con testo introduttivo del Prof. Carlo Spartaco Capogreco,
Mimesis editore
Quell’Italietta fascista, razzista e ipocrita
Articolo di Anna Longo, giornalista Rai
Un diario letterario da dentro un “campo del duce”, la fotografia dell’Italietta fascista, la rimozione e la riscoperta del libro e della figura della sua autrice. Il testo di Maria Eisenstein,che pubblica Mimesis comprende tutto questo, cioè non solo lo scritto di Maria Eisenstein, ma anche un saggio introduttivo che descrive l’appassionante ricerca condotta da Carlo Spartaco Capogreco sulle tracce della giovane ebrea e delle persone che lei incontra e presenta. Nell’insieme una lettura che cattura, sorprende, emoziona, e spesso indigna.
L’internata n. 6”, di Maria Eisnstein
Maria nasce a Vienna da una famiglia di origine polacca il 22 settembre 1914. Giunge in Italia nel ’36 per studiare le “belle lettere” a Firenze, e qui si laurea nel ’39 con una tesi in letteratura tedesca. È colta, intelligente, bella. Nel 1940, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, viene catturata e condotta nel campo di concentramento femminile di Lanciano, in Abruzzo. Sui cinque mesi di internamento scrive appunti incisivi, precisi, spietati anche verso se stessa. Vi troviamo tutta l’insensatezza del meccanismo della segregazione che nel caso di Lanciano produsse una sconfortante “accozzaglia” (la definizione è di Maria) di 75 donne estranee l’una all’altra, che parlavano lingue diverse, senza nulla in comune se non il disagio di una convivenza forzata e troppo intima. La tragica fissazione del fascismo di perseguitare prostitute, omosessuali, slavi, ebrei, zingari, oppositori politici reali o sospetti, di scovare spie e di punirle, portò tra il 1940 e il ’43 all’istituzione di una cinquantina di campi di internamento, a volte costruiti ex novo, spesso insediati in edifici esistenti approssimativamente riadattati. A Lanciano si scelse la “Villa Sorge”, una casa malandata presa in affitto, per una cifra sostanziosa, dal regime.
L’internata n. 6”, di Maria Eisnstein ed. 1944
Maria riflette sull’incomunicabilità, sull’impossibilità della solidarietà, sulla paura. “Più mi agito e più mi pare di essere in un mondo fittizio, non vero. O meglio: meno mi pare di essere io, in quel mondo” Non è lei, è il “6” colei che vive nel campo. Maria è nascosta, viene fuori solo di sera, e la sera trova “il coraggio di avere paura”. Maria, a differenza della maggior parte delle altre recluse, è consapevole dell’odio assoluto e assurdo di Hitler per tutti gli ebrei, percepisce il pericolo dello sterminio, del genocidio. La sua anima sensibile è continuamente offesa non solo dalla dimensione alienante dell’internamento, che abbrutisce e violenta la personalità di tutte, anche di quelle più forti, ma anche dalla miseria dei comportamenti di chi lo gestisce, le ruberie, la corruzione, i ricatti, l’ipocrisia. Lo stesso fuori dal campo, dove troviamo opportunismo, maschilismo, mediocrità. Si approfitta della presenza delle donne di Villa Sorge per alzare i prezzi dei prodotti in vendita. Come ha detto Elisa Guida in una delle presentazioni del libro (a Roma, alla Casa della Memoria, il 28 gennaio 2016) nel diario di Maria Eisenstein “la grande storia passa per le piccole storie, non c’è confine tra pubblico e privato, e l’Italietta fascista ne esce demolita”.
Non deve stupire dunque più di tanto il fatto che “L’internata n.6”, il libro/diario pubblicato nell’ottobre del ’44 nella Roma appena liberata, sia poi di fatto scomparso. Un’opera del genere cozzava con il mito del “bravo italiano”. Si deve a Carlo Spartaco Capogreco e a Gianni Giovannelli il merito di averlo recuperato. Un libro bellissimo e importante, per conoscere il nostro passato e per riflettere su come certe attitudini amorali rischiano sempre di produrre un certo fascismo di ritorno.
Nonostante la fame, il freddo e gli orrori del campo di concentramento, Livia, Magda e Cibi sono sopravvissute ai terribili anni trascorsi ad Auschwitz-Birkenau. Le tre sorelle si sono protette a vicenda, condividendo il poco che avevano a disposizione senza lasciarsi piegare dalla brutalità delle SS. Ma la loro vita è ancora in pericolo. Perché, con l’avanzata degli Alleati in Germania, ad attenderle c’è un’altra terribile prova, il piano folle e criminale dei loro aguzzini: la marcia della morte. Per cancellare ogni indizio di ciò che è avvenuto nel Lager, i prigionieri dovranno camminare per giorni, al freddo e sotto la minaccia delle armi, per essere poi giustiziati. Il destino delle tre sorelle sembra segnato, ma un inaspettato colpo di fortuna fornisce loro l’occasione per ribaltare il corso degli eventi.
La loro storia ti spezzerà il cuore-Non dimenticherai mai i loro nomi «È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
The Mail on Sunday-«Un romanzo sbalorditivo.» People-«Un libro«È impossibile non emozionarsi con una storia come questa.»
Hanno scritto di Heather Morris: The Times -«Un fenomeno. Riesce a trasmettere un messaggio potente: l’amore non si può fermare.» The Sun «Tutti dovrebbero leggerla.» The New York Times «Una lettura straordinaria.»
Heather Morris
Biografia di Heather Morris-È un’autrice di successo, nata in Nuova Zelanda e attualmente residente in Australia, a Brisbane. I suoi libri hanno venduto 12 milioni di copie e sono stati tradotti in 52 Paesi. Ha lavorato per anni come sceneggiatrice, prima di pubblicare il suo romanzo d’esordio, Il tatuatore di Auschwitz, che ha ottenuto uno straordinario successo mondiale, rimanendo per mesi in vetta alle classifiche internazionali dei libri più venduti, e che diventerà presto una serie TV. Anche Una ragazza ad Auschwitz, il suo secondo romanzo, e Le tre sorelle di Auschwitz sono già diventati bestseller.
Biografia di Heather Morris is a native of New Zealand, now resident in Australia. For several years, while working in a large public hospital in Melbourne, she studied and wrote screenplays, one of which was optioned by an Academy Award-winning screenwriter in the US. In 2003, Heather was introduced to an elderly gentleman who ‘might just have a story worth telling’. The day she met Lale Sokolov changed both their lives. Their friendship grew and Lale embarked on a journey of self-scrutiny, entrusting the innermost details of his life during the Holocaust to her. Heather originally wrote Lale’s story as a screenplay – which ranked high in international competitions – before reshaping it into her debut novel, The Tattooist of Auschwitz.
Castelnuovo di Farfa e La guerra dei confini con l’Abbazia di Farfa
Articolo di Franco Leggeri
Articolo di Franco Leggeri–Castelnuovo di Farfa e Abbazia di Farfa-Confine è una parola pericolosa, perché appartiene in primo luogo alla semantica della chiusura; ma come tutte le parole “sol che rifletta sulle loro vibrazioni e se ne interroghi la perenne ambiguità” sa dire altro : esprime anche il senso opposto dell’apertura: è linea che garantisce la nostra identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza di ciò che siamo, si può guardare oltre ; è la “provincia”, la quale , appena viva consapevolmente la sua identità, ma dal cui orizzonte , arricchiti dalla consapevolezza spinge lo sguardo oltre i suoi limiti. La premessa è per introdurre alla storia e a una guerra di secoli tra gli abitanti di Castelnuovo e l’Abbazia di Farfa. Si narra che più volte i castelnuovesi spostarono i confini, cippi di pietra, e li gettassero nei fossi. La “guerra dei confini” portò anche ad una scomunica da parte della Chiesa di Roma nei confronti dei castelnuovesi. In verità i castelnuovesi più e più volte malmenarono i frati dell’Abbazia e :“gli abitanti di essa, servi, garzoni, stallieri ecc. “ –“Alle parole seguirono i fatti, e le mani si levarono e colpirono a sangue i monaci che malconci si rifugiarono in chiesa, e qui furono curati dalle ferite riportate nello scontro con gli abitanti di Castelnuovo, quel Borgo di uomini duri e forti…” La questione dei confini fu , finalmente, risolta con il Regio decreto del 6 agosto 1937-XV. N.1695; “Rettifica di confine fra i comuni di Castelnuovo di Farfa e di Fara in Sabina, in provincia di Rieti”.
Abbazia di Farfa
. Con il Regio Decreto vennero, finalmente, riconosciute le ragioni degli abitanti di Castelnuovo di Farfa. La “QUESTIONE CONFINI” durava dal medioevo…risolta dopo quattro secoli. I castelnuovesi non sono mai stati servi e sottomessi alle prepotenze dei frati dell’Abbazia e qui inizia un altro capitolo relativo alla guerra del sale e “dazi & balzelli” che si dovevano pagare ai monaci dell’Abbazia. ……………………………………………………………………………………….
I confini tra Castelnuovo di Farfa e Poggio Nativo potrebbero essere stati rivisti nel 1946, (Nota a chiarimento dell’imprecisione non mi è stato consentita la consultazione dell’Archivio di Castelnuovo di Farfa), a seguito del distacco della frazione di Monte Santa Maria dal comune di Toffia , distacco richiesto sin dall’8 ottobre 1922 e mai concesso. Nel 1945 il 14 settembre la Democrazia Cristiana al fine di contrastare la Sinistra di Poggio Nativo ne sancì il distacco definitivo così come si legge nel verbale del consiglio comunale di Toffia che riporto integralmente:
” Che non ostante i proventi della sovrimposta di terreni e fabbricati della frazione a quelli degli altri tributi comunali, il bilancio da alcuni anni pareggia col contributo della Stato; Che in conseguenza senza i proventi di cui sopra il Comune di Toffia non potrebbe più reggersi, mentre il Comune di Poggio Nativo ne avrebbe immensi vantaggi finanziari, che verrebbero a migliorare ancor più la sua ben nota floridezza economica; Che si hanno buoni motivi di ritenere che la domanda dei frazionisti di Monte Santa Maria sia stata principalmente determinata dalla situazione politica creatasi nel Comune, in quanto nella frazione predomina il Partito Democratico Cristiano, mentre nel capoluogo predominano i partiti di sinistra;
per le ragioni di cui sopra
La Giunta
Ad eccezione del rappresentante della Frazione di Monte Santa Maria
Ad unanimità Delibera
Di esprimere parere contrario al distacco della Frazione stessa dal Comune di Toffia.
Letto confermato e sottoscritto:
il Sindaco Leo Mancini
la Giunta:Paolini Guido-Ferretti Alfonso-Capparoni Pietro.
Molto interessante è il sistema escogitato dai castelnuovesi, opera di ingegneria idraulica CONTADINA, al fine di sfuggire al monaco “PISCIONARIO” addetto alla riscossione del “dazio” sui “diritti di pesca” relativi al fiume FARFARIO ecc.
Dal libro di Franco Leggeri :Castelnuovo , la riva sinistra del Farfa.
Castelnuovo di Farfa-Disegno di Tatiana ConcasCastelnuovo di Farfa e i suoi particolariCASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACASTELNUOVO di Farfa e LA GUERRA DEI CONFINI CON L’ABBAZIA DI FARFACastelnuovo di Farfa (Rieti) –Abbazia di FARFAAbbazia di FARFAABBAZIA di FARFAABBAZIA di FARFAIL TESORO DELL’ABBAZIA DI FARFAABBAZIA di FARFA
La mia spada è la poesia. Versi di lotta e d’amore nell’opera della poetessa persiana Simin Behbahani
WriteUp Edizioni-Roma
Simin Behbahāni (in persiano سیمین بهبهانی; Teheran, 20 giugno1927 – Teheran, 19 agosto2014) è stata una poetessairaniana. La presente monografia costituisce la prima indagine sistematica in italiano sulla poetessa persiana Simin Behbahāni (Tehran 1927 – Tehran 2014), due volte candidata al Nobel, e include una vasta antologia con gli originali persiani in appendice. I componimenti debitamente commentati di Simin Behbahāni sono disposti nel volume in ordine tematico, in modo da offrire un affresco significativo della sua poesia, nel contesto degli eventi salienti e spesso drammatici della storia dell’Iran contemporaneo. Nei suoi versi, caratterizzati da un forte e ostinato impegno civile, si riflettono spesso le condizioni dei disagiati ed emarginati, poiché Simin dà voce a quelli che una voce non hanno, in particolare a donne cui, senza essere una femminista dichiarata, ella offre larghissimo spazio. Simin si dedica anche al “diverso”, all’escluso: il ladruncolo, l’infanticida, la prostituta, la zingara; a quest’ultima anzi, divenuta quasi il suo alter ego, la poetessa intitola la raccolta “Zingaresche”. Ma la sua figura poliedrica, che oscilla tra classicismo e innovazione, si esprime anche attraverso squisiti versi lirici che trasudano sentimento ed erotismo, senza mai del tutto abbandonare la cornice dell’impegno civile. In effetti persino nei suoi versi amorosi, l’io lirico erompe talvolta in grida di denuncia contro le disuguaglianze, sociali e di genere, contro la violenza di ogni potere individuale o politico:
Simin Behbahani
La mia spada
La mia spada alla parete appendere, no, non voglio
Al dolce sonno abbandonarmi se non nella tomba, io non voglio. La mia spada è questa stessa poesia più efficace di qualsiasi spada Con questa spada che dolcemente agisce sangue versare non voglio Tranne la verità non so dire: se dovessero tagliarmi la testa La testa porgerei in avanti evitare la morte no, non voglio. O uomo, io sono una donna, un essere umano se pervendetta sulla mia testa Non metterai una corona di spine mi basta: che tu vi sparga le rose, certo non voglio. Con sette colori di seta io tesso d’amore uno scialle
Ma sfibrare questi fili colorati io proprio non voglio Non voglio a ogni istante le fiamme alla nostra città appiccare. Ogni giorno una rivolta nel mondo io di sicuro non voglio O tu, misogino dalla sorte infausta basta guerra follia e ignoranza! Se tutto questo desideri tu vattene, io no, certo non lo voglio!
Simin Behbahani
Biografia
Azamā Arghun, una delle intellettuali più dotte della sua epoca, padroneggiava perfettamente la letteratura persiana, l’arabo, il francese e l’inglese. Aveva tradotto una biografia di Napoleone in persiano e fu attraverso un suo ghazal che conobbe Abbās Khalili, il direttore del quotidiano “Eqdām”, con il quale si sposò dopo un breve fidanzamento. Il matrimonio non durò a lungo, e Simin fu il frutto di questa breve unione. Lei stessa afferma di aver ereditato il suo talento letterario dalla madre e anche dal padre, autore di saggi e libri di storia, e uno dei primi in Iran a pubblicare romanzi in stile occidentale1 Abbās Khalili fondò inoltre il giornale “Eqdām” in epoca anteriore al regime dei Pahlavi e lo curò per altri vent’anni dopo il settembre 1941.
Simin Behbahani
Fakhr-e Azamā Arghun, sua madre, una donna all’avanguardia in un’epoca in cui leggere e scrivere era considerato quasi un peccato per le donne, ricevette un’alta formazione in diverse discipline, studiando letteratura, legge e diritto islamico, lingua araba, astronomia, filosofia, logica e geografia sotto la direzione di vari precettori e maestri che si occuparono anche dei suoi due fratelli. Cominciò presto a insegnare francese, e fu una delle prime a fondare, insieme ad altre donne intellettuali, l’associazione “delle donne patriottiche”. Per diversi anni Fakhr-e Azamā Arghun e le sue colleghe e amiche si spesero per fornire educazione e istruzione a tante iraniane meno fortunate di loro. Simin crebbe dunque in un ambiente stimolante e già a dodici anni cominciò a mettere insieme qualche verso; a quattordici il suo primo ghazal venne pubblicato dal giornale “Now Bahār”, curato dal celebre poeta e finissimo letterato Malek ol-Sho’arā Bahār (1885-1952). Questo suo primo ghazal, che lasciava già trasparire un chiaro interesse per i temi sociali, cominciava così: ای توده گرسنه و نالان چه می کنی؟ ای ملت فقیر و پریشان چه می کنی؟ Tu, popolo affamato e lamentoso cosa farai? Tu popolo povero e abbattuto cosa farai?
Simin lasciò gli studi a metà delle scuole medie, dopo uno scontro con il preside della scuola, che l’accusava di aver scritto in un giornale un anonimo rapporto sulle condizioni sgradevoli del collegio in cui studiava. La vicenda fu riportata anche da giornali controllati dal partito comunista “Tudeh”, cui Simin collaborò per un certo tempo fino a quando questo rapporto non si interruppe per motivi politici. Questo evento cambiò comunque il destino di Simin e l’orientamento della sua poesia, che da quel momento privilegiò il tema della battaglia contro l’ingiustizia. Due mesi dopo l’espulsione dalla scuola, in un periodo di confusione e incertezza sui propri obiettivi, Simin sposò Hassan Behbahāni a diciassette anni. Lei stessa descrive questo matrimonio come un “terreno glaciale” che aveva ridotto il suo corpo in cenere e le sue speranze in perpetue fredde illusioni.
Simin ebbe tre figli, ma non si sentì mai innamorata, e non trovò mai compatibile la sua visione della vita con quella del marito. Grazie tuttavia alla svolta del matrimonio, ella riuscì a ritrovare l’energia e la determinazione per finire le scuole superiori e, in seguito, venne ammessa alla facoltà di giurisprudenza. Il suo secondo matrimonio, con Manouchehr Koushiyār, durò quattordici anni. Simin così rievoca quegli anni: “Ho trascorso tutto quel periodo con amore e sacrificio per poter rendere felice un uomo che alla sua scomparsa mi lasciò in una solitudine eterna”. A Manouchehr Koushiyār è dedicato il libro “Quell’uomo, il mio compagno di strada”, in cui così ricorda gli anni trascorsi insieme: “Finimmo insieme gli studi di giurisprudenza. Io diventai insegnante di letteratura nelle scuole superiori e rimasi in quella professione, mentre lui intraprese l’attività di avvocato; eravamo felici in quei giorni trascorsi insieme, con l’amore che ci univa”.
Simin Behbahani
La poetica di Simin
Simin viaggiò e partecipò a diverse conferenze e programmi internazionali inerenti alla letteratura e alla questione femminile, ma non rimase mai per lungo tempo lontana dall’Iran. Più volte ha ribadito nel corso della sua vita di essere interessata a conoscere e approfondire le usanze, i costumi e i modi di vivere del suo amato paese. Il sentimento patriottico, accanto alla sensibilità per i temi sociali, è certamente una delle corde predilette del suo canto. Sia nella poesia che nelle interviste Simin rimane fedele a una dichiarazione che suona quasi come un manifesto poetico: “O mio paese, con il tuo passato, i tuoi poeti, i tuoi sovrani e le tue resistenze, e tutte le tue sofferenze, tutti i tuoi trionfi e tutti i tuoi inverni infiniti: io mi ricordo tutto di te”. E in un’altra occasione Simin afferma: “Qui c’è tutta la mia gioia, la poesia e la passione / qui c’è il mio trono, la mia bara e la mia tomba”. Simin comincia a comporre le sue poesie in forma di quartine, e poi prosegue con il ghazal, forma classica a cui apporterà alcune importanti innovazioni formali. I suoi ghazal costituiscono spesso una riflessione sulle condizioni sociali e le conseguenti ripercussioni nella sfera delle emozioni individuali. Le parole di Simin, in estrema sintesi, si potrebbero vedere come “reazione” poetica alle provocazioni del mondo esterno, della vita sociale, della storia dell’Iran contemporaneo.
Opere
Ecco di seguito un elenco delle sue opere principali (dove non diversamente specificato, il testo si compone interamente di poesie):
1951 Setar shekaste (Il Setar rotto) poesie e due racconti 1956 Jāy-e pā (L’impronta dei piedi) 1957 Chelcherāgh (Candelabro) 1963 Marmar (Marmo) 1973 Rastākhiz (Risurrezione) 1981 khatti ze sor’at va az ātash (La traiettoria della velocità e del fuoco) 1984 Dasht-e arjan (Pianura di Arzhan) 1989 Majmū’e-ye ash’ar (La raccolta delle poesie) 1991 Ān mard, marde hamraham (Quell’uomo, il mio compagno di strada, poesie e prose) 1992 Kāghazin jāme (Un abito di carta) 1995 Yek dariche Āzādi (Una finestra di libertà) 1995 Koli va nāme va eshgh (Zingara, lettera, amore) 1995 Āsheghtar az hamishe bekhan! (Canta, più innamorata di sempre!) 1995 Sha’eran-e emruz-e Faranse (I poeti contemporanei francesi) 1996 Bā ghalb-e khod che kharidam? (Cosa ho acquistato con il mio cuore?) 2000 Yad-e ba’zi nafarāt (Il ricordo di alcune persone) 2001 Kelid va khanjar: Ghesseha va ghosseha (La chiave ed il pugnale: le favole e le tristezze) 2001 Yeki masalan in ke (Uno per esempio che…) 2003 Majmū’e-ye ash’ar (Raccolta di poesie)
Simin Behbahani
Traduzioni e studi in italiano
Nahid Norozi, “La mia spada è la poesia”. Versi di lotta e d’amore nella poetessa persiana Simin Behbahāni (con ampia antologia di poesie tradotte e commentate, e con gli originali in appendice), WriteUp Books (“Ferdows. Collana di Studi iranici e islamici”), Roma 2023.
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“Il poeta comincia dove finisce l’uomo”, così sentenziava il filosofo spagnolo José Ortega Y Gasset. Santa Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, nella sua profonda esperienza mistica, si è servita anche della poesia, oltreppassando così con i suoi componimenti quel guado che divide l’uomo dall’infinito.
Eppure troppe volte sono stati dimenticati i suoi versi in cui è possibile trovare un vero e proprio scrigno di bellezza e di spiritualità. Al loro interno, infatti, è possibile persino scovare quella che sarà poi conosciuta comunemente la “trasverberazione del cuore”, una delle grazie mistiche di cui santa Teresa spiegherà nella sua Vita, l’autobiografia della santa: il dardo, la “freccia” dell’Amore di Dio colpisce il suo cuore, lo tramuta e lo sublima facendolo avvicinare al Cuore di Dio in nozze mistiche. Nozze che, in molte occasioni, sembrano essere celebrate dalla santa nei suoi componimenti poetici: santa Teresa ascende a Dio così come discende nelle profondità della poesia.
Sfogliando queste pagine poetiche, è possibile dividere la produzione in versi in tre determinati gruppi: prima di tutto troviamo le poesie mistiche nelle quali si respira tutta la spiritualità della santa; il secondo gruppo comprende le poesie che hanno come oggetto le feste liturgiche come il Natale, l’Epifania o l’Esaltazione della Croce; e, infine, il terzo gruppo, scritte – come lei stessa le definisce – con “stile di fratellanza e di ricreazione”: sono versi che celebrano avvenimenti interni alla comunità religiosa per allietare le consorelle della comunità monastica.
Tre diverse situazioni poetiche, ma con un elemento in comune ben preciso: la Bellezza. Santa Teresa è stata sempre affascinata – fin dalla fanciullezza – dalla bellezza artistica, nelle sue diverse espressioni, ma specialmente era attratta dall’arte pittorica e scultorea. Più volte, nel libro della sua Vita, si sofferma sul piacere che prova per l’armonia scaturita dalla musica del fruscio della campagna che la circonda. Più volte si sofferma sulle note di una canzone che ha ascoltato. E’ proprio questo, infondo, l’humus dell’anima da cui nasceranno i suoi versi, frammenti poi di una Bellezza ancora più vasta, quella del Signore. Un riassunto della sua visione poetica è possibile trovarlo in questi suoi versi che delineano, tratteggiano con efficacia il suo animo poetico dedicato a Dio: “Bellezza che trascendi/ ogni bellezza!/ Senza ferire, fate soffrire;/ senza dolore, voi fate morire”. Passare in rassegna tutte le poesie che ha composto santa Teresa sarebbe impresa alquanto ardua visto la molteplicità di temi affrontati. Cercheremo, allora, di fare una breve selezione.
Vivo sin vivir en mi (Vivo ma non vivo in me) è questo il nome di una delle poesie-canzoni più importanti della sua produzione. I versi racchiudono ossimori e altre figure retoriche assai care ai poeti, di ogni epoca: “Vivo ma non vivo in me/e attendo una tal vita/ da morirne se non muoio”.
E ancora “Questa divina prigione/ dell’amore in cui vivo,/ ha reso Dio, mio prigioniero/ e libero il mio cuore;/ e causa in me tanta passione/ da morirne se non muoio”. Del tutto particolare, rimane la seconda tipologia di produzione, quella legata alle feste liturgiche. Il loro maggior merito è quello di aver introdotto nei monasteri carmelitani il ricorso alla poesia come componente festiva della vita religiosa. Un tema fondamentale – e non poteva essere altrimenti – per l’ordine carmelitano è quello della Croce che santa Teresa canta in diversi componimenti da condividere con le proprie consorelle. E’ il caso di En la Cruz está la vida (Nella Croce risiede la vita), composta per le religiose del monastero di Soria, in occasione della festa dell’Esaltazione della Santa Croce: “Le religiose la cantano durante la processione che fanno in detto giorno per i corridoi del monastero, recandosi al luogo della sepoltura comune, sotto il coro inferiore. E’ una funzione commovente: si procede a croce alzata, e le religiose tengono in mano rami di palma e di olivo”, così si legge in un antico manoscritto.
I versi che santa Teresa compone per quest’occasione sono versi dal ritmo serrato, scandito da sillabe che vengono cadenzate in rima. Bisogna ricordare che questi componimenti vivevano poi dell’improvvisazione delle consorelle. Si può, dunque, solo immaginare l’effetto vero e proprio che potevano avere. Altra occasione, il Santo Natale: nei monasteri carmelitani si respirava un’aria di particolare gioia durante le feste natalizie; ogni comunità aveva le sue modalità di festeggiare e molte di queste sono state introdotte dalla stessa Santa Teresa e dall’altro poeta carmelitano, San Giovanni della Croce. E’ possibile trovare il tema della notte santa nelle seguenti poesie: Pastores que veláis (Pastori che vegliate), nel componimento Al nascimento de Jesús (Per la nascità di Gesù), e ancora nella graziosa canzone En la noche de Navidad (Nella notte di Natale).
L’entrata di una nuova sorella nel Carmelo era poi celebrata come una grande festa. Ed è così che nascono per queste occasioni speciali alcuni poemetti che riescono a offrirci una sorta di fotografia della vita nei monasteri del Carmelo: “Il leggiadro vostro velo/ dice a voi di stare in veglia/ di montar la sentinella, fino a che lo Sposo venga./ Nella vostra mano accesa/ sempre abbiate una candela;/ sotto il velo state in veglia”.
Articolo di Antonio Tarallo
Santa Teresa, una voce poetica votata al Signore; un forziere di ricordi e immagini che andrebbe riscoperto perché la mistica passa anche per la poesia.
Poesia spagnola : SANTA TERESA D’AVILA
. TERESA D’AVILA: POESIE
Vivo ma non vivo in me,
e attendo una tal alta vita,
che muoio perchè non muoio.
(Vivo sin vivir in mi,
y tan alta vida espero
que muero porque non muero.)
Vivo già fuori di me,
giacchè muoio d’amore,
perchè vivo nel Signore,
che mi volle tutta a sè.
Quando il cuore gli donai
vi scrissi questa frase:
che muoio perchè non muoio.
(Vivo ya fuera de mi,
despuès que muero de amor,
porquè vivo en el Senòr,
que me quiso para sì.
Cuando el corazon le dì
puso en el este letrero,
que muero porquè no muero.)
Questa prigione divina
dell’amore in cui io vivo,
ha reso Dio mia preda,
e libero il mio cuore,
mi fa nascere tal passione
veder Dio mio prigioniero,
che muoio perchè non muoio.
(Esta divina prisòn,
de amor en què yo vivo,
ha hecho a Diòs mi cautivo,
y libre mi corazòn;
y causa en mì tal pasiòn
ver a Diòs mi prisonero,
que muero poquè no muero
Guarda come l’amore è forte;
guarda che sol mi resta
di perderti per guadagnarti.
Venga subito la dolce morte,
venga leggero il morir,
che muoio perchè non muoio.
(Mira que el amor es fuerte;
vida,no me seas molesta,
mira que solo me resta,
para ganarte perderte.
Venga ya la dulce muerte,
el morir venga ligero
que muero porquè no muero.)
Ebbene, questa è una traduzione attuale, ma molto affine allo scritto di Teresa, che ritengo più moderno di quanto non sia la versione “ufficiale” tratta dalle Opere della Santa Madre. Sono spiacente di dover dire; coloro che hanno tradotto questo incanto di poesia, in un linguaggio poetico, ma antico, hanno modificato, per seguire lo stile del tempo, anche ciò che Teresa voleva significare.
Riporto una porzione di testo che appare sulle Opere:
Più in me non vivo e giubilo (Teresa non l’ha detto, che giubila) vivo nel mio Signore
Per se mi volle, e struggomi or per intenso ardore
Gli detti il cuor, e in margine
Scrissi con segni d’oro (non dice neppure questo) Moro perché non moro ( che è una forma in disuso, meglio tradurre in muoio)
E non proseguo, poiché questa traduzione non corrisponde del tutto a quanto Teresa scrisse.
Molte poesie composte da Santi autori, ma anche in genere da tutti i poeti stranieri, in lingua madre, sono state tradotte, per rispettare le rime, la metrica, ecc. in modo tanto astruso, da modificare radicalmente il senso che l’autore voleva dare alla sua opera. Se quindi ho scritto, nel mio precedente articolo su Santa Teresina, che sarebbe bene possedere le opere dei nostri santi carmelitani, ora aggiungo che varrebbe la pena acquistarle in lingua originale, oppure tradotte in modo più aderente al pensiero dell’autore e in un linguaggio adeguato al nostro tempo.
I testi delle opere di Santa Teresa di Gesù sono ancora attualissimi, moderna donna del ‘500 e moderna Santa anche ora, nel terzo millennio! Vi invito a leggerli, o meglio ancora a leggerli con chi ne sa più di noi e possa così approfondirne il pensiero. Io ne sono rimasta affascinata, Teresa si è dimostrata una donna di grande carattere, e nella sua “determinada determinacion” ha raggiunto tutte le mete stabilite, sia quelle della terra (fondazioni) che quelle del Cielo!! (un’unione dell’anima, totale e perfetta, con il Signore).
Nel 2015 ci sarà grande festa in suo onore, per i 500 anni dalla nascita che è avvenuta il 28 marzo 1515.
Pubblicato da Danila Oppio
Felicità di chi ama
Libero e lieto è il cuore innamorato
Che tutto e solo si concentra in Dio.
Per Lui rinuncia ad ogni ben creato,
per Lui si lascia in disdegnoso oblio.
Il suo pensiero è tutto in Lui sacrato,
ed Ei l’appaga in ogni suo desio.
Così, fra mezzo a questo mar sconvolto,
passa sereno nella pace avvolto.
Innanzi alla bellezza di Dio
Bellezza incomparabile
Ch’ogni bellezza anneri,
innanzi a Te che l’anima
senza ferir feri,
ogni terreno amore
non con rimpianto muore.
Nodo che insiem sì varie
Cose congiungi e tieni,
deh! Non ti scior! Se l’anima
stretta al suo Dio trattieni,
in gioie senza uguali
mutansi tosto i mali.
Quei che non è, all’Essere
Che non ha fine unisci;
m’ami senza mio merito;
senza finir finisci.
Innanzi a Te, o Possente,
fai grande il mio niente.
Lamenti dell’esilio
Cammino interminabile,
lungo e crudele esilio,
terra in cui debbo vivere,
soggiorno di perielio!
Signore amabilissimo,
concedimi d’uscire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Da Te lontana, l’anima
struggesi in duolo e in pianto:
la vita è triste e lugubre,
priva d’alcun incanto.
Ohimè! Infelice e misera,
costretta qui a soffrire!…
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Morte, benigna ascoltami,
soccorri a tante pene,
vibra i tuoi colpi amabili,
spezza le mie catene!
Che gioia, o Dilettissimo,
lassù con Te venire!…
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
L’amor terreno avvinghia
a questa triste vita,
ma l’alto amor etereo
verso quell’altra incita.
No, non si può più reggere:
altrove è il mio desire.
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Questo terreno vivere
è un’iterata guerra:
la vera vita vivesi
oltre la grama terra.
Schiudi, Signor, l’empireo,
fammi con Te venire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Chi potrà mai dolersene
Se questo fral perisce,
quando in tal modo acquistasi
il Ben che mai svanisce?
Amarti, amarti, o Amabile,
amarti e mai finire.
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
L’anima afflitta spasima
senza trovar ristoro.
Ma chi potrìa non piangere
lungi dal suo Tesoro?
Vieni, Signore, ascoltami,
non farmi più soffrire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Se con sottile astuzia
togliesi al suo elemento
il pesce muore e termina
ogni altro suo tormento.
Io qui invece struggimi
lungi da te a patire…
Ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Invano, o Dio, ti supplico,
invan ti cerco e bramo:
ognora a me invisibile,
non senti che ti chiamo:
onde infiammata spasimo
mai stanca di ridire
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Quando nei candid’Azzimi
scendi nel petto mio,
tosto il pensiero angustiami
che poi n’andrai, mio Dio.
E allor diffusa in lacrime
Altro non so che dire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Cessi, Gesù dolcissimo,
quest’aspra pena mia!
Appaghisi quest’anima
che Te, Signor, desia!
Fugate alfin le tenebre,
possa pur io gioire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Ma no, Signor! Innumeri
sono i miei falli rii:
è giusto che qui spasimi
che qualche cosa espii.
Alfin, però, i miei gemiti
Degnati d’esaudire,
ché ansiosa in Te d’immergermi,
desidero morire.
Teresa d’Avila
(carmelitana scalza)
Canto a Gesù crocifisso
Se elevo a te, mio Dio, il mio grido d’amore,
non è affatto per il cielo che ci hai promesso;
e non è neppure l’inferno, con i suoi territori,
che mi fa allontanare dal tradirti.
Ma io ti amo, mio Dio, vedendoti così,
inchiodato su questa croce imporporata dal tuo sangue.
Sono le tue piaghe che amo, ed è la tua morte,
quel che amo è il tuo amore.
Al di là dei tuoi doni e delle tue speranze,
quand’anche non vi fossero né cielo, né inferno,
io lo so, mio Dio, che t’amerei ancora.
Amarti è mia felicità tanto quanto mio dovere.
Non mi accordare nulla, dunque, anche se t’imploro:
l’amore che ho per te non ha bisogno di speranza.
( Teresa d’Avila Carmelitana scalza)
anno 4 – N° 18
13 Dicembre 2019
Santa Teresa d’Avila (Teresa de Cepeda y Ahumada) nacque a Gotarrendura, Avila, il 28 marzo del 1515. Nel 1534 entrò nell’ordine del Carmelo. Fondò diversi conventi che chiamo “colombaie della Vergine”, con l’aiuto del monaco carmelitano Juan de Yepes Álvarez, più conosciuto come San Giovanni della Croce, uno dei più grandi poeti di lingua spagnola. Insieme fondarono l’Ordine dei Carmelitani scalzi. Santa Teresa morì ad Alba de Torres il 4 ottobre 1582. Fu canonizzata nel 1622 e proclamata Dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970.
Santa Teresa compose molte poesie ed ebbe la fama di essere una brava “tracciatrice di versi”. Li scriveva per rendere meno monotona, con una spruzzata di sorrisi, la vita dei suoi conventi e la stanchezza dei suoi continui viaggi di fondatrice. È comunque difficile individuare le vere poesie della Santa. C’erano tra le sue consorelle altrettante buone “tracciatrici di versi” come, per esempio, María de San José. Quelle sicuramente sue superano di poco la trentina. Ne abbiamo appena pubblicate 15 con la versione in italiano a opera dell’infaticabile Emilio Coco.
MUERO PORQUE NO MUERO
Vivo sin vivir en mí
y de tal manera espero,
que muero porque no muero.
Vivo ya fuera de mí,
después que muero de amor,
porque vivo en el Señor,
que me quiso para sí:
cuando el corazón le di
puso en mí este letrero:
Que muero porque no muero.
Esta divina prisión,
del amor con que yo vivo,
ha hecho a Dios mi cautivo
y libre mi corazón;
y causa en mí tal pasión
ver a mi Dios prisionero,
que muero porque no muero.
¡Ay, qué larga es esta vida!
¡Qué duros estos destierros!
Esta cárcel y estos hierros
en que el alma está metida!
Sólo esperar la salida
me causa un dolor tan fiero,
que muero porque no muero.
¡Ay, qué vida tan amarga
do no se goza el Señor!
Porque si es dulce el amor,
no lo es la esperanza larga:
quíteme Dios esta carga,
más pesada que el acero,
que muero porque no muero.
Sólo con la confianza
vivo de que he de morir,
porque muriendo el vivir
me asegura mi esperanza;
muerte do el vivir se alcanza,
no te tardes, que te espero,
que muero porque no muero.
Mira que el amor es fuerte;
vida, no me seas molesta,
mira que sólo me resta
para ganarte o perderte.
Venga ya la dulce muerte,
el morir venga ligero
que muero porque no muero.
Aquella vida de arriba,
que es la vida verdadera,
hasta que esta vida muera,
no se goza estando viva:
muerte, no me seas esquiva;
viva muriendo primero,
que muero porque no muero.
Vida, ¿qué puedo yo darte
a mi Dios, que vive en mí,
si no es el perderte a ti
para merecer ganarte?
Quiero muriendo alcanzarte,
pues tanto a mi Amado quiero,
que muero porque no muero.
MUOIO PERCHÉ NON MUOIO
Vivo ma in me non vivo
e fino a tal punto spero
che muoio perché non muoio.
Vivo ormai fuori di me
dopo esser morta d’amore,
perché vivo nel Signore,
che mi ha voluta per sé:
quando gli ho dato il mio cuore
vi ha scritto queste parole: Che muoio perché non muoio.
Questa divina prigione,
dell’amore con cui io vivo,
Dio ha reso mio prigioniero
e ha liberato il mio cuore;
e mi dà tanta passione
veder Dio mio prigioniero che muoio perché non muoio.
Com’è lunga questa vita!
Com’è duro quest’esilio!
Il carcere e questi ceppi
in cui l’anima si trova!
Solo aspettarne l’uscita
mi causa un tale dolore, che muoio perché non muoio.
Ah, che vita così amara
se non si gode il Signore!
Perché se è dolce l’amore,
non lo è la lunga speranza;
toglimi Dio questo peso,
più pesante dell’acciaio, che muoio perché non muoio.
Vivo con la sicurezza
che un giorno dovrò morire,
perché il vivere, morendo,
mi assicura la speranza;
morte in cui vita s’ottiene,
non tardare, che ti aspetto, che muoio perché non muoio.
Guarda che l’amore è forte;
vita, non mi molestare,
guarda che solo mi resta
perderti per guadagnarti.
Venga ormai la dolce morte,
venga il morir senza indugio che muoio perché non muoio.
Quella vita di lassù
che è la sola vera vita,
fino a che questa non muore,
non si gode essendo viva:
morte, non essermi schiva;
che io viva morendo prima, che muoio perché non muoio.
Vita, che altro posso dare
al mio Dio che vive in me,
se non il perdere te
per poterti guadagnare?
Voglio morendo raggiungerti,
ché bramo tanto il mio Amato, che muoio perché non muoio.
«Per una benvenuta dismisura». Estasi, voce e follia nella poesia di Claudia Ruggeri
di Germana Dragonieri
Hölderlin: “siamo un segno senza significato”: / ma dove le due serie entrano in contatto? / Ma è vero? E che sarà di noi? / E tu perché, perché tu? / E perché e che fanno i grandi oggetti / e tutte le cose-cause / e il radiante e il radioso?
Andrea Zanzotto, La beltà
Life’s […] a tale / told by an idiot, full of sound and fury / signifying nothing
William Shakespeare, Machbeth
Pallaksch. Pallaksch
Paul Celan, Tubinga, gennaio
Una comune radice indoeuropea (*bhl) tiene insieme le parole flatus (“fiato”, “soffio”, “respiro”, poi “suono”) e follis intorno all’idea di un fluire sonoro, ritmico, vocale (flumen, fluere, fluxus, flectere, flexio) ingovernabile: «il follis», ci informa Corrado Bologna, è infatti «il “mantice”, il sacco vuoto e quindi ripieno di aria sonora; da cui, per estensione metaforica, il “folle”, dal “movimento incontrollato”, l’uomo sacco, “ripieno di vuoto”» (Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna, 2000, p. XXII). Il folle è quindi l’uomo-vuoto che però risuona, che emette il flatum, la phoné, la voce: vale a dire il significante puro e libero che precede qualsiasi opposizione di distinti, qualsiasi significato. Il poeta è, in questo senso, un follis: qualcuno che non parla ma è parlato dalla propria voce; qualcuno la cui parola – lungi dal pretendere di affermare o distinguere, di «separare il no dal sì», per citare Celan (in Parla anche tu) – piuttosto siflette, oscillando indifferentemente tra il sì e il no, seguendo il flusso vitalissimo del significante: Pallaksch. Pallaksch[1].
Claudia Ruggeri
Non è dunque un caso che una poeta della voce qual è stata Claudia Ruggeri (Napoli 1967 – Lecce 1996) apra la propria plaquette-poemetto inferno minore (1988-1990) con un ciclo di componimenti intitolato Il Matto (prosette). Tratto distintivo della sua scrittura – insieme a quell’ipercitazionismo che aveva suscitato nel dedicatario Fortini l’impressione, alquanto miope, di una poesia «ingioiellata», eccessiva e immatura – è proprio il predominio da lei accordato al suono-significante sul senso-significato, del quale restituiscono una traccia sensibile anche le registrazioni delle sue memorabili letture in pubblico. «Il mio fine», scrive la poeta in una prosa significativamente intitolata Elogio della follia, «non è quello di partecipare al lettore la genesi passionale dei miei versi, quanto l’indurlo ad ascoltare un istante di sé. […] Non è da cercare di comprendere il senso che io ho descritto con la parola, quanto il risalire ad un senso personale ed appassionato graziato dal solo ritmo».
Il senso graziato, salvato dal ritmo: così l’autrice delega alla tessitura fonico-linguistica dei propri componimenti – straripanti di figure di suono quali assonanze, allitterazioni, poliptoti, rime al mezzo, anadiplosi, omeoteleuti e spesso composti proprio in vista di un’esecuzione orale – il compito di creare una consequenzialità non più rinvenibile, perché programmaticamente occultata e stravolta, sul piano della punteggiatura, della sintassi e delle funzioni del discorso. Ne risulta una sorta di «scrittura ad alta voce» (Roland Barthes, Il piacere del testo, Einaudi, Torino, 1974, p. 65): un dettato poetico privo di nessi logici, imperscrutabile e oscuro sul piano del significato, che chiede di essere ascoltato prima che decifrato, e che domanda al pubblico quell’atto di «compartecipazione» e «co-autorialità» che sempre si produce all’interno di una comunità d’ascolto, di fronte a una performance (Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna, 1984, p. 290).
«ormai la carta si fa tutta parlare, / ora che è senza meta e pare un caso…», recita l’incipit di il Matto II. «Parlare», «senza meta», «caso»: tre parole-chiave nella poetica ruggeriana, tutte contenute in quella radice *bhl, nello spazio semantico che intercorre tra il flatus e il follis. La poesia è infatti per l’autrice soprattutto un «suono mago» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]), un flatus follis: magico e mai padroneggiabile dettato, attività involontaria, impersonale e «senza meta» come la vita poetica del pazzo che, scrive Agamben a proposito di Hölderlin, è tale in quanto «vive secondo un dettato, in un modo che non è possibile decidere né padroneggiare» (La follia di Hölderlin, Quodlibet, Macerata, p. 223). «Soffriva di una mancanza di consequenzialità nel pensiero…», riferisce Thedor Vischer a proposito di un incontro col poeta tedesco (ivi, p. 130).
Sull’onda di una simile mancanza di consequenzialità e seguendo più il principio di casualità che quello di causalità, anche la poesia di Ruggeri non dice, bensì vive secondo un dettato: in essa la φωνή (“parola che non afferma e non nega, ma accenna”), la voce, il ritmo e il caos prevalgono sul λόγος (“parola che afferma” o “che nega”) il discorso, la sintassi, l’ordine. Come per Celan «Un fragore: è / la Verità in persona / entrata / fra gli uomini, / nel mezzo del / turbine delle metafore» (in Svolta del respiro), così anche per la poeta salentina il fragore e il suono prevalgono sulla metafora e sul senso quali portatori di una verità in persona, corporea e insindacabile, che non afferma ma piuttosto accenna, balbetta, canta.
Di questo predominio della voce sul senso è emblematico il gusto, mutuato in parte dalla poetica di André Breton e dei surrealisti spagnoli tradotti dal conterraneo Vittorio Bodini, per l’ecolalìa e per il suo corrispettivo retorico, l’anadiplosi: ovvero per la ripetizione di una o più parole della frase e/o del verso, tesa a simulare il «richiamo disanimale» del Matto, il linguaggio follis dei malati mentali: «non son non son castelli ma qui ma qui ti specchia»; «e il biancore il biancore che spossa» (in il Matto IV). Come il mantra della mistica buddhista o la “preghiera del cuore” del misticismo ortodosso – che prevedono la ripetizione incessante di una stessa formula secondo il ritmo del respiro, allo scopo di meglio «discendere dentro il proprio cuore» (Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano, 1973, p. 16) –, anche le poesie-preghiere-lalìe ruggeriane agiscono più sul piano del corpo e del respiro che su quello della comunicazione funzionale, mostrando peraltro lo stretto legame tra oralità e orazione: «nel mio cervello elettrico / solo un circuito ancora regge il carico / quello della preghiera» (in Al padrone).
Pure l’eccesso di significati di cui la fitta rete intertestuale di riferimenti e citazioni carica la sua poesia, lungi dall’essere solamente il sintomo di un patologico horror vacui, risponde invece alla necessità profonda di neutralizzare i significati stessi, per farne nenia pre-/in-significante, melodia a servizio di un estatico “sapere senza conoscenza”. Come avviene nell’arte barocca – della quale l’autrice aveva peraltro un esempio vivo nella sua città (Lecce) e un eccellente interprete e studioso in Bodini –, anche nella sua poesia l’eccesso e l’iper-saturazione della pagina mirano a lanciare chi la scrive verso lo smisurato, l’infinito; se si vuole, verso un Dio che non è che «la parola che, in ogni civiltà, ha avuto la funzione di indicare esattamente questa dismisura» del sentire e del sapere umani (Jean-Luc Nancy, Federico Ferrari, Estasi, Luca Sossella Editore, Bologna, 2022, p. 14).
Proprio come le guglie barocche, i versi di Claudia sono una cosa stretta e altissima che trascina estaticamente verso l’alto: «e le sbronze testuali dove il verso inscenò / cose strette e altissime» (in [Napoli l’ebbi strana ed il porto]); «T’avrei lavato i piedi / oppure mi sarei fatta altissima / come i soffitti scavalcati di cieli» (in Lamento della sposa barocca). Verso l’alto – o verso il basso, indifferentemente: l’opera ruggeriana – rimasta inedita durante la vita dell’autrice e pubblicata integralmente solo nel 2020 con la curatela di Annalucia Cudazzo (Musicaos, Lecce) – racconta infatti da un lato di una catàbasi nel caos del proprio inferno minore (la depressione, la debilitazione fisica e mentale), dall’altro del tentativo di un’ascesa spirituale, che si intensifica a partire dalla seconda e ultima raccolta, )e pagine del travaso. qui per riudire la pazzesca evenienza del dattilo, la cui stesura coincide non a caso con gli ultimi e durissimi anni della sua vita (1990-1996). Un doppio e simultaneo movimento, insomma, verso quella che lei stessa chiama «una benvenuta dismisura» (in lettera al Matto sul senso dei nostri incontri).
Per capire (sentire) questa poesia vertiginosa e barocca, bisogna allora fare proprio l’insegnamento di Wittgenstein e «gettar via la scala dopo averla usata»: rinunciare al senso logico di ciascuna frase, dopo essere ascesi o discesi «per essa – su di essa – oltre essa» (Tractatus logico-philosophicus, 6.54). Il trobar clus, dotto e pluristilistico di Ruggeri – il cui registro poetico spazia agilmente dall’aulico al volgare, dal colloquiale all’arcaico, dalle lingue straniere al dialetto locale – è teso infatti non tanto a centrare un significato, quanto a moltiplicarlo fino a rimuoverlo, al fine di conservare l’equivocità del senso propria della lingua poetica: «mi tengo in limine. mi conservo l’equivoco / degli stili incrociati», si legge in [che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo]. Tenendosi in limine, ovvero non introducendo nella in-flessione della voce la pietra dura del significato, la poesia sprigiona infatti quell’«eccesso semiotico» che rende possibile «l’interminabilità del processo di attribuzione di senso» che la caratterizza come genere (Franco Bifo Berardi, Respirare. Caos e poesia, Luca Sossella Editore, Bologna, 2019 p. 21).
Era proprio alla Dismisura, al Vuoto, a Dio o un dio che Ruggeri parlava – e a quella figura-tarocco del Matto che è di tutto questo una sorta di simbolo totemico: «ò spensierato ò grande», si legge ancora in il Matto II. La sua scrittura è una lode allo spensierato, ovvero al senza-pensiero, all’insensato, al folle, il cui linguaggio non può che prendere forma di preghiera, canto o poesia: di una lingua, insomma, balbettante, innocua, anti-economica e smisurata. È infatti, a mio avviso, anche e soprattutto della lingua, della voce e della poesia il «folle volo» cui la poeta si riferisce – citando Dante – in uno dei suoi ultimi componimenti, e che presagisce il (non più metaforico) salto nel vuoto con cui si ucciderà, gettandosi dal balcone della casa dove viveva con la madre, a Lecce, il 27 ottobre 1996, a soli 29 anni: «e volli / il ‘folle volo’ cieca sicura tuta / volli la fine dell’era delle streghe volli // il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il libro» (in [ma la fiamma della forma ha incendiato]).
Sono versi testamentari, ultimi, che depongono per sempre la volontà di dire e quindi di essere: «mi tolgo / dal dettaglio di questi ultimi versi» (in …[(i tuoi occhi come colombe su ruscelli d’acqua]). L’omonimìa tra il corpo e il testo, tipico delle scritture performative e orali come la sua, si spinge nel caso di Claudia fino all’estremo più tragico: «E, vedi, il nostro corpo / il nostro corpo soltanto può dire: bianco, tellina, lontano / vento», recitano i versi altrettanto ultimi, scritti cioè a ridosso della morte, di un altro poeta che ci ha lasciati troppo presto, e altrettanto colpevolmente dimenticato dalla critica ufficiale (Antonio Santori, La linea alba, Marsilio, Venezia, 2007 p. 98). Finita l’era delle streghe, finito cioè l’incanto estatico dello scrivere-dire poetico, anche quel corpo che soltanto può dire si appresta a finire e si spegne, tirato giù – nel caso di Claudia – dal peso intollerabile delle malattie, della morte del padre e di alcuni amici (tra cui il poeta Dario Bellezza, portato via dall’AIDS nello stesso anno); soprattutto, dal peso dell’incomprensione e dell’isolamento intellettuali e umani che l’avevano spinta a definirsi una rosa-fungo che «non si addice ai prati».
Tirata giù, infine, da «un’immensa nostalgia» di altrove: come scrive in uno dei suoi ultimi appunti, l’autrice a ridosso della morte sa ormai di essere finita «in basso tra quelli che non sono più leggeri, ed hanno completamente abolito nei loro sogni la funzione del volo: quando si trovano nel vuoto non ricordano più che si vola e sono portati giù dalla loro immensa nostalgia» (in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. XXXIII).
“…
“mi tengo in limine, mi conservo l’equivoco
degli stili incrociati ché nel pieno rumore
dell’infrenabile selva, altro splendore, sai,
altre memorie, altro si lega si strega si ride;
prima della parola ò autore prima
della parola che ti erra e che ti erra
e che ti sbenda, prima che smazzata che ti mette
nella legge e tutto inizia
a muoversi non esprimendo non misurando delimitando a rito;
quale sicura sicura andatura,
quale percorso per entro inchiostri spinti
contraffarà l’ingorgo and so stay there my art
e questo libro senza controllo e questa ottava
inappagata questa mandragora murata, e nondimeno tu
dormi incastrata, qui, nella terra nulla dove la rosa
è un fungo e non si addice ai prati
[che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo], vv. 20-35, da ) e pagine del travaso, in Claudia Ruggeri, Poesie, a cura di Annalucia Cudazzo, Musicaos, Lecce, 2020, p. 47.
[1]Pallaksch è una parola senza senso cui, stando alla testimonianza del suo primo biografo ed editore, Cristoph Theodor Schwab, Hölderlin attribuiva talora il significato di “sì”, talaltra di “no”.
-Spazi della Preghiera Spazi della Bellezza : Il Complesso Abbaziale di Santa Maria di Farfa
autrice Isabella Del
Descrizione:Un viaggio attraverso i secoli alla scoperta della meraviglia dell’Abbazia di Farfa, uno scrigno d’arte e di fede immerso in un affascinante ambiente naturale della Sabina che ha subito a partire dal VI secolo periodi di invasioni, devastazioni e, distruzioni ma che ha sempre avuto la forza e la capacità di rinascere. Il volume, grazie anche ad un ricco e suggestivo apparato iconografico documenta e racconta la storia della presenza monastica che ha saputo realizzare i tesori d’arte che ancora oggi si possono ammirare visitando il complesso Abbaziale di Santa Maria di Farfa e sfogliando le pagine della pubblicazione. Spazi della preghiera, spazi della bellezza. Il concetto di spazio richiama subito un luogo fisico, un’architettura destinata a funzioni di vita: gli spazi dell’abbazia di Farfa furono e tuttora sono i luoghi della vita dei monaci, luoghi in cui la regola benedettina scandisce le ore destinate alla preghiera e al lavoro. Ma sono anche i luoghi in cui risuona la bellezza dell’arte che a piene mani nel corso dei secoli ha arricchito la chiesa e il convento. Il volume fornisce una visione organica e aggiornata del ricco patrimonio storico, religioso e artistico di questo prezioso complesso monastico che, con i monasteri di Subiaco e Montecassino, costituisce la più valida testimonianza della presenza benedettina nel Lazio. I diversi capitoli nei quali è ripartita la monografia presentano i risultati di approfondimenti e riflessioni su argomenti a lungo dibattuti intorno alle problematiche architettoniche e artistiche poste dalle lunghe e complesse vicende storiche e costruttive del complesso abbaziale, ma propongono anche novità attributive e mettono in risalto aspetti fino ad ora poco indagati. La varietà e complessità dei saggi di questo volume riflette dunque la ricchezza di riferimenti culturali che caratterizza il patrimonio artistico del complesso abbaziale di Farfa. Non sono mancate in passato indagini approfondite su singoli temi di particolare complessità: gli scavi e i restauri che hanno interessato l’abbazia nell’ultimo sessantennio riportando alla luce frammenti murali, musivi, pittorici di epoca alto medievale, hanno suscitato vivaci dibattiti fra gli studiosi, che si riverberano nei saggi di questo volume dedicati alle testimonianze architettoniche e decorative dell’abbazia in epoca medievale. Da sottolineare, infine, il testo introduttivo di carattere storico che illustra le realtà sociali, economiche, culturali, che resero l’Abbazia benedettina di Farfa un punto di riferimento religioso ma anche una potenza economica capace di aggregare la popolazione rurale e di avviare una solida attività economica e commerciale.
Abbazia di Farfa
Anno Edizione:
2016
Casa Editrice:
Palombi Editori – Roma
Argomento:
Beni culturali, restauro e tutela del patrimonio culturale
DESCRIZIONE-Pablo PICASSO Nel 1935, quando ha già 54 anni e attraversa un periodo di crisi nella professione e nella vita privata, Picasso comincia a scrivere poesie, una passione alla quale si dedicherà, con alcune interruzioni, fino al 1959 facendone il territorio di una geniale sperimentazione. Guidato da un istinto innato, maneggia la lingua con la stessa libertà inventiva con cui utilizza gli altri mezzi espressivi nel suo lavoro di artista. Ama i giochi di parole, gli inventari, le accumulazioni e le combinazioni. Alterna il francese allo spagnolo; liriche composte di getto a elaborate riscritture basate sulla ripresa e variazione degli stessi elementi; poesie fiume, in cui le parole si spintonano proprio come gli oggetti si assemblano sulla tela, a labirintici componimenti a rizoma in cui la linearità è messa al bando: una scrittura personalissima, vertiginosa, inafferrabile, che sfida ogni classificazione ma a cui non sono estranee suggestioni colte, dal barocco spagnolo a Mallarmé, da Alfred Jarry al dadaismo e al surrealismo. Dietro il poeta si intravede in filigrana il pittore, con i numerosi riferimenti alla luce, alle ombre e soprattutto ai colori. Anche i temi che ricorrono sono gli stessi che popolano i dipinti: la Spagna, la corrida, le danze e i canti popolari; la guerra e la violenza della dittatura franchista; il cibo, l’amore, la morte. Arricchita dalle riproduzioni di alcune splendide pagine manoscritte, questa raccolta dei più significativi testi di uncorpus che ne comprende oltre 350 documenta un aspetto ancora poco noto dell’opera di Picasso contribuendo a far luce sul percorso creativo del più grande artista del Novecento.
Traduzione di Gianni Pannofino-ADELPHI EDIZIONI SPA
SINOSSI
Raymond Chandler –L’aria di Pasadena è «immobile, rovente e profumata» quando Marlowe, sigaretta spenta fra le labbra e cappello calcato sulla fronte, fa il suo ingresso nella sontuosa residenza di Mrs. Elizabeth Murdock. L’incarico che la donna gli prospetta dalla sua chaise-longue di vimini, mentre si scola un bicchiere di porto dopo l’altro, non si direbbe dei più difficili, né dei più pericolosi: ritrovare un’antica e rarissima moneta d’oro – il prezioso doblone Brasher – sottratta alla collezione del defunto marito, probabilmente dalla nuora scomparsa. Ma non appena Marlowe fiuta una pista promettente e sente a portata di mano la soluzione del caso, una serie di omicidi indecifrabili fa calare sull’indagine una fitta coltre di mistero. Per vederci chiaro dovrà spingersi a Bunker Hill – «città vecchia, perduta, fatiscente e piena di balordi» – e frugare palazzi popolati da inquilini sfuggenti, portieri che «sono sempre un po’ cani da guardia e un po’ ruffiani», «uomini anziani dai volti che sembrano battaglie perse». Niente, comunque, che un detective del suo calibro, armato come sempre di laconico cinismo e un’aria imperturbabile da eroe romantico, non possa affrontare, e come sempre nella sua inimitabile maniera, attraversando la nera notte di Los Angeles fra ricatti, night club, pinte di whisky e segreti celati dal tempo.
Negli anni venti conobbe colei che diventò l’amore della sua vita, Cissy Pascal, moglie di un pianista, di 18 anni più grande di lui; per lui divorziò dal marito, ma solo nel 1924, alla morte della madre di Chandler, contraria a quest’unione, Raymond e Cissy si sposeranno. Iniziò un periodo di relativa tranquillità per i due, fino al 1931 circa, Chandler fece carriera in una serie di aziende petrolifere e non scriveva più, nemmeno come giornalista. In una lettera di anni dopo confessò di aver odiato quel lavoro per cui, nonostante il successo, ai primi degli anni trenta entrò in crisi profonda: il matrimonio non funzionava, iniziò ad avere rapporti extra-coniugali con le sue segretarie, ma soprattutto iniziò a bere, avendo problemi al lavoro (come il suo personaggio alter-ego, Philip Marlowe).
Nel 1932 il licenziamento portò Chandler a una crisi esistenziale ed economica, ma fu grazie a questa crisi che trovò una sorta di “disperazione rabbiosa e speranzosa” che gli fece dire: “io sono vivo, attraverso la pagina, attraverso il racconto”. Iniziò quindi a scrivere pulp fiction per guadagnarsi da vivere e pubblicò il suo primo racconto “I ricattatori non sparano” nel 1933, all’età di quarantacinque anni, sulla rivista Black Mask, una rivista che pubblicava racconti di vita vissuta, di indagini della strada, pieni di azione, con inseguimenti e casi risolti con “pugni e pistole”. Chandler era un fervente ammiratore di Dashiell Hammett che, a suo dire, aveva restituito il delitto alla gente, perché “se la gente ammazza qualcuno lo fa per un motivo”. Pur non guadagnando molto, Chandler era soddisfatto, e il rapporto con la moglie tornò sereno.
Nel 1939 pubblicò il suo primo romanzo, Il grande sonno, dove compare per la prima volta il detective Philip Marlowe, che si muove nella Los Angeles bella e corrotta del decennio degli anni trenta. Il libro ebbe un discreto successo, ma solo nel 1942, quando fu scoperto da Hollywood, il successo gli arrise davvero, sia come romanziere che come sceneggiatore, per cui firmò un contratto con la Paramount nel 1943. Scrisse una trentina di racconti nonché otto romanzi e un racconto incompiuto, tutti e nove con il detective Marlowe come protagonista, dal 1939 al 1953, alcuni dei quali sono capolavori, non solo del genere Noir. Come sceneggiatore per Hollywood, Chandler traspose per il cinema molti dei suoi romanzi, con Robert Mitchum ed Humphrey Bogart considerati i migliori interpreti del suo rude detective dal cuore d’oro. Il suo lavoro ad Hollywood incluse anche sceneggiature per altri noir e polizieschi, le più importanti sono quelle de La fiamma del peccato (di Billy Wilder, 1944), Il fantasma (di Lewis Allen, 1945), La dalia azzurra (di George Marshall, 1946) e L’altro uomo (di Alfred Hitchcock, 1951).
Precipitò nuovamente nel tunnel dell’alcolismo e tentò una sorta di suicidio nel 1955, un anno dopo la morte dell’adorata moglie Cissy. Prima di aver ultimato l’ottavo romanzo della saga di Marlowe, morì di polmonite a La Jolla nel 1959. Nel 1988, per il centenario della nascita dello scrittore, venne dato il compito di terminare l’ultima opera di Chandler al giallista Robert B. Parker.
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All’inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C’erano solo pochi dati sicuri: l’edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di Classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato. Sarebbero stati stampati da Mardersteig, come anche il Nietzsche. Allora ci sembrava normale, quasi doveroso. Oggi sarebbe inconcepibile (costi decuplicati, ecc.). Ci piaceva che quei libri fossero affidati all’ultimo dei grandi stampatori classici. Ma ancora di più ci piaceva che quel maestro della tipografia avesse lavorato a lungo con Kurt Wolff, l’editore di Kafka.
Per Bazlen, che aveva una velocità mentale come non ho più incontrato, l’edizione critica di Nietzsche era quasi una giusta ovvietà. Da che cosa si sarebbe potuto cominciare altrimenti? In Italia dominava ancora una cultura dove l’epiteto irrazionale implicava la più severa condanna. E capostipite di ogni irrazionale non poteva che essere Nietzsche. Per il resto, sotto l’etichetta di quell’incongrua parola, disutile al pensiero, si trovava di tutto. E si trovava anche una vasta parte dell’essenziale. Che spesso non aveva ancora accesso all’editoria italiana, anche e soprattutto per via di quel marchio infamante.
In letteratura l’irrazionale amava congiungersi con il decadente, altro termine di deprecazione senza appello. Non solo certi autori, ma certi generi erano condannati in linea di principio. A distanza di qualche decennio può far sorridere e suscitare incredulità, ma chi ha buona memoria ricorda che il fantastico in sé era considerato sospetto e torbido. Già da questo si capirà che l’idea di avere al numero 1 della Biblioteca Adelphi un romanzo come L’altra parte di Kubin, esempio di fantastico allo stato chimicamente puro, poteva anche suonare provocatorio. Tanto più se aggravato dalla vicinanza, al numero 3 della collana, di un altro romanzo fantastico: il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (e non importava se in questo caso si trattava di un libro che, guardando alle date, avrebbe potuto essere considerato un classico).
Quando Bazlen mi parlò per la prima volta di quella nuova casa editrice che sarebbe stata Adelphi – posso dire il giorno e il luogo, perché era il mio ventunesimo compleanno, maggio 1962, nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, dove Bazlen e Ljuba Blumenthal erano ospiti per qualche giorno –, evidentemente accennò subito all’edizione critica di Nietzsche e alla futura collana dei Classici. E si rallegrava di entrambe. Ma ciò che più gli premeva erano gli altri libri che la nuova casa editrice avrebbe pubblicato: quelli che talvolta Bazlen aveva scoperto da anni e anni e non era mai riuscito a far passare presso i vari editori italiani con i quali aveva collaborato, da Bompiani fino a Einaudi. Di che cosa si trattava? A rigore, poteva trattarsi di qualsiasi cosa.
Niente di noi saprebbe morire; ferma le tue braccia
Sulla stanza che plana e dove l’orbe immobile
Concentra l’infinito dei cieli a cui non arriviamo.
Donandomi a te con tutta la mia tristezza
T’avrei dunque piegata alla mia gola, o gioia?
Sono un raggio spezzato di qualche stella in disgrazia
Per sentir scorrere queste lacrime nel mio cuore?
Come m’appari luminosa e profana,
Con la tua chioma in cui la mia bocca ha rotolato.
Golfo del ricordo dove fanno rotta le tartane,
In un odore di miele e uva pigiata!
Ah! dovrei inghiottir la mia forza e sparire
In quest’onda sulla quale il mio bacio s’è sospeso,
Leccherò la traccia dove s’imprime il tuo essere,
Per sentirti pesare sul mio petto disteso.
Avrò goduto di te fino a sentire il mio sogno
Esplodere sotto la mia tempia. Ad ogni battito,
Proiettata al di là delle stagioni sollevatesi,
Vedevo la nostra anima con la sua ala sospesa.
Ma più batteva la sera, più credevo di sentire,
In un caos di fiori, musica e incenso,
Le nostre fronti rompere quest’ombra dove caliamo,
E questo pianto che si sarebbe allargato per sempre.
Stringiamoci! il tempo ha bisogno di nutrimento.
In lui nel gettare i nostri corpi, possiamo contemplarci
Un alone formidabile intorno a un’ossatura,
E il cielo su di noi che sembra averci oltrepassato.
MERCATO ARABO
Il gran odore familiare dalle ali di zafferano,
Diavolo giallo arrotolato nella sua corona d’aglio,
Di pimenti e cipolle. Cabili e bestiame
Che scalpicciano sotto il cielo tra lo sterco.
Frutti delle ravine che salgono in piramidi d’oro,
Imbrattando di cielo le botteghe spelate,
Ammasso bianco d’un arabo che dorme
Accanto ad angurie sgozzate.
E sempre a dominare il mezzodì dalla sua voce bruna,
Aratore del sole, discepolo delle cicogne,
Il muezzin canta.
Mendicanti e vecchi mostrano la loro faccia orba;
La moresca s’aggira più lenta.
Solo, vestito di pimenti e zeppo d’aromi,
Il mercato si solleva.
Bucce d’oro si muovono negli scoli,
L’uomo del caffè moro ha fischiato alle sue greggi,
L’odore vivente sale. E, curvo sul suo sogno,
L’uomo schiaccia una rosa e pidocchi sulla sua pelle.
IL MUEZZIN
Il silenzio ha domato la terra;
Plana la città;
La moschea ha ripreso la sua postura di sultana:
Dormicchia tra le pietre.
È aurora?
La notte ha strappato il suo scamiciato di stelle;
Fiocchi di chiarezza nevicano sul Bosforo.
Un blu sordo ha lambito le feluche; le vele
Tirano su gli ormeggi;
In uno sciabordio di perle,
E in tono minore, con le gutturali
Rose, il canto s’infrange,
Brillo d’eternità.
Splendido e scialbo,
Indossando il suo bianco mantello come una zimarra,
Canta il muezzin. La città
È un vascello morto che beccheggia verso la luce;
E riecco unico l’istante ove i terrazzi,
Scrollando la rugiada, slacciano con lentezza
La loro veste di preghiera.
SIDI-BOU MÉDINE
Uccello sfracellato di cui lo scheletro danza
Tra due cordoni
Di case morte.
Villaggio di lebbrosi, famelico di silenzio,
Dove le piaghe,
Come una zimarra,
Ricoprono le porte,
Facendo colare il cielo sul ventre delle giare,
Mettendo a crudo su canestri di pietre
Cocci di sole e brandelli di rose.
Golfo della miseria
Dove la moschea si poggia,
Dove la bellezza, come un leone riposa,
Dove lo spazio,
A dispetto del tempo e del silenzio,
Fonde,
Alla cima dei piedritti che i secoli oltrepassano,
Le ali del nulla…
LA MORTE PUÒ SOPRAFFARMI
La morte può sopraffarmi, ho teso già avanti
Le mie ali per la partenza. Sono sicura
Di trovare lassù la casa che mi è dovuta,
Dovrei affondare in più solitudine.
La mia soddisfazione sarà stare al tuo tavolo,
Dolore che unisce il ricco e il bisognoso;
Porterò nella mia sacca un po’ di sabbia,
E riaccenderemo il fuoco di San Giovanni.
Che cosa vuoi, Signore, che non puoi più dormire,
Ti ho pregato di venire a farmi visita,
Ed ecco che le mie notti ricominciano a fiorire
Con la grazia dell’angelo e della clematide.
BATTITO D’ALI
Sere d’estate così dolci, velate d’azzurre increspature,
Dove il cuore viene a morire in un battito d’ali,
Fanno gli alberi leggeri come dorati capelli
Sui quali, sognando, fluttuerebbero merletti.
Il lago ha rivestito i suoi toni di chiaroscuri
E riflette nell’acqua, dal ciel, l’unica stella…
Guardiamoci, vuoi, in fondo ai nostri occhi
Così che il nostro amore rialzi il suo velo candido.
Ah! Lasciamoci cullare dal fato divino…
Che gioia amarsi nel cuore stesso delle cose,
Gettare alla vita un dolce e lungo sguardo,
Gettare alla vita, a mani piene, delle rose.
DEMONE DELL’EQUATORE
Jeanne Dortzal
Demone dell’equatore incatenato nelle stive,
Per secoli d’ombra e passività,
Ho balzato verso i tuoi occhi con la voluttà
D’un marinaio senza luce che ritrova la sua rotta.
Sciolgo dunque quel ciel che mi divora i polsi,
D’un sol colpo, faccio saltare quelle cinghie di tela,
La mia pelle deve sentir le alghe e gli embrioni delle stelle,
Sdraiarmi sotto il cielo dentro cui ti bagni.
Origlia! la notte salta attraverso i cavi,
Si muove il mio corpo e ti chiama, i garretti tesi,
Umidi di profumi, dimoriamo a mezz’aria,
Tutto l’oceano contro la tempia, in pieno miraggio.
IL MIO LETTO È CALDO COME UNA ROSA
Entra. Il mio letto è caldo come una rosa.
L’ombra ha calato gli occhi; un odore di moschea
Si sparge tra i miei seni. Ho rimesso tutte le cose
Al loro posto effimero e, avendole mascherate,
Avendo loro, goccia a goccia, infuso il nostro sangue,
Avendole fatte inchinare, chiedere grazia
E astenersi da ogni giuramento, ho messo la mia faccia
Contro la sera, ho staccato ciò che discende
Dall’ora, ed eccomi. Che la stanza abbia un cuore
E batta. Quanto a noi, consumeremo il cielo
Con un ritmo uguale, un po’ soprannaturale,
Come conviene a due amanti agghindati di lacrime.
Entra, ho preparato la notte come una culla.
La cicogna, mia sorella, è in piedi alla porta;
La voluttà respira e i nostri corpi sono così belli
Che sembra entrare in una città morta.
All’immobilità, uniamo il grido selvaggio
Di bestie che stanno figliando. Affrettiamoci, affrettiamoci
Ad afferrare quello che passa! E, gettando sul mio strato
La tua criniera di lupo,
La tua maschera di soldato e il mio mantello di fata,
Siamo quelli che se ne ritornano, non avendo altro
Che un otre di sole e dei clamori di cane,
E che salutano la morte dal blu della loro spada.
L’OASI
È un giardino del Sud dalle fioriture giganti.
Lembi di sole, strappati dal vento,
Sanguinano tra la sabbia, e c’è un battito
Di foglie e d’acqua chiara, una canzone demente,
Chiamata degli altopiani che la primavera porta
E che irrompe in acquazzoni e ricade in bouquet.
Gli alberi hanno teso le loro braccia, la terra grida,
Un miagolio blu s’esaspera e tace,
Poi di colpo riprende con note sorde.
Un cielo zeppo di sabbia accoglie l’orizzonte,
Un silenzio sfrenato s’addensa in gocce pesanti,
E, proclamando il suo risveglio,
L’oasi canta, attraverso i tramezzi
Del sole.
EFFETTO DI LUNA
Gli uccelli hanno taciuto per molto tempo; la strada
Che conduce al cimitero è piena di grilli;
Un silenzio infinito aleggia sopra i campi
E sembra che la campagna stia origliando.
La casa si tira addosso un gran lembo di luna,
Azzurra è la notte; al largo, una canzone: il mare!
E sempre, e sempre, a dominar il mio rancore,
Questo grido disperato del mio cuor per la tua carne!
Jeanne Dortzal
Articolo e traduzione di Emilio Capaccio–Jeanne Dortzal(Nemours, distretto di Tlemcen, Algeria, 24 gennaio 1878 – Parigi, 1943) è stata un’attrice teatrale, drammaturga e poetessa algerina di lingua francese.
Dotata di grande bellezza, lasciò, ancora adolescente, l’Algeria con la madre, che si era separata dal marito, e grazie all’amicizia del poeta Pierre Guédy, con il quale più tardi ebbe un figlio, intraprese la carriera di attrice di teatro.
Pierre Guédy, che era anche amico stretto del critico teatrale e scrittore Paul Léautaud, fu uno dei primi, insieme al poeta Jean Lorrain, allo scrittore Victor Margueritte e alla stessa Jeanne Dortzal, a partecipare all’esordio del fotoromanzo letterario francese, dalle tinte blandamente erotiche, rivolto a un giovane pubblico femminile, e curato dall’editore Nilsson.
Gli esordi della Dortzal avvennero nel vaudeville con l’opera: “Le Faubourg” di Abel Hermant, poi l’attrice passò al Teatro dell’Odéon di Parigi, recintando in ruoli classici e al Teatro Francese di Anversa. In questi anni conobbe un apprezzabile successo, tanto da essere raffigurata anche su alcuni francobolli degli inizi del ‘900.
Intorno al 1910 lasciò l’attività teatrale per dedicarsi completamente alla scrittura: scrisse pezzi teatrali, alcuni racconti, ma soprattutto raccolte poetiche, tra le quali ricordiamo: Vers sur le Sable(1901); Vers l’Infini (1904); Le Jardin des Dieux (1908); Les Versets du Soleil (1921); La Croix de Sable (1927); Le Credo sur la Montagne (1934).
Morì nel 1943 distrutta dal dolore per la perdita prematura di quell’unico figlio, Pierre, avuto da Pierre Guédy.
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