Antrodoco (RI) Museo della città “Lin Delija – Carlo Cesi”
Descrizione
Il Museo della città Lin Delija-Carlo Cesi, nasce nei locali dell’antico Convento di S. Chiara nella centralissima via del Corso ad Antrodoco, Rieti. Il museo è l’insieme del dialogo fra l’arte di Carlo Cesi e l’arte del Maestro Lin Delija, pittori assimilati da un territorio e dall’arte sacra. Entrando e visitando il museo si ha un connubio di affinità che ci porta senza risoluzione fra passato e presente, fra il misticismo del Cesi, e il pathos delle figure, icone bizantine intrise di espressionismo, del Delija, tracciando le linee di un percorso interiore, di un viaggio dentro l’anima delle cose.
Non ci lasceremo mai. Nella Resistenza e nella memoria- articolo di Amalia Perfetti
Questo è un libro prezioso, come lo sono i libri che raccontano le storie delle donne e degli uomini che hanno partecipato alla lotta di Liberazione del nostro Paese. Questo vale per chi scrive, ma penso di poter parlare anche a nome di quante e quanti come me hanno l’onore di conoscere Iole Mancini. “Un Amore partigiano” ha però un valore aggiunto. Tante volte abbiamo sentito questa straordinaria ragazza di 102 anni raccontare dei terribili giorni a via Tasso; tante volte l’abbiamo sentita descrivere la “fame nera” di quei nove lunghissimi mesi dell’occupazione di Roma, ma anche dell’amore per il suo Ernesto, Ernesto Borghesi, uno dei gappisti romani. Ed è bello sapere che ora i ricordi di Iole sono anche lì, nero su bianco, e possiamo condividerli tutte le volte che vogliamo.
L’amore per Ernesto è il protagonista principale del libro, è il titolo a segnalarcelo subito e lei ci tiene moltissimo. Un sentimento nato in vacanza, in spiaggia, come nascono tanti amori. Era l’estate del 1937, alle Grotte di Nerone di Anzio, Iole aveva 17 anni. Ricorda tutto di quel momento e lo racconta a Concetto Vecchio che in questo libro ha raccolto le memorie di Iole. E questa è un po’ una storia nella storia: quella dell’incontro tra il giornalista e la partigiana. Quella tra Vecchio e Mancini doveva essere un’intervista per il 25 aprile del 2021 ma si è trasformata in un libro e in un’amicizia. Mesi di incontri, chiacchierate, ricordi, fotografie, letture, ricerche. Nel volume ritroviamo insieme alla narrazione della storia di Iole e di Ernesto, quella dei mesi della lotta di Liberazione a Roma e dell’amicizia che nasce tra il 2021 e il 2022 e si cementa a ogni presentazione. Lo abbiamo visto alla prima che si è svolta a Roma, presso la Casa della memoria e della storia, lo scorso 29 aprile e a quella di Colleferro il 3 giugno successivo. Tra loro è un dialogo che sul filo del racconto, del ricordo e dell’intesa continua oltre il libro. In qualche modo il libro, che pure è intenso, ricco di particolari, emozionante, è come se fosse l’inizio di un ragionamento ininterrotto.
Iole è generosa e attenta nel libro come nelle presentazioni (che ha fatto e vuole continuare a fare) nelle quali con i suoi occhi vispi cerca lo sguardo delle ragazze e dei ragazzi. Ed è a loro che vuole parlare in particolare: “raccontare quelle terribili storie, quei mesi così crudeli è importante – inizia così l’intervento di Iole nella presentazione romana –, perché i giovani non lo sanno, non conoscono la Resistenza e allora bisogna spiegare a loro com’era nata, come si è sviluppata in tutta Italia spontaneamente”, o ancora come scrive nel libro che “i giovani devono capire cos’è la dittatura, che può sempre tornare, sotto altre forme. Non immaginano neanche minimamente quel che abbiamo patito nei nove mesi dell’occupazione nazifascista, che tempo infame!”.
Il libro è un continuo intreccio tra la storia d’amore di Iole ed Ernesto e le azioni coraggiose dei gappisti romani, di una città che si ribella e fa rete; e poi gli arresti, le fucilazioni, l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Iole ed Ernesto si sposano “nell’ora più buia di Roma” il 5 marzo 1944: pochi giorni prima era stata uccisa Teresa Gullace, qualche giorno dopo, il 7 marzo, a Forte Bravetta sarebbero stati fucilati per rappresaglia dieci partigiani, tra i quali Giorgio Labò, Guido Rattoppatore e Toto Bussi. Erano giorni di paura e fame, resta difficile per noi oggi pensare di sposarsi proprio in quel clima. “Perché – chiede Vecchio a Iole Mancini – celebrare il matrimonio proprio in quel momento livido, con gli Alleati sbarcati ad Anzio da due mesi ma incapaci di avanzare verso la Capitale? I nazisti, sempre più efferati, davano la caccia agli oppositori con rastrellamenti a tutte le ore”. “Proprio per questo! – risponde la partigiana – per essere almeno marito e moglie nel caso fosse avvenuto l’irreparabile”.
Per Iole ed Ernesto non avvenne l’irreparabile, ma furono mesi sempre più difficili, segnati prima l’arresto di lui poi dalla fuga e poco dopo dall’arresto di Iole che finisce a via Tasso per 10 lunghissimi giorni: lei resiste, non parla, continua a dire – è Priebke a interrogarla – che Ernesto “sta a regina Coeli”.
Arriverà il 4 giugno 1944, la Liberazione di Roma. Sarà il destino a salvare Iole, ma è una storia, questa, che si deve leggere o ascoltare con le parole di una testimone straordinaria di mesi difficili, lunghissimi, ma nei quali si costruiva la libertà. E Iole ricorda sempre che “la libertà è una parola per me preziosa, perché significa la vita”. In questo libro di vita ce n’è tanta, quella difficile dei tempi difficili e bui nei quali però mai era venuta meno la speranza di un mondo migliore. Le parole di Iole ci invitano a continuare a farlo e a non abbassare mai la guardia, a partecipare.
Abbiamo bisogno di leggere e conoscere storie come quelle di Iole Mancini, che magari faranno venire la voglia di saperne di più e di guardare le città e i luoghi in cui viviamo con occhi diversi e riconoscenti, proprio come dice Concetto Vecchio parlando di Roma dopo averla “percorsa” attraverso gli occhi di Iole e di quante e quanti hanno raccontato quei mesi terribili sì, ma di solidarietà, speranze, coraggio e amore.
Amalia Perfetti, presidente della sezione Anpi Colleferro “La Staffetta Partigiana” e componente della presidenza Anpi provinciale di Roma-
Fonte–Patria Indipendente- Periodico dell’ANPI-Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
ANPI –Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Foto Gallery
Roma, Casa della memoria e della storia. Al centro Iole Mancini e Concetto Vecchio, con loro Marina Pierlorenzi, vicepresidente comitato provinciale Anpi Roma, che ha moderato l’incontro, e Fabrizio De Sanctis, presidente del comitato provinciale Anpi Roma e dirigente nazionale dell’associazione dei partigiani-Colleferro (RM). Iole Mancini e Concetto Vecchio insieme ad Amalia Perfetti (in piedi con il fazzoletto Anpi al collo), presidente della sezione locale dei partigiani e autrice della recensione, e a tanti giovani che non sono voluti mancare alla presentazione del libro-Iole ed Ernesto sposiUna bellissima foto di Iole Mancini, ragazza partigiana di 102 anni…ANPI- Comitato antifascista della SABINA
con testo introduttivo del Prof. Carlo Spartaco Capogreco,
Mimesis editore
L’internata n. 6”, di Maria Eisnstein
Quell’Italietta fascista, razzista e ipocrita
Articolo di Anna Longo, giornalista Rai
Un diario letterario da dentro un “campo del duce”, la fotografia dell’Italietta fascista, la rimozione e la riscoperta del libro e della figura della sua autrice. Il testo che pubblica Mimesis comprende tutto questo, cioè non solo lo scritto di Maria Eisenstein, ma anche un saggio introduttivo che descrive l’appassionante ricerca condotta da Carlo Spartaco Capogreco sulle tracce della giovane ebrea e delle persone che lei incontra e presenta. Nell’insieme una lettura che cattura, sorprende, emoziona, e spesso indigna.
Maria nasce a Vienna da una famiglia di origine polacca il 22 settembre 1914. Giunge in Italia nel ’36 per studiare le “belle lettere” a Firenze, e qui si laurea nel ’39 con una tesi in letteratura tedesca. È colta, intelligente, bella. Nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, viene catturata e condotta nel campo di concentramento femminile di Lanciano, in Abruzzo. Sui cinque mesi di internamento scrive appunti incisivi, precisi, spietati anche verso se stessa. Vi troviamo tutta l’insensatezza del meccanismo della segregazione che nel caso di Lanciano produsse una sconfortante “accozzaglia” (la definizione è di Maria) di 75 donne estranee l’una all’altra, che parlavano lingue diverse, senza nulla in comune se non il disagio di una convivenza forzata e troppo intima. La tragica fissazione del fascismo di perseguitare prostitute, omosessuali, slavi, ebrei, zingari, oppositori politici reali o sospetti, di scovare spie e di punirle, portò tra il 1940 e il ’43 all’istituzione di una cinquantina di campi di internamento, a volte costruiti ex novo, spesso insediati in edifici esistenti approssimativamente riadattati. A Lanciano si scelse la “Villa Sorge”, una casa malandata presa in affitto, per una cifra sostanziosa, dal regime.
L’internata n. 6”, di Maria Eisnstein ed. 1944
Maria riflette sull’incomunicabilità, sull’impossibilità della solidarietà, sulla paura. “Più mi agito e più mi pare di essere in un mondo fittizio, non vero. O meglio: meno mi pare di essere io, in quel mondo” Non è lei, è il “6” colei che vive nel campo. Maria è nascosta, viene fuori solo di sera, e la sera trova “il coraggio di avere paura”. Maria, a differenza della maggior parte delle altre recluse, è consapevole dell’odio assoluto e assurdo di Hitler per tutti gli ebrei, percepisce il pericolo dello sterminio, del genocidio. La sua anima sensibile è continuamente offesa non solo dalla dimensione alienante dell’internamento, che abbrutisce e violenta la personalità di tutte, anche di quelle più forti, ma anche dalla miseria dei comportamenti di chi lo gestisce, le ruberie, la corruzione, i ricatti, l’ipocrisia. Lo stesso fuori dal campo, dove troviamo opportunismo, maschilismo, mediocrità. Si approfitta della presenza delle donne di Villa Sorge per alzare i prezzi dei prodotti in vendita. Come ha detto Elisa Guida in una delle presentazioni del libro (a Roma, alla Casa della Memoria, il 28 gennaio 2016) nel diario di Maria Eisenstein “la grande storia passa per le piccole storie, non c’è confine tra pubblico e privato, e l’Italietta fascista ne esce demolita”.
Non deve stupire dunque più di tanto il fatto che “L’internata n.6”, il libro/diario pubblicato nell’ottobre del ’44 nella Roma appena liberata, sia poi di fatto scomparso. Un’opera del genere cozzava con il mito del “bravo italiano”. Si deve a Carlo Spartaco Capogreco e a Gianni Giovannelli il merito di averlo recuperato. Un libro bellissimo e importante, per conoscere il nostro passato e per riflettere su come certe attitudini amorali rischiano sempre di produrre un certo fascismo di ritorno.
Come si scava sott’acqua? Come si documenta l’attività? L’elemento acqua in uno scavo archeologico complica notevolmente la situazione e richiede l’impiego di particolari attrezzature; al tempo stesso l’ambiente subacqueo può favorire la conservazione di reperti altrimenti degradabili, che però, una volta estratti dall’acqua, necessitano specifici trattamenti. Attraverso i materiali provenienti dal sito de La Marmotta, si spiegheranno le tecniche utilizzate per lo scavo subacqueo, i metodi di documentazione e di conservazione dei reperti messi in atto durante le ricerche svolte nell’abitato neolitico sommerso individuato nel lago di Bracciano.
Informazioni
Durata: 1 ora e 30 minuti circa. Visite guidate su prenotazione per un minimo di 5 persone e un massimo di 25. Prezzo: 8,00 euro per adulti e bambini, più il biglietto di ingresso Prenotazione: è previsto un diritto di prenotazione, di 10 euro, se si tratta di laboratorio fuori da calendario.
la moglie “sottomessa e domestica” invitandomi a seguirne l’esempio.
E anche i miei insegnanti, il dottore in filosofia,
il maestro di musica e il professore di logica erano tutti ben decisi:
ognuno di loro altro non voleva
se non che io fossi
il riflesso del suo volto in uno specchio.
Per questo sono venuta qui.
Trovo che sia più sano, qui.
Qui posso essere me stessa, almeno.”
Poi si volse di scatto verso di me e disse:
“Dimmi, anche tu ti trovi in questo posto
per ragioni attinenti all’educazione
e ai buoni consigli?”
E io risposi: “No, sono qui solo in visita.”
E lei: “Ah, sei una di quelle che vivono
nel manicomio, di là
dall’altra parte del muro.”
tratto da ” Dio arriverà all’alba – Alda Merini “scritto da Antonio Nobili
Scopri di più sulla vita, la storia e la poetica di Alda Merini nel libro:Indagine su Alda Merini: non fu mai una donna addomesticabile di Margherita Caravello
Palazzo Brancaleoni ospita la sezione arcaica del Museo Civico Archeologico di Fara in Sabina e l’Archivio storico comunale mentre la sezione medievale è situata all’interno dell’Abbazia di Farfa. Il Palazzo è un edificio del XV secolo, appartenuto alla nobile famiglia Brancaleoni. Nasce dall’accorpamento di alcune strutture medievali, tra cui sono riconoscibili due case-torri inglobate nella ristrutturazione rinascimentale, adattate ai nuovi canoni architettonici ed abitativi quattrocenteschi che prevedevano piani di rappresentanza riservati ai proprietari, riccamente decorati con affreschi e soffitti lignei a cassettoni. Nella cinque sale del piano “nobile” sono esposti materiali per un arco cronologico compreso tra la preistoria e l’età romana. In particolare tra i reperti esposti sono presenti i materiali provenienti dalla capanna di Cures (VIII secolo a.C.) e le lamine in oro del corredo della sepoltura principesca di Colle del Forno (tomba XI-fine VII secolo a.C.). Al piano terra l’Archivio storico comunale conserva la documentazione del territorio a partire dalla fine del XV secolo.
Museo archeologico di Fara in Sabina-Piazza del duomo – 02032 Fara in Sabina (RI)
Dal 1° maggio 2022, cambiano le modalità di accesso ai luoghi della cultura e dello spettacolo, non sarà più richiesto il possesso del green pass e decade l’obbligo di indossare dispositivi di protezione delle vie respiratorie. Se ne raccomanda comunque l’utilizzo
Antonia Pozzi: la drammatica fine della Poetessa dell’Anima-
Articolo di Giovanna Potenza
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’Anima
È strana, a volte, la vita. Se osserviamo dall’esterno, alcune persone sembrano insolitamente privilegiate e la loro esistenza fluisce serena, senza ostacoli, come un fiume che scorre inarrestabile. Eppure, talvolta, quel moto lento e inesorabile si interrompe bruscamente, magari per una casualità o per un intervento volontario, e noi restiamo attoniti e smarriti ad interrogarci sul perché. Cosa può aver spinto, a soli 26 anni, Antonia Pozzi a compiere il suo tragico gesto in una gelida giornata decembrina di tanti anni fa, quando sull’Europa si addensavano minacciose le nubi di guerra? Forse non sapremo mai se le ragioni del suo suicidio sono da ricercarsi in un oscuro “male di vivere”, oppure in un sentimento di disperazione fatale. Possiamo asserire con certezza però che il panorama letterario italiano ne risultò impoverito perché, come ebbe a commentare Dino Formaggio, un famoso filosofo legato da profonda amicizia con la donna: “la poesia di Antonia Pozzi rimane, più che mai oggi, una delle voci liriche più sofferte e più pure, più luminosamente illimpidite, della poesia lirica italiana di questo secolo“. Una voce isolata e solitaria, quella della Pozzi, a lungo poco nota, fino alla “riscoperta” da parte di Montale, che ne decretò la fama definitiva. Milanese, nata nel 1912 da una facoltosa famiglia alto-borghese (il padre era un noto avvocato, la madre, una nobildonna nipote di Tommaso Grossi, scrittore amico di Carlo Porta e del Manzoni), Antonia Pozzi studia al liceo classico “Manzoni”, nella sua città, e intreccia ben presto una relazione con il suo professore di latino e greco, relazione fortemente avversata dai genitori, terminata nel 1933, con il trasferimento dell’insegnante a Roma. L’ambiente altolocato di appartenenza offre alla giovane molteplici stimoli culturali: la frequentazione di un circolo sociale esclusivo, un palco riservato alla Scala e – chance non comune all’epoca – la possibilità di viaggiare. Antonia suona il pianoforte, dipinge, si dedica alla fotografia, pratica il nuoto, il tennis, lo sci, l’equitazione. E’ una bionda bellezza esile e raffinata, con i bei capelli ondulati tagliati corti, stile Anni Trenta. Il mondo sembra spalancarsi dinanzi a lei, caleidoscopio rutilante di opportunità ed emozioni. Quando si iscrive alla facoltà di filologia dell’Università statale di Milano, nel 1930, sembra aprirsi per lei un nuovo capitolo, il più felice, della sua breve esistenza. Frequenta molti dei nomi più importanti del firmamento intellettuale milanese di quegli anni, da Vittorio Sereni ad Enzo Paci, da Luciano Anceschi a Remo Cantoni, ma nessuno avrà maggiore influenza su di lei del docente di estetica Antonio Banfi, con cui si laureerà nel 1935. Viaggia in Italia, Austria, Germania e Inghilterra, ma visita anche le periferie della sua città, un mondo per il quale prova compassione, sentendosi quasi in colpa per i suoi natali privilegiati. Non a caso preferisce all’elegante mondanità milanese la solitudine della vita immersa nella natura incontaminata di Pasturo, presso Lecco, dove si erge la settecentesca villa di famiglia. Antonia fa lunghe escursioni a piedi o in bicicletta, ama la selvaggia bellezza di quei paesaggi ricchi di picchi innevati, di torrenti e di crepacci. Trae fonte di ispirazione dalla natura, è il silenzio delle alture che la induce alla meditazione sulla finitezza umana. Scatta fotografie ai luoghi ed agli abitanti, colti nelle loro umili mansioni quotidiane. Solo in alcuni e brevi momenti la giovane riesce a sentirsi in pace con se stessa. Poi la Storia, con la sua urgenza, irrompe anche nel ritiro dorato di Antonia: è il 1938 e le leggi razziali fasciste colpiscono alcuni dei suoi amici più cari. La giovane scrive, amara, al Sereni: <<l’età delle parole è finita per sempre>>. Il male di vivere, di cui soffre da tempo, si acuisce. “Morte” è una parola dolorosamente ricorrente nei suoi versi. Pericolosamente ricorrente. E la morte, infine, si materializza e se la porta via il 3 dicembre 1938, quando Antonia decide di avvelenarsi con dei barbiturici nei prati antistanti l’abbazia cistercense di Chiaravalle. Il suo biglietto di addio ai genitori parla di un’invincibile “disperazione mortale”, ma la sua famiglia nega a lungo la circostanza del suicidio, per evitare lo scandalo. Le sue prime opere vengono pubblicate postume, dalla Mondadori, un anno dopo la sua morte, dopo essere state revisionate dal padre, che modifica soprattutto quelle dai contenuti amorosi. Ma, a dispetto delle manipolazioni subite, la produzione lirica della Pozzi affascina tuttora generazioni di lettori per la modernità e per la scarna essenzialità dei suoi versi soffusi di tristezza, debitori del crepuscolarismo e dell’espressionismo tedesco.
Antonia Pozzi: la Poetessa dell’AnimaANTONIA POZZI-Copia del manoscritto PREGHIERA ALLA POESIAANTONIA POZZI-Poetess
-Nuova Campagna di Scavi presso il santuario della dea Vacuna-
Scavi presso il santuario della dea Vacuna-
Montenero in Sabina- 2 luglio 2022-Riparte- lunedì 4 luglio – la Campagna di Scavi presso il santuario della dea Vacuna in località Leone. La missione, giunta alla sua quarta edizione, è svolta dal Comune in convenzione con l’Université Lyon 2 e in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Roma e per la provincia di Rieti-
Fonte-Comune di Montenero in Sabina-
MONTENERO in SABINA –I-reperti-esposti-nella-chiesa-di-San-Cataldo- Photo-Maurizio-ZuccariMONTENERO in SABINA –Area Scavi- Photo-Maurizio-ZuccariMONTENERO in SABINA (Rieti)Foto di Paolo GenovesiPaolo Genovesi Fotoreportage MONTENERO in SABINA (Rieti)Paolo Genovesi Fotoreportage MONTENERO in SABINA (Rieti)MONTENERO in SABINA –Planimetria-degli-scavi – Photo-Maurizio-ZuccariPaolo Genovesi Fotoreportage MONTENERO in SABINA (Rieti)
” Il ricordo è l’unico Paradiso da cui non possiamo essere cacciati via.”
Le Piscine di Granica
I favolosi anni ’60, le piscine di Farfa erano l’attrazione della Bassa Sabina. L’estate era un dividersi tra le Gole del Farfa, dove tutti o quasi, abbiamo imparato a nuotare e le piscine dove i tormentoni dell’estate erano le canzoni di Nico Fidenco e Gino Paoli ecc. erano gli anni in cui a Farfa venivano girati i film : iI Sorpasso :la scena di Porta Montopoli , i Quattro Monaci e La Grande Guerra a Ponte Sfondato,mentre il Campo Profughi era in piena attività.Erano gli anni del “Boom economico” e del sogno del ’68.
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