Poesie di Rosaria Ragni Licinio, “Viatico per peccatori”
da Ensemble –Rivista Atelier
– Anteprima editoriale –
Rosaria Ragni Licinio
Nascere dall’acqua
nel DNA la deriva
il destino dell’incompiuto
o qualsivoglia vergogna
– la torre del lancio è alta –
resta la paura
e la terra così ansiosa
e la cultura radicata
– quel peccato immorale –
lasciarsi andare
senza sapere la morte.
*
Nessuna carne
la caduta del non essere
soltanto il rumore
la cosa che resta.
Chi muore non assomiglia a nessuno
– nomina l’inizio – ha un altro passo
tolti i giorni alla paura
ruba la notte e le infelicità
d’improvviso spargono stelle.
È successo anche a me
voler recitare la fine
e poi ricevere un pugno.
*
Il giudizio della madre si scontra
dove cade la distanza
e il parlare è cieco
si perde la sagoma di figlia
e la mano nella tasca insiste
il perdono, un cuneo nel petto
tornare bambina
che si svela tardi e scava
un altro sì, una nuova
data di nascita.
*
L’estasi è la nostra consapevolezza
un’altra esperienza del tempo ci fissa
e la schiera di rinnegati risponde
dentro la virtù una totalità
sta per punire l’incendio
l’uomo nudo è in conflitto con la luce
nasconde il marchio della fiamma.
Di questo taglio nessuno s’è accorto
l’isolamento di un dettaglio – la realtà –
l’ultimo vezzo prima di svanire.
*
Ogni giorno staccarsi piano
come le foglie d’autunno
che non sono morte
dimenticare la mancanza di luce
per qualcosa sulla terra
ancora restare.
Rosaria Ragni Licinio (Taranto, 1978) è scrittrice, pittrice e giornalista. Ha fondato il litblog Poesiaealtreparole e lavora in ambito editoriale. Alcune sue poesie sono presenti in antologie e riviste sia nazionali che internazionali, come ad esempio: Metafory Współczesności, (Polonia, 2018), Advaitam Speaks Literary Vol.3-Issue 2 (India, 2019), Frequenze Poetiche (2021), I cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia pugliese, A. A. V. V. (Marco Saya, 2022), Fissando in volto il gelo, A. A. V. V. (Terra d’Ulivi, 2023). Nel 2021 è risultata tra i vincitori del premio di poesia Marco Di Meola. Interno rosso Marte (Gattomerlino/Superstripes, 2021) è la sua opera prima.
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
adesso che non ho più il silenzio
ma un fischio senza fine
sento solo il silenzio degli altri
quello a fare solitudine
la lingua incagliata tra i denti
della parola non detta
quella di un mondo del lavoro
a negare la dignità senza dire
orfano di terra di madre
parlo con te acufene
un ascoltare te
che non ascolti me
*
sono una conchiglia di terra
muovo passi sul mattino alpino
alla finestra lo sguardo
fa il cielo mare piatto
sono una conchiglia
l’orecchio porta nella testa
l’eco degli oceani e dei mari
tutti quelli possibili dell’emigrante
l’acufene seduto sul lobo
canta mille lingue e terre
in un solo fischio
*
sento il canto delle sirene d’Ulisse
il richiamo dell’onda mediterranea
il frangersi della spuma degli oceani
il muoversi lento del lago
il vento a spazzare le strade d’Europa
il ciclone a scuotere le palme caraibiche
il turbinio delle foglie d’autunno
il pizzicare della cetra sull’incendio di Roma
il ritmo del charango sulla povertà dei barrios
il ballo del tango e delle balere di periferia
il suono dell’arte continuo
come Van Gogh lascio
l’orecchio sul comodino
a sentire lo scorrere del Rodano
a passare senza posa come un acufene
*
Antonio Nazzaro
non mi perderò nella nebbia densa di Londra
trafitta dal canto perduto di Trafalgar
né in quella spessa dell’Eridano
a riecheggiare le urla della batracomiomachia
né in quella impigliata alle cime andine
attraversata dal fischiettare del Libertador
né in quella versata da Atena sulle coste d’Itaca
a nascondere lo sguardo d’Ulisse
né in quella dolce addormentata sulle Highlands
tessuta dagli elfi dell’acqua
il fedele acufene destriero dello stridio
dalle nebbie richiama alla terra
e non si può perdere il cammino
solo seguire l’infinito sibilo
*
ho un dio nella testa
sicuramente ortodosso
non scende mai dal pulpito
o dal minareto
la sua chiamata è costante
si è rubato il silenzio
confonde le parole sulla lingua
e gioca a girarmi intorno a farmi girare
è un demiurgo che non smette di battere
uno stakanovista dimenticato in miniera
sbatte come il vento le finestre
e si porta via i pensieri
anche quelli amorosi soffia via
lasciandomi in una solitudine piena
piena di lui ovviamente
e non è neanche bello
sembra un neon impazzito
che non smette di vibrare la luce
tutti mi dicono di non pensarci
ma lui non smette di pensarmi
acufene l’allarme che
un ladro non sa spegnere
Antonio Nazzaro
Biografia di Antonio Nazzaro (Torino, Italia, 1963). Giornalista, poeta, traduttore, video artista e mediatore culturale. Fondatore e coordinatore del Centro Cultural Tina Modotti. È direttore di diverse collezioni di poesia italiana e latinoamericana per differenti case editrici. Ha pubblicato le sillogi: Amore migrante e l’ultima sigaretta (RiL Editores, Chile; Arcoiris, Italia, 2018), Corpi Fumanti (Uniediciones, Bogotá, 2019) e Diario amoroso senza date, Fotoromanzo poetico (Edizioni Carpa Koi, Italia, 2021), La dittatura dell’amore (Edizioni Delta 3, collezione Aeclanum, Italia, 2022). Un libro di racconti brevi: Odore a (Edizioni Arcoiris, Italia, 2014) e il libro di cronaca e poesia: Appunti dal Venezuela, 2017, Vivere nelle proteste (Edizioni Arcoiris, Italia, 2017). Suoi testi sono stati pubblicati in differenti lingue su riviste e antologie nazionali e internazionali.
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Francesca Saladino – POESIE inedite pubblicate dalla Rivista Atelier
1.
Ho due diavoli sulle spalle
che mi spezzano il collo a colpi
sul bordo del tavolo a cui siedo con lei.
Mi girano le orecchie e i piedi,
mi spostano i nei ridendo
e di noi vedo soltanto
futuri senza sonoro
in cui non puoi riconoscermi. Loro
hanno il profumo del primo vitello
che ho mangiato piangendo,
profumo di alloro. Si leccano i calli,
masticano poco vecchio tabacco
e fanghiglia mista a feci.
Me lo sputano in bocca
imitando i piccioni coi loro piccoli.
Io lo ingoio tutto, avida e putrida,
nuda in un angolo come i polli,
come una vacca il giorno del macello,
a contarmi i capelli, a tirarmi i denti.
*
2.
La quinta figlia femmina
legata nella stalla
di fianco alle mucche
ha dovuto imparare
a infilare il dito nell’ano
della gallina – per sentirne l’uovo.
Sfilare nuda
con gli scarafaggi in testa.
Scuoiare conigli
e farsi piacere le cavallette.
Ecco,
la nostra condizione per essere amati.
L’ora del bagno,
qualcosa di cui non si deve parlare.
Come il desiderio d’essere morta
per non attirare più l’attenzione.
Chi ha il cuore tenero
non sa proteggersi.
Qualcuno forse
sì, servendo allo scopo maggiore.
Non si vive di assoluti
quando si ha bisogno
disperato d’amore.
*
3.
Carezza la pelle dell’albero
senza arrossire, pronuncia
scoprendone il corpo
le cicatrici:
“corteccia”, “radici”.
Tieniti stretto
al frutto, al tempo
come i serpenti.
Scandita tra i denti
la resina tronca
di netto l’abbraccio,
pendono, legati a un laccio
i rami, i morti, i canti.
*
4.
Ho nascosto la fonte
sotto l’occhio celeste
del primo assente,
una torre di corpi
putrefatti, mentre
attorno a me scorre
sperma pesante e corre
aborrito nella pozza
del dover fare, dover essere,
sboccia dal suolo di sborra
la meraviglia:
piccola dea figlia, bocca infernale
aperta come aiuole da calpestare
e nel profumo autunnale
d’orrore che piove
anche i diavoli sono in fiore.
Breve biografia di Francesca Saladinonasce e vive a Caserta dal 1994, laureanda in psicologia clinica presso l’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli della stessa città, porta avanti un progetto di poesia estemporanea componendo “ritratti poetici” ispirati da un breve colloquio col committente. È stata co-fondatrice del collettivo campano CASPAR per la diffusione e la valorizzazione della poesia orale e performativa sul territorio. In collaborazione con Officina Teatro ha ideato ed organizzato “Pop Poetry”, rassegna teatrale di spettacoli in versi e spoken poetry. Attualmente sta lavorando alla sua prima raccolta poetica, che comprenderà i componimenti nati negli ultimi due anni.
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Solitudine e solitudini, simboli vuoti dentro le braccia, come mali di pancia e ricerche d’aria. La solitudine prende fiato, nella sua stasi la calma. La solitudine prende il fiato, nella sua morsa lo spago. Come si va noi di qua e di là dal ponte, a volte soli per necessità, a volte nella pena dell’abbandono, a volte in fuga dalle prese strette, e forse alla ricerca di tiepide pozze. Siamo soli. Siamo soli? Oppure circondati, come le mosche, in un cielo di saline.
AUTORE
Alessandra Raffin è psicologa esperta in neuropsicologia clinica e terapia autogena. Vive e lavora tra Italia e UK. La poesia è parte integrante della sua vita da sempre. Solitude è la sua prima pubblicazione.
Nota di Michele Paladino
Se guardiamo all’entopico panorama poetico italiano, all’alluvionale e straripante conceria di poetesse mellifluamente noiose, falsamente avvitate alla sprezzatura, statiche nella loro melodia kitsch-misticheggiante, non possiamo non guardare al passato dei bardi o ritirarci nei culti snob della diffidenza. Opzioni inutili quanto deleterie. Ma prima di abbandonarci alla moneta poetica di vecchio corso, potremmo imbattertici in opere che del sentimentalismo abusato, e tanto dissodato, ne fanno, invece, una disarmante quanto misurata diagnosi di quella rara, ineffabile, esperienza poetica del quotidiano. L’esordio di Alessandra Raffin, Solitude, si presenta già nella dedica in epigrafe ad Alejandra Pizarnik come una suite di attraversamento, di dolorosa ricerca della grazia, compostamente orfica e confessional nel suo verso nominale ed empiricamente performativo dal dettato rapido, esile, concreto, per certi invasivo di una spettroscopia al nero di un sentimento amoroso in fase terminale o disfatto, osservato in decomposizione. Ciò che colpisce nella prima parte della raccolta è la netta cesura che la Raffin muove dal conformistico senso comune di fallimento: “[…] Icona di consolazione / Sotto cui giaccio ritorta / Come una cagna addormentata.” Da qui parrebbe muoversi la dimensione di una poesia non-rituale, infallibilmente simbolica, viscerale, alimentata da una trenodia perentoria che spinge sul pedale dei tessuti connettivi – le catabasi dei templi-ossari lirici pizarnkiani – del silenzio, supplice all’assoluto fatalismo di un rapporto paracadutato negli universi algidi, introversi, dalle venature domestiche inquietanti: “Uccidimi ti prego / Ho fatto la guerra / Con pentole / Mestolo e coperchi […] Uccidimi ti prego / Non ne ho colpa / O tienimi nell’ombra.” La scrittura della Raffin sfiora la dimensione terribilmente ironica delle lallazioni di un Io fatto dirozzare dal pensiero autoindotto alla solitudine. Ne conviene nella parte centrale della raccolta una liricità frammentata, abissale, dimidiata. Quel duplice poetico fattosi interlocutore privilegiato cade negli stagni narcisistici. Gli specchi si frangono e ogni tema e oggetto diventa universale nel suo rovesciamento al negativo. Tutto è condotto ad un grigio reductio ad absurdum. La seconda parte della raccolta sconta una larga, a tratti dozzinale, concessione divergente di toni e registri – si passa da elargizioni kitsch a impennate penniane affettuose e generiche, ritmi prosaici che in alcuni casi non rendono verosimile quel duplice interlocutore faustiano – che in sostanza non fanno cadere le atmosfere miracolosamente tetre di una fenomenologia di totale autonegazione adombrata dallo stupore. Come in questo caso, in uno dei passaggi più felici di Solitude:
[…]
Se ogni luogo crea confusione
Sapere che il posto non è mio
Quando la cremazione
Cenere su cenere
Come polvere d’amianto
La prende il vento
Il vento la porta
Perle dentro nuvole di ferro
Ho aperto una finestra su un giardino
Ho visto l’erba verde
E la primula gialla
Si apriva alla luce
Ciò che in qualche modo Solitude mostra è essenzialmente il referto psichico, nel suo stato più educatamente nobile, di una poesia che non teme le effusioni indocili di una Patrizia Cavalli atrabiliare, di una Sexton de-erotizzata, di un Larkin lasciato sbrigliare nei territori del pathos dissociativo. Insomma, Solitude di Alessandra Raffin inaugura con le sue mistioni estatiche, e le sue livide zone venate d’ombra, una aggiunta deformante e larvatamente inquieta alla statica e irritante poesia italiana di oggi.
Michele Paladino
Fonte -La rivista «Atelier»-
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Giovanna Frene – Poesie dal poemetto inedito “DIPLOPIA 9 AGOSTO 378 d.C.”
Rivista Atelier
XVII.
del tutto immobili nella loro sete da ore
i soldati romani vennero investiti
dal fumo dei tanti piccoli incendi appiccati dai nemici
come presagio del loro destino
XVIII.
proprio quando per la vicinanza del buio
tutti erano convinti che la cavalcata del conte Ricomene
avrebbe perlomeno rinviato la battaglia,
furono i cavalieri della guardia del reggimento degli Scutari
a provocare lo schieramento dei Goti
a non resistere al consueto richiamo
del sangue
XIX.
fu mentre i due schieramenti cozzavano come navi rastremate
a squassare l’armonico fluttuare dell’onda oplitica
che a uno sguardo più ravvicinato avrebbe rivelato
i volti terrorizzati dei soldati romani morti sul posto
piombò come un fulmine su montagne altissime
la cavalleria dei Goti con un contingente di Alani
che sfracellò l’ala sinistra dei cavalieri romani,
quella parte sempre invincibiledella storia
XX.
una battaglia iniziata quasi casualmente, infine oscurò la luce
con la polvere delle terribili urla
del blocco compatto di carne in agonia
paralizzato dalla sua stessa unione
assieme alla schiuma dei cavalli
fino a ricoprire l’intera orbitaterrestre
XXI.
i fanti romani sfiniti combattevano su i cadaveri dei loro compagni
scivolando continuamente sul terreno
completamente cosparso di sangue
vendevano cara la pelle
al miglior offerente
___
Nota. Le stanze I-XVI del poemetto sono uscite ne “L’ULISSE”, ‘Metamorfosi dell’antico’, n. 23, novembre 2020, con il titolo provvisorio di Antichità romane. Il poemetto completo è stato scritto nell’estate 2020.
Le vicende del triennio di scontri tra l’imperatore d’Oriente Valente e il capo dei Goti Fritigerno, che ebbero come esito finale la sconfitta romana nella battaglia nei pressi di Adrianopoli (9 agosto 378 d.C.), sono narrate da Ammiano Marcellino (330-400 d.C.) nel XXXI libro delle Res Gestae; il loro racconto viene ripreso e commentato da Alessandro Barbero nel libro 9 agosto 378. Il giorno dei Barbari. La citazione da Frank Bidart si riferisce alla battaglia di Teutoburgo.
Breve Biografia di Giovanna Frene (Asolo, dicembre 1968), poeta e studiosa, è stata scoperta da Andrea Zanzotto. Tra gli ultimi libri di poesia: Sara Laughs, D’If 2007; Il noto, il nuovo, Transeuropa 2011; Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda, Arcipelago Itaca 2015; Datità, (1a ed. Manni 2001), postfazione di A. Zanzotto, Arcipelago Itaca 2018. È inclusa in varie antologie, tra cui: Grand Tour. Reisen durch die junge Lyrik Europas, Hanser 2019; Nuovi Poeti italiani 6, Einaudi 2012; Poeti degli Anni Zero, Ponte Sisto 2011; New Italian Writing, “Chicago Review”, 56:1, Spring 2011; Parola Plurale, Sossella 2005. Come critica militante, co-dirige la rivista on line “Inverso. Giornale di poesia” e collabora con varie riviste, tra cui “Semicerchio” (cartacea) “Antinomie” (on line) e “Ibridamenti” (on line). È Dottore di ricerca in Storia della lingua, e ha pubblicato saggi e recensioni sul Settecento (Metastasio) e sul Novecento in volumi e riviste accademici. Dal gennaio 2023 insegnerà scrittura poetica nella ‘Bottega di Narrazione’ di Giulio Mozzi. Vive a Pieve del Grappa (TV), o altrove.
Rivista ATELIER
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Marta López Vilar- Poesie inedite-Rivista Atelier-
traduzione dallo spagnolo di Marcela Filippi Plaza
Porto de Mágoas
Elegí los puertos que más se parecieran a tu voz.
Elegí los barcos, las olas, los peces
que tuvieron que morir entre cenizas…
Elegí los puentes desde donde mirar la noche.
Pero nada importa.
Elegí la vida y tus palabras nunca regresaron.
Marta López Vilar
Porto de Mágoas
Ho scelto i porti che più somigliassero alla tua voce.
Ho scelto le navi, le onde, i pesci
che hanno dovuto morire nelle ceneri…
Ho scelto i ponti da dove guardare la notte.
Ma nulla importa.
Ho scelto la vita e le tue parole non sono mai ritornate.
Marta López Vilar
Después de un sueño
De muy lejos vengo, como el viento claro
que abandoné en tu voz
para protegerte de la muerte.
No me despedí de tí.
Por eso ven a mí
y sálvame como tantas otras noches
de mis sueños.
Marta López Vilar
Dopo un sogno
Da molto lontano vengo, come il vento chiaro
che ho lasciato cadere nella tua voce
per proteggerti dalla morte.
Non ti salutai.
Perciò vieni a me
e salvami come tante altre notti
dai miei sogni.
Marta López Vilar
Melancolía de una statua
Cansada, reclinas la cabeza buscando tu memoria
entre esa pesadumbre.
Cierras los ojos en busca de ese mar
que a otros cuerpos se llevó de tu lado,
vuelto en cenizas y vejez, siendo calor
prematuro de la muerte.
Reclinas la cabeza y no sientes la mano
frágil que sostiene tu cansancio,
esa oscuridad que albergan tus ojos
en pleno amanecer.
Nada tienes salvo la soledad esculpida
en todo lo guardado, el oleaje minucioso
del dolor horadando el tiempo
hasta borrarte.
Cansada, te preguntas dónde se hará
el cántico hermoso de la noche,
en qué lugar recogerás tu luz y tu presencia,
y hacia qué lugar se marcharon las palabras
de todo lo perdido.
Marta López Vilar
Malinconia di una statua
Stanca, inclini la testa cercando la tua memoria
in quella pena.
Chiudi gli occhi alla ricerca di quel mare
che portò via altri corpi che ti erano accanto,
trasformato in cenere e vecchiaia, essendo calore
prematuro della morte.
Inclini la testa e non senti la mano
fragile che sostiene la tua stanchezza,
quell’oscurità che i tuoi occhi ospitano
in piena alba.
Non hai nulla tranne la solitudine scolpita
in ciò che è custodito, il moto ondoso minuzioso
del dolore penetrando il tempo
fino a cancellarti.
Stanca, ti chiedi dove si farà
il bellissimo cantico della notte,
in quale luogo raccoglierai la tua luce e la tua presenza,
e in quale luogo sono andate le parole
di quel che è perduto.
Marta López Vilar
Marta López Vilar (Madrid, 1978) è una poetessa, traduttrice di letteratura, professoressa universitaria e scrittrice spagnola. Mantiene una partecipazione attiva a eventi culturali e letterari quali la distribuzione del Premio Cervantes, la gestione di attività di critica letteraria o commentatore radiofonico (SER) tra gli altri. Si è laureata in Filologia Spagnola e ha una vasta conoscenza del portoghese e del catalano. Ha realizzato diversi lavori di traduzione di poesia catalana, portoghese e greca contemporanea. Ha studiato lingua, letteratura e filosofia neo-elleniche all’Università di Atene. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Letteratura Spagnola presso l’Università Autonoma di Madrid, con una tesi sul misticismo e il simbolismo delle Elegie di Bierville di Carles Riba. Per il libro Di ombre e cappelli dimenticati nel 2003 ha vinto il premio di poesia “Blas de Otero” e nel 2007 ha vinto il premio “Arte Giovane di Poesia” della Comunità di Madrid col libro La parola attesa. La sua terza raccolta di poesie che si chiamerà Nelle e acque d’ottobre sta per giungere nelle librerie. Insegna presso l’Università di Alcalá. Ha trascorso un anno a Debrecen (Ungheria) contribuendo alla diffusione della lingua e cultura spagnola in Europa centro orientale.
Marcela Filippi Plaza (1968) è una traduttrice cilena che vive in Italia. E’ impegnata da molti anni nello studio e nella traduzione della poesia contemporanea in lingua spagnola, portoghese e italiana. Ideatrice del progetto delle antologie bilingue Buena Letra 1 (2012) e Buena Letra 2 (2014) di scrittori ibero-americani tradotti per la prima volta in italiano, e della collana bilingue Fascinoso Verbum che, nei primi tre volumi, comprende il poeta e critico letterario italiano Domenico Cara, la poetessa cilena Jeannette N. Catalàn e il poeta spagnolo Miguel Veyrat. Per Atelier ha tradotto Edmundo Herrera.
La poesía de Marta López Vilar: Convivencia con la herida
Marta López Vilar (Madrid, 1978) es ganadora del Premio de Poesía Blas de Otero, con De sombras y sombreros olvidados (Amargord, 2007), y del Premio Arte Joven de la Comunidad de Madrid, con La palabra esperada (Hiperión, 2007). Continúa su andadura literaria al ritmo con el que regresan los ecos y recuerdos de personas y lugares que demandan una traducción en palabras precisas. La poeta y profesora vuelve con su nuevo poemario, En las aguas de octubre (Bartleby, 2016), y la antología (Tras)lúcidas, poesía escrita por mujeres (Bartleby, 2016). Como en el resto de sus anteriores trabajos, en estos se concentran, una vez más, el poso de una erudición y una sensibilidad tan penetrantes como prudentes.
Entiendo que, para los autores, no debe ser fácil —por no decir, no debe ser divertido— someterse a estos procesos inquisitoriales del periodismo y la crítica literaria que son las entrevistas. Sobre todo en los años en que, como es tu caso, son varias las obras que han salido a la luz. Me planteo: «seguro que piensan… otra vez las mismas preguntas, las mismas respuestas…» ¿Puede, entonces, el escritor sacar algún provecho de estos mecanismos mediáticos?
Personalmente, creo que sí que se puede sacar provecho. Es más, creo que siempre ayuda a comprender lo que se escribe. La mirada ajena —en este caso la del entrevistador— siempre saca a la luz cuestiones que, en el extraño e inexplicable proceso de escritura, nunca nos habíamos planteado. Esa misma mirada ajena genera preguntas. Responderlas hace que lo escrito tome cuerpo, lógica interna, cierto orden. Por todo esto, no pienso en absoluto que siempre sean las mismas preguntas ni respuestas. De hecho, esta pregunta es la primera vez que me la hacen, y me ha hecho comprender cómo el otro puede crear una nueva existencia ajena al escritor, convirtiendo la escritura —su creación— en un objeto nuevo para cada lectura, prismático.
¿La propia obra se puede enriquecer?
Sí que puede enriquecerse. Creo que siempre hemos cometido el error de pensar que una obra se acaba cuando el poeta decide concluir un libro. Bajo mi punto de vista, es un error porque la obra siempre está en continuo movimiento: nunca acaba, y no concluye tampoco cuando el poeta decide poner fin a un libro. Tras esa conclusión —ficticia— queda la otra mirada que da sentido, aquella que pertenece al lector que siente todo aquello amoldado a su mundo, a sus razones y necesidades. No hay libro sin escritor, como tampoco lo hay sin aquel que lo lea. Con ello no quiero decir que sea indispensable la publicación del libro. El propio escritor, pasado un tiempo, ya se ha convertido en el otro. Leer lo escrito tras las huellas del tiempo hace que el texto tenga otro lugar, otro sentido y necesidad.
Tu poesía brinda por la poesía, la respeta, se preocupa por ella, por la intimidad humana y el recuerdo. Además, no eres dada a la proliferación de textos ni a la publicidad, sino a la precisión y la brevedad. ¿Cómo lidiar, entonces, con los mecanismos a los que nos obliga el mercado literario?
Confieso que, para mí, es complicado. Siempre he sentido la poesía, su escritura, como un ejercicio íntimo, alejado del ruido. Me resulta muy difícil asimilar el proceso posterior de exposición pública. Por ello, aunque una vez que se publica un libro existen esos mecanismos del mercado literario que son inevitables, procuro que cada acto público sea un espacio cercano para «entregar» los textos a los asistentes, explicar cómo es ese lugar íntimo del que nacieron, para que ellos los acojan en sus espacios de intimidad.
¿Cómo congeniar la pureza con el comercio?
Es algo muy complicado. Por ello, más allá de estos gestos, procuro mantenerme alejada del ruido, permanecer en ese espacio silencioso y humilde que, sin embargo, provoca deslumbramiento cuando leo; y un encuentro callado conmigo misma, cuando escribo. Las excesivas voces del afuera, los movimientos muchas veces previsibles y, en otros casos, luciferinos, las muestras estruendosas de logros, me disuelven, no me siento cómoda en ellos, me dicen que ahí no estoy yo. Las redes sociales están ayudando mucho a generar ese ruido —con el añadido de la distancia que produce una pantalla de ordenador—, sin embargo, casi nunca uso las redes para difusión de mi propia obra, sino para compartir textos literarios de otros autores que me han conmovido, que me han dado una respuesta a algo que desconocía, con la esperanza de que para alguien signifiquen lo mismo que han significado para mí. En ese caso sí que siento que las redes sociales ayudan. Sólo siento la literatura desde el lugar interior. Comparto un fragmento literario con la esperanza de que, después, alguien a quien le ha conmovido se acerque a una librería o a una biblioteca a por ese mismo libro.
Como profesora, ¿qué se siente cuando pasamos de críticos a criticados? Supongo que debe de ser una de las mayores frustraciones eso de leer desvaríos sobre la obra propia.
Bueno, eso forma parte del mecanismo de publicación de un libro, y hay que aceptar las cosas. Creo que hay un tipo de crítica, cada vez más minoritario, que sí que construye de manera esclarecedora la obra que reseña, aunque pueda destacar cosas negativas. Ese tipo de crítica, constructiva, muestra un pensamiento estructurado y lúcido aunque, repito, muestre aspectos negativos de una obra. Pero hay otros tipos de crítica que, confieso, no entiendo: aquellas que sólo se escriben para hacer publicidad editorial, o bien para destruir.
Creo que nos equivocamos, porque cada lectura es subjetiva, y aquel crítico que parece mostrar su verdad como única no está siendo justo con su trabajo. Siempre me espantaron los pensamientos extremos. Por supuesto que he tenido situaciones en las que, si no he leído desvaríos completos —bueno, alguno sí—, sí que no he entendido realmente lo que el crítico quería decir, como si la reseña hubiera sido un medio para mostrar su teoría acerca de algo —generalmente sin mucho que ver con el libro del que tendría que hablar—, o para encapsular en la página su malestar por algo que poco tiene que ver con el libro. Eso no he llegado a entenderlo y creo que empobrece el concepto de la crítica literaria. Hace que deje de ser un género desde el momento en el que el crítico piensa que por destruirlo todo muestra mejor sus conocimientos, o es más lúcido, más llamativo. La destrucción empobrece en todos los aspectos. Mientras te estoy diciendo esto, recuerdo una carta que le escribió Walter Benjamin a Gershom Scholem en 1930, creo. En ella le decía que la crítica literaria ya no era considerada un género serio en Alemania. Creo que aquí está ocurriendo lo mismo aunque, afortunadamente, hay excepciones, por supuesto. Sigue leyendo en Revista Borrador
molti i semi molti i fiori morto il bel canto il culto continua ma fuori dalla finestra dentro le campane suonano in cella aorta ferrata trasporto ver sacro
*
La notte come un telo potrebb’esser ampio lenzuolo e non l’avvicendarsi delle piccole ombricole che nel suono si fanno uova nate
una macchina si è affranta sul marciapiede di mattina l’asfalto è tutto specchio
un vecchietto aveva forse scritto una carezza sul viso a una carcassa sembrava come dire il rosso a un uomo di fango.
*
Ocra essere un tubero come l’oro dal terriccio inavvicinabile quando vicino alla morte e coi corni viola senz’ossa diventare tutto frutto oppure come faceva il nonno a casa si chiama cucumarazzo farsi cibo senza pelle e figli superare acerbo la maturità, fresco.
*
COSÌ POTRÒ GUARDARTI LE FESSURE
Qualcuno avrebbe potuto mettere i fiori nel vaso della ricotta come a dire terra espungimi mostra fuori l’approvvigionamento
non si va dove una casa è come la casa la cintola ammira lo spazio cerimoniale appunta il trionfo sopra l’omero vittoria della vita rudimento.
*
Tra un po’ sarà finito il tempo della calendula la persiana rafferma un rettangolo spanciato quadro urbano dell’agosto fatto acqua il suono è lontano – lo si ascolta dalla schiena la finestra è aperta, guarda al mezzo: sarà smessa l’ora che noi in un poco avemmo in dote.
Luca Tommasi (Bari, 1991) è Architetto e Dottore di ricerca in Composizione Architettonica e Urbana. Cura l’identità visiva della libreria Millelibri – Poesia & altri mondi. Ha pubblicato una raccolta di haiku e piccole tirature di libri d’arte.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
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direzioneatelierpoesiaonline@gmail.com
Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Appartenere alle nuvole,
porsi come girasole alla luce,
libera ghianda in evoluzione di destino.
Sciogliersi e sorridere
come il ghiaccio innamorato del sole,
senza dolore.
Essere. Essere. Essere.
Senza convincimento di peccato.
*
Lo senti questo logorio continuo
delle corde intorno all’argano?
L’incontro perfetto del corpo
che aderisce all’ombra?
Sei nelle armonie improvvise
a cui accedo negli attimi illuminati
delle mie giornate.
Sotto il peso delle cose
questo muscolo idiota schianta.
Dimmi solo che la vita non tradisce
Dimmelo ancora. Menti.
*
Sono le illuminazioni del vento,
il canto ripetuto del cuculo
sul ramo di magnolia
a darmi la consistenza del seme,
l’efflorescenza del respiro,
a dirmi: taci.
La dea Tara sorride al Caos
mentre prego le cime innevate
del mio Himalaya personale.
Inspira. Espira.
Tutto sta lì a dirmi: taci.
*
Ho tentato di ricomporre
le ossa della bambina spezzata,
quella che nessuno vede
nascosta dentro i vestiti
incisa nella carne
che sorride a tutti
senza trovare la via di casa.
*
Sono composta di silenzi
e ubriacature d’anima
che non riesco a nascondere
e fede in orizzonti lontanissimi.
Paio vivere di poco
ma l’infinito abita
dentro le mie cellule.
Ilaria Giovinazzo nasce a Roma nel 1979. Laureata in Lettere. Nel 1999 vince il premio Segnalazione speciale della Giuria al concorso europeo di poesia e narrativa “Massimo Grillandi”. Ha pubblicato i seguenti romanzi “Anime perdute (Effedue, 2001), “Non posso lasciarti andar via” (Prospettiva, 2005), “Donne del destino” (Besa, 2007) e le raccolte poetiche “Come un fiore di loto” (Ensemble, 2020), “La simmetria dei corpi” (Ensemble, 2021). Sue poesie sono state pubblicate su riviste specializzate e blog (De sur a sur, Atelier, Metaphorica, Transiti Poetici, La Bottega della Poesia de giornale La Repubblica, Centro cultural Tina Modotti). Con Fuorilinea nel 2022 pubblica il libro illustrato per bambini “Life. 10 cose importanti” e nel 2023 cura la plaquette, edita da Ensemble, dell’evento “Sinfonie Poetiche. Concerto per corde e fiati” da lei concepito e diretto. Attualmente vive e lavora tra le colline sabine.
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Arianna Vartolo – Poesie dalla raccolta inedita “Derma”
-Rivista Atelier-
È il corpo stesso quando saturo di liquidi
a lasciarsi scivolare addosso
quelli nuovi ricevuti dall’esterno.
Come fosse cosparso di unguenti e invece
sono gli intenti purificatori a farsi resistenti
all’acqua che scende sull’osso dello sterno.
La pelle si rende superficie d’eccezione
per quel bisogno che parla secondo obbligo espresso:
sembra quasi equazione di tensioni e rilasci
l’andare dritto della goccia – senza mai
deviare – nell’incavo liscio tra inguine e coscia.
Il toccare lo stato ultimo di compromesso
cui ogni forma esatta è chiamata ad arrivare.
*
A volte il cibo ti sembra avere
lo stesso sapore dello sperma; il che – pensi
conferma il tuo credo del durare
del seme, del tempo al culmine delle cose.
L’alimento che passa
e bussa sulla lingua a reclamare
la propria forma di stato eterno. Intanto è giorno
e tu rimani con le gambe poggiate alla ringhiera
di quell’unico spazio esterno
che riesci al momento ad abitare.
Continui a masticare in un impasto
denso di sensi di resti di semi rimasti tra i denti
che cerchi in ogni modo di levare. Basterebbe lavarli lavare
ciò che si ancora vicino all’angolo del mento.
Ciò che resiste sulla parte della bocca
che la tua mano ancora tocca a memoria.
*
Ho sognato dei passi – già li conoscevo:
il suono mi diceva
di chi sarebbe rimasto; lo sapevo bene.
Qui a destra. Ecco
cosa stringevi in mano.
*
Continuano a sanguinarti le gengive eppure
– ti dici – eppure io uso
Parodontax come dentifricio. Riporta
la confezione aiuta la prevenzione del suddetto deflusso eppure
– ti dici – eppure ancora non si arresta.
Intanto in testa ti torna Kynodontas il film di Lanthimos che tanto hai amato nel duemilasedici:
c’era una persona a te accanto, ne registravi ogni forma gesto
postura. Era curare con l’attenzione: non timore
della perdita ma bisogno di quel che dura.
Continui a sfregare ai lati e sputi
saliva e sangue sul bianco smaltato del lavabo; lo sai [non si dovrebbe
ritrarre la mucosa boccale a lasciare
scoperti i processi alveolari dei mascellari,
la radice il nervo i vasi. Giusto il dente rimane
souvenir di occasionale nostalgia:
di un ricordo lasciato
esposto / al rosso dell’emorragia.
*
La fine di giornata: è la luce che rimane
sulla tovaglia usata.
Breve biografia diArianna Vartoloè nata nel 1998 a Roma, dove vive. L’aiuto a non morire (Cultura e Dintorni Editore, 2019) è la sua opera prima in versi. Compare nell’antologia Abitare la parola: poeti nati negli anni Novanta per Giuliano Ladolfi Editore (2019). Di lei è stato scritto, tra gli altri, su ClanDestino, Pangea, Laboratori Poesia – della cui redazione fa inoltre parte dal 2021. Alcuni suoi inediti e lavori sono apparsi su riviste cartacee e online tra cui Atelier e Inverso (nella cui redazione fa ingresso a marzo del 2022), nonché su La bottega della Poesia del quotidiano La Repubblica – Roma. Nel 2021 è rientrata tra i finalisti del Premio di Poesia Città di Borgomanero – Achille Marazza e del XXII Concorso Nazionale di Poesia e Narrativa “Guido Gozzano”.
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
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Ho trovato la tomba
prima di trovare la casa
il mio cimitero
prima della mia città
Può iniziare l’inverno
in alto il cuneo delle anatre
gli stambecchi sulle lapidi di sale
Ho trovato e mi lascerò
per una scommessa d’esilio:
salutarmi da sola
ogni volta che se ne vanno gli altri
Crepa cuore
L’ippopotamo è un animale enorme
considera una distanza da qui a lì
l’aspetto placido trae in inganno
i canini possono misurare mezzo metro
se lo ostacoli sulla via dell’acqua
verrai dilaniato in maniera atroce
Il leone è possente
ma interviene soltanto all’ultimo
quando ne vale la pena
solo dopo che le sue leonesse
hanno fatto il resto
ti finirà in maniera atroce
L’orso non sa sbranare
non controlla la mascella
un’insolita formazione dentale
unita a un difetto dell’articolazione
puoi correre quanto vuoi
ti strazierà in maniera atroce
L’elefante ti sorprende
perché in realtà è leggerissimo
non lo senti arrivare
se ti fermi per qualche motivo
in un soffio alle tue spalle
ti calpesterà in maniera atroce
Domani ti porterò allo zoo
l’ippopotamo il leone l’orso l’elefante
chiusi nei recinti nelle gabbie
così ti sentirai al sicuro
amore mio atroce
potrai godere della cattività
della senilità
subito ti dimenticherai di me
Ultimo post it
Ora sono io a partire
altrimenti ne morirei
ne moriresti
ne moriremmo
Io declino
perché risulti meno grave
Dopo tutto il tuo tempo
ti lascio la mia fine
in monoporzioni
nel congelatore Penel.
Breve biografia di Mia Lecomte (Milano, 1966) è una poetessa e scrittrice di nazionalità francese e di lingua italiana che risiede in Svizzera. Tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano: la silloge poetica Lettere da dove (InternoPoesia, 2022) e il libro per bambini Gli spaesati/Les dépaysés (VerbaVolant, 2019). Le sue poesie sono state tradotte in diverse lingue, pubblicate all’estero nelle raccolte For the Maintenance of Landscape (Guernica, 2012), Là où tu as ton corps (Apic, 2020. Prix Vénus Khoury Ghata 2021), e in numerose riviste e antologie. Traduttrice dal francese, svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della letteratura transnazionale italofona, a cui ha dedicato alcune antologie e il saggio Di un poetico altrove. Poesia transnazionale italofona. 1960-2016 (Franco Cesati, 2018). È redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio, del periodico letterario indiano online The Antonym, e della rivista del festival anglo-francese di poesia La Traductière. Collabora all’edizione italiana de Le Monde Diplomatique. Nel 2017, con altri studiosi e scrittori attivi tra Francia e Italia, ha fondato l’agenzia letteraria transnazionale Linguafranca. È ideatrice e membro della Compagnia delle poete. Le fotografie di Mia Lecomte sono tratte da mialecomte-ph.
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