ANTONIO GRAMSCI, Quaderni del carcere, 1948/51: “Basta vivere da uomini, cioè cercare di spiegare a se stessi il perché delle azioni proprie e altrui, tenere gli occhi aperti, curiosi su tutto e tutti, sforzarsi di capire; ogni giorno di più l’organismo di cui siamo parte, penetrare la vita con tutte le nostre forze di consapevolezza, di passione, dì volontà; non addormentarsi, non impigrire mai; dare alla vita il suo giusto valore in modo da essere pronti, secondo le necessità, a difenderla o a sacrificarla. La cultura non ha altro significato”.
Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937) la sua vita e le sue opere, dalla fondazione del partito comunista alla prigionia in epoca fascista. Un uomo il cui pensiero politico ha influenzato tutto il Novecento. In questo filmato, tratto dal programma Comunisti d’Italia di Rai Play, il regista Carlo Lizzani racconta la figura dell’uomo politico italiano, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario, considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo.
Nome completo Antonio Sebastiano Francesco Gramsci, nasce nel 1891 ad Ales, in provincia di Cagliari, quarto di sette fratelli. Si trasferisce nel 1911 a Torino per frequentare la facoltà di Lettere e Filosofia, entra in contatto con il movimento socialista e si iscrive al Partito Socialista. Nel 1919 fonda L’Ordine Nuovo, che dissente col Partito Socialista e con l’Avanti! riguardo ai consigli di fabbrica che stanno occupando le industrie un po’ in tutta Italia. Nel 1921 a Livorno è tra i fondatori del Partito Comunista italiano, nel 1924 viene eletto deputato ed è segretario del partito fino al 1927. Delegato italiano nell’esecutivo dell’Internazionale, in Russia Gramsci studia gli sviluppi della dittatura del proletariato. A Mosca conosce la violinista Giulia Schucht, che diventa sua moglie e dalla quale ha due figli. L’8 novembre del 1926, a causa delle leggi eccezionali contro gli oppositori, è arrestato dalla polizia fascista e condannato a vent’anni di reclusione. In cella Gramsci scrive I Quaderni dal carcere, che saranno in tutto 33 e consistono in uno sviluppo originale ed estremamente approfondito della filosofia marxista. L’aggravarsi delle sue condizioni di salute portano prima al suo ricovero in clinica e poi alla libertà condizionale. Muore per un’emorragia celebrale il 27 aprile del 1937.
Gramsci Antonio Jr.– La storia di una famiglia rivoluzionaria.
Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia.
ANTONIO GRAMSCI
Introduzione di Raul Mordenti-Non si può non concordare con Antonio Gramsci jr. quando afferma a proposito del suo libro: «Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé», cioè non solo come fonte per aspetti poco illuminati della vicenda biografica del massimo pensatore politico del Novecento italiano, suo nonno Antonio Gramsci.Questo giudizio dell’Autore sarà condiviso da qualsiasi lettore di questo libro, che è davvero più romanzesco di qualsiasi romanzo nel narrarci una storia familiare, cioè un concerto di tante storie personali intrecciate vitalmente fra loro sullo sfondo del «mondo grande e terribile, e complicato», (per usare le parole che il nonno del nostro Autore scrisse più volte a sua moglie).
Dall’introduzione di Raul Mordenti
[…] Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé. È la storia di quella parte dell’intelligencija russa di estrazione nobiliare che in nome della Rivoluzione rifiutò il proprio ceto di appartenenza e, prendendo le distanze dai «preconcetti» di classe, tentò di inserirsi nel nuovo sistema di valori. Ci sono stati casi simili nella storia russa, ma quasi tutti con esiti tragici. In questo senso, la storia della famiglia Schucht, sopravvissuta felicemente alle varie terribili fasi dell’epoca sovietica, costituisce un esempio unico. […]
Nonostante il libro tratti la storia della famiglia Schucht, al centro della narrazione, anche se a volte non manifestamente, c’è sempre la figura di mio nonno, Antonio Gramsci. Sono fermamente convinto che lo studio della sua opera e della sua vita, come del resto di altri grandi classici del marxismo, non è affatto anacronistico, anzi, penso che sia molto attuale e necessario proprio ora, quando sembra che i pilastri della civiltà occidentale stiano per crollare e quando dobbiamo ricevere risposte alle domande essenziali: chi siamo, in quale direzione ci muoviamo e per quali ideali viviamo.
(Dalla prefazione dell’autore)
Antonio Gramsci jr., è nato a Mosca nel 1965 da Giuliano, secondogenito di Antonio Gramsci, e Zinaida Brykova. Laureato in biologia, ha insegnato Morfologia, sistematica e ecologia delle piante presso l’Università pedagogica di Mosca. Ha ricevuto anche una formazione musicale: inizialmente dal padre – noto musicista e pedagogo, uno dei primi promotori della musica antica in Unione Sovietica – successivamente ai corsi di musica antica nell’istituto mu- sicale «Carta Melone» e percussioni etniche. Insegna alla scuola italiana a Mosca e partecipa a varie attività musicali suonando gli strumenti antichi a fiato e percussioni etniche in varie formazioni di Mosca: «Volkonsky consort», «La Campanella», «La Spiritata», «Al-Mental» e altri. Dirige la scuola di percussioni etniche, «UniverDrums» presso l’Università Statale di Mosca e presso il laboratorio di musica elettronico-acustica del Conservatorio di Mosca, effettua ricerche sugli aspetti matematici del ritmo.
In collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci ha effettuato ricerche sulla storia del Pci negli anni Venti e sulla famiglia del nonno. Nell’Archivio del Comintern e in quello della famiglia Schucht ha rinvenuto molti documenti importanti che hanno contribuito a colmare lacune sia nella storia del Pci, sia nella biografia di Antonio Gramsci.
Nel 2007-2008 ha collaborato a l’Unità. Ha scritto La Russia di mio nonno. L’album familiare degli Schucht, pubblicata dall’Unità nel 2008 e nel 2010 è uscito presso Il Riformista il libro I miei nonni nella rivoluzione. Gli Schucht e Gramsci.
Editori Riuniti -Roma
La storia di una famiglia rivoluzionaria. Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia
Autore: Gramsci Antonio Jr.
ISBN13: 9788864731278
Anno pubblicazione: 2014
€18.90 €19.90
Antonio Gramsci nacque ad Ales il 22 gennaio 1891 da Francesco Gramsci (1860-1937), i cui avi erano di origine arbëreshë, e da Giuseppina Marcias (1861-1932), di lontana ascendenza ispanica. I due si conobbero a Ghilarza, si sposarono nel 1883 e dopo un anno nacque il primogenito Gennaro; poi la famiglia si trasferì ad Ales dove Giuseppina Marcias diede alla luce Grazietta (1887-1962), Emma (1889-1920) e Antonio. Nell’autunno del 1891 il padre divenne responsabile dell’Ufficio del Registro di Sòrgono e i Gramsci traslocarono nel paese che era centro amministrativo della Barbagia Mandrolisai;[3] qui nacquero altri tre figli: Mario (1893-1945), Teresina (1895-1976) e Carlo (1897-1968).[4] Infine la famiglia rientrò a Ghilarza nel 1898 e lì fissò la dimora definitiva.[5]
Il piccolo Antonio aveva solo diciotto mesi quando sulla sua schiena si manifestarono i segnali del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che causa il cedimento della spina dorsale e la comparsa della gobba. Ma la famiglia scelse di rifugiarsi nella superstizione, rifiutando di affidarsi alla medicina che, con una diagnosi tempestiva e un intervento chirurgico, avrebbe evitato che gli effetti della malattia provocassero danni permanenti allo scheletro e a tutto l’organismo.[6] All’età di quattro anni, Antonio per tre giorni di seguito soffrì di emorragie associate a convulsioni; secondo i medici tali avvisaglie avrebbero portato a un esito fatale, tanto che vennero comperati una piccola cassa da morto e un abito per la sepoltura.[7]
Descrizione del libro di Nicola Guarino-Gli otto racconti che compongono questa raccolta restituiscono un profilo di eleganza alla narrativa contemporanea. Devono questo privilegio a una scrittura pulita, impeccabile nella scelta delle parole e capace di dipingere scenari e sensazioni in pochi essenziali tratti.
Al centro della vicenda, spesso un individuo soltanto: i suoi gesti quotidiani, il suo stare e fare che prendono uguale e giusto tempo nella narrazione, all’interno della quale si dipanano le sfumature personali, i fatti, i non detti e i significati che le cose assumono per ciascuno, viste dall’interno, e per gli altri che vi partecipano da fuori.
E gli spazi: un Sud senza tempo che ci sembra di conoscere da sempre, racchiuso nel dettaglio di una ringhiera di ferro o nei gessi dei soffitti che appaiono “come dune di sale” agli occhi del protagonista. Come se tutta la vita fosse fare due passi nel quartiere, un calcio al pallone, affacciarsi al terrazzino a veder scorrere la propria storia, compresa la sua fine.
Nicola Guarino-
Biografia dell’autore
Nicola Guarino, nasce nel 1958 ad Avellino, ultimo di una famiglia numerosa che si trasferisce ben presto a Napoli. Qui compie gli studi classici e, in seguito, si laurea in Giurisprudenza alla Federico II. Negli anni del liceo collabora con l’Unità e Paese Sera e poi, per mantenersi durante gli studi universitari, lavora all’ippodromo di Agnano. Diventato avvocato, ha fatto parte del Consiglio nazionale di Legambiente. Appassionato di cinema ha curato diverse rassegne e festival sia a Napoli che a Parigi, città in cui vive dal 2004 e in cui insegna lingua italiana all’Università della Sorbona e a Créteil Paris 12. È tra i fondatori della testata online Altritaliani.net.
dalla Prefazione di Roberto Lorenzett:«Questo libro parla di teatro dialettale reatino ma, pur con il massimo rispetto per questa nobile arte, sarebbe un’offesa considerarlo solo per questo. Racconta di certo il vasto e articolato orizzonte dei gruppi teatrali che operavano nella Rieti del Novecento, con la serietà con cui al tempo si ponevano nei confronti di questa attività, e l’irrinunciabile qualità che si pretendeva dal prodotto finale, un aspetto questo oggi forse un po’ troppo trascurato. Ma man mano che le pagine scorrono ci si rende conto che in questo libro c’è molto di più. Aimone usa il teatro come osservatorio, quasi una metafora, della Rieti di quegli anni, soprattutto quelli a cavallo tra il fascismo e il dopoguerra. Anni difficili caratterizzati da rigide appartenenze che trovavano un punto di mediazione sui palcoscenici dei gruppi teatrali locali. Il teatro come spazio metastorico, capace di essere esso stesso momento di tregua tra storie di vita e credi politici inconciliabili tra loro. […]
Aimone Filiberto Milli
L’Autore-
Aimone Filiberto Milli (Pieve Santo Stefano (AR) 1926 – Rieti 2015), giornalista (“L’Unità”, “Paese Sera”, “Il Tempo”), ha lavorato presso redazioni estere in Russia, Scandinavia, Finlandia, Cecoslovacchia, Medio Oriente. Militante del Pci reatino dalla sua fondazione, nel giugno del 1944, fino al 1984, ha al suo attivo numerosi libri di memorialistica che coniugano lo scenario reatino alla storia del Novecento.
25 Aprile 1945-“ALDO DICE 26X1” – L’ITALIA VENNE LIBERATA IN 24 ORE
L’insurrezione finale dei partigiani che portò alla Liberazione delle principali città d’Italia ebbe inizio il 24 e il 25 aprile nelle grandi città del Nord, dopo la diffusione del messaggio in codice comunicato dai vari comandi regionali del CLN: «Aldo dice 26×1»
Pochi sanno che fu principalmente il Partito comunista che riuscì ad imporre la vittoriosa insurrezione popolare dell’aprile 1945. Così Togliatti scriveva a Longo nei giorni precedenti: «E’ nostro interesse vitale che l’armata nazionale e il popolo si sollevino in un’unica lotta per la distruzione dei nazifascisti prima della venuta degli alleati. Questo è indispensabile specialmente nelle grandi città come Milano, Torino, Genova, ecc. che noi dobbiamo fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare integralmente dai fascisti». Per dirigere l’insurrezione di Milano venne insediato un Comitato insurrezionale composto da Luigi Longo per i comunisti, Sandro Pertini per i socialisti e Leo Valiani per gli azionisti. Gli Alleati anglo-americani, il Vaticano e le forze conservatrici della Resistenza erano contrari all’insurrezione e tentarono con tutti i mezzi di sabotarla e di farla fallire a Milano come a Torino e a Genova. Senza la risoluta iniziativa del Partito comunista, del Partito d’Azione e delle altre forze di sinistra, l’insurrezione del Nord non ci sarebbe stata, come non ci fu a Roma, dove le forze conservatrici vi si opposero ed ebbero il sopravvento.
25 Aprile 1945
Questa contrarietà delle forze della Reazione si spiega in primo luogo con le ambiguità degli alleati ango-americani, che nutrivano una costante preoccupazione per la forza militare e organizzativa dei comunisti, che infatti non ricevettero quasi mai aiuti militari dagli anglo-americani (che preferivano supportare le brigate autonome o quelle legate a forze più conservatrici, in primo luogo quelle cattoliche, badogliane, monarchiche, ecc.). Diversi storici a tal riguardo hanno collegato questa tendenza con lo stesso “proclama di Alexander” fatto 13 novembre 1944, con cui il comandante in capo delle truppe alleate nel Mediterraneo feldmaresciallo inglese Harold Alexander invitava via radio i partigiani ad abbandonare la lotta armata e tornare a casa. In quel durissimo inverno il movimento partigiano si era pressoché dimezzato, mantenendosi operativi in particolar modo le brigate Garibaldi guidate dai comunisti, che con i loro 50 mila effettivi costituirono più dell’80% delle forze partigiane rimaste combattenti anche nel momento più difficile della Resistenza Partigiana.
25 Aprile 1945
Gli anglo-americani volevano un’Italia sottomessa e umiliata, in cui ci fosse una sostanziale continuità dell’ordine sociale, con la mera differenza di voler instaurare un governo loro sottomesso in un’ottica antisovietica. Per tale motivo accarezzarono anche l’idea di “salvare” Mussolini per poterlo eventualmente utilizzare politicamente in chiave anticomunista nel dopoguerra. Ma tutto questo fu impedito dalla forza vigorosa dei comunisti, dei socialisti e degli azionisti, che liberando le città del Nord Italia e sconfiggendo autonomamente numerose divisioni tedesche seppero riscattare l’orgoglio del Paese, mostrandone la forza di un popolo rinnovato dalla lotta condotta contro i nazifascisti. Se l’Italia dopo divenne una semi-colonia degli USA e della NATO ciò è dovuto in primo luogo alla scelta di campo realizzata dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi e alle elezioni truccate manovrate dalla CIA nel 1948. La storia più gloriosa d’Italia è figlia delle azioni del movimento operaio e della sua avanguardia comunista. Tutto il resto è spregevole servilismo verso il padronato e i suoi alleati stranieri.
Fino all’ultimo, dovunque spirasse un sia pur flebile vento di sinistra, Valentino c’era.
Roma- 2 maggio 2017-E’ morto all’età di 86 anni Valentino Parlato, fondatore e direttore del Manifesto. “Comunista per tutta la vita, ha militato nel Pci fino alla radiazione, ha lavorato a Rinascita, fondato e difeso il manifesto in tutta la sua lunga storia. Per ora ci fermiamo qui, abbracciando forte la sua splendida famiglia e tutti i compagni che, come noi, l’hanno conosciuto e gli hanno voluto bene”, si legge sul sito del Manifesto.
“Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà”: suonano come un testamento politico queste ultime parole, scritte il 9 aprile scorso per un suo pezzo sul Manifesto intitolato Cambio d’Epoca. Quasi un congedo con dentro tutto quello che Valentino Parlato, morto oggi a 86 anni, ha praticato per una vita: la sinistra, Marx, il comunismo e la voglia di capire, andando controcorrente.
Nato a Tripoli in Libia il 7 febbraio 1931 da famiglia siciliana, dopo gli studi a Roma nel ’51 dove conobbe Luciana Castellina, s’iscrisse al Partito Comunista. Dopo un inizio da funzionario del partito ad Agrigento, a metà Anni ’50 comincia a collaborare con l’Unità per poi passare a Rinascita, il mensile allora diretto da Giancarlo Pajetta. Al Congresso del ’69 però lo strappo: il tema del centralismo democratico con il vietare del formarsi di frazioni organizzate, lo porta insieme ad altri ad aperti dissensi sulla strategia generale del Partito che lui vorrebbe di attacco frontale al governo. Viene espulso dal Pci e qualche mese dopo, insieme ad altri dissenzienti, fonderà Il Manifesto. Il primo numero, uscito il 23 giugno 1969, porta le firme di Parlato, Luigi Pintor, Aldo Natoli, Luciana Castellina e Ninetta Zandegiacomi. I direttori erano Lucio Magri e Rossana Rossanda. Un’Olimpo di intellettuali con l’aspirazione di incidere sulla sinistra da sinistra, un collettivo pronto ad incendiarsi, a discutere animatamente ogni fatto di politica e di cronaca, ogni riga di pezzo, divisi tra elaborazione politica e giornale. Le foto delle riunioni del Manifesto, con Valentino Parlato sempre in primo piano, sigaretta tra le dita, restituiscono questo sogno quasi romantico di giornalismo militante. La vita di Parlato coincide con quella del suo giornale, diretto a più riprese o co-diretto secondo l’usanza, fino al 2010. Titoli di una memorabile efficacia, pagine strette sotto il braccio a cortei e comizi, analisi e giudizi critici, controcorrente, coraggiosi, una spina nel fianco della sinistra al Governo o no. Storie ricordate dallo stesso giornalista in due libri, La Rivoluzione non russa (Manni editore) e Se trentacinque anni vi sembrano pochi (Rizzoli), mentre la sua vita è stata filmata dal figlio Matteo insieme a Marina Catucci e Roberto Salinas nel documentario ‘Vita e avventure del Signor di Bric à Brac’. Fumatore accanito, dedicò a quella passione anche il libro Segnali di fumo. Locali per fumatori, Roma-Milano (edito dal Manifesto).
Le crisi economiche del giornale negli ultimi anni, giornalisti in cassa integrazione, lo mettono a dura prova nonostante fosse Parlato tra i fondatori con più senso pratico.
Il lavoro di questo gruppo d’intellettuali comunisti fino al midollo diventa quasi un lavoro volontario sostenuto grazie alla mobilitazione dei suoi elettori. Un’istituzione del giornalismo italiano indipendente più moderna di quello che forse si pensa visto che Il Manifesto è stato il primo quotidiano italiano a dotarsi di un sito internet nel 1995. Poi nel 2012 la messa in liquidazione della cooperativa. Parlato è l’ultimo dei padri fondatori a lasciare il giornale che risorge – non senza fatica – con una nuova generazione, e una nuova direzione, quella di Norma Rangieri. Ma il legame con Il Manifesto casa e partito al tempo stesso è più forte di tutto anche delle polemiche interne e Parlato continuerà a scrivere regolarmente, una volta al mese, spesso costretto a parlare di compagni di una vita che se ne vanno, come Alfredo Reichlin, Renzo Testi, Nino Caruso. Sempre combattente e battagliero, ma anche con un grande senso dell’ironia. A febbraio aveva raccontato sul suo giornale di essersi iscritto a Sinistra Italiana “in contrasto alla mia attuale tendenza a dimettermi da tutto. Sinistra Italiana perché, già nella sua formulazione, non vuole essere un partito ma una corrente politico-culturale di ricostruzione di una vera sinistra, fondata sui contrasti della nostra società”. Con lo stesso impeto un anno prima aveva dichiarato di aver votato per Virginia Raggi sindaco di Roma, ammettendo “di aver tradito per la prima volta la sinistra, sperando fosse anche l’ultima”. Ma era un tradimento passeggero, di quelli che si perdonano. ‘Ciao Vale’ titolano i compagni del collettivo del Manifesto. E dal neosegretario del Pd Matteo Renzi agli amici della Sinistra Italiana, al premier Gentiloni che ne sottolinea la coerenza, sono in tanti commossi a salutarlo.
Valentino Parlato fotografato al Manifesto dopo la diffusione del video di Giuliana Sgrena nel 2005 PERI/ANSAValentino ParlatoValentino ParlatoValentino Parlato
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