Paolo GENOVESI -Fotoreportage Abbazia di FARFA
CASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFA
–Confine è una parola pericolosa, perché appartiene in primo luogo alla semantica della chiusura; ma come tutte le parole “sol che rifletta sulle loro vibrazioni e se ne interroghi la perenne ambiguità” sa dire altro : esprime anche il senso opposto dell’apertura: è linea che garantisce la nostra identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza di ciò che siamo, si può guardare oltre ; è la “provincia”, la quale , appena viva consapevolmente la sua identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza spinge lo sguardo oltre i suoi limiti. La premessa è per introdurre alla storia e a una guerra di secoli tra gli abitanti di Castelnuovo e l’Abbazia di Farfa. Si narra che più volte i castelnuovesi spostarono i confini, cippi di pietra, e li gettassero nei fossi. La “guerra dei confini” portò anche ad una scomunica da parte della Chiesa di Roma nei confronti dei castelnuovesi. In verità i castelnuovesi più e più volte malmenarono i frati dell’Abbazia e :“gli abitanti di essa, servi, garzoni, stallieri ecc. “ –“Alle parole seguirono i fatti, e le mani si levarono e colpirono a sangue i monaci che malconci si rifugiarono in chiesa, e qui furono curati dalle ferite riportate nello scontro con gli abitanti di Castelnuovo, quel Borgo di uomini duri e forti…” La questione dei confini fu , finalmente, risolta con il Regio decreto del 6 agosto 1937-XV. N.1695; “Rettifica di confine fra i comuni di Castelnuovo di Farfa e di Fara in Sabina, in provincia di Rieti”.
. Con il Regio Decreto vennero, finalmente, riconosciute le ragioni degli abitanti di Castelnuovo di Farfa. La “QUESTIONE CONFINI” durava dal medioevo…risolta dopo quattro secoli. I castelnuovesi non sono mai stati servi e sottomessi alle prepotenze dei frati dell’Abbazia e qui inizia un altro capitolo relativo alla guerra del sale e “dazi & balzelli” che si dovevano pagare ai monaci dell’Abbazia. ……………………………………………………………………………………….
I confini tra Castelnuovo di Farfa e Poggio Nativo potrebbero essere stati rivisti nel 1946, (Nota a chiarimento dell’imprecisione non mi è stato consentita la consultazione dell’Archivio di Castelnuovo di Farfa), a seguito del distacco della frazione di Monte Santa Maria dal comune di Toffia , distacco richiesto sin dall’8 ottobre 1922 e mai concesso. Nel 1945 il 14 settembre la Democrazia Cristiana al fine di contrastare la Sinistra di Poggio Nativo ne sancì il distacco definitivo così come si legge nel verbale del consiglio comunale di Toffia che riporto integralmente:
” Che non ostante i proventi della sovrimposta di terreni e fabbricati della frazione a quelli degli altri tributi comunali, il bilancio da alcuni anni pareggia col contributo della Stato; Che in conseguenza senza i proventi di cui sopra il Comune di Toffia non potrebbe più reggersi, mentre il Comune di Poggio Nativo ne avrebbe immensi vantaggi finanziari, che verrebbero a migliorare ancor più la sua ben nota floridezza economica; Che si hanno buoni motivi di ritenere che la domanda dei frazionisti di Monte Santa Maria sia stata principalmente determinata dalla situazione politica creatasi nel Comune, in quanto nella frazione predomina il Partito Democratico Cristiano, mentre nel capoluogo predominano i partiti di sinistra;
per le ragioni di cui sopra
La Giunta
Ad eccezione del rappresentante della Frazione di Monte Santa Maria
Ad unanimità Delibera
Di esprimere parere contrario al distacco della Frazione stessa dal Comune di Toffia.
Letto confermato e sottoscritto:
il Sindaco Leo Mancini
la Giunta:Paolini Guido-Ferretti Alfonso-Capparoni Pietro.
Toffia 15 settembre 1945-“
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I confini sul fiume Farfa
Molto interessante è il sistema escogitato dai castelnuovesi, opera di ingegneria idraulica CONTADINA, al fine di sfuggire al monaco “PISCIONARIO” addetto alla riscossione del “dazio” sui “diritti di pesca” relativi al fiume FARFARIO ecc.
Dal libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Fonte sito web-Scopri la Sabina
Si sale su una collina non troppo alta, e ci si imbatte in Salisano: si deve, appunto, salire per trovare questo delizioso borgo della Sabina. Si sale e si diventa sani, o c’è bisogno di essere sani per salire: secondo gli abitanti, da questo motto potrebbe derivare il toponimo, alludendo giocosamente alla prestanza fisica necessaria per salire fino ai suoi 460 metri di altitudine con la vecchia mulattiera che un tempo conduceva al borgo.
È un centro piccolo, in cui la campana della chiesa parrocchiale suona ogni quarto d’ora: un’esigenza imprescindibile per gli abitanti di un tempo, impegnati nelle attività dei campi e quindi legati a quel suono per la scansione temporale, un’esigenza ancora imprescindibile per gli abitanti, pochi quelli rimasti, ma che sono strenuamente legati alle loro tradizioni e alle loro radici.
Radici che in realtà non sono solo su questa collina, ma poco più avanti, e ad altitudine inferiore: nei pressi di quello che rimane di Rocca Baldesca. In realtà tutta la zona era ampiamente interessata dalla presenza dei Sabini prima e dei Romani dopo, ma nel corso del Medioevo la sede del borgo era nei pressi di quello che ad oggi è un castello abbandonato, o meglio quello che ne rimane.
Salisano viene nominato, nel registro dei possedimenti dell’Abbazia di Farfa, come Fundus Salisanus: la prima menzione è precisamente dell’anno 840, quando compare nel diploma di Lotario I. Allora il suo aspetto non era certo quello di un castello, ma più di una curtis, con le case disposte intorno alla Chiesa di San Pietro.
È di poco posteriore la suddivisione del territorio in contrade, in base al numero delle strade: si ebbero allora la Contrada della Strada Diritta, la Contrada della Strada dei Ponti (così chiamata dai ponti che collegano le case da una parte all’altra del vicolo ed oggi, non a caso, conosciuta come Via degli Archi) e Contrada Strada del Fico, l’attuale Via Regina Elena. Si può ipotizzare che la prima fosse riservata ai nobili, visti gli aspetti dei palazzi e degli edifici, sontuosi in pietra, la seconda agli operai e ai popolani, mentre la terza a quella che oggi definiremmo il ceto medio, ovvero quella classe di funzionari, ma anche di commercianti e artigiani.
In parallelo, avveniva la nascita di Rocca Baldesca, castello e avamposto prima che Salisano divenisse, anch’esso, castello fortificato. Poco più in basso di Salisano e dunque più esposto a eventuali pericoli, Rocca Baldesca era un castello ampio, che ospitava la popolazione al suo interno. Fu abitato fino al 1400, quando le frequenti incursioni che rendevano il luogo poco sicuro, spinsero gli abitanti a spostarsi nella confinante Salisano.
Dopo essere stato feudo della sua famiglia, il 20 ottobre 1531 il Cardinale Francesco Orsini di Aragona concesse Salisano a Galiotto Ferreolo, il quale edificò un palazzo munito di bastione triangolare. Ad oggi, di questa rocca non rimane pressoché nulla, solo alcune rovine: distrutto per precisa volontà della popolazione, a cui viene attribuito anche l’assassinio, nel 1542, del Ferreolo, reo, secondo le fonti, di ogni sorta di tiranneria e dispotismo. Ed è un vero peccato che del Castello non rimanga che parte del bastione e la base dei due torrioni circolari: pare fosse stato progettato dal Sangallo.
Chiacchierando con la gente, abbiamo scoperto una rivalità con il vicino comune di Mompeo – i due comuni sono separati dalla Gola di Rosciano: non stupisce, è abbastanza frequente tra centri vicini. I due colli, quello di Mompeo e quello di Salisano, sono vicini, separati da una gola. Quello che sorprende è che si nobilita questa antipatia con motivazioni storiche: se Mompeo, come vi abbiamo raccontato nella scheda dedicata, sembra derivare il suo nome dalla presenza di una villa del celebre generale romano Gneo Pompeo Magno, allora non può che essere contrapposta a un centro fedele a Gaio Giulio Cesare, come si racconta, da queste parti, essere stato Salisano all’epoca.
Santa Giulia Vergine Martire viene raffigurata in alcune tele poste all’interno della chiesetta parrocchiale, dedicata ai Santissimi Pietro e Paolo. L’intitolazione omaggia quelli che, inizialmente, erano patroni della città, che però Santa Giulia nel corso del tempo ha soppiantato nella devozione dei salisanesi.
Giulia era una giovane nobile cartaginese, verosimilmente vittima delle persecuzioni contro i cristiani perpetrate da Decio, o da Domiziano, imperatori rispettivamente tra il 249 e il 251 e il 244 e il 315. La colpa della fanciulla risiedeva nel non voler rinunciare alla sua fede. Probabilmente le sue reliquie viaggiarono nell’ambito dei flussi migratori dei cristiani, che fuggivano dall’Africa incalzati dalle incursioni dei Vandali di Genserico. E così arrivarono in Corsica, da dove Ansa, la sovrana dei Longobardi moglie di re Desiderio, le fece traslare a Brescia nel 762.
L’agiografia invece ci ha trasmesso un quadro molto più suggestivo delle sue peregrinazioni e sofferenze, di certo influenzato da una tendenza a rassomigliarle a quelle patite da Gesù Cristo. Giulia, tratta in schiavitù e condotta in Corsica durante i viaggi del suo padrone, fu sottoposta a un crudele martirio da un signore locale, tale Felice, per il fermo rifiuto opposto dalla fanciulla a sacrificare agli dei pagani.
Le vennero strappati i capelli, e fu crocifissa e gettata in mare. Le sue spoglie, ancora legate, inchiodate alle due assi di legno, vennero fortunosamente ritrovate da alcuni monaci. Il suo legame con la Corsica è ancora profondo, essendone poi diventata la Patrona. Ad oggi, Santa Giulia viene ricordata nel calendario cristiano il 22 maggio, ma a Salisano i festeggiamenti in suo onore si tengono durante la prima domenica dopo Ferragosto.
Il piatto tipico di Salisano? Nessun dubbio, sono i maccheroni a fezze. Una pasta semplice, fatta di acqua e farina, tirata con la mano unta di olio, come un unico filo, ben spesso, non interrotto, che poi viene sistemato in una matassa dai cuochi locali, che si aiutano in questo con il gomito. In bianco, condita con olio extravergine della Sabina DOP, un ramoscello di maggiorana, da queste parti chiamata persa, e abbondante pecorino spolverato. Oppure un sugo di cinghiale, o castrato, o di pomodoro e basta. Purché ci sia il pecorino sopra!
Per quanto riguarda i secondi, i salisanesi mettono in tavola lo stracotto di cinghiale al vino rosso, o coniglio porchettato farcito con lardo, accompagnato dal pane ben cotto al forno a legna.
Possiamo chiudere il nostro pranzo con le ciambelle all’anice dolci, che sono distribuite durante la festa di Sant’Antonio.
Ma se vogliamo unire la gola al divertimento, allora occorre monitorare sui suoi canali social gli eventi organizzati dalla Pro Loco di Salisano: tipica è infatti la novembrina Sagra della Polenta e della Padellaccia. E se la polenta non ha bisogno di particolari presentazioni, diffusa com’è in tutto lo stivale, la padellaccia potrebbe non dirvi nulla a prima lettura. Si tratta di una succulenta preparazione a base di tagli tra i meno pregiati del maiale, guancia, diaframma, gola e quello che è disponibile al momento, condita con succo di limone, olive, erbe aromatiche, spadellata in una vecchia padella, una padellaccia, appunto, in una ricetta contadina, antica di almeno un secolo.
Quello che forse abbiamo tralasciato nel nostro racconto, e che speriamo di poter trasmettere anche se solo in parte, è il panorama. Alle volte ci sembra quasi di ripeterci, ma anche gli scorci di Salisano sono davvero, davvero suggestivi. Si affaccia sulla Valle del Farfa, sulle propaggini meridionali dei Monti Sabini, sulle pendici del Monte Ode, con il Monte Tancia sullo sfondo. Poco al di fuori delle mura, il colpo d’occhio viene catturato dalla torre che svetta della Rocca Baldesca e spazia sulla Cipresseta monumentale, in un connubio perfetto tra natura e opera dell’uomo.
Fonte sito web-Scopri la Sabina-
Arch.Carlo Cusin::”Il “MAUSOLEO dei MASSACCI”,noto anche come “Grotta dei…grandi massi”,è uno straordinario monumento funerario che esiste da 2000 anni ma non si vede,in Comune di Frasso Sabino,inglobato com’è da un edificio settecentesco,ad uso dei viandanti,costruito dai Cesarini di Frasso,accanto ad un nodo stradale antico di grande importanza per la Sabina,dove la Via Salaria si univa alla Via Caecilia,al miglio 35,vicino alla “Statio ad Novas”,che il toponimo di Osteria Nuova ricorda ancora ! Questo “monvmentvm”,in latino “sepolcro”,fu costruito in “opvs qvadratvm” con enormi blocchi di bianco calcare,non locale (solo il loro trasporto e montaggio a secco mostra il ricco e nobile potere dei committenti) con un ricercato arcaismo,un “mos maiorvm” Repubblicano,perché appariva come un enorme tumulo con un lungo dromos d’accesso,a volta ribassata,una cella con 3 nicchie rettangolari,per sarcofagi,coperta con una volta a crocera,ed un pozzo con “vera” quadrata. Questo tipo di “sepvlcrvm” dinastico/familiare,costruito con un’antica tecnica,complessa e di lunga fattura,ricorda molto quello di Ummidia Quadratilla a “Casinvm”-Cassino e la cella del Mausoleo di Adriano in Roma,e viene datato alle prime decadi del II sec dC.. La “Gens” committente ,di un così imponente sepolcro,nei dintorni di “Trebvla Mvtvesca”-Monteleone Sabino,accanto a strade antiche per commerci di sale/olio/bestiame,viene identificata,con epigrafi e storie imperiali,nei “Brvtii Praesentes” o nei “Laberii Maximi”,cui appartenne “Manivs Laberivs Maximvs”,un valoroso Generale che compare,al fianco di Traiano,anche sulla sua colonna “centenaria”,mentre supera il Danubio alla testa delle Legioni e,poi,catturo’ anche la sorella di Decebalo Re dei Daci ! Ringrazio il Sindaco ed il personale del Comune di Frasso Sabino per la cordiale collaborazione ed ospitalità !”.
CASTELNUOVO DI FARFA (RIETI) –chiesa parrocchiale SAN NICOLA DI BARI- Particolare nel dipinto del Ballerini ,sito all’interno della chiesa parrocchiale, rafficurante il miracolo dei bambini.Il Ballerini potrebbe aver preso come modelli tre bambini Castelnuovesi dell’epoca.Foto di Franco Leggeri,Castelnuovese.
IL MIRACOLO – IL MONDO DEI BAMBINI
Il bimbo nell’acqua bollente. Un’ostessa presso la quale una volta Nicola aveva alloggiato stava facendo il bagno al suo bambino. Come le dissero che Nicola era stato fatto vescovo lasciò tutto e andò ad assistere alla sua messa. Al termine, ricordandosi che il fuoco avrebbe potuto accendersi e far bollire l’acqua in cui era il bimbo, corse a casa. Il fuoco si era effettivamente acceso e l’acqua bolliva, ma il bimbo, invece dio morire, stava allegramente giocando con le bolle dell’acqua. Dopo averlo preso tra le braccia, corse fuori a raccontare il miracolo.
Il bambino indemoniato. Un bambino era indemoniato e si strappava i vestiti e si mordeva le mani. La madre lo portò da San Nicola che benedicendolo lo liberò dal demonio.
Il diavolo e il bambino. Un uomo della Lombardia era molto devoto di San Nicola e ogni anno invitava i chierici ad un banchetto. Un anno mentre si vestiva per andare in chiesa, la moglie gli disse di aver sognato che un leone con la zampa le aveva strappato la mammella e ne aveva succhiato il sangue. Recatisi in chiesa, a casa restò solo il bambino. Venne il diavolo in sembianze di viandante e chiese del cibo. Come il bambino gli portò il pane, egli lo prese e lo strangolò. Immaginarsi il dolore dei genitori quando ritornarono dalla liturgia in onore di San Nicola. Ma nonostante il dolore il padre volle invitare lo stesso i chierici a pranzo. Per cui ordinò di adagiare il bambino in una stanza e di chiuderla. Mentre i chierici mangiavano venne un pellegrino (“Signori, quello era San Nicola!”) che chiese del cibo ottenendo dal padre di poterlo consumare nella sua stanza, dov’era cioè il corpo del bambino. San Nicola lo chiamò e quello si alzò correndo tra le braccia dei genitori. La festa di San Nicola, che era già osservata, fu celebrata ancor più amorevolmente e gioiosamente.
Castelnuovo ,Particolare , dipinto nel quadro del Ballerini sito all’interno della chiesa parrocchiale.
I TRE BAMBINI RISUSCITATI
Le storie di S. Nicola non sono state narrate tutte allo stes¬so modo. Ogni popolo le ha rielaborate secondo la sua sensibilità. Ogni copista medioevale ci metteva del suo, quando proprio non incorreva in qualche errore di traduzione o copiatu¬ra. Da una di queste sviste nacque la leggenda di S. Nicola più famosa in occidente.
Come si è detto in precedenza, l’episodio più importante e più stori¬camente documentato è quello che vide il nostro Santo intervenire a sal¬vare tre innocenti dalla decapitazione, fermando la spada del carnefice. Da qualche tempo però, nel mondo cristiano la parola innocenti veniva spesso usata come equivalente di bambini (pueri). Così, ad esempio, i bambini uccisi dal re Erode (per timore che fra essi sorgesse il re d’Israele) avevano dato adito alla festa degli innocenti, che si celebra dopo il Natale. D’altra parte, nelle storie di S. Nicola raramente si dice¬va che aveva salvato tre uomini oppure tre cittadini di Mira. Per abbre¬viare e per indicare l’innocenza di quei condannati a morte, più spesso si diceva che Nicola aveva salvato tre innocenti. A quel punto qualche scrittore fece un po’ di confusione, affermando che Nicola aveva salva¬to tre bambini, invece di dire che aveva salvato tre innocenti.
Il primo a dare questa erronea traduzione sembra che sia stato Reginold, uno scrittore tedesco che nel 961 dopo Cristo fu eletto vesco¬vo proprio per aver scritto una bella Vita di S. Nicola intercalata da brani in musica. Invece di innocentes Reginold usa il termine pueri, insi¬nuando nella mente dei fedeli che si trattava di una storia diversa dal¬l’episodio della liberazione di tre innocenti dalla decapitazione. Nel corso di circa un secolo e mezzo la “storia” dei bambini salvati da S. Nicola entrò anche negli inni sacri e poco a poco venne elaborato un racconto vero e proprio seguendo due linee principali.
Secondo una prima versione, il fatto sarebbe accaduto mentre Nicola si recava al concilio di Nicea. Fermatosi ad un’osteria, gli fu presentata una pietanza a base di pesce, almeno a quanto diceva l’oste. Nicola, divinamente ispirato, si accorse che si trattava invece di carne umana. Chiamato l’oste, espresse il desiderio di vedere come era conservato quel “pesce”. L’oste lo accompagnò presso due botticelle piene della carne salata di tre bambini da lui uccisi. Nicola si fermò in preghiera ed ecco che le carni si ricomposero e i bambini saltarono allegramente fuori dalle botti. La preghiera di Nicola spinse l’oste alla conversione, anche se in un primo momento questi aveva cercato di nascondere il suo misfatto.
La seconda versione della leggenda non parla di bambini, ma di sco¬lari. Un nobile di un villaggio presso Mira, dovendo mandare i figli ad Atene per continuare negli studi, disse loro di passare da Mira a pren¬dere la benedizione del vescovo Nicola. Essendo questi assente, essi non poterono incontrarlo e, giunta la sera, cercarono una locanda. Ve¬dendoli benestanti, l’oste entrò di notte nella loro camera e li uccise, prendendosi i preziosi vestiti. Non contento, mescolò le loro carni con altra carne salata, per darle agli avventori.
Il giorno dopo Nicola, divinamente avvertito, si recò dall’oste chie¬dendogli della carne. L’oste gli mostrò la carne conservata, aggiungen¬do che era buona da mangiare. Nicola attese sperando nel suo penti¬mento, ma quello non diede segni di resipiscenza. Allora il Santo bene¬disse quelle carni e i tre scolari tornarono in vita. Con la sua preghiera e le sue esortazioni, finalmente l’oste si pentì e promise di condurre una vita virtuosa. I tre scolari, come risvegliandosi dal sonno, presero le loro cose e ripresero il viaggio per Atene.
Ovviamente vi furono tante varianti di queste leggende. In molte di esse un ruolo importante e negativo svolge la moglie dell’oste. Ma le due più diffuse sono queste appena riportate, che diedero adito alla na¬scita del patronato di S. Nicola sui bambini che, a sua volta, insieme all’episodio della dote alle fanciulle, fece sorgere la figura di Santa Claus (Babbo Natale). Dalla seconda versione nacque il patronato sulle scuole (insieme a Santa Caterina d’Alessandria) e l’usanza folkloristica della festa studentesca del 6 dicembre col particolare del boy bishop (il ragazzo vescovo).
Fonte-AA.VV. da biblioteca Vita dei Santi-
Castelnuovo, cambierà il motto da “Perla della Cultura della Sabina” sembrerebbe a ”Fregnacce per tutti” ?.
Franco Leggeri, castelnuovese.
1)-Il silenzio del tuono
È come se parlasse,
quel palco silenzioso,
nero sotto fioche luci
aspetta qualcuno.
Lo guardo,
è così grande,
come una passione;
ripenso al passato,
e una lacrima di commozione
scivola lenta sul mio viso,
insieme al sudore,
che il corpo fa vivo
mentre aspetto nascosta.
E il cuore batte
in petto, con ansia,
bramando il momento d’entrare
di esplodere in scena
come un tuono,
di brillare come un sole.
Poi, solo un ricordo, eterno,
di un palco, che mi ha fatto volare,
un palco, che mi ha fatto vivere
e sognare.
2)-LORO
Ho scelto l’amore più semplice,
quello ricambiato.
Irrefrenabile il bisogno di averle accanto,
aver vicino la tenera coerenza
quella chiara logica che ne fa la loro essenza.
Sono le creature della natura
a muovere i miei sentimenti,
sono innocenza pura,
sono essere, semplicemente.
Sembrano non aver dubbi sulla vita,
la vivono come vien servita,
senza pensieri o rimpianti
con accettazione e affanni.
Affascinanti nei diversi modi di amare,
si rendono vulnerabili nel chiedere affetto.
Una zampa nella mano, un muso da toccare,
possono farsi domare
o nell’indole più selvaggia lasciarsi ammirare.
Un accordo che richiede un prezzo,
occhi che non a tutti è concesso guardare,
se vuoi paghi in rispetto.
Fiducia, cauti nel concederla,
può sembrare crudele indifferenza
ma non è altro che loro difesa
e un premio, per chi sa ottenerla.
Erica Ercoli, Poetessa di Rieti-Scrittrice e Poetessa, Erica Ercoli è nata nel 1988 a Rieti, dove si è diplomata in Socio-psico-pedagogia. Durante il liceo ha partecipato ad alcuni concorsi letterari, risultando seconda classificata al XXII Concorso Nazionale di Poesia “Mons. Francesco Maiolo” e rientrando fra le prime dieci classificate al Premio Letterario Internazionale “Arché” potendo, così, pubblicare la sua opera nell’antologia.
“Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo i raccolti con il padrone è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, ma golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia , anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi”.