Descrizione del libro di Antonio Spagnuolo Il Canzoniere dell’assenza-Articolo di Enzo Rega:“Non immaginavo che l’amore / avesse il potere di sopravvivere anche dopo, / dopo che il suo profilo abbandona le forme / nella nebbia ormai grigia dell’ignoto” (p. 49). Questi versi, posti poco oltre la metà del libro (per cui il libro stesso si richiude come uno scrigno intorno a queste righe), probabilmente ci danno il senso stesso di questo dolente Canzoniere dell’assenza (Kairós) di Antonio Spagnuolo. Un amore che dunque fa assonanza con memoria, e verso la conclusione dello stesso testo quest’altra parola chiave compare con un altro termine topico dell’intera poesia di Spagnuolo, attinente alla dimensione onirica: “Non immaginavo che l’amore / avesse il potere di vertigini nel morso di memorie, / stregato dall’eterno sussurro, / inciso nel cristallo del sogno” (ivi). Amore/memoria/sogno. Dunque, come in un sogno, come nella dimensione atemporale del sogno, la memoria – anch’essa eternatrice – recupera l’amore, l’amore non perduto, ma sempre presente. È questo infatti un canzoniere dell’assenza/presenza, quella presenza che la poesia, freudianamente (e la psicoanalisi come nella premessa l’autore stesso sottolinea è fondamentale per Spagnuolo), recupera come in un sogno a occhi aperti, in un estremo appagamento di desiderio, il desiderio di avere ancora e sempre accanto la persona amata. Amore, memoria, sogno una triade che si aggiunge all’altra che costantemente ha accompagnato la poesia di Spagnuolo, e cioè: seno/segno/sogno. Termini che ritroviamo anche qui ricorrenti. Il seno è la sensualità, l’erotismo che ricompaiono anche in questo libro in riferimento alla moglie ricordata anche nella sua corporeità: e ciò che manca è – al di là della stessa sensualità – il corpo come segno tangibile della presenza, e portatore accanto a noi dell’essenza stessa della persona Per fare un solo riferimento: “Ricordo le tue mani delicate, / diafane nel tocco della gioventù, / una carezza che sfugge nel sussurro / che mi opprime la mente ogni giorno / e rimbalza segreti inconfessati” (Mani, p. 33). E Spagnuolo, che negli ultimi anni è andato cantando il senso della vecchiaia ritorna qui invece delicatamente alla gioventù, anche se poi in un altro testo la tenerezza rima con la vecchiezza (“Tenerezza dicesti al tremore / degli anni che volgono a vecchiezza”; Tenerezza, p. 70). E il termine rughe che ha solcato recenti raccolte di Spagnuolo compare anche in questa più volte. Dunque l’assenza, lo stare al di fuori dell’essere. Ma è invece dell’essenza, dello stare nell’essere che la poesia va alla ricerca. Anzi, è questa assenza che si fa presenza nelle parole stesse che la vogliono esorcizzare. Una precedente raccolta di Spagnuolo si intitolava non a caso Rapinando alfabeti (2001): cioè una intenzionale, insistita operazione di scavo nella lingua alla ricerca di ciò che in qualche modo dicesse l’indicibile. Ebbene, in questo Canzoniere compare invece l’espressione “germogliando alfabeti”, come in ascolto della voce della moglie: “Ascolta! Ascolta! Ascolta! / Il rintocco delle campane ha sempre l’eco / delle tue parole, / delle tue parole sussurrate in penombre vespertine, / delle tue parole incise nel mio ricordo / per incendiare convulsioni improvvise” (A sera, p. 72). Questa assenza, questo silenzio producono dunque spontaneamente, naturalmente, naturalisticamente (germogliare, appunto), il bisogno di produrre un canto, un threnos. E la parola treno compare nel componimento Un treno in ombra (p. 19), sì, come simbolo del viaggio – della vita come “viaggio in sospeso” –; ma questo “treno senza meta” sembra rievocare anche il genere letterario, la trenodia, il canto per la perdita di un caro; in Specchio (p. 75) possiamo leggere, seppure declinato come impossibilità: “Non so piangere! Non so trasformarle lacrime in versi / e versi in lacrime”. Il riferimento al treno e al viaggio ci permette qui di recuperare il tema del tempo, di cui sempre è tramato ogni riferimento alla vita, alla memoria che tenta di sottrarre all’oblio e all’ombra ciò che si è perduto scivolando dal piano del tempo finito a quello dell’infinità e dell’eternità dell’ombra. E c’è nel libro tutta un’insistenza lessicale, e dunque concettuale e sentimentale, sulle gradazioni – buio, ombra, penombra, luce, bagliore, oltre che un richiamo continuo ai colori che nella luce prendono vita, o anche e soprattutto alla “dissoluzione di colori” (p. 70). Ma non c’è un netto contrasto dialettico tra ombra e luce, nell’incertezza complessiva, nel dubbio che grava su tutto. Il riflesso della luce si fa riverbero, abbaglio, parvenza e quindi illusione (a cui corrisponde anche il “tranello” che è la vita). Illusione, altro termine fondamentale in questo libro. Altro sentimento che, anche ontologicamente pervade l’esistenza. L’illusione dell’eternità dell’amore, perché la morte ha strappato l’oggetto-soggetto d’amore. Illusione perché l’attesa del ritorno rimane insoddisfatta: Non ritorni è il titolo di un libro precedente del 2016, un altro capitolo di questo perenne canzoniere dell’assenza. E in questo recente libro leggiamo: “La tua assenza scivola, e affogo l’ultima illusione” (p. 80). Eppure in questo abbandono, in questo gioco tra illusione-disillusione-delusione c’è un momento nel quale sembra di avvertire una fugace composizione, o almeno la traccia di questo bisogno. Emblematico è in questo senso il testo Insieme (pp. 46-47). Leggiamo, anche se il senso delle espressioni andrebbe ulteriormente indagato nella complessità del testo: “alterna fortuna aggrega persone”; “aggrega figure”; “bene comune”; “aggregare lingue”; “legami di sangue”; “la proiezione della comunità”. Tutto ciò “all’incrocio del golfo” – Napoli, la città, la comunità – e “ancorati alla Croce”, in una “convergenza del credo”, e compare anche il termine “vangelo”. In un libro tutto incentrato nell’immanenza di un sentimento terreno, pur fortemente spirituale oltre che fisico, si affaccia, per scorci, un elemento religioso: la Croce è scritta con la maiuscola. Sappiamo che pur nella sua ricerca laica Spagnuolo ha pubblicato ormai molti anni fa «Io ti inseguirò». Venticinque poesie intorno alla Croce. Qui l’inseguita è la donna amata, ma si rivede, in uno scorcio, la Croce, come in una momentanea pausa nel dolore dell’assenza: “dove tutto è sospeso nel luogo che accoglie”. Ma, nonostante le violenze che ho praticato al testo estrapolandone lacerti che, a partire dal titolo, Insieme appunto, testimoniano pure una via d’uscita, prevale ancora e sempre il sentimento dell’assenza: “Le mie mani ti vorrebbero ancora, / ma stringo inutilmente le mie dita / tra il cuscino e il silenzio, / e rivivo riflessi nei rintocchi / di un orologio indiscreto” (Ironie, p. 77). E proprio in conclusione c’è un velo, seppure un “velo di malizie”, che, scrive il poeta, “avvolge il mio ricordo nel segreto”.Articolo di Enzo Rega
Antonio Spagnuolo -Tre inediti da Canzoniere dell’assenza
Antonio Spagnuolo
Antonio Spagnuolo -Tre inediti da Canzoniere dell’assenza
PAROLE
Le mie parole hanno il giogo dell’edera,
strette ai rami, irrequiete al vento per ricordi,
cingono la solitudine in quel nodo
che il nostro amore mostrava insaziabile.
Lungo il tempo hanno un palpito delicato
inseguono il rumore della gente
che non conosce la soglia del cielo
e cede all’ombra dei frammenti
tra le ciglia e gli sguardi.
L’orizzonte incide la tua assenza,
che aleggia timorosa indecisa
nell’eterna vendetta dell’infinito.
Hai negli occhi il fulmine d’autunno,
impertinente e violento, quasi un gioco
che risplende innocente fra le ciglia
e ricama motivi dell’inganno.
Vorresti intrappolare le moine
come un esile fiore che improvviso
spezza il lungo silenzio, e fra le dita
disperdi il labbro sensuale e dolce.
Soffice nuvola dai capelli neri
racchiudi nel sorriso l’invito clandestino.
Per te l’autunno, spettacolo a colori
che ti scopre le spalle , il seno , il collo,
vorticando gli azzurri nella grazia interdetta,
anche se taci il fulgore, ritorna fuori campo.
E sei sparita , intrecciando la memoria
che mi corrode nel baratto che scioglie la follia.
*
SONNI
Metto a giacere i riflessi perché non sono io
l’ospite trasudato del tuo sogno,
l’incredibile amante silenzioso
sigillato alle spalle alabastro, riverbero
degli anni troppo presto fuggiti
ed assediati nell’eterno abisso senza fondo.
Non puoi vedere le mani che alla luna
chiedono ancora illusioni di poesia
mentre il respiro trattenuto è quel sussurro
che le mie labbra fibrillano.
La realtà è un’immagine dalle sbavature imperfette
e muove chiarori inaspettati.
*
La maligna brezza delle notti confonde i miei sonni
nel dubbio del silenzio che mi ottunde,
mettendo insieme i pezzi di parole
diverse nel segno , sempre più difficile
nell’alchimia dell’eterno.
Brucia ogni menzogna il rimorso
nel moltiplicare gli sguardi della malinconia
quasi immobile immagine del niente.
Briciole nel luccichio degli ammiccamenti
le pupille non hanno più riflessi.
*
Ancora qualche fiore in autunno
per un tramonto che non ha colori
e la tua ombra ritorna come un velo
a intimidire magie.
Ho dipinto un brivido e la memoria
porta via gli inganni della gioventù
quasi a dispetto di quei fogli ingialliti
che cercano nascondere inquietudini.
Anche il violino rompe sinfonie
per giocare ancora solitudine.
*
MAGNOLIE
Il silenzio incide giorno dopo giorno
il suo vuoto tra i ricordi
che ingombrano il cervello.
Si cancella senza pietà ogni traccia
a contatto delle mani , ai graffi del gorgo
che ricompone memorie,
alla pelle carnivora che narra degli abissi,
al morbido contatto delle ombre.
Il silenzio pericolosamente fuori luogo
ha fame di pianti,
lo scricchiolio del ghiaccio che vermiglia,
residuo di storie ormai disperse,
in apparenze di veglie nella stanza scura.
Così il mistero del dopo lascia i dubbi
al vertiginoso silenzio del presente,
nel tempo di un miserere.
*
Non è più il tempo di magnolie,
di moine preziose e furtive,
intrappolato nei nodi delle aritmie,
nella vertigine ingorda dei ricordi.
Non riconosco il profilo ormai sfocato
e sospeso in colori di cristalli,
rovesciato dalle foto che nascondo timoroso
per non cadere in angoscia.
Eri il candore, e non lo sapevi ,
il motivo segreto del riflesso in pastelli
per raggi dal riverbero violento,
malinconica conferma di qualche promessa
agganciata all’illusione.
Gocciano i rintocchi dell’assenza
nel calendario che resta.
Abbazia di FARFA -Abbazia benedettina situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell’Abbazia di Farfa – secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° – si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un’attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all’incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all’interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell’abbazia erano tutti originari dell’Aquitania, a quell’epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell’abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall’abbazia si estesero in tutta l’Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l’abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell’attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l’apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L’intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell’abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell’Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L’istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell’898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l’intervento militare di Alberico II per porre fine all’ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l’elezione dell’abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell’abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell’attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l’opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt’altro che pacifici, inseriti nell’aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l’abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall’abate Berardo II nel 1097, di trasferire l’abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell’abbazia.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l’Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L’imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
Archeologia
Il complesso medievale dell’abbazia di F. fu quasi completamente demolito poco prima del 1500, quando gli Orsini la ricostruirono. Agli inizi del Novecento, dell’epoca medievale si conservavano soltanto due strutture: un campanile, adiacente alla chiesa di età successiva, e una torre più robusta, il c.d. torrione.Il primo tentativo di recuperare i resti degli edifici di epoca medievale fu quello di Schuster (1921). Riconosciuto il campanile come una delle poche strutture medievali conservate in alzato, nel desiderio di ritrovare l’oratorio costruito dall’abate Sicardo (830-842) egli si persuase che il piano inferiore del campanile fosse una cripta.Altri scavi furono condotti nel 1927 (Markthaler, 1928) e nel 1936 (Croquison, 1938). Markthaler, partendo dall’identificazione di Schuster e dal fatto che l’oratorio era adiacente alla chiesa abbaziale, ipotizzò correttamente che l’antica chiesa si trovasse sul lato nordoccidentale del campanile; a una distanza di m. 30 ca. in direzione N-O scoprì poi una cripta. Invece di trarre le ovvie conclusioni (cioè che questa cripta e non la torre fosse il sito dell’oratorio), Croquison la ritenne estranea a Sicardo e pertinente invece a una chiesa ancora più antica, la cui navata doveva essere perpendicolare rispetto a quella della chiesa dell’epoca degli Orsini.I restauri del 1959-1962, effettuati dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio (Franciosa, 1964), hanno dimostrato come la muratura medievale si sia conservata in tutta la sua altezza all’estremità orientale della chiesa rinascimentale, adiacente al campanile, mentre i saggi al di sotto del pavimento dell’edificio attuale hanno rivelato i muri e un elaborato pavimento in opus sectile pertinente alla navata altomedievale, disposti perpendicolarmente a essa. Al di sopra del livello pavimentale si conserva una piccola parte del muro altomedievale con il ritratto dipinto di un abate, forse Altberto (m. nel 790 ca.). A S della navata sono state scoperte le fondazioni di un muro massiccio e una struttura turriforme, in origine con una scala a chiocciola. Poiché l’abate Ugo all’inizio del sec. 11° descrisse F. come una città munita di mura (Destructio monasterii Farfensis), si è ipotizzato che il muro e la torre facessero parte di una cinta difensiva a protezione dell’abbazia. I più importanti oggetti mobili portati alla luce dagli scavi sono un sarcofago in marmo con una scena di battaglia e l’epitaffio dell’abate Sicardo (Franciosa, 1964).Le fonti scritte, le scoperte archeologiche e le strutture dell’abbazia ancora conservate in alzato sono state più di recente analizzate da McClendon (1980) il quale ha tratto due importanti conclusioni. Innanzi tutto, il campanile non è del sec. 9°, ma dell’11°, come permette di stabilire il confronto con la torre campanaria di S. Scolastica a Subiaco, del 1053. In effetti McClendon ha reinterpretato la torre e le strutture adiacenti come terminazione orientale della chiesa medievale, consistente in un presbiterio rettangolare costruito nel sec. 11° e in origine fiancheggiato da campanili gemelli. Secondo l’archeologo, inoltre, la cripta non è del sec. 8°, ma del 9°, come testimonia la forte somiglianza tra la cripta (e il transetto al di sopra di essa) e la terminazione orientale di S. Prassede a Roma, costruita da papa Pasquale I (817-824) soltanto un decennio prima che Sicardo divenisse abate di F.: si tratterebbe dunque della cripta dell’oratorio di Sicardo.Il primo obiettivo dei più recenti scavi condotti dalla British School at Rome tra il 1978 e il 1985 è stato quello di studiare le due strutture immediatamente all’esterno dell’oratorio, scoperte da Croquison (1938): un muro curvilineo posto a m. 3 all’esterno dell’abside che conteneva la cripta e uno rettilineo emergente dall’angolo del transetto. Nell’ultima campagna è stata scavata quasi tutta l’area tra la cripta e il c.d. torrione, area nella quale attualmente mancano costruzioni, ma dove in precedenza si trovava un grande edificio identificato come il palazzo tardomedievale e rinascimentale del cardinale-abate che amministrava i beni dell’abbazia.Nelle prime fasi degli scavi sembrava che l’edificazione del palazzo avesse cancellato ogni altro edificio preesistente; fortunatamente però nella costruzione del palazzo erano state riutilizzate strutture dell’8° e 9° secolo.Il muro concentrico alla cripta della chiesa medievale scoperto da Croquison, nuovamente scavato, è risultato essere il muro esterno di un ambulacro semicircolare costruito intorno all’abside; realizzato in due periodi diversi, l’ambulacro conteneva alcune tombe, evidentemente di importanti personaggi seppelliti il più vicino possibile alla cripta. La terminazione nordoccidentale della chiesa abbaziale altomedievale quindi consisteva di un transetto con un’abside, al di sotto della quale si trovava una cripta anulare. Adiacente all’abside, a livello della cripta, era un ambulacro semicircolare contenente sepolture. L’ambulacro è elemento del tutto estraneo alla tradizione costruttiva architettonica romana e i confronti più diretti possono essere istituiti con esempi transalpini, come Fulda, dove l’abate Ratgerio (802-817) aveva progettato un transetto, con abside e ambulacro concentrici, consacrato nell’819; da questi esempi deriva la formulazione di F., dove, oltre alle connessioni politiche con l’ambiente carolingio, si erano succeduti alla fine del sec. 8° abati di origine transalpina, come Ragambaldo, Altberto e Mauroaldo, mentre gli abati Benedetto (802-815) e Ingoaldo (815-830) avevano soggiornato rispettivamente a Francoforte e ad Aquisgrana.L’area prospiciente l’oratorio ha una storia complessa: nel sec. 12° o 13° era adibita a giardino e in seguito a cortile della stalla del palazzo del cardinale, ma, prima del sec. 12°, era uno spazio aperto con al centro un pozzo o una cisterna e varie tombe. Dopo un periodo di abbandono, durante il quale subì alla sommità una sensibile erosione, il pozzo-cisterna fu riempito deliberatamente con terra e pietrisco in cui sono state ritrovate due monete dell’imperatore Enrico II (1002-1024).Per spiegare questi elementi si deve considerare il secondo muro scoperto da Croquison, che partiva dall’angolo nordoccidentale del transetto. Gli scavi del 1978-1985 hanno dimostrato che esso si estendeva a O per m. 23; questo provava che vi erano state tre fasi costruttive e che rimaneva abbastanza per mostrare che il muro più antico terminava a m. 18 dal transetto e quindi girava verso N; a m. 3 a N del muro di Croquison vi era una struttura parallela, per la quale potevano essere provate quattro fasi costruttive anteriori al 15° secolo. L’area tra le due strutture parallele presentava numerose tombe al di sotto di un pavimento di calcare.È importante notare che la prima fase di costruzione è più antica dell’edificazione dell’ambulacro esterno alla cripta. Ciò mostra come lo spazio aperto sia anteriore alla costruzione dell’oratorio di Sicardo, che emerge come una struttura monumentale aggiunta alla chiesa abbaziale, occupando negli anni trenta del sec. 9° un terzo dell’area aperta. A parziale compensazione la facciata originale dell’atrio fu sostituita da una nuova struttura spostata di m. 2 a O, testimonianza dell’estensione del portico.Non ci sono prove archeologiche per la datazione di questo spazio aperto; è possibile comunque che la Constructio monasterii Farfensis contenga un indizio nella notizia di una visita a F. nel 705 del duca Faroaldo di Spoleto, la cui scorta aveva scaricato il proprio bagaglio in atrio. Se la parola atrium ha in questo caso un significato letterale, ci si può chiedere se tale atrio facesse parte dell’originario edificio costruito da Tommaso di Morienna verso la fine del 7° secolo.L’interpretazione di queste strutture è ancora incerta. Lo spazio aperto di fronte all’ambulacro dovrebbe essere un atrio attraverso il quale, prima della costruzione dell’oratorio di Sicardo, si entrava nella chiesa. Le strutture parallele dovrebbero consistere in un portico racchiudente il lato sudoccidentale, costituito verso l’interno da un colonnato e verso l’esterno da un muro continuo. Secondo un’ipotesi diversa l’accesso alla chiesa altomedievale sarebbe avvenuto dall’altra estremità e lo spazio aperto sarebbe stato un chiostro o un analogo complesso situato non davanti, ma oltre la chiesa carolingia.Adiacente al lato sudoccidentale dell’atrio-chiostro era un ampio ambiente rettangolare, al quale si addossava un altro più stretto. Si tratta di una struttura in origine molto accurata, con pitture murali almeno sui lati nordorientale e sudoccidentale. All’estremità sudorientale si trovava un ampio ingresso assiale, la cui soglia si conserva al di sotto di ricostruzioni successive. Per quanto è possibile vedere non vi erano aperture nel muro nordoccidentale, né accessi dall’atrio-chiostro; un ingresso sul muro meridionale conduceva alla struttura adiacente. L’ambiente fu modificato in varie occasioni: la prima fase inglobava i resti di muri che sono tardo-romani o altomedievali; nella seconda fase i muri furono nuovamente decorati. In seguito venne costruita una coppia di pilastri contrapposti forse per sostenere un arco, mentre il muro occidentale fu rinforzato. Evidentemente i muri dovevano sostenere un ulteriore peso e la spiegazione più probabile è che sia stato costruito un piano superiore. Contemporaneamente venne aperto un passaggio sul muro nordoccidentale che metteva in comunicazione il grande ambiente con una struttura di dimensioni ancora maggiori, il c.d. torrione, a m. 5 più a O. A una data sconosciuta nell’ampia stanza venne aggiunto un pavimento a mosaico in opus sectile, del quale si è conservato un piccolo frammento.L’ambiente grande e quello più piccolo che vi si addossava, in comunicazione tra loro grazie a un passaggio, costituivano una struttura unica di cui non è accertata la data di costruzione. La decorazione dell’ambiente più piccolo comprendeva una figura stante e un’iscrizione, ora solo parzialmente leggibile; il panneggio della figura e le lettere dell’iscrizione trovano confronti nella fine dell’8° e nel 9° secolo. Le pitture presentano tracce di un incendio e l’intonaco è rossastro a causa del calore; esse sono considerevolmente erose anche dietro l’abside dell’11° secolo. Ciò può costituire la prova non soltanto di un incendio, ma anche di un’epoca di abbandono durante la quale l’ambiente rimase privo di copertura e i dipinti furono così esposti alle intemperie; se questa ipotesi è giusta, il danno potrebbe essere stato causato dall’incendio dell’897 e dal temporaneo abbandono che ne seguì. Inoltre la terminazione nordoccidentale del grande e del piccolo ambiente fu posta al livello della facciata originaria dell’atrio-chiostro, che fu demolito quando Sicardo costruì l’oratorio. Così, mentre i danni provocati dal fuoco e dall’erosione dimostrano che gli ambienti già esistevano nell’897, l’allineamento dei muri alle estremità con quelli del più antico atrio-chiostro prova la loro esistenza già negli anni trenta del 9° secolo. Ne consegue che gli ambienti adiacenti all’atrio-chiostro esistevano all’inizio del sec. 9° e che, come questo, essi subirono gravi danni nell’897.Le dimensioni dell’ambiente maggiore e la presenza delle pitture murali e del mosaico pavimentale fanno ritenere che si tratti di un luogo importante destinato alle riunioni. Si può escludere l’ipotesi della sala capitolare, che il Regestum Farfense (doc. nr. 1153) riferisce essere adiacente alla chiesa, mentre questo edificio non lo era; è più probabile che si tratti del refettorio, anche perché quello di Montecassino, contemporaneo a questa struttura, occupava la stessa posizione. Le firme su un documento di F. indicano però che la comunità comprendeva almeno cento monaci e questa struttura è troppo piccola per poter ospitare un numero così grande di persone. Una terza ipotesi potrebbe spiegare non solo gli ambienti legati tra loro, ma anche il c.d. torrione. Questa massiccia torre (m. 15 ´ 11) ha muri spessi più di m. 2; i lati sono paralleli a quelli dell’ambiente grande e le due strutture erano comunicanti tramite una porta; è quindi da ritenere che l’ambiente e la torre fossero in relazione. La forma e la posizione di quest’ultima – lontana dalla chiesa e all’interno della linea delle difese scoperte nel 1959 – mostrano che non si trattava né di un campanile né di una torre della cinta muraria. Nel piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), nell’area a destra e di fronte alla chiesa principale si trovano edifici destinati agli ospiti. È possibile che sia stata proprio questa la funzione degli ambienti di F.: quello maggiore sarebbe stato nel sec. 11° perfettamente adeguato agli ospiti più ragguardevoli dell’abbazia, compreso l’imperatore; se il c.d. torrione fosse stato compreso nel complesso, il palazzo avrebbe avuto dimensioni considerevoli, con alloggiamenti per il seguito dell’imperatore e una stanza fortificata per il suo tesoro. Non è forse un caso che proprio queste stanze nel sec. 15° fossero state trasformate in palazzo per il cardinale-abate.Il nucleo del palazzo (se si tratta del palazzo) fu costruito prima che Sicardo ampliasse la chiesa e il suo atrio nell’830. Mentre mancano prove dirette per la data della sua costruzione, se ne può trovare un indizio nell’archivio di F. in forma di registrazione di donazioni all’abbazia: i periodi in cui questa riceveva un maggior numero di elargizioni sono anche quelli in cui è più probabile che venissero costruiti nuovi ambienti. Un’analisi delle donazioni mostra che prima di Sicardo si ebbero altri due momenti molto favorevoli: negli anni ottanta del sec. 8°, sotto l’abate Probato, e tra l’810 e l’820, all’epoca degli abati Benedetto e Ingoaldo. Mentre delle attività di Benedetto e Ingoaldo come costruttori non si sa nulla, il registro testimonia che Probato fornì al monastero un nuovo condotto per l’acqua. Presumibilmente il sistema idraulico già esistente si era rivelato inadeguato, anche perché la comunità era divenuta più numerosa. Probato, sotto il quale F. ricevette la protezione di Carlo Magno, sembra quindi colui che con maggiore probabilità può essere indicato come costruttore di un palazzo per il suo più importante benefattore.
Bibl.:
Fonti. – Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), V, Roma 1914, pp. 156-157; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d’Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; Constructio monasterii Farfensis, ivi, I, p. 9; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, p. 31.
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
Paolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFAPaolo GENOVESI Fotoreportage Abbazia di FARFA
Descrizione del libro di Tersilio Leggio, storico di Farfa e della Sabina Il cammino di Francesco – San Francesco visse nella Valle Santa una delle stagioni più intense della sua breve vita. Con certezza si sa che giunse nel reatino nel 1223, ma non si possono escludere soggiorni precedenti. Il Cammino, documentato dalle foto del grande fotografo Steve McCurry, è composto da otto tappe: parte da Rieti e si dipana attraverso la Valle Santa toccando i quattro Santuari francescani. A queste tappe si aggiunge il cammino verso il Faggio di San Francesco a Rivodutri e l’ascesa al monte Terminillo per la visita alla reliquia del corpo del Poverello di Assisi.
Tersilio Leggio, storico di Farfa e della Sabina, ci ha lasciati nella giornata del 29 aprile. È con profonda commozione che esprimo a titolo personale e a nome dell’Istituto storico italiano per il medio evo le più sentite condoglianze alla famiglia dell’amico carissimo e insigne studioso.
La figura di Tersilio Leggio ha rappresentato un esempio luminoso di storico con una profonda e appassionata conoscenza del territorio, che ha saputo coniugare felicemente con l’impegno civile di amministratore. Il suo contributo alla conoscenza e alla valorizzazione del territorio sabino e reatino rimane un punto di riferimento ineludibile per chiunque voglia comprenderne la storia e l’identità. Animatore instancabile di ricerche sulla storia di Farfa, ha condiviso con chi scrive e con l’Istituto storico italiano per il medio evo numerosi progetti, non ultimo la creazione della collana “Fonti e studi farfensi”, per la quale ha pubblicato ancora recentemente un contributo sulle origini del monachesimo in Sabina.
La sua testimonianza di storico impegnato e provvisto di una profonda umanità resterà nitida e radicata in tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di partecipare della sua generosa opera di studioso e di uomo.
Umberto Longo
Prof. 𝗧𝗲𝗿𝘀𝗶𝗹𝗶𝗼 𝗟𝗲𝗴𝗴𝗶𝗼
Tersilio Leggio è storico del medioevo, autore di numerosi saggi sull’Italia mediana, e in particolare su Rieti e sulla Sabina. Tra i suoi titoli ricordiamo il volume Ad fines regni. Amatrice, la Montagna e le alte valli del Tronto, del Velino e dell’Aterno dal X al XIII secolo (L’Aquila 2011).
Franco Leggeri-brano da Murales Castelnuovesi-Sulla vecchia cote dei ricordi affiliamo lame di impossibili rivolte. Abbiamo grattato terre incolte con il chiodo del primitivo, seminando speranze di poveri. Spartendo i raccolti con il padrone è rimasta la rabbia dei figli e l’aia deserta.
Anche in noi, questo furore taciuto riporta a scelte lontane, quando vita, giovinezza e volti di ragazzi inebriati di troppa ingenuità tutto bruciammo. Solo per amore. Bastasse questo pugno di anni (paura e speranza della sera) per ritoccare quella bilancia e non imbastire cupi silenzi su mani stanche, ma golose di sole.
A Castelnuovo mattini uguali e incerti come aste sul quaderno di stagioni incolori, quando il silenzio diventa eresia, e l’antico ripetersi scava sentieri tra le pietre scritte, e il rito del ritrovarsi tra il vuoto di assenze che pesano – già affiora il dire: questa è l’ultima volta – resta, ancora, da capire la somma dei perché, mentre la nebbia nasconde l’oblio.
Non ha senso la Storia , anche quella che si scrive nel bronzo e le stagioni rigano di una patina verde (ora, che dissolti i cristalli di lacrime, alza soltanto steli di pietra e grovigli di lamiere), anche quello che è stato, e furono parole e musica e canti nati nei bivacchi e folla e bandiere, e tutti a premere l’erba sul cuore dei morti: anche l’amore di allora e le schegge di verità ( forse, anche i giuramenti), adesso, non hanno più senso.
Il tempo, con il volto di rigattiere, ha raccolto le cose vecchie districando dai rami brandelli incolori, lembi di aquiloni e frammenti di foglie stinte di speranza. Castelnuovo nel cuore, i ricordi, le speranze, le lotte vecchie e nuove e ancora giorni senza tregua ,bivacchi per nuove battaglie e strategie per nuovi obiettivi”.
Poesie di William Stanley Merwin ,Poeta statunitense
ESERCIZIO
*
Prima dimentica che ore sono
per un’ora
fallo regolarmente ogni giorno
poi dimentica che giorno della settimana è
fallo regolarmente per una settimana
poi dimentica in che paese ti trovi
e esercitati a farlo in compagnia
per una settimana
poi fai entrambe le cose contemporaneamente
per una settimana
con il minor numero di pause possibile
il prossimo passo è dimenticare come aggiungere
o sottrarre
l’ordine non fa differenza
puoi variarlo
dopo una settimana
entrambi ti aiuteranno in seguito
a dimenticare come contare
dimentica come contare
a partire dalla tua età
inizia dal conto alla rovescia
inizia dai numeri pari
inizia dai numeri romani
inizia dalle frazioni di numeri romani
inizia dal vecchio calendario
passando al vecchio alfabeto
continuando con l’alfabeto
finché tutto non sarà di nuovo continuo
prosegui a dimenticare gli elementi
comincia dall’acqua
procedi con la terra
finisci con il fuoco
dimentica il fuoco
—————————————————–
Breve biografia di William Stanley Merwin (1927-2019)-
Poeta statunitense, autore di oltre trenta libri di poesia, traduzioni e prosa. Sostenitore del movimento contro la guerra, si distingueva per lo stile delle sue narrazioni caratterizzate con maestria unica dall’uso del discorso indiretto e assenza di punteggiatura. Vinse il Pulitzer nel 1971 e nel 2009.
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donneè una ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999. L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come data della ricorrenza e ha invitato i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare in quel giorno attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza contro le donne.
La data della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne segna anche l’inizio dei “16 giorni di attivismo contro la violenza di genere” che precedono la Giornata mondiale dei diritti umani il 10 dicembre di ogni anno, promossi nel 1991 dal Center for Women’s Global Leadership (CWGL) e sostenuti dalle Nazioni Unite, per sottolineare che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani. Questo periodo comprende una serie di altre date significative, tra cui il 29 novembre, il Women Human Rights Defenders Day (WHRD), il 1º dicembre, la Giornata mondiale contro l’AIDS e il 6 dicembre, anniversario del quando 14 studentesse di ingegneria furono uccise da un venticinquenne che affermò di voler “combattere il femminismo”.Il colore arancione è utilizzato come colore di identificazione della campagna, ogni anno concentrata su un tema particolare. Dal 2014 ha assunto come slogan “Orange the World”.
In molti paesi, come l’Italia, il colore esibito in questa giornata è il rosso e uno degli oggetti simbolo è rappresentato da scarpe rosse da donna, allineate nelle piazze o in luoghi pubblici, a rappresentare le vittime di violenza e femminicidio. L’idea è nata da un’installazione dell’artista messicana Elina Chauvet, Zapatos Rojos, realizzata nel 2009 in una piazza di Ciudad Juarez, e ispirata all’omicidio della sorella per mano del marito e alle centinaia di donne rapite, stuprate e assassinate in questa città di frontiera nel nord del Messico, nodo del mercato della droga e degli esseri umani.L’installazione è stata replicata successivamente in moltissimi paesi del mondo, fra cui Argentina, Stati Uniti, Norvegia, Ecuador, Canada, Spagna e Italia. La campagna in Italia viene in particolar modo modo portata avanti dal Centri antiviolenza e dalle Associazioni di donne impegnate nell’ambito della Violenza contro le donne.
La risoluzione delle Nazioni Unite del 1999
Nella risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999 viene precisato che si intende per violenza contro le donne “qualsiasi atto di violenza di genere che si traduca o possa provocare danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche alle donne, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia che avvengano nella vita pubblica che in quella privata”. La violenza contro le donne è ritenuta una manifestazione delle “relazioni di potere storicamente ineguali” fra i sessi, uno dei “meccanismi sociali cruciali” di dominio e discriminazione con cui le donne vengono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini per impedirne il loro avanzamento.
Richiamando quanto deliberato nella Terza e nella Quarta Conferenze mondiali sulle donne svoltesi a Nairobi nel 1985 e a Pechino nel 1995 con la partecipazione di rappresentanti di 140 nazioni, la risoluzione inserisce questo tema nella più ampia questione dei diritti umani, sottolineando come la violenza contro le donne sia un ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza, dello sviluppo e della pace[11], e come si renda necessaria l’adozione di misure volte a prevenire ed eliminare tutte le forme di discriminazione, specie per le donne maggiormente vulnerabili (appartenenti a gruppi minoritari, indigeni, donne rifugiate, donne migranti, donne che vivono in comunità rurali o remote, donne indigenti, anziane, con disabilità, e donne che si trovano in situazioni di conflitto armato).
Storia
Il 25 novembre del 1960 nella Repubblica Dominicana furono uccise tre attiviste politiche, le sorelle Mirabal (Patria, Minerva e Maria Teresa) per ordine del dittatore Rafael Leónidas Trujillo. Quel giorno le sorelle Mirabal, mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione, furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare. Condotte in un luogo nascosto nelle vicinanze furono stuprate, torturate, massacrate a colpi di bastone e strangolate, per poi essere gettate in un precipizio, a bordo della loro auto, per simulare un incidente.
Nel 1981, nel primo incontro femminista latinoamericano e caraibico svoltosi a Bogotà, in Colombia, venne deciso di celebrare il 25 novembre come la Giornata internazionale della violenza contro le donne, in memoria delle sorelle Mirabal.
Nel 1991 il Center for Global Leadership of Women (CWGL) avviò la Campagna dei 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere, proponendo attività dal 25 novembre al 10 dicembre, Giornata internazionale dei diritti umani.
Nel 1993 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne ufficializzando la data scelta dalle attiviste latinoamericane.
Castelnuovo di Farfa e La guerra dei confini con l’Abbazia di Farfa
Articolo di Franco Leggeri
Articolo di Franco Leggeri–Castelnuovo di Farfa e Abbazia di Farfa-Confine è una parola pericolosa, perché appartiene in primo luogo alla semantica della chiusura; ma come tutte le parole “sol che rifletta sulle loro vibrazioni e se ne interroghi la perenne ambiguità” sa dire altro : esprime anche il senso opposto dell’apertura: è linea che garantisce la nostra identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza di ciò che siamo, si può guardare oltre ; è la “provincia”, la quale , appena viva consapevolmente la sua identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza spinge lo sguardo oltre i suoi limiti. La premessa è per introdurre alla storia e a una guerra di secoli tra gli abitanti di Castelnuovo e l’Abbazia di Farfa. Si narra che più volte i castelnuovesi spostarono i confini, cippi di pietra, e li gettassero nei fossi. La “guerra dei confini” portò anche ad una scomunica da parte della Chiesa di Roma nei confronti dei castelnuovesi. In verità i castelnuovesi più e più volte malmenarono i frati dell’Abbazia e :“gli abitanti di essa, servi, garzoni, stallieri ecc. “ –“Alle parole seguirono i fatti, e le mani si levarono e colpirono a sangue i monaci che malconci si rifugiarono in chiesa, e qui furono curati dalle ferite riportate nello scontro con gli abitanti di Castelnuovo, quel Borgo di uomini duri e forti…” La questione dei confini fu , finalmente, risolta con il Regio decreto del 6 agosto 1937-XV. N.1695; “Rettifica di confine fra i comuni di Castelnuovo di Farfa e di Fara in Sabina, in provincia di Rieti”.
Abbazia di Farfa
. Con il Regio Decreto vennero, finalmente, riconosciute le ragioni degli abitanti di Castelnuovo di Farfa. La “QUESTIONE CONFINI” durava dal medioevo…risolta dopo quattro secoli. I castelnuovesi non sono mai stati servi e sottomessi alle prepotenze dei frati dell’Abbazia e qui inizia un altro capitolo relativo alla guerra del sale e “dazi & balzelli” che si dovevano pagare ai monaci dell’Abbazia. ……………………………………………………………………………………….
I confini tra Castelnuovo di Farfa e Poggio Nativo potrebbero essere stati rivisti nel 1946, (Nota a chiarimento dell’imprecisione non mi è stato consentita la consultazione dell’Archivio di Castelnuovo di Farfa), a seguito del distacco della frazione di Monte Santa Maria dal comune di Toffia , distacco richiesto sin dall’8 ottobre 1922 e mai concesso. Nel 1945 il 14 settembre la Democrazia Cristiana al fine di contrastare la Sinistra di Poggio Nativo ne sancì il distacco definitivo così come si legge nel verbale del consiglio comunale di Toffia che riporto integralmente:
” Che non ostante i proventi della sovrimposta di terreni e fabbricati della frazione a quelli degli altri tributi comunali, il bilancio da alcuni anni pareggia col contributo della Stato; Che in conseguenza senza i proventi di cui sopra il Comune di Toffia non potrebbe più reggersi, mentre il Comune di Poggio Nativo ne avrebbe immensi vantaggi finanziari, che verrebbero a migliorare ancor più la sua ben nota floridezza economica; Che si hanno buoni motivi di ritenere che la domanda dei frazionisti di Monte Santa Maria sia stata principalmente determinata dalla situazione politica creatasi nel Comune, in quanto nella frazione predomina il Partito Democratico Cristiano, mentre nel capoluogo predominano i partiti di sinistra;
per le ragioni di cui sopra
La Giunta
Ad eccezione del rappresentante della Frazione di Monte Santa Maria
Ad unanimità Delibera
Di esprimere parere contrario al distacco della Frazione stessa dal Comune di Toffia.
Letto confermato e sottoscritto:
il Sindaco Leo Mancini
la Giunta:Paolini Guido-Ferretti Alfonso-Capparoni Pietro.
Molto interessante è il sistema escogitato dai castelnuovesi, opera di ingegneria idraulica CONTADINA, al fine di sfuggire al monaco “PISCIONARIO” addetto alla riscossione del “dazio” sui “diritti di pesca” relativi al fiume FARFARIO ecc.
Dal libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana ConcasCastelnuovo di Farfa e i suoi particolariCASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACastelnuovo di Farfa (Rieti) –Abbazia di FARFAAbbazia di FARFAABBAZIA di FARFAABBAZIA di FARFAIL TESORO DELL’ABBAZIA DI FARFAABBAZIA di FARFA
L’ambito territoriale su cui sorge l’odierno abitato era conosciuto e sfruttato già al tempo dei Romani che, come del resto nell’intera regione sabina, edificarono nei dintorni residenze campestri.
L’origine del paese quale entità territoriale unitaria e distinta può, invece, essere fatta risalire al tardo VII secolo D.C., quando alcune Farae longobarde, deviando la loro marcia verso la Sabina, diedero origine a molti dei borghi oggi presenti nella zona, fra cui il primo insediamento urbano ai margini di quel “catino” naturale alla base del monte Tancia da cui l’odierno l’agglomerato mutuò il suo nome.
L’ngusto spazio edificabile nei pressi del Catino determinò, successivamente, l’inizio del popolamento del vicino colle Moricone, con la conseguente nascita del nuovo borgo, conosciuto in seguito come Poggio Catino. Il processo di edificazione del nuovo borgo può dirsi compiuto in epoca antecedente al 1093, data in cui risulta già annotata, nei registri dell’Abbazia di Farfa, l’esistenza e la consistenza del nuovo Castrum.
Entrambi i castra, quello di Catino e di Poggio Catino risultano in questo periodo appartenenti ai domini della potente Abbazia di Farfa che, del resto, regge le sorti dell’intera Sabina e di altre importanti regioni del centro Italia. Nel corso del XII secolo, sulla base del movimento che coinvolse l’intera Penisola, anche i borghi di Catino e Poggio Catino finirono col costituirsi in liberi Comuni. Successivamente, e per tutto il Medioevo, l’odierno paese conobbe numerosi Signori, riscontrandosi frequenti scambi del feudo di Catino e Poggio Catino fra le potenti famiglie romane e non quali i Conti di S. Eustachio, gli Orsini, i Savelli, i Capizucchi.
Sotto la Signoria dei Capizucchi il feudo venne elevato alla dignità di Marchesato ad opera di Papa Clemente VIII. Infine, nel 1614 il feudo di Catino e Poggio Catino venne acquistato dalla famiglia Olgiati, che lo detenne fino al 1816 quando, dopo che il territorio ebbe conosciuto tutte le vicissitudini della dominazione francese e della restaurazione, Giovanni Olgiati rinunciò ai propri diritti di giurisdizione. L’unificazione in una unica entità dei due borghi si avrà, almeno formalmente, solamente con l’annessione del territorio al Regno d’Italia, nel cui quadro amministrativo il Comune verrà inquadrato dapprima nella provincia amministrativa di Perugia e, in seguito alla sua creazione nel 1923, a quella di Rieti. (Informazioni da Wikipedia).
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Fonte sito web-Scopri la Sabina
Salisano, sali solo se sei sano!
Si sale su una collina non troppo alta, e ci si imbatte in Salisano: si deve, appunto, salire per trovare questo delizioso borgo della Sabina. Si sale e si diventa sani, o c’è bisogno di essere sani per salire: secondo gli abitanti, da questo motto potrebbe derivare il toponimo, alludendo giocosamente alla prestanza fisica necessaria per salire fino ai suoi 460 metri di altitudine con la vecchia mulattiera che un tempo conduceva al borgo.
È un centro piccolo, in cui la campana della chiesa parrocchiale suona ogni quarto d’ora: un’esigenza imprescindibile per gli abitanti di un tempo, impegnati nelle attività dei campi e quindi legati a quel suono per la scansione temporale, un’esigenza ancora imprescindibile per gli abitanti, pochi quelli rimasti, ma che sono strenuamente legati alle loro tradizioni e alle loro radici.
Radici che in realtà non sono solo su questa collina, ma poco più avanti, e ad altitudine inferiore: nei pressi di quello che rimane di Rocca Baldesca. In realtà tutta la zona era ampiamente interessata dalla presenza dei Sabini prima e dei Romani dopo, ma nel corso del Medioevo la sede del borgo era nei pressi di quello che ad oggi è un castello abbandonato, o meglio quello che ne rimane.
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Qualche cenno storico su Salisano
Salisano viene nominato, nel registro dei possedimenti dell’Abbazia di Farfa, come Fundus Salisanus: la prima menzione è precisamente dell’anno 840, quando compare nel diploma di Lotario I. Allora il suo aspetto non era certo quello di un castello, ma più di una curtis, con le case disposte intorno alla Chiesa di San Pietro.
È di poco posteriore la suddivisione del territorio in contrade, in base al numero delle strade: si ebbero allora la Contrada della Strada Diritta, la Contrada della Strada dei Ponti (così chiamata dai ponti che collegano le case da una parte all’altra del vicolo ed oggi, non a caso, conosciuta come Via degli Archi) e Contrada Strada del Fico, l’attuale Via Regina Elena. Si può ipotizzare che la prima fosse riservata ai nobili, visti gli aspetti dei palazzi e degli edifici, sontuosi in pietra, la seconda agli operai e ai popolani, mentre la terza a quella che oggi definiremmo il ceto medio, ovvero quella classe di funzionari, ma anche di commercianti e artigiani.
In parallelo, avveniva la nascita di Rocca Baldesca, castello e avamposto prima che Salisano divenisse, anch’esso, castello fortificato. Poco più in basso di Salisano e dunque più esposto a eventuali pericoli, Rocca Baldesca era un castello ampio, che ospitava la popolazione al suo interno. Fu abitato fino al 1400, quando le frequenti incursioni che rendevano il luogo poco sicuro, spinsero gli abitanti a spostarsi nella confinante Salisano.
Dopo essere stato feudo della sua famiglia, il 20 ottobre 1531 il Cardinale Francesco Orsini di Aragona concesse Salisano a Galiotto Ferreolo, il quale edificò un palazzo munito di bastione triangolare. Ad oggi, di questa rocca non rimane pressoché nulla, solo alcune rovine: distrutto per precisa volontà della popolazione, a cui viene attribuito anche l’assassinio, nel 1542, del Ferreolo, reo, secondo le fonti, di ogni sorta di tiranneria e dispotismo. Ed è un vero peccato che del Castello non rimanga che parte del bastione e la base dei due torrioni circolari: pare fosse stato progettato dal Sangallo.
Chiacchierando con la gente, abbiamo scoperto una rivalità con il vicino comune di Mompeo – i due comuni sono separati dalla Gola di Rosciano: non stupisce, è abbastanza frequente tra centri vicini. I due colli, quello di Mompeo e quello di Salisano, sono vicini, separati da una gola. Quello che sorprende è che si nobilita questa antipatia con motivazioni storiche: se Mompeo, come vi abbiamo raccontato nella scheda dedicata, sembra derivare il suo nome dalla presenza di una villa del celebre generale romano Gneo Pompeo Magno, allora non può che essere contrapposta a un centro fedele a Gaio Giulio Cesare, come si racconta, da queste parti, essere stato Salisano all’epoca.
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
La devozione per la Santa Patrona, Santa Giulia Vergine Martire
Santa Giulia Vergine Martire viene raffigurata in alcune tele poste all’interno della chiesetta parrocchiale, dedicata ai Santissimi Pietro e Paolo. L’intitolazione omaggia quelli che, inizialmente, erano patroni della città, che però Santa Giulia nel corso del tempo ha soppiantato nella devozione dei salisanesi.
Giulia era una giovane nobile cartaginese, verosimilmente vittima delle persecuzioni contro i cristiani perpetrate da Decio, o da Domiziano, imperatori rispettivamente tra il 249 e il 251 e il 244 e il 315. La colpa della fanciulla risiedeva nel non voler rinunciare alla sua fede. Probabilmente le sue reliquie viaggiarono nell’ambito dei flussi migratori dei cristiani, che fuggivano dall’Africa incalzati dalle incursioni dei Vandali di Genserico. E così arrivarono in Corsica, da dove Ansa, la sovrana dei Longobardi moglie di re Desiderio, le fece traslare a Brescia nel 762.
L’agiografia invece ci ha trasmesso un quadro molto più suggestivo delle sue peregrinazioni e sofferenze, di certo influenzato da una tendenza a rassomigliarle a quelle patite da Gesù Cristo. Giulia, tratta in schiavitù e condotta in Corsica durante i viaggi del suo padrone, fu sottoposta a un crudele martirio da un signore locale, tale Felice, per il fermo rifiuto opposto dalla fanciulla a sacrificare agli dei pagani.
Le vennero strappati i capelli, e fu crocifissa e gettata in mare. Le sue spoglie, ancora legate, inchiodate alle due assi di legno, vennero fortunosamente ritrovate da alcuni monaci. Il suo legame con la Corsica è ancora profondo, essendone poi diventata la Patrona. Ad oggi, Santa Giulia viene ricordata nel calendario cristiano il 22 maggio, ma a Salisano i festeggiamenti in suo onore si tengono durante la prima domenica dopo Ferragosto.
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
La cucina tipica di Salisano
Il piatto tipico di Salisano? Nessun dubbio, sono i maccheroni a fezze. Una pasta semplice, fatta di acqua e farina, tirata con la mano unta di olio, come un unico filo, ben spesso, non interrotto, che poi viene sistemato in una matassa dai cuochi locali, che si aiutano in questo con il gomito. In bianco, condita con olio extravergine della Sabina DOP, un ramoscello di maggiorana, da queste parti chiamata persa, e abbondante pecorino spolverato. Oppure un sugo di cinghiale, o castrato, o di pomodoro e basta. Purché ci sia il pecorino sopra!
Per quanto riguarda i secondi, i salisanesi mettono in tavola lo stracotto di cinghiale al vino rosso, o coniglio porchettato farcito con lardo, accompagnato dal pane ben cotto al forno a legna.
Possiamo chiudere il nostro pranzo con le ciambelle all’anice dolci, che sono distribuite durante la festa di Sant’Antonio.
Ma se vogliamo unire la gola al divertimento, allora occorre monitorare sui suoi canali social gli eventi organizzati dalla Pro Loco di Salisano: tipica è infatti la novembrina Sagra della Polenta e della Padellaccia. E se la polenta non ha bisogno di particolari presentazioni, diffusa com’è in tutto lo stivale, la padellaccia potrebbe non dirvi nulla a prima lettura. Si tratta di una succulenta preparazione a base di tagli tra i meno pregiati del maiale, guancia, diaframma, gola e quello che è disponibile al momento, condita con succo di limone, olive, erbe aromatiche, spadellata in una vecchia padella, una padellaccia, appunto, in una ricetta contadina, antica di almeno un secolo.
Quello che forse abbiamo tralasciato nel nostro racconto, e che speriamo di poter trasmettere anche se solo in parte, è il panorama. Alle volte ci sembra quasi di ripeterci, ma anche gli scorci di Salisano sono davvero, davvero suggestivi. Si affaccia sulla Valle del Farfa, sulle propaggini meridionali dei Monti Sabini, sulle pendici del Monte Ode, con il Monte Tancia sullo sfondo. Poco al di fuori delle mura, il colpo d’occhio viene catturato dalla torre che svetta della Rocca Baldesca e spazia sulla Cipresseta monumentale, in un connubio perfetto tra natura e opera dell’uomo.
Fonte sito web-Scopri la Sabina-
Elio MERCURI- 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)Elio MERCURI- Il 3° Fotoreportage da SALISANO (Rieti)
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.