute. I documenti, conservati presso l’Archivio di Stato di Roma, sono stati digitalizzati e sono accessibili in rete, dietro autenticazione.
Poeta Johann Wolfgang von GoetheCampagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –Campagna Romana-Il sorgere del sole agosto 2022 –
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Roccantica in Sabina-già Rocca d’Anticodall’antico nome latino “Rocca de Antiquo“:< poichè se vi ha luogo in Sabina che d’ogni parte vanti tanto di memorie profane de’ secoli di Saturno, che di memorie ecclesiastiche della primitiva chiesa, egli è certamente questa, sia per la sua rocca forte per struttura e natura, per gli avanzi di anticaglie di cui sono dissiminati i dintorno, sia pei trofei antichi della pietà cristiana ne’ scacri templi>.
“………consurgere tecta,
Arcis et Antiquae protes ventura videbit…”
(Massari:Sabiniade, lib.I)
Roccantica: “Dall’Eremo di San Leonardo alle Pozze del Diavolo”
Sacro e profano: dall’eremo di San Leonardo alle Pozze del Diavolo, nel silenzio dei Monti Sabini.
Le case in pietra compatte tra loro e sovrastate dalla Torre e dal Monastero delle Clarisse, viste dalla valle, fanno già intuire l’atmosfera che si respira tra i vicoli di Roccantica. In questo piccolo borgo, sorto alle pendici dei Monti Sabini e su cui svetta il Monte Pizzuto, una delle cime più alte dell’Appennino Sabino, il tempo sembra essersi fermato. Tra le strette stradine pedonali del centro storico e le piazzette raccolte, si respira un’atmosfera suggestiva e si viene accolti da un rigenerante silenzio. Il borgo, abitato da poco più di 600 persone, custodisce le sue tradizioni storiche legate al periodo medioevale con eventi rievocativi, che animano il borgo nel mese di Agosto, e con una sartoria di abiti medioevali che confeziona vestiti per le celebrazioni di tutta Italia. Anche la rigogliosa natura montana della zona non è da meno, portando con sé storie e leggende. Come nel caso della sorprendente dolina carsica del Revotano, raggiungibile a piedi a pochi chilometri dal borgo, in cui sarebbe sprofondato il precedente villaggio.
Vi facciamo conoscere questo tranquillo borgo della Sabina, luogo di partenza di escursioni e tour naturalistici. Un borgo che nonostante lo spopolamento subìto nel corso degli anni, mantiene fascino e un antico centro storico tra i più integri del Lazio.
Le origini di Roccantica
Le origini accertate del borgo risalgono alla menzione di un “fundus antiquum” che rientra tra i possedimenti dell’Abbazia di Farfa, nell’ 840 dopo Cristo, e in seguito tra quelli di Grimaldo, figlio di Benedetto di Ubaldo dei duchi di Benevento. Fino a questo momento sembra ci fossero solo terreni e abitazioni, senza l’incastellamento. Nel 1061 passò sotto la giurisdizione della Santa Sede, diventando Castra Specialia, castello di proprietà della Chiesa. Fu da subìto fedele a Papa Niccolò II, che qui si rifugiò perché inseguito dalle truppe alleate di Benedetto X. Nel XIV secolo, a differenza di altre comunità sabine, non partecipò alla rivolta contro l’autorità pontificia e nel 1415 fu concessa in feudo agli Orsini. Tornò alla Camera Apostolica nel 1728.
Il borgo in passato si chiamava Rocca d’Antico, derivando probabilmente dal latino Anticus, ‘anteriore’, ‘che sta davanti’. Nel 1923 passa dalla provincia di Perugia in Umbria, alla provincia di Roma nel Lazio, e nel 1927 passa a quella di Rieti, venendo anche accorpata al comune di Aspra Sabina. Nel 1939 viene nuovamente staccata da Aspra Sabina, riacquistando autonomia comunale.
Cosa vedere a Roccantica
Entrando da una delle tre Porte antiche del borgo, e curiosando tra gli scorci dei vicoli, si raggiungono le chiese gotiche di San Valentino e quella di Santa Caterina D’Alessandria, che conserva affreschi quattrocenteschi che illustrano la vita della Santa. Risalendo sulla cima del borgo, e con una stupenda vista panoramica, c’è la Torre Niccolò II che fungeva da difesa e da vedetta come la triplice cerchia di mura di epoca medioevale. Sempre sulle zone più alte borgo sorge il Monastero delle Clarisse, ex Castello Ursino, e poco distante la piccolissima chiesa di Piedirocca, con all’interno l’affresco raffigurante Maria in trono con Bambino, luogo di pellegrinaggio della popolazione del posto. Per gli amanti delle escursioni, lungo il sentiero che conduce alla gigante dolina carsica del Revotano si incrocia l’Eremo rupestre di San Leonardo che si affaccia a picco su un torrente sottostante e con tracce di affreschi del ‘400.
Da visitare anche il Roseto Vacunae Rosae, un grande giardino botanico dedicato alle rose, con oltre 5mila varietà, allestito con fontane ornamentali, privato ma aperto al pubblico con cadenza stagionale. Nei dintorni del borgo, seguendo il torrente Galatina, nella zona degli Eremi di S.Michele e S. Leonardo, fra boschi rigogliosi si trova la suggestiva cascata Pozze del Diavolo.
Cosa mangiare a Roccantica
Uno dei piatti tipici della cucina locale è il Frittello, a cui è dedicata una sagra nel mese di marzo, che consiste in cavolfiori in pastella fritti. Un altro prodotto pregiato della zona è la castagna rossa del Cicolano, oltre alla produzione dell’olio extra vergine della Sabina. Non mancano i ristoranti dove mangiare bene, anche piatti della tradizione: “Le cucine del Borgo”, “La Trattoria del Compare”, la taverna “La Tana del Branco”. E per gli amanti della cucina vegetariana “La Tacita Country Club”.
Dove dormire a Roccantica
Nel borgo di Roccantica ci sono alcune possibilità di pernottamento. Si può soggiornare all’interno del borgo nella struttura “La Runa House”, un ostello dove sono ammessi anche gli animali. L’ “Agriturismo San Lorenzo” è invece una cascina ristrutturata immersa invece tra vigne e oliveti del borgo. Poco distante dal centro storico di Roccantica ci sono altre soluzioni di pernottamento: “La Casa Nettarina”, a Poggio Mirteto; “La vecchia Quercia”, a Selci; “Agriturismo Nociquerceto”, a Tarano.
Come arrivare a Roccantica da Roma
Per raggiungere Roccantica da Roma: Uscire all’uscita Ponzano Romano-Soratte dell’autostrada A1, proseguire fino alla SS 313 seguendo le indicazioni per Roccantica, svoltare sulla SP 48c.
Roccantica sorge a 457 metri di altezza sul livello del mare, su un costone del Monte Pizzuto, che arriva ad un’altezza di 1.288 m s.l.m., nel territorio comunale il picco del Monte Menicoccio, è di 1.204 m s.l.m
Torre di Niccolò II è ciò che resta delle origini del Borgo, originariamente protetto da una triplice cerchia di mura. Costruita prima dell’anno Mille, la torre ha sezione quadrata ed ha il nome del papa con il quale i Roccolani, parteggiarono contro Benedetto X. Niccolò II ricompensò la fedeltà del popolo con vari privilegi.
Architetture religiose
Sono di notevole interesse le chiese gotiche di San Valentino e di Santa Caterina; quest’ultima è stata affrescata nel 1430 da Pietro Coleberti con otto dipinti sulla vita della santa Caterina d’Alessandria.
Aree naturali
Nel territorio comunale di Roccantica esiste la grande dolina, nota come Revotano, del diametro di circa 250 metri, in cui, secondo una leggenda locale, sarebbe sprofondato il precedente villaggio.
Nel 1939 viene nuovamente staccata da Aspra Sabina, riacquistando dignità comunale.
ROCCANTICA in SABINA
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Robert Capa e Gerda Taro:la fotografia, l’amore, la guerra
in mostra fino al 2 giugno 2024 a CAMERA-
– Centro Italiano per la Fotografia di Torino –
Robert Capa e Gerda Taro
TORINO-A CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia di Torino continua la mostra Robert Capa e Gerda Taro: la fotografia, l’amore, la guerra, con 120 immagini che raccontano una delle stagioni più intense della storia della fotografia del XX secolo: il rapporto professionale e affettivo fra Robert Capa e Gerda Taro. Dai cafè della Parigi degli anni Trenta ai campi di battaglia della Guerra civile spagnola, il percorso espositivo segue le vicende di Endre – poi francesizzato André – Friedmann e Gerta Pohorylle (questi i loro veri nomi). Fuggita dalla Germania nazista lei, emigrato dall’Ungheria lui, si incontrano nella capitale francese nel 1934. In un momento in cui trovare committenze è sempre più difficile, i due inventano il personaggio di Robert Capa, un famoso fotografo americano arrivato da poco nel continente, alter ego con il quale André si identificherà per il resto della sua vita. Anche Gerta cambia nome e assume quello di Gerda Taro.
La svolta decisiva però arriva nel 1936, con l’inizio del conflitto civile spagnolo. Proprio nello scenario della prima guerra ‘fotografica’ della storia, Capa e Taro realizzano i loro scatti più noti – immagini realizzate seguendo da vicino le battaglie ma anche i momenti di vita quotidiana dei miliziani – trovando in questo impiego terreno fertile per esprimere le proprie idee antifasciste. Un impegno che costerà la vita di Gerda nel luglio del 1937, nel mezzo di una ritirata a Brunete, rendendola la prima reporter a morire sul campo. La mostra è curata da Walter Guadagnini e Monica Poggi, attraverso le fotografie e la riproduzione di alcuni provini della celebre “valigia messicana”, scomparsa dal 1939 e ritrovata a fine anni Novanta, contenente 4.500 negativi scattati in Spagna dai due fotoreporter e dal loro amico David Seymour, detto “Chim”.
Informazioni 14 febbraio – 2 giugno 2024 camera.to
Orari di apertura (Ultimo ingresso, 30 minuti prima della chiusura)
Lunedì 11.00 – 19.00
Martedì 11.00 – 19.00
Mercoledì 11.00 – 19.00
Giovedì 11.00 – 21.00
Venerdì 11.00 – 19.00
Sabato 11.00 – 19.00
Domenica 11.00 – 19.00
Sede espositiva
CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, via delle Rosine 18, Torino
Fred Stein, Gerda Taro e Robert Capa, Cafe de Dome, Parigi, 1936
Estate Fred Stein. Courtesy International Center of Photography
Robert Capa, Morte di un miliziano lealista, nei pressi di Espejo Fronte di Cordoba, Spagna, inizio settembre, 1936
The Robert Capa and Cornell Capa Archive, Gift of Cornell and Edith Capa, 2010. Courtesy International Center of Photography
Gerda Taro, Miliziana repubblicana si addestra in spiaggia. Fuori Barcellona, 1936
Gift of Cornell and Edith Capa, 1986. Courtesy International Center of Photography
Nota per i suoi reportage di guerra, è anche conosciuta per essere stata la compagna di Robert Capa[1] e per aver stabilito con il fotoreporterungherese un forte sodalizio professionale. È considerata insieme a Capa una dei più importanti fotografi di guerra. La sua morte violenta a 26 anni (fu travolta da un carro armato durante la Guerra civile spagnola [2]) contribuì a mitizzarla come donna rivoluzionaria e coraggiosa caduta per le proprie idee e per il suo lavoro[3].
Biografia di Gerda Taro
Gerda Taro gettyimages-
Gerda Taro, il cui vero nome era Gerta Pohorylle, nasce da una famiglia di ebrei polacchi. È portata per lo studio, è una buona giocatrice di tennis, ama vestirsi bene e fin da bambina dimostra di avere un carattere forte. Nonostante le sue origini borghesi, giovanissima entra a far parte di movimenti socialisti e di lavoratori. Per questo motivo e per la sua origine ebraica, l’avvento del nazismo in Germania le crea molti problemi. Finisce in carcere in quanto attiva nel Partito Comunista Tedesco, interrogata non parla e, grazie al suo passaporto polacco, viene liberata. Con un amico lascia la Germania alla volta di Parigi, mentre i suoi genitori decidono di rifugiarsi in Palestina ed i fratelli in Inghilterra[4].
Gerda Taro i funerali
Nel 1935 a Parigi grazie alla sua intelligenza e adattabilità, la poliglotta Gerta trova lavori come dattilografa e segretaria. Tramite l’amica e coinquilina Ruth conosce l’ungherese Endre Friedman. Come lei è ebreo, comunista, antifascista e ha conosciuto il carcere e sbarca il lunario facendo il fotografo. Endre e Gerta si fidanzano e sarà proprio lui ad iniziarla alla fotografia. Insieme, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, inventano il personaggio “Robert Capa”, un fantomatico celebre fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Grazie a questo curioso espediente la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi.
Nel 1936 entrambi decidono di seguire sul campo gli sviluppi della guerra civile spagnola, guerra che inciderà parecchio sulla vita dei due. Giunti in Spagna diventano immediatamente importanti testimoni della guerra, realizzando molti reportage pubblicati in periodici come “Regards” o “Vu.”
Nota fra le milizie antifasciste per la sua freschezza, coraggio ed eccezionale bellezza, rischiò sempre la vita per realizzare i propri servizi fotografici. All’inizio il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente, i due divisero la ‘ragione sociale’ – CAPA – e Endre Friedman adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé[6].
Gerda realizzò, in un periodo in cui Capa era per alcuni giorni a Parigi per rapporti con le agenzie, il suo più importante reportage durante la battaglia di Brunete. All’inizio parve una grande vittoria repubblicana. Il contrattacco franchista ribaltò presto la situazione e Gerda fu allora testimone dei selvaggi bombardamenti dell’aviazione nazionalista, scattando numerose fotografie sempre con estremo rischio per la propria vita.
Testimoni raccontano che spesso incitava lei stessa i combattenti “all’attacco”; la sua fede rivoluzionaria e antifascista era puro slancio. L’articolo che venne pubblicato sulla rivista Regards, diede un grande lustro alla reporter tedesca.
Gerda-Taro-prima-fotogiornalista-guerra-di Spagna
La morte
Al ritorno dal fronte di Brunete, Gerda Taro perse la vita a causa di un terribile incidente. Gerda viaggiava aggrappata al predellino esterno della vettura del generale polacco “Walter” (Karol Świerczewsky), colma di feriti; Walter era un noto comandante delle Brigate Internazionali. Quando aeroplani tedeschi volarono a bassa quota sul convoglio repubblicano mitragliandolo, nel trambusto generale un carro armato urtò l’auto alla quale era aggrappata Gerda, che cadde sotto i cingoli del carro armato restando schiacciata dallo stomaco in giù.
Gerda Taro
Gerda non perse conoscenza e durante il penoso trasferimento, che durò ore, all’ospedale di Madrid ‘El Goloso’ (zona dell’Escorial) si mantenne le viscere in sede con la pressione delle proprie mani; i testimoni ricordano un’incredibile freddezza e coraggio nella ragazza. Alcuni tra i migliori medici delle Brigate Internazionali le trasfusero plasma e tentarono di operarla senza anestetici e senza antibiotici (di cui non vi era disponibilità), di suturare la devastante ferita ma si resero subito conto che ogni tentativo non l’avrebbe mai salvata; il suo organismo non poteva più svolgere alcuna funzione vitale che si protraesse oltre le poche ore.
Gerda Taro_Photo Robert Capa
All’infermiera che dovette vegliarla fu indicato di somministrarle tutta la morfina possibile per non farla soffrire, in quanto il decesso era inevitabile. La ragazza si preoccupava comunque delle proprie macchine fotografiche chiedendo “se si erano rotte”. Restò in vita e vigile sino all’alba del 26 luglio 1937; morì intorno alle ore 5 semplicemente “chiudendo gli occhi”. Gerda aveva 26 anni.
Gerda Taro
Il suo corpo fu traslato a Parigi e, accompagnato da 200.000 persone, fu tumulato al Père-Lachaise con tutti gli onori dovuti ad un’eroina repubblicana. Allo scultore Alberto Giacometti venne chiesto di realizzare il monumento funebre. Pablo Neruda e Louis Aragon lessero un elogio ‘in memoriam’. Il suo compagno Capa non si riprese mai più dalla morte della dolce e vivacissima Gerda, prima donna reporter a morire sul lavoro. Da allora anch’egli rischierà sempre la morte sul lavoro, incontrandola poi nel 1954 nella guerra d’Indocina.
Gerda Taro
Un anno dopo la morte di Gerda, nel 1938, Robert Capa pubblicherà in sua memoria Death in the Making, riunendo molte foto scattate insieme. La sua tomba a Parigi giace dimenticata nella zona del Père-Lachaise dedicata ai rivoluzionari e alla Resistenza, vicino al noto “Mur des Federés”.
Nel 1942 il regime collaborazionista fascista francese censurò l’epitaffio inciso sulla tomba di Gerda, epitaffio mai più restaurato. La tomba, dopo le modifiche occorse nel 1953, è accessibile da un viottolo posteriore, quindi posta “alla rovescia” rispetto a quando fu costruita. La tomba di Gerda Taro fu l’unica ad essere violata dalla mano nazi-fascista, forse per l’influenza che la giovane rivoluzionaria, caduta nella guerra contro il fascismo, ancora esercitava sulla crescente Resistenza francese.
Rimasta a lungo nell’ombra del più noto fidanzato Robert Capa e relegata al ruolo di sua compagna (e in qualche cronaca anche di moglie), dalla metà degli anni 1990 Gerda Taro è oggetto di interesse storico per il suo ruolo di giovanissima donna contro-corrente, rivoluzionaria militante sino al sacrificio massimo e protagonista della storia della fotografia e della resistenza al fascismo[6][7][8].
Robert Capa- Nasce in Ungheria da una famiglia ebrea proprietaria di una avviata casa di moda. Capa è un bambino vitale e rissoso che in famiglia viene soprannominato “Cápa”, squalo in ungherese. Ha appena diciassette anni quando viene arrestato per le sue simpatie comuniste; appena liberato abbandona la terra natale alla volta di Berlino. Là s’iscrive all’università alla facoltà di scienze politiche, sognando di diventare giornalista. Per mantenersi trova un impiego presso uno studio fotografico, cosa che lo avvicina al mondo della fotografia. Inizia a collaborare con l’agenzia fotogiornalistica Dephot sotto l’influenza di Simon Guttmann[3]. Autodidatta, nel 1932 è a Copenaghen, dove Lev Trockij tiene una conferenza. Nonostante il divieto di fare fotografie, elude la sorveglianza e realizza alcuni scatti. È il suo primo servizio pubblicato[4].
A causa dell’avvento del nazismo, Capa nel 1933 lascia Berlino per Vienna, per poi, l’anno successivo, partire alla volta di Parigi. Ma in Francia incontra difficoltà nel trovare lavoro come fotografo freelance. Al caffè A Capoulade, nel Quartiere Latino, nel settembre 1934 fa la conoscenza di Gerda Taro, una studentessa tedesca di origine galiziana, anch’essa fotografa autodidatta. Robert e Gerda stabiliscono un solido rapporto sentimentale e professionale[4].
A Parigi Capa conosce anche David Seymour (nato Szymin), che a sua volta lo presenterà ad Henri Cartier-Bresson, tutti giovani fotografi di origini sociali e geografiche diverse, ma legati dal linguaggio dell’immagine. Il suo primo servizio importante è quello del maggio 1936 che documenta le manifestazioni per l’ascesa al potere del Fronte Popolare; una sua foto diventa la copertina della rivista «Vu» (“Visto” in italiano).
Nell’agosto del 1936 Gerda Taro riesce a procurargli un accredito stampa per documentare la guerra civile spagnola ed assieme prendono un aereo per Barcellona.[5] Qui, un po’ per sfida, un po’ per opportunità, i due inventano il personaggio di “Robert Capa”, un fantomatico fotografo americano giunto a Parigi per lavorare in Europa. Lo pseudonimo Robert Capa viene scelto per il suono più familiare all’estero e per l’assonanza con il nome del popolare regista italo-statunitense Frank Capra. Grazie a questo curioso espediente, la coppia moltiplica le proprie commesse e guadagna parecchi soldi. All’inizio, in effetti, il marchio “Capa-Taro” fu usato indistintamente da entrambi i fotografi. Successivamente i due divisero la “ragione sociale” CAPA e Endre Friedmann adottò definitivamente lo pseudonimo Robert Capa per sé.
Foto Robert Capa. SPAGNA -Vallecas en 1938
Il 26 luglio 1937 Gerda muore tragicamente a Brunete, nei pressi di Madrid (rimane schiacciata durante un errore di manovra di un carro armato “amico”). L’anno dopo Robert pubblica un libro in omaggio alla sua amata, Death in making, che contiene anche le fotografie, scattate da entrambi, della guerra in Spagna.
LA PRIMA AL CINEMA CAPRANICA DI ROMA CITTÀ APERTA DI ROBERTO ROSSELLINI –
ROMA CITTÀ APERTA il film si ispira alla vicenda di Dante Bruna che nell’aprile del 1944, per 70 mila lire, denuncia ai tedeschi – provocandone l’arresto e la fucilazione – don Giuseppe Morosini e il sottotenente Marcello Bucchi (trucidato alle Fosse Ardeatine) perché collegati con la banda partigiana “Mosconi”, attiva a Monte Mario. La storia giudiziaria di Bruna si conclude, invece, il 13 ottobre del 1953 con la conferma di 30 anni di carcere.
P.P.PASOLINI:“Ecco… la Casilina, su cui tristemente si aprono le porte della città di Rossellini… ecco l’epico paesaggio neorealista, coi fili del telegrafo, i selciati, i pini, i muretti scrostati, la mistica folla perduta nel daffare quotidiano le tetre forme della dominazione nazista” da (P.P. Pasolini, La religione del mio tempo). Con Roma città aperta, proiettato i primi di ottobre per l’anteprima italiana al Festival del Quirino, Rossellini riproduce la memoria stessa del suo pubblico, ponendosi suo malgrado quale messia della nuova cinematografia neorealista. Se il riconoscimento di tale ruolo suscita in Italia qualche perplessità, gli americani si dicono entusiasti dell’opera rosselliniana. Tanto da indurre la critica a considerare Rossellini la chiave che aprirà le porte degli investimenti americani nel cinema italiano.
Dal libro: Fotoreportage per raccontare Roma e la sua Campagna Romana
di Franco Leggeri.
La bellezza, la poesia e la “bioarchitettura” del Viale dei pini nella Campagna Romana. V.le del sito Archeologico Torre della BOTTACCIA-Brano e Fotoreportage tratto dalla Monografia “Torri Segnaletiche-Saracene della Campagna Romana “di Franco Leggeri.
L’ecologia è un concetto che fa parte della coscienza universale, di cui dobbiamo essere ogni giorno sempre più consapevoli. Il grande scienziato della natura e poeta Goethe riassume tale consapevolezza con queste parole: “Nulla si impara a conoscere, se non ciò che si ama, e più forte è l’amore tanto maggiore sarà la conoscenza”. Imparare a “godere” dello spazio naturale che ci circonda è uno strumento di straordinario valore per diffondere e sedimentare nell’agire una vera e propria cultura della sostenibilità. In tal senso, probabilmente la più spontanea e potente istanza pedagogica è proprio il paesaggio, capace di impartire una sua prima e fondamentale educazione implicita: il paesaggio è infatti come scrive , molto bene, nel suo saggio ”Paesaggio Educatore” il Regni R. “ maestro di una cultura dell’ascolto dell’armonia dell’uomo e del cosmo, propria di un ambiente come realtà da condividere e non solo come qualcosa a cui badare”(Ed.Armando -2009). L’ammirazione per lo splendore della natura è il motore che genera e, conseguentemente, moltiplica in ognuno di noi , sin dalla più giovane età, i sentimenti di affezione , rispetto e curiosità verso il patrimonio ambientale che ci circonda. D’altra parte tale affezione e desiderio di cura tutela non può che scaturire dalla conoscenza e dalla relazione . Ci è istintivamente estraneo ciò che non conosciamo, con cui non possiamo dialogare per assenza di codici condivisi e a cui non siamo socializzati . L’estraneità si supera a mio avviso, solo attraverso un flusso comunicativo e relazionare che deve essere continuamente alimentato e che dà luogo ad una empatia prodromica a comportamenti di cura , tutela e di salvaguardia . Per recuperare i “codici” che ci consentono , nell’ascolto, di comprendere il linguaggio della natura bisogna , infatti, conoscere quest’ultima, perché solo coltivando una conoscenza profonda e radicata , ma anche istintiva, di qualcosa possiamo affezionarci ad essa, amarla e far crescere in noi il desiderio spontaneo di difenderla e preservarla.
Foto di Franco Leggeri- Campagna Romana Viale dei pini Torre della BOTTACCIA-
Campagna romana
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.-Con la locuzioneCampagna romana si indica la vasta pianura del Lazio, ondulata e intersecata da fossi o marrane, della provincia di Roma, che si estende nel territorio circostante l’intera area della città di Roma fino ad Anzio con il piano collinare prossimo, comprendente parte dell’Agro romano, fino al confine con l’Agro Pontino.
Il termine “Campagna” deriva dalla provincia di “Campania” istituita nel tardo impero in sostituzione della preesistente Regio I. Una paretimologia la fa derivare invece dal latinocampus (volgare “campagna” nel senso di area rurale). Va notato che “Campagna Romana” non è sinonimo di “Agro Romano“ – espressione, quest’ultima, utilizzata per indicare l’area di Campagna Romana nel distretto municipale di Roma.
Storia
Secondo Carocci e Vendittelli la struttura fondiaria e produttiva della Campagna Romana risale al tardo medioevo e si è conservata senza soluzione di continuo fino alla riforma agraria a metà del XX secolo.
Le invasioni barbariche, la guerra greco-gotica e la definitiva caduta dell’Impero romano d’Occidente favorirono il generale spopolamento delle campagne, compresa quella romana, e i grandi latifondi imperiali passarono nelle mani della Chiesa, che aveva ereditato le funzioni assistenziali e di governo già assolte dai funzionari imperiali, e le esercitava nei limiti del possibile.
A partire dall’VIII secolo le aziende agricole (villae rusticae) di epoca imperiale si trasformarono – dove sopravvissero – in domuscultae, entità residenziali e produttive autosufficienti e fortificate, dipendenti da una diocesi – o una chiesa, o un’abbazia – che deteneva la proprietà delle terre e le assegnava in enfiteusi ai contadini residenti. Questi spesso ne erano gli originali proprietari, ed avevano conferito la proprietà dei fondi alla Chiesa in cambio di un piccolo canone di affitto e dell’esenzione dalle tasse. Queste comunità godevano di completa autonomia, che implicava anche il diritto ad armarsi per autodifesa (da dove la costruzione di torri e torrette), e in alcuni casi giunsero anche a battere moneta.
Già dal X secolo, tuttavia, la feudalizzazione costrinse i contadini ad aggregarsi attorno ai castelli dei baroni ai quali veniva man mano attribuito il possesso – a vario titolo – di molte proprietà ecclesiastiche, e la coltivazione della pianura impaludata e malarica fu abbandonata, col tempo, quasi completamente. Là dove si continuava a coltivare, questi nuovi latifondi ormai deserti, nei quali sorgevano sparsi casali fortificati, furono destinati a colture estensive di cereali e a pascolo per l’allevamento di bestiame grande e piccolo. Il loro scarso panorama umano era costituito da pastori, bovari e cavallari, braccianti al tempo delle mietiture, briganti.
L’abbandono delle terre giunse a tal punto che con la conseguente scomparsa degli insediamenti urbani nel territorio circostante Roma attorno alle vie Appia e Latina, l’ex Latium Vetus, venne ripartito in “casali”, tenute agricole di centinaia di ettari dedicato all’allevamento di bestiame, soprattutto ovini, e alla coltivazione di cereali, a cui erano addetti lavoratori salariati spesso stagionali. Questi latifondi in età rinascimentale e moderna divennero proprietà delle famiglie legate al papato. A seguito dello spopolamento delle terre pianeggianti ritornate a pascolo, si aggravò il grave problema dell’impaludamento e della malaria.
Nel XVII secolo, dopo la redazione del Catasto Alessandrino[1], furono concessi ai contadini, ai piccoli proprietari e agli abitanti dei borghi l’uso civico dei terreni spopolati e abbandonati ed esenzioni fiscali (mentre venivano aggravate le imposizioni sui proprietari noncuranti), allo scopo di stimolare il ripopolamento di quelle campagne.
Nel XVIII e nel XIX secolo il paesaggio della Campagna romana, rappresentato da vaste aree pressoché disabitate dove spesso era possibile imbattersi nelle vestigia di imponenti costruzioni romane in rovina, divenne un luogo comune, un simbolo della tramontata grandezza di Roma, insieme con l’immagine del quotidiano pittoresco rappresentato dai briganti, dai pastori e dai popolani di Bartolomeo Pinelli e dei pittori europei del Grand Tour.
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