Poesie di Iya Kiva-poetessa ucraina, “La guerra è sempre seduta su tutte le sedie” -Editrice La Vita Felice-
Iya Kiva è una poetessa ucraina, traduttrice, membro di Pen Ukraine. Nata nel 1984 a Donetsk, si è trasferita a Kyiv nel 2014 a causa della guerra russo-ucraina. Autrice delle raccolte di poesie Подальше от рая (Più lontano dal paradiso, 2018), Перша сторінка зими (La prima pagina dell’inverno, 2019), Сміх згаслої ватри (La risata del falò estinto, 2023), nonché dei libri di interviste con autori bielorussi Ми прокинемось іншими: розмови з сучасними білоруськими письменниками про минуле, теперішнє і майбутнє Білорусі (Ci sveglieremo diversi: Conversazioni con scrittori bielorussi contemporanei su passato, presente e futuro della Bielorussia, 2021), dedicato alle proteste del 2020-2021 in Bielorussia. Le sue poesie sono state tradotte in oltre 30 lingue. Nel 2022, la sua raccolta di poesie Свидетел на безименност (Testimone dell’anonimia) è stata pubblicata in bulgaro (trad. Denis Olegov) e un’altra raccolta di poesie Чорні ружі часу/Czarne róże czasu (Le rose nere del tempo) è stata pubblicata in polacco (trad. Aneta Kaminska). Traduce poesia polacca e bielorussa; come traduttrice e redattrice di libri per l’infanzia dall’inglese collabora con il progetto “PJ Library” in Ucraina. Ha partecipato al programma Gaude Polonia Fellowship del Ministro della Cultura polacco (2021), è stata borsista dell’International Writing Program (2023, Usa) e altri. È entrata nella rosa dei candidati per il premio 2024 “Donne nelle arti: La resistenza” promosso dall’Ente delle Nazioni Unite Donne: Ucraina. Attualmente vive a Leopoli.
Iya Kiva-poetessa ucraina
Poesie diIya Kiva-Traduzione dall’ucraino di Yulia Chernyshova e Pina Piccolo
il mio paese ora somiglia a un ghetto
dal perimetro circondato di sangue di grida di pianto
(storto e di fretta — come al buio si tracciano le labbra con un rossetto unto)
dove tutti i pensieri tutte le parole persino il silenzio sono soffocati dal cuscino della censura:
la guerra della guerra alla guerra dalla guerra nella guerra
(declinare questa unica parola — ancora e ancora e ancora una volta —
ora per gli scrittori ucraini questo è il lavoro del cuore)
la frontiera di questo ghetto è trasparente come il moto dei rondoni:
puoi entrarci uscirne ed entrarci di nuovo
è come infilare le dita nel guanto di un altro
puoi serrare le palpebre e giocare a nascondino con la guerra
sapendo in anticipo che (ti trufferà e) vincerà
ma tutti questi esercizi sono ginnastica per chi ha l’immaginazione invecchiata
il tuo corpo non lascia mai il luogo di residenza —
quel nulla bombardato all’infinito dalla furia —
e il tuo passaporto con quell’uccello dorato di tridente
ti consente di muoverti per il portone mezzo illuminato della storia
ma non ti dispensa dalla guerra nel tuo sangue nella tua urina nella saliva nelle lacrime
come Sisifo gli abitanti di questo ghetto rigirano la morte nella bocca
rompendo i denti e persino le loro radici
ma neppure a quel punto si fermano — muovono con la lingua ciò che è rimasto
anche se che cosa di preciso (e quanto ancora) sia rimasto nessuno lo sa
simile al buco della serratura è il tempo in questo ghetto — stare davanti e guardare
come la luce sfonda le porte del futuro raggricciandoci come un bruco —
un monumento alla stanchezza il diritto ad un lungo protrarsi un’inquietante tenacia
ma la spensieratezza di risate sincere non passa attraverso la toppa —
al massimo penetra come un’ombra come l’umorismo nero della memoria
nel ghetto c’è anche un fiume — non per annegare (anche se può capitare )
ma per guardare il cielo da tutte le rive
*
magari potessi dirti che la terra qui non è cambiata affatto,
ma non sarebbe la verità, sarebbe una menzogna crudele e vana,
raccontata per placare la curiosità di un bambino
qui, gli alberi fanno solo finta di essere alberi, qui gli alberi crescono a stento,
e sollevano i rami, come se si stessero arrendendo
ai propri simili e agli altri e a questa fottuta epoca
dai cui germogli spuntano subito fiammiferi
e il fiume della vita arde così bene, s’inaridisce,
bruciando dalla vergogna di non poter più riempire
l’estate delle risate di bombi e l’inverno del miele della cura
così tanto la terra qui è invecchiata in un anno,
che, dove per secoli scorgevi bei lineamenti lisci dell’acqua
ora solo rughe profonde un palmo,
e talvolta accade anche di peggio, come se il sole
risplendesse capovolto, ma chi, di questi tempi, guarda ancora verso l’alto
tanto silente è il cielo, qui, lanciagli un coltello e vedrai che non si muove,
sopporterà che questo, inghiottendo in silenzio pugnale dopo pugnale,
lacerando a sangue le guance, come brandelli di abiti strappati
quando non proteggono più; sai, il malocchio
ti palpeggia da dentro come mani lascive in mezzo alla folla,
tranquillo, senza vergogna, con quel senso di crimine senza fretta,
arrivando fino al cuore; poi smette e tu continui a vivere;
ma in silenzio, senza cuore; senza speranza; in balia della fortuna
e ora anche la terra qui è senza più cuore, come terriccio in un museo,
stesa davanti a tutti, mezza morta, priva di sensi,
senza nemmeno il tempo di respirare una boccata d’aria che è già avvelenata —
e graffia e ringhia, come un vecchio cane che sta per morire
e tutto questo, sai, è così ingegnoso, che tutti hanno già imparato
a fingere di non sentire l’odore della propria decomposizione,
e ora la puzza è tale che puoi riconoscere i tuoi solo da questo fetore —
così orgogliosi, così avviliti, così spietatamente belli
la morte, sai, accresce sempre la bellezza; fino al riso convulso;
non è forse curioso percorrere la stessa strada per tutta la vita
per poi perdere te stesso al primo incrocio?
è mai possibile che sia così; ma non è stufa questa terra
di condurci bendati in girotondo, come giocando a mosca cieca;
ehi, tu, prova a indovinare dove cadrai e non potrai più rialzarti
tante brave persone qui, sai, ma tutte impantanate nel fango;
stipate; a braccia aperte; senza teste, così come capita
questa terra è come una cicatrice sul volto; tutti la vedono
ma manca il coraggio di chiedere che cosa sia successo;
la vita è troppo breve, sai, per scrutare la terra
specialmente quella altrui; vi è qualcosa di adultero
come se d’improvviso l’amore fosse diventato una lingua artificiale
che studiamo e studiamo e studiamo invano
volevo dirti che questa terra è poesia
e tu sai bene, forse meglio di me, quanti siano i suoi lettori.
Iya Kiva-poetessa ucraina
Biblioteca DEA SABINA- La rivista «Atelier»
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Poesie di James Russell Lowell-Poeta e critico americano-
James Russell Lowell-Poeta e critico americano, nato a Cambridge, Mass., il 22 febbraio 1819, morto ivi il 12 agosto 1891.Si laureò all’università Harvard nel 1838, e studiò giurisprudenza; ma ben presto si consacrò alla letteratura. Nel 1844 apparve una prima raccolta di poesie, A Year’s life; nel 1845 un poema ben conosciuto, The Vision of Sir Launfal; nel 1848 A Fable for critics. I Biglow Papers, cominciati a pubblicarsi nel 1846 e continuati durante la guerra fra gli stati (1861-65), sono una satira mordace delle condizioni politiche contemporanee, scritta nel dialetto yankee; combattono specialmente la schiavitù negli stati meridionali. Nel 1855 il L. cominciò a insegnare a Harvard le lingue e letterature moderne, succedendo al Longfellow. Dal 1877 al 1880 servì come ministro americano in Spagna, dal 1880 al 1885 in Inghilterra. Conosceva molto bene la cultura europea, che diffuse presso gli Americani, dando incremento alle relazioni culturali specialmente con l’Inghilterra. I saggi critici su autori inglesi, francesi, tedeschi, vennero raccolti dopo il 1870 in diversi volumi: Among my books, My study windows, ecc. Tra i saggi letterarî è notevole quello su Dante (1872). Anche alcune delle liriche (Masaccio, Villa Franca, 1859, On a portrait of Dante by Giotto) e delle prose descrittive sono d’ispirazione italiana.
Bibl.: Bibliografie di G. W. Cooke, 1906; L. S. Livingston, 1914. Biografie di F. H. Underwood, 1882; F. E. Brown, 1887; H. E. Scudder, 1901; F. Greenslet, 1905; E. E. Hale, e altri. Cfr. anche J. J. Reilly, James Russell Lowell, as a critic, 1915.
James Russell Lowell-Poeta americano
Una fantasticheria
Nella cupa e silenziosa luce del crepuscolo
il tuo spirito entra nel mio,
quando la luce della luna e delle stelle
risplende sulla scogliera e sulla foresta,
ed il tremito del fiume
sembra un fremito di gioia benevola.
Allora io mi alzo e prendo a vagabondare lentamente
verso il promontorio accanto al mare,
quando la stella della sera comincia a palpitare
attraverso le fronde striate della sequoia,
e dal basso il bonario rimbombo
delle onde proviene irregolare.
Allora io ti sento dentro alla mia anima
come un barlume di un tempo passato,
visioni della mia infanzia mormorano
la loro antica pazzia nelle mie orecchie,
sino a che la gioia della tua presenza
raffredda il mio cuore con lacrime di felicità.
Tutti i meravigliosi sogni della giovinezza –
tutta la fiera sete giovanile di elogi –
tutte le più certe speranze della maturità
che fioriscono in giorni più tristi –
gioie che mi legarono, dolori che mi incoronarono
con una ghirlanda migliore di quella d’alloro –
tutti desideri di libertà –
l’indistinto amore per il genere umano,
che vaga lontano e senza meta
come un seme alato nel vento –
gli appannati desideri e le violente scottature
di una mente non ancora ordinata –
Tutto questo, o mia amata,
e i presenti e passati sogni più felici,
nel tuo amore trovano sicuro appagamento,
finalmente resi maturi dalla verità;
fede e bellezza, speranza e dovere
si raccolgono veloci all’unisono.
E la mia natura, come un oceano,
al tuo respiro si risveglia dal torpore,
scavalla i suoi argini con pazza gioia
ed irrompe in uno spumeggiante tuono,
e poi abbassandosi, giace ritirandosi
nel tumulto che essa stessa produce!
L’Espero ardente è tramontato
dentro l’occidente tinto di pallido azzurro,
e con dorato splendore corona
la cima coperta di pini dell’orizzonte;
una pensosa quiete placa l’agitazione
della violenta nostalgia nel mio cuore.
Nel mio giardino vago sotto la luce della luna,
sotto i rami frementi,
che, come mossi da uno spirito,
ondeggiano e si curvano, sino a che piano piano
il mormorio delle onde si mischia
con il fruscio della brezza.
Il doliconice
Anacreonte dei pascoli,
ebbro della gioia primaverile!
Sotto l’echeggiante ombra dell’alto pino
io riposo e bevo il tuo canto;
la mia anima è sazia di melodie,
una sola goccia la farebbe traboccare,
così da convogliare le lacrime nei miei occhi –
Ma cosa potrebbe interessarti?
Il tuo cuore è libero come l’aria di montagna.
non ti preoccupi delle tue musiche,
poiché le sparpagli ovunque con allegria,
felice, ignaro poeta!
Su un ciuffo d’erba nella prateria,
mentre la tua amata si prende cura del nido,
tu ondeggi nella brezza che respira,
alleggerendo il tuo cuore troppo pieno
delle moltitudini di canzoni che lo colmano,
proprio come tu hai scelto di volere.
Signore del tuo amore e della tua libertà,
del festoso Maggio l’uccello più spensierato,
volgi i tuoi occhi splendenti verso di me,
e parlami come solo uno sguardo sincero può parlare –
“Qui sediamo, nel tempo d’estate,
io e la mia modesta compagna insieme;
qualsiasi cosa possano essere i tuoi saggi pensieri,
sotto quel vecchio triste pino,
noi non li valutiamo neppure un’inezia”.
Adesso, mentre lasci me e la terra sotto di te,
sbatti le ali verso il vento,
o, galleggiando lentamente prima di librarti al cielo,
aleggi sul tuo nido nascosto dalla vegetazione
e cominci a intonare la tua canzone d’amore,
diluviando piogge di musica su di esso,
e mai affaticato, ancora cinguetti
gioiosi canti di festa,
simili a ruscelli costeggiati da muschi
mormoranti attraverso gli angoli ciottolosi
durante i tranquilli giorni d’estate.
Tu riempi di felicità il mio cuore,
mi sembra di tornare ragazzo
quando ti vedo, allegro, gioioso amante,
volare sui campi appena mietuti,
con le ali frementi di gioia.
C’é qualcosa nella fioritura dei meli,
nell’erba che inverdisce e nella canzone del doliconice,
che fa ancora risvegliare dentro al mio cuore
sensazioni sopite da lungo tempo.
Per tanti, e tanti anni, io ho vagabondato,
e mi sembra di vagabondare ancora adesso,
invece di sprecare le ore a scuola da ragazzo,
quelle stesse ore che da uomo morirei per non dimenticare.
O ore che gli anziani dal cuore di ghiaccio credevano perse,
reclini con la loro testa grigia sopra i miei libri,
ancora di più apprezzo la scienza che ho assaporato
con te, tra gl’alberi ed i ruscelli,
più di tutto quello che ho imparato
dai tomi eruditi o dagli uomini inariditi dagli studi!
Natura, la tua anima era una sola con la mia,
e, come una sorella da un giovane fratello
è amata, ognuno sgorgante dall’altro,
e il mio amore era il tuo.
Non sei stata forse come una madre amorevole
che mi ristorava con la gentilezza e con il potere dell’amore,
sul cui cuore il mio palpitante cuore deponevo
e spillavo tutti i miei dolori d’infanzia,
sino a che pace e tranquillità non volavano su di me?
Non è stato un caro amico il dorato tramonto?
Non ho mai trovato gentilezza nella silente luna,
e nei verdi alberi, le cui cime ondeggiano e s’incurvano,
intonando sempre la loro dolce sommessa melodia?
Non ho mai sentito affetto nelle oscure e solenni foreste –
non ho mai sentito la voce dell’amato nelle tristi solitudini?
Sì, sì! I miei occhi non m’hanno mai ingannato,
i ciechi capi non mi hanno insegnato ad essere saggio.
Care ore! Che ancora oggi vivo,
sentendo e vedendo con le orecchie e gli occhi
dell’infanzia, voi insetti, che nell’alveare
del mio giovane cuore venivate cariche di ricchi tesori,
raccolti in campi e boschi e assolate valli, per divenire
cibo per il mio spirito nei giorni d’inverno.
Venite, venite ancora! Venite ancora!
E, come un bambino tornato a casa ancora una volta
dopo un lungo soggiorno in regioni straniere,
io riposo sopra il petto di mia madre,
sentendo la benedizione del ristoro,
e dimorando nella luce dei tempi passati.
O voi che non vivete la vera Vita,
il vostro morire non è altro che morte,
cantate la vuota fatica e le insignificanti lotte,
in un’insensata ossessione!
Uscite, vedrete il vero volto della Natura,
bevete nella grazia del suo sguardo;
guardate il tramonto, ascoltate il vento,
la cascata, il terribile tuono;
andate, adorate il mare;
allora, e solo allora, capirete
con sempre crescente meraviglia,
che l’uomo non assomiglia per nulla a voi;
andate con anima mite e umile,
e allora le scorie di voi stessi si staccheranno
dai vostri occhi – stanchi pesi
cadranno dalle vostre gravate schiene;
e voi vedrete,
con occhi rispettosi e pieni di speranza,
ardere con neonate energie,
le più grandiose opere!
James Russell Lowell-Poeta americano
La Luna
La mia anima era simile al mare
prima che fosse creata la luna,
piangeva nell’immensità indistinta,
impaurito dalla sua stessa forza,
irrequieto ed instabile.
Attraverso tutte le fenditure spumeggiava invano
intorno alla sua prigione di terra,
in cerca di qualcosa di sconosciuto,
inabissandosi senza pace e senza riposo,
perché nessuna luna era ancora sorta:
la sua unica voce era un lungo e cupo gemito
perché era solo, senza speranze,
e viveva unicamente per una inutile ricerca.
Così era la mia anima; ma quando fu piena
di così tanta inquietudine da distruggerla,
una voce bellissima
sussurrò un fioco presagio,
e fu così soave, così dolce, così sommesso,
ch’ella fu felice e sparì ogni dolore;
e, come il mare spesso giace immoto,
facendo incontrare le sue acque,
come guidate da una volontà inconscia,
ai piedi dell’argentea luna,
così giace la mia anima dentro ai miei occhi
quando tu, luna guardiana, sorgi.
E ora, quantunque le sue onde
possano turbare e risvegliare sensazioni sopite,
la forte ed eterna legge dell’Amore,
come un mentore deciso e tranquillo,
calma e naturale come il respiro,
si muove attraverso la vita e la morte.
Mezzanotte
La luna risplende bianca e silente
nella nebbia, come un’onda
di un oceano incantato,
scivola sull’immensa palude,
riversando i suoi flutti simili a spettri
dappertutto, silenziosamente.
Una incerta e siderea magia
rende tutte le cose misteriose,
e attrae il muto spirito della terra
verso i cieli bramosi, –
mi sembra di udire deboli sussurri,
e tremebonde risposte.
Le lucciole sui pascoli
vibrando corrono di qua e di là;
la severa ombra degli olmi
grava sull’erba sottostante;
e debolmente da lontano
il gallo sognante rimanda il suo grido.
Tutto appare bizzarro e mistico,
gli stessi cespugli si gonfiano,
si muovono e prendono forme meravigliose,
come stregati da un sortilegio, –
neanche i lillà sembrano più gli stessi
conosciuti così bene sin dall’infanzia.
La neve che infonde il silenzio più profondo
continua a cadere sopra ogni cosa,
così bella e serena,
eppure simile a un drappo funebre, –
come se tutta la vita fosse finita,
e il riposo fosse giunto su tutto.
O selvaggia e mirabile mezzanotte,
c’è una forza dentro di te
che rende il corpo incantato
simile ad uno spirito,
e gli dona flebili barlumi
di immortalità!
Beaver Brook
Silente riposa la collina illuminata dalla luce del sole,
mentre, per segnare il trascorrere del tempo,
l’ombra del cedro, lenta e tranquilla,
si allunga sulla sua meridiana di muschio grigio.
L’afoso mezzodì colma il calice della valle,
le foglie del pioppo ondeggiano impercettibili,
solo la piccola macina rimanda
il suo incessante ed indaffarato ronzio.
Scalando il muro dalle pietre smosse che circonda
la strada lungo gli argini del laghetto del mulino,
da sotto i tronchi dell’archeggiante cispino,
i miei passi spaventano il timido chewink.
Sotto all’ossuto sicomoro
la porta rossa del mulino lascia uscire il baccano;
l’impallidito mugnaio, impregnato di polvere,
percorre rapidamente la stanza buia al suo interno.
Qui non troverete la forza del torrente di montagna;
il dolce Beaver, figlio della tranquilla foresta,
ammassa la sua piccola brocca nel mio orecchio,
e docile attende la volontà del mugnaio.
Velocemente l’Ondina scivola lungo la corrente
senza essere udita, e, ad intervalli regolari,
allaga la lenta ruota della sua luce e della sua grazia,
mentre, ridendo, insegue il riluttante sgobbone.
Il mugnaio non si immagina a quale costo
le tremanti pietre del mulino mormorano e roteano,
né come ad ogni movimento, scuotono
bracciate di diamanti e perle.
Ma l’Estate ha rasserenato i miei occhi felici
con gocce di succo celestiale,
per mostrarmi come la Bellezza si trova
dentro ad ogni forma delle cose.
Di più: mi è sembrato di aver osservato quel fiume,
che ora si sottrae alla vista triste e offuscato,
spesso, qua e là, di sangue umano,
per far girare le laboriose ruote del mondo.
Non diversi dal mugnaio,
anche noi rinchiusi nelle nostre celle,
sappiamo quale spreco di rara bellezza
muove i macchinari di tutti i giorni.
Certamente arriverà un tempo più saggio
in cui questo eccesso di forza,
non più tetra, lenta e stupida,
si lancerà verso la musica e la luce.
In quella nuova infanzia della Terra
la vita stessa danzerà e giocherà;
il sangue fresco ridarà vigore nelle vene smorte del Tempo,
e la fatica incontrerà il piacere.
Poesia
Violetta! Dolce violetta!
I tuoi occhi sono pieni di lacrime;
Sono forse umidi,
ancora umidi,
dei ricordi del passato?
O sono forse pieni di gioia,
per questa notte così bella,
perché desiderano arrivare ai cieli più alti?
Tu sei stata l’amata della mia giovinezza,
della mia felice giovinezza,
e adesso posso vedere
nelle lacrime
tutto il passato allegro e soleggiato,
tutta la sua felicità e verità,
sempre fresca e verde in te
come il muschio nel mare.
Il tuo piccolo cuore, che grazie al tuo amore
é cresciuto ed è diventato color del cielo,
verso il quale tu sempre guardi,
può conoscere
tutti i dolori
di una speranza per quello che non ritornerà più,
tutti dispiaceri e i desideri
di questi nostri cuori che ci appartengono?
No! Non guardare
verso il cielo
con quegli occhi tristi,
non guardare con gli occhi tristi le stelle;
lascia che la mia anima insieme alla tua
prendano il colore che vogliamo,
sereni, forti, nobili,
non soddisfatti dalla sola speranza – ma divini.
Violetta! Cara violetta!
I tuoi occhi azzurri sono umidi
di gioia e d’amore per colui che ti ha mandata,
e per il senso
di felice obbedienza
che ti ha reso ciò che la Natura voleva che fossi!
James Russell Lowell-Poeta americano
Una ballata mistica
I.
La luce del tramonto si era quasi confusa
nell’incerto grigiore del crepuscolo;
una lunga nube riposava sull’orizzonte,
al di sotto della quale una stria d’un bianco azzurrognolo,
oscillava tra il giorno e la notte;
nel cielo, sopra i pini della collina,
fremeva la palpitante stella della sera,
e la luna nuova, dalle tenui forme,
fiocamente scintillante attraverso le arcate degli olmi,
riempiva il calice della memoria sino all’orlo.
II.
In una sera come questa il cuore diviene
luogo di meditazione, e a stento può distinguere
il presente dal passato,
o se la realtà esiste davvero; –
una meravigliosa nebbia incantata
serpeggia dalla nuova luna,
avvolgendo tutte le cose nel mistico dubbio,
così che quest’intero mondo sembra falso,
mentre le nostre fantasie prendono colore
da un passato della nostra vita ormai dimenticato.
III.
La fanciulla si sedette ad ascoltare il flusso
del vento d’occidente così leggero e sommesso
che a stento le foglie s’agitavano qua e là;
liberi, i suoi folti capelli dorati
si scompigliavano sul petto nudo,
splendente di fremiti candidi come la neve
nella magica luce della luna:
la brezza si alzò con frusciante crescendo,
e da lontano arrivò il profumo
da lungo tempo dimenticato di un mughetto.
IV.
La fioca luna riposava sulla collina,
in silenzio, senza pensieri o desideri,
accanto a dove sedeva la fanciulla sognante;
d’un tratto la punta della luna, come una stella,
fece affondare la striscia dell’orizzonte;
la notte era giunta al suo nero apogeo,
ed ancora la fanciulla rimaneva seduta da sola,
pallida come un cadavere sotto ai raggi di luce
ed il suo bianco petto ancora brillava
come un sogno nell’oscura mezzanotte.
V.
Arrivò il mattino limpido e sereno,
e generosamente il sole cominciò a distribuire
l’oro tra i suoi biondi capelli,
accendendoli, sino a che lentamente
si formò un’aureola intorno alla sua testa;
teneva in mano un fiore appassito,
cresciuto in terre lontane,
e, silenziosamente trasfigurata,
con i grandi occhi sereni, la testa non abbassata,
la trovarono morta.
VI.
Un giovane, quella mattina, sotto altri cieli,
sentì improvvise lacrime bruciare dentro ai suoi occhi,
ed il suo cuore traboccare di ricordi;
tutte le cose all’infuori di lui sembravano essere unite
in una strana unica fratellanza,
e da allora ebbe sempre la sensazione di
camminare nel mezzo di un incantesimo misterioso,
e da allora, impossibile conoscerne la ragione,
il suo cuore si sarebbe sempre raggelato all’odore
del suo amato mughetto.
VII.
Qualcosa era fuggito via;
degli incostanti palpiti del giorno,
attraverso fessure stellate nel suo corpo,
divennero lucenti e reali, sempre di più,
mentre sulla terra tutto era rimasto nell’oscurità;
e, attraverso quelle fessure, come in un passato,
il suo spirito interiore sopportò
amori più forti e poteri più selvaggi,
che gli portarono frutti rinfrescanti e fiori
dalle dimore e dai campi Elisi.
VIII.
Proprio sul confine labile dei sensi,
non confermato da prove concrete,
ma noto da una profonda influenza
che attraverso il nostro rozzo corpo brilla
con luce crescente e divina,
laddove i più alti pensieri possono prendere il volo
s’estende il mondo del Mistero –
e lassù nessuno prende troppo in considerazione
coloro che giudicano che nulla è reale
all’infuori dell’Invisibile incontestabile.
IX.
Un passo oltre alle cose di tutti giorni,
un battito in più delle grandi ali dell’anima,
un dolore più profondo talvolta accompagna
lo spirito in quella grande Vastità
dove non v’è futuro né passato;
nessuno sa come vi sia entrato,
ma, al risveglio, trovò i propri spiriti dove
pensava che un angelo non avrebbe potuto librarsi,
e, ciò ch’egli prima chiamava falsi sogni,
adesso è la realtà.
X.
Queste apparenti sembianze sono solo spettacoli
con cui il corpo vede e conosce;
molto più sotto, per sempre scorre
il fiume delle più sottili comprensioni
che rendono i nostri spiriti stranamente saggi
nel timore, e paurosi oscuri presagi
che, dai sensi più esteriori,
si estendono oltre il nostro raziocinio e la nostra vista,
bellissime arterie di luce circolare,
pulsate all’esterno dall’Infinito.
Ad un pino
Torreggi sulla cima del Katahdin,
grande e d’un azzurro violetto tu appari da lontano;
come una nuvola sopra le terre più basse ti chini,
sicuro rimani aggrappato, cullato dalla tempesta,
non hai paura d’essere da lei abbattuto.
Nella bufera, come un profeta impazzito,
ti dimeni e fai cantare i tuoi rami;
il tuo cuore si rallegra con il terrore,
presagisci le terribili valanghe,
quando intere montagne precipitano verso le valli.
Con pazienza tu tendi gli impluvi
con le tue braccia, come se implorassero benedizioni,
come un vecchio re portato fuori dal suo palazzo,
mentre il suo popolo si riversa a combattere
la città da lui governata.
Al taglialegna che dorme sotto la tua ombra
tu intoni selvagge melodie,
fino a che egli non vorrà essere trasportato
nelle tende degli Arabi dell’oceano,
le cui isole alla deriva sono il loro bestiame.
La burrasca ti afferra e ti rende la sua lira,
e con mano delirante scortica una delirante armonia,
mentre scarica il suo possente desiderio
di lanciarsi sul grande Atlantico,
ch’estende le braccia verso il suo compagno di gioco.
La selvaggia tempesta si rintana tra i tuoi rami,
e da là devasta il continente sottostante;
come un leone in attesa della preda,
è là che il feroce tuono attende di balzare fuori,
di tanto in tanto grugnendo impaziente.
A disprezzo dell’inverno tu conservi la tua verde gloria,
tu, vigoroso padre degli antichi Titani!
Solo i fiocchi di neve ti ingrigiscono,
accoccolandosi e addormentandosi tra le tue frasche,
ed ammantandoti in silenzio.
Tu solo conosci lo splendore dell’inverno,
tu, che tra le nevi argentate, i precipizi ammutoliti,
ascolti gemere e frantumarsi guglie di ghiaccio verde,
e poi crollare nei velati abissi
nella quiete della mezzanotte.
Tu solo conosci la gloria dell’estate,
quando guardi l’immenso mare delle foreste
che rimandano il loro orgoglioso mormorio
verso di te, verso il loro capotribù, che torreggia
dal tuo brullo trono verso il cielo.
L’amante
I.
Gira il mondo da Oriente a Occidente,
cerca in ogni nazione sotto il cielo,
non troverai mai un uomo così benedetto,
un re così potente come me,
neppure se cerchi per l’eternità.
II.
Io sono un dolce amante,
seduto accanto alla mia amata:
lei mi ha dato tutta la sua anima
senza un solo desiderio o un pensiero di superbia,
e diventerà la mia amatissima moglie.
III.
Non fa mai mostra di sfarzo,
non si fa vedere con gioielli rari;
in bellissima semplicità
veste leggiadre ghirlande di foglie,
intreccia modesti fiori fra suoi capelli.
IV.
Talvolta indossa una gonna verde,
talvolta una gonna bianca come la neve,
ma, comunque si vesta,
sembra sempre la più bella e la più onesta,
e al mio sguardo la più incantevole.
V.
Né io sono il suo unico amante,
lei ama tutti indistintamente,
ma non ne sono geloso, perché tutti
leggono amore e verità dentro ai suoi occhi,
e la stimano all’altezza di un monile prezioso.
VI.
Tu sei così, Eterna Natura!
Sì, sposa del Cielo, tu sei così;
ami tutte le creature,
doni a tutte una parte importante nel creato,
riempiendo di pace ogni cuore.
Il poeta
Colui che ha sentito il mistero della Vita
schiacciarlo come una notte cupa,
la cui anima non ha conosciuto altro
se non la sofferenza; –
colui che ha visto forme confuse sollevarsi
dalle profondità silenti dello spirito
e fissarlo con sguardo espressivo
pieno di speranza,
eppure non in grado di proferire neppure una parola,
sebbene egli preghi tutta la notte che riescano,
“salvatemi, salvatemi! Sono malato,
e voi siete così meravigliosamente forti”! –
Colui che, nella mezzanotte più tetra e cupa,
ha sentito la voce della potenza
irrompere echeggiando tra le sale del sonno
nel solitario cuore della Notte,
e, dal suo giaciglio insonne,
ha guardato e ha pianto perchè desiderava sapere
cosa voleva dire quell’oracolo
che ha reso il suo essere così affranto;
colui che ha sentito quanto possente e grande
sia l’Anima dell’uomo,
e non ha abbassato lo sguardo davanti al Destino,
da cui la Vita e il Pensiero derivano;
la cui armatura di questa fiducia immobile
non conosce debolezze,
colui che ha calpestato e gettato la paura nella polvere
sotto i piedi dell’umiltà; –
colui che in pace con se stesso ha portato la sua croce,
riconoscendosi come il re
del suo tempo, e non ha considerato uno spreco
imparare tramite la sofferenza; –
e colui che ha adorato la donna
con animo puro e modesto,
e non ha mai profanato il suo sacro tempio
né con le azioni né con il pensiero –
Questi è il Poeta, colui al quale
é stato dato il dono della poesia,
la cui vita è sublime, forte e vera,
e che non è mai caduto dal Cielo;
il Poeta, che grazie alle sue labbra
egli vive per l’eternità,
maestose come le navi in alto mare,
le parole della Saggezza egli sparge.
Il pastore di re Admeto
Visse un giovane sulla terra,
migliaia di anni fa,
le cui mani delicate non erano buone a nulla,
né ad arare, né a mietere il grano, né a seminare.
Sopra un grande guscio di tartaruga
distese alcune corde, e da quelle attinse
una musica che scaldava i cuori degli uomini,
o che colmava di lagrime i loro occhi.
Re Admeto, che invero
aveva un buon gusto,
decretò che le sue melodie non fossero così cattive
da esser ascoltate tra un bicchiere di vino e l’altro:
così, molto ben disposto perché dolcemente accompagnato
in un dolce dormiveglia,
tre volte si lisciò la regale barba,
e lo nominò vicerè del suo ovile.
Le parole del giovane erano semplici parole,
ed anch’egli le usava solo come parole,
ma quelle che dalle altre bocche uscivano ruvide
dalla sua bocca uscivano ritmiche e dolci.
Il volgo lo considerava un incapace,
non vedeva nulla di buono in lui;
tuttavia, inconsapevolmente,
accettarono comunque le sue parole come legge.
Non sapevano come avesse imparato quest’arte,
perché in ozio, ora dopo ora,
non faceva altro che guardare le foglie morte cadere,
o meditare su un fiore.
Sembrava che la bellezza delle cose
gli avesse insegnato il loro uso,
poiché, anche nelle semplici erbe, nelle pietre, nelle brezze,
egli trovava un potere ristoratore.
Gli uomini ritenevano che il suo eloquio fosse saggio,
ma, quando notavano un cenno
di grazia delicata e i suoi occhi effemminati,
questi ridevano, e lo chiamavano buono a nulla.
Eppure, dopo che lasciò questa vita,
e perfino dopo che la sua memoria venne offuscata dal tempo,
la terra sembrò un luogo più dolce dove vivere,
più colma d’amore, grazie a lui.
E giorno dopo giorno diventava sempre più venerato
ogni singolo luogo in cui era passato,
sino a che i poeti riconobbero
questo primo fratello come loro dio
James Russell Lowell-Poeta americano
La betulla
Scorre la luce del sole attraverso i tuoi rami che si muovono,
in mezzo alle tue foglie in eterno palpitanti;
Ovidio ha imprigionato dentro te una Ninfa piangente,
anima d’un antico tremulo fiume interno,
che guizzante narra le sue sventure, che rimangono inascoltate.
Mentre tutta la foresta, incantata dall’assonnata luce della luna,
oscilla le sue foglie nel felice silenzio,
in attesa della rugiada, sospesa tra respiro e ansia, –
ascolto da lontano le tue sussurranti e fioche foglie,
e seguo le tue tracce nell’oblio.
Sulle sponde di un laghetto addormentato in mezzo alla foresta,
il tuo fogliame, come le ciocche d’una Driade,
gocciola intorno al tuo bianco e magro fusto, la cui ombra
degrada tremante lungo le oscure e quiete acque,
mentre tu fuggi verso la fonte come una Driade spaventata.
Tu sei l’intermediaria degli amanti di campagna;
la tua candida corteccia trattiene in sé i suoi segreti;
Reuben scrive qui il propizio nome della Pazienza,
ed i tuoi rami flessuosi mormorano e piangono
sopra di lei, che sugge il mistero dalla tua scorza.
Tu sei per me come la mia fanciulla adorata,
così schiettamente ritrosa, piena di tremanti confidenze;
a fatica riesci a fare ombra, le tue foglie scalpiccianti
cospargono sui miei sensi il bagliore del sole che hanno raccolto,
e la Natura mi dona tutte le sue estive intimità.
Sia che il tuo cuore tremi per la speranza o per il dolore,
tu per sempre rimani in armonia; selvaggio ed inquieto
io giaccio sotto di te; il tuo dondolio, come un fiume,
scorre verso valle, dove si estende il regno della pace, e dove
il mio cuore galleggia nella terra della tranquillità.
La serenata
Gentile Signora, sia il tuo sonno sereno,
siano i tuoi sogni tranquilli,
mentre la tua anima accompagna
sulle ali delle chimere la nostra melodia;
Fratelli, noi cantiamo, triste e sommessa,
la nostra canzone dolce e umile,
simile alla voce degli anni che furono,
lascia che i nostri cuori si uniscano
alla sua soavità, come quando sentiamo
cadere le lacrime della nostra mamma.
Signora! La nostra canzone sta riportando
indietro il tempo alla tua giovinezza –
riesci a sentire l’ape che canta
e ronza in mezzo ai fiori?
Sonnolenta, sonnolenta,
nel sole del mezzodì ella continua il suo volo,
si posa sui teneri gambi
che fanno da confine ai ben noti giardini;
riesci a sentire l’intermittente frullio
delle invisibili ali del colibrì –
non ti riempie il cuore l’emozione
delle cose quasi dimenticate dell’infanzia?
Riesci a vedere la cara vecchia casa
con il vincibosco intorno alla porta?
Fratelli, piano! Il suo cuore si sta riempiendo
dei laboriosi pensieri del passato;
umilmente canta, teneramente canta,
ospita il suo spirito non più così selvaggio,
lascia che non dorma più.
Questo è il delizioso tempo d’estate,
spalancata rimane la finestra –
Signora, ti stai imbevendo di quelle voci?
Chi sta cantando queste splendide melodie,
che aumentano e poi d’un tratto diminuiscono,
come la canzone del tordo a Giugno?
Di chi è quella risata che risuona così limpida
e gioiosa nel tuo orecchio bramoso?
Più piano, fratelli, ancora più piano
ordite la canzone in intricati intrecci;
ella ora ascolta il soffio del vento d’occidente,
alla sera attraverso quel bosco di pini;
oh! Lamentosa è la loro melodia,
come di un oggetto impazzito
che, solo,
sussurra eternamente,
attraverso la notte e attraverso il giorno,
qualcosa che è passato per sempre.
Spesso, Signora, tu hai ascoltato,
spesso i tuoi occhi azzurri hanno luccicato,
dove la brezza estiva della sera
piangeva triste attraverso quelle foreste solitarie,
quando il vento fiero che viene dal nord
distorceva la loro musica lamentosa.
Sempre il fiume scorreva
come un flusso ininterrotto,
sempre il vento d’occidente soffiava,
mormorando al suo passaggio,
e mescolandosi con i suoi sogni;
il fiume scorreva sempre
con quel suono d’antico e passato;
piano, Fratelli, piano! Ella piange,
non è più sola;
forme amate e visi delicati
s’affollano intorno al suo cuscino,
in quei luoghi deserti della memoria
fluttuano le acque della nostra canzone.
Signora! Se la tua vita è sacra
come lo era quando eri una bambina,
sebbene la nostra canzone sia melanconica,
non susciterà più alcuna angoscia;
perché l’anima che ha vissuto bene,
perché l’anima simile a quella di un bambino,
è tranquilla nella sua magia
che riporta indietro ai primi ricordi.
La quercia
Che nodosa ampiezza, che profonda ombra, è la sua!
Non c’è bisogno di corone per riconoscere la regina del bosco!
Guarda come offusca con le sue foglie l’estasi estiva!
Sole, bufera, pioggia, rugiada, le tributano i loro onori,
che lei con tale benigna regalità
accetta, come se ripagasse ciò che gli è fu prestato;
tutta la natura sembra essere orgogliosa sua vassalla,
e solo grazie a lei leggiadra nei suoi ornamenti.
Guarda come troneggia tra i cumuli di neve rigonfi,
in indomabile esilio dal trono d’estate,
la cui pianura senza confini mostra ancor più regalità,
ora che le sue foglie cortigiane sono volate via.
I suoi rami mettono in musica il vento dell’inverno,
ornati dal nevischio, come la facciata d’una cattedrale
dove i fiocchi di neve riparano con bizzarra arte
i segni ed i solchi del tempo invidioso.
Guarda come la sua paziente forza persuade il rude
vento di Marzo ad esalare piacevoli brezze d’estate,
guarda come induce il suolo, altrimenti mal disposto,
ad aumentare i suoi regali con orgoglio!
Ella è la gemma; e tutto il paesaggio
(così la sua grandeur isola i sensi)
sembrerebbe solo lo scenario d’un tutto senza valore,
un bicchiere vuoto, se lei dovesse morire.
Così, di fronte alle bufere invernali della vita,
gli uomini dovrebbero imparare come avvinghiarsi
alla terra che infonde vigore; – come altrimenti sfruttare
la linfa generatrice di foglie che germoglia dal sole?
Così ogni anno che muore con le sue scaglie silenti
riempie le vecchie cicatrici sul lato più antico,
e rende l’età canuta riverita come l’età della salute,
un’epoca di orgogliosa e fronzuta giovinezza.
Così dal suolo tormentato da un destino iracondo,
i veri cuori spingono la linfa a svilupparsi più robusta,
e così tra terra e cielo rimangono sempre grandiosi,
sempre più simili ai loro predecessori;
perché le forze della natura con obbediente zelo
aspettano la fede ben radicata e la volontà della quercia;
percepiscono velocemente la frode dell’ingannatore,
e costringono gli Spiritelli a deriderlo e sbeffeggiarlo.
Signora! Tutte le tue opere sono lezioni, e tutte hanno
l’emblema dell’animo umano;
l’uomo renderà infruttuose tutte le tue gloriose pene,
scavando nella sua graziosa mole senza occhi?
Rendimi l’ultimo del boschetto di Dodona,
rendimi messaggero della tua verità,
dimmi una sola parola, non lasciare che il tuo amore
disdegni di posarsi tra i miei rami e di cantare per te.
Si laurea ad Harvard nel 1838, in legge, ma ben presto si dedica alla passione poetica, pubblicando nel 1841 la sua prima raccolta di poesie.
Impegnato con la moglie, Maria Bianca, nello sviluppo dell’abolizionismo della schiavitù negli Stati Uniti, utilizza la poesia come veicolo di lotta per informare ed educare il pubblico.
La sua opera in versi La Fable for Critics (Favola per i critici, 1848), è incentrata su giudizi critici profondi sui maggiori scrittori contemporanei; invece The Biglow Papers (Il carteggio Biglow), manifestò la disapprovazione dell’autore per la guerra con il Messico.
Descrizione del libro di Corrado Calabrò-Con questo volume di poesie scelte, Corrado Calabrò consegna al lettore un’opera antologica importante e nuova, organizzata in sezioni che gettano luce sui temi fondamentali della sua sessantennale attività di scrittura: un autoritratto poetico da cui emerge la forte consapevolezza raggiunta con la piena maturità espressiva, capace di stabilire rapporti profondi fra testi nati in momenti diversi della vita. Il mare, l’astrofisica e l’amore risultano gli elementi cardine intorno ai quali ruota il pensiero emozionale del poeta, tenuti insieme dall’energia che dà forma alla salda pronuncia del dettato, tra classico e sperimentazione, nella variabilità di forme che spaziano dal poemetto all’epigramma. «La vera originalità del Calabrò» ha scritto Carlo Bo nel 1992, individuando uno dei motivi centrali dell’intera sua opera «sta nell’essersi staccato dai modelli comuni per inseguire una diversa sperimentazione poetica… Ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l’idea di un mare eterno e insondabile.» Accompagnano le poesie due significative riflessioni d’autore. La densa postfazione, intitolata C’è ancora spazio, c’è ancora senso per la poesia, oggi?, costituisce un bilancio dei multiformi interessi e della passione profusa da Calabrò nel fare poesia; l’altra nota è invece dedicata al poemetto Roaming – apparso per la prima volta nel volume La stella promessa del 2009 e ora posto in apertura di questo libro – che rappresenta forse l’opera più suggestiva di Calabrò. Dopo duemila anni dal De rerum natura di Lucrezio, infatti, l’astrofisica è tornata ad essere, in forma onirica, materia di poesia.
Breve biografia di Corrado Calabrò è nato a Reggio Calabria. Al primo volume di poesie, scritto tra i diciotto e i vent’anni, Prima attesa (1960), sono seguite molte altre raccolte, tra cui Agavi in fiore (1976), Presente anteriore (1981), Rosso d’Alicudi (1992), Una vita per il suo verso (2002), La stella promessa (2009), T’amo di due amori (2010). Numerose sono le edizioni straniere delle sue poesie in una ventina di lingue e le trasposizioni teatrali e musicali dei suoi versi. Col romanzo Ricorda di dimenticarla (1999) è stato finalista al premio Strega e ha ispirato il film Il mercante di pietre di Renzo Martinelli. Per la sua opera poetica ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero, tra cui due lauree honoris causa.
Viviamo d’un fremito d’aria,
d’un filo di luce,
dei più vaghi e fuggevoli
moti del tempo,
di albe furtive,
di amori nascenti,
di sguardi inattesi.
E per esprimere quel che sentiamo
c’è una parola sola:
disperazione.
Dolce, infinita, profonda parola.
Vaga e triste è degli uomini la sorte:
degli uomini che passano
con non maggior fragore d’una foglia
che si tramuta in terra.
Precario stato il loro.
La morte è uno sciogliersi,
non un finire,
e senza tempo, senza memoria
il terrestre viaggio.
Il sole è stanco di contemplare
una tanto monotona vicenda.
Così parlava un monaco
neghittoso e bizzarro,
là, nell’antico Oriente:
piccolo uomo assediato
da immani fantasmi.
O gioventù, innocenza, illusioni,
tempo senza peccato, secol d’oro!
Poi che trascorsi siete
si costuma rimpiangervi
quale un perduto bene.
Io so che foste un male.
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
come un tronco sepolto nella neve:
tronco verde, muscoso,
ricco di linfa e sterile.
Ora che, esausto e roso,
sciolto da voi percorsi in un baleno
le mie fiorenti stagioni
e sparso a terra vedo
il poco frutto che han dato,
ora che la mia sorte ho conosciuta,
qual essa sia non chiedo. Così rapida
fugge la vita che ogni sorte è buona
per tanto breve giornata.
Solo di voi mi dolgo, primi inganni.
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
POESIE.
Vincenzo Cardarelli
Editore: Mondadori, Milano, 1942
Prima edizione, 25 aprile 1942. Un volume (20 cm) di 132 pagine. Prefazione di Giansiro Ferrata
Il bosco di primavera
ha un’anima, una voce.
È il canto del cuccù,
pieno d’aria,
che pare soffiato in un flauto.
Dietro il richiamo lieve,
più che l’eco ingannevole,
noi ce ne andiamo illusi.
Il castagno è verde tenero.
Sono stillanti persino
le antiche ginestre.
Attorno ai tronchi ombrosi,
fra giochi di sole,
danzano le amadriadi.
L’autunno romano tempesta
con furia senile.
E’ Giove che si cruccia
di non poter risplendere
in tutta la sua gloria,
dio irragionevole e antico.
E tuona con fragore
di mobili in isgombero,
lampeggia con improvvise
accensioni di lampadina,
rinnovando in autunno i suoi capricci
primaverili,
e gli alberi si illudono
di rinverdire.
Nume violento e spossato
che, al dolce tempo restio,
poi che passò l’estate
nel caos ci precipita,
per farci rivedere la sua faccia,
di là da questo diluvio,
insostenibilmente luminosa.
Io pago tutto.
Non c’è peccato
ch’io non abbia finora
debitamente scontato.
Ho un organismo vitale
che vuole, contrariamente
al Diavolo di Goethe,
vuole il Bene e fa il Male.
Pensate quale puntualità
e che liste di conti da saldare.
Ai messi del Signore
l’uscio della mia casa è sempre aperto.
E spesso delle loro intimazioni,
prevenendole,
io stesso senz’attenderli
mi faccio esecutore.
Sì che quand’essi giungono
ritto sull’uscio li fermo
e li rimando dicendo:
Amici, sono anch’io
cursore e complice di Dio.
Che dunque venite a fare
se il debito è già pagato ?
Forse è perciò che una donna cattiva
suole dire celiando
ch’io sono un santo e innanzi di morire
farò miracoli.
Talvolta infatti io mi vedo come uno
di quei poveri santi
che sulle tele delle sacrestie
stanno in adorazione della Vergine,
inutilmente aspettando
un suo sguardo.
Ma vi dico, in verità,
che volentieri darei, se pur l’avessi,
una tanto gloriosa vocazione
per un poco d’allegra umanità.
Lenta e rosata sale su dal mare
la sera di Liguria, perdizione
di cuori amanti e di cose lontane.
Indugiano le coppie nei giardini,
s’accendon le finestre ad una ad una
come tanti teatri.
Sepolto nella bruma il mare odora.
Le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare.
L’alito freddo e umido m’assale
di Venezia autunnale.
Adesso che l’estate,
sudaticcia e sciroccosa,
d’incanto se n’è andata,
una rigida luna settembrina
risplende, piena di funesti presagi,
sulla città d’acque e di pietre
che rivela il suo volto di medusa
contagiosa e malefica.
Morto è il silenzio dei canali fetidi,
sotto la luna acquosa,
in ciascuno dei quali
par che dorma il cadavere d’Ofelia:
tombe sparse di fiori
marci e d’altre immondizie vegetali,
dove passa sciacquando
il fantasma del gondoliere.
O notti veneziane,
senza canto di galli,
senza voci di fontane,
tetre notti lagunari
cui nessun tenero bisbiglio anima,
case torve, gelose,
a picco sui canali,
dormenti senza respiro,
io v’ho sul cuore adesso più che mai.
Qui non i venti impetuosi e funebri
del settembre montanino,
non odor di vendemmia, non lavacri
di piogge lacrimose,
non fragore di foglie che cadono.
Un ciuffo d’erba che ingiallisce e muore
su un davanzale
è tutto l’autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali
non son che luci smarrite,
luci che sognano la buona terra
odorosa e fruttifera.
Solo il naufragio invernale conviene
a questa città che non vive,
che non fiorisce,
se non quale una nave in fondo al mare.
Che cosa mi colpisce oramai!
Un velo d’ombra di mare
sui monti lontani,
un lembo di nuvola tutelare.
Ma basta levare la testa.
Le cose non stanno che a ricordare.
Piano piano i minuti vissuti,
fedelmente li ritroveremo.
Coraggio, guardiamo.
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei così m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
più e più insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, più per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
Quel fatale e prescritto momento
che ci diremo addio
è già in ogni distacco
del tuo volto dal mio.
Cosa lieve è il tuo corpo!
Basta che io l’abbandoni per sentirti
crudelmente lontana.
Il più corto saluto è fra noi due
un commiato finale.
Ogni giorno ti perdo e ti ritrovo
così, senza speranza.
Se tu sapessi com’è già remoto
il ricordo dei baci
che poco fa mi davi,
di quel caro abbandono,
di quel folle tuo amore ov’io non mordo
che sapore di morte.
La vita io l’ho castigata vivendola.
Fin dove il cuore mi resse
arditamente mi spinsi.
Ora la mia giornata non è più
che uno sterile avvicendarsi
di rovinose abitudini
e vorrei evadere dal nero cerchio.
Quando all’alba mi riduco,
un estro mi piglia, una smania
di non dormire.
E sogno partenze assurde,
liberazioni impossibili.
Oimè. Tutto il mio chiuso
e cocente rimorso
altro sfogo non ha
fuor che il sonno, se viene.
Invano, invano lotto
per possedere i giorni
che mi travolgono rumorosi.
Io annego nel tempo.
Al bar della stazione ci fermiamo tutti per un caffè. Se viaggiando nel tempo fino, ci fossimo fermati alla stazione di Corneto Tarquinia, negli ultimi anni dell’Ottocento, avremmo scambiato due chiacchiere con un certo Antonio Romagnoli. Magari ci avrebbe dato qualche informazione sugli orari dei treni; magari avremmo scambiato qualche chiacchiera in modo distratto, sul governo o sul tempo.
Intanto avremmo visto un bambino giocare da qualche parte e quel bambino è il figlio illegittimo di Antonio Romagnoli e di Giovanna Caldarelli. E quel bambino, di nome Nazareno, nato sfortunato per via di una menomazione al braccio sinistro, nato già solo in un mondo che sembra non avere troppo posto per lui, quel bambino è un poeta, uno di quelli bravi davvero.
Cambierà nome e sarà Vincenzo Cardarelli il poeta che più di tutti ha cantato l’incanto dell’amore, della giovinezza, dell’adolescenza e come il tempo possa travolgerci.
La vita di Vincenzo Cardarelli
Vincenzo Cardarelli (nato Nazareno Caldarelli) nasce nel 1887 in una famiglia di umili condizioni, a Corneto Tarquinia (Viterbo) dove un tempo splendeva la civiltà etrusca: il padre gestisce il bar della stazione ferroviaria e ha una relazione con Giovanna Caldarelli, che ne resta incinta.
Nazareno è un figlio illegittimo e per la madre è difficile riuscire a tirarlo su. Dopo le scuole elementari, lascia gli studi e a diciassette anni si trasferisce a Roma trovandosi a fare i mestieri più vari, ad esempio il correttore di bozze per il giornale l’«Avanti». Era il primo contatto con il mestiere di giornalista che avrebbe iniziato proprio con quel giornale.
La rivista letteraria La Ronda
La sua carriera giornalistica fu intensa in quegli anni e furono molte le collaborazioni di Cardarelli con altri giornali come «Il Marzocco», «Il Resto del Carlino», ecc.
Non partecipò alla prima guerra mondiale poiché riformato e passò invece di città in città (Firenze Venezia, Milano, Lugano…) per poi tornare a Roma dove fu tra i fondatori e direttori della rivista letteraria «La Ronda», di cui fu anche il maggiore esponente e teorico.
La morte
Fu il momento di massima gloria per il poeta, perché poi, nonostante altre importanti collaborazioni, finì mano a mano sempre più isolato e lontano dai riflettori.
Morì in solitudine a Roma nel 1959. È sepolto a Tarquinia, per sua volontà, davanti ai luoghi della civiltà etrusca da lui tanto amata e più volte evocata poeticamente.
VINCENZO CARDARELLI
L’esperienza de «La Ronda» per un ritorno all’ordine
Parlare di Cardarelli richiede una doverosa premessa sulla rivista «La Ronda» e sugli ideali letterari da essa proposti. Dopo gli squilibri e le esagerazioni del Futurismo, dopo la febbre di cambiamento sfociata nella grande guerra, ecco che si avverte l’esigenza di tornare all’ordine e all’armonia.
Roma si candida a nuovo centro della letteratura italiana, scalzando idealmente Firenze (dove erano state fondate le riviste la «Voce» e «Lacerba»).
La rivista «La Ronda», uscita per la prima volta nell’aprile del 1919, con la sua bella copertina color mattone e il disegno di un tamburino che chiama a raccolta, si impone di ritrovare l’ordine perduto e recuperare la misura e l’equilibrio del mondo classico, perseguendo una ricerca stilistica capace di rispecchiare sia l’eleganza e la concretezza della forma, sia la profondità intellettuale.
Antonio Baldini (1889-1962), scrittore, giornalista e saggista italiano, co-fondatore della rivista ‘La Ronda’. Roma, 1950 circa — Fonte: getty-images
Soprannomi dei fondatori
Sono sette i redattori e co-fondatori della «Ronda»: Riccardo Bacchelli (1891-1985), Antonio Baldini (1889-1962), Bruno Barilli (1880-1952), Vincenzo Cardarelli (1887-1959), Emilio Cecchi (1884-1966), Lorenzo Montano (alias Danilo Lebrecht, 1880-1952) e Aurelio Emilio Saffi, segretario di redazione.
I fondatori si chiamano anche «i sette savi» o «i sette nemici» e ciascuno ha un soprannome ironico. Antonio Baldini è Margutte, il celebre goliardo mezzo-gigante che troviamo nel Morgante di Luigi Pulci; Vincenzo Cardarelli detto “pubblicista”, Emilio Cecchi “esquire” (lo scudiero, perché deve difendere i poeti con la sua esperienza nella critica letteraria), Riccardo Bacchelli è “possidente”, Antonio Baldini è “baccelliere in lettere”, Lorenzo Montano è “industriale”, “Bruno Barilli è “compositore”, Aurelio Emilio Saffi è “docente nelle scuole governative”.
Gli obiettivi de La Ronda
Questa rivista non ambisce a creare un’opinione politica, ma vuole solo occuparsi di letteratura. Troppo fresco è il ricordo degli intellettuali interventisti come Pascoli e D’Annunzio o il bellicismo dei poeti futuristi come Marinetti.
Quali sono allora gli obiettivi? Riassumiamo:
Culto dei classici
Gusto aristocratico della letteratura
Ricerca del decoro espressivo
Ordine e misura.
«La Ronda» difende anche l’idea della cosiddetta prosa d’arte e il cosiddetto «capitolo», una prosa descrittiva che punta a creare un frammento compiuto (che è un ossimoro) capace di esprimere controllo e piena chiarezza del dettato.
Queste due forme poetiche rappresentano un’evoluzione particolare della prosa lirica. I modelli letterari di riferimento della prosa «rondista» sono:
Questi sono dei modelli di riferimento, ma i rondisti non sono chiusi in sé stessi, avulsi da quanto è accaduto o sta accadendo nella letteratura europea. La fine della «Ronda» è nel 1922.
Ordine, armonia e disciplina sono diventate parole di propaganda del regime fascista e questo creerebbe una sovrapposizione inammissibile. Si chiude così la sua stagione, in un dignitoso e duro silenzio.
La poetica di Cardarelli
Versi discorsivi
Dopo la premessa con «La Ronda» e i suoi ideali risulta più semplice capire quale sia la poetica di Cardarelli, visto che lui è uno dei co-fondatori della rivista letteraria.
Cardarelli punta a una poesia dove i versi abbiamo uno svolgimento discorsivo che possa mettere in luce i segreti moti psicologici dell’autore; con armonia, ma sempre con urgenza; con un ritmo implacabile, con uno scopo a rivelarsi subito chiaro.
Una poesia che ragiona, come un lungo colloquio dell’anima. Colloquiale ma non per ironia come accadeva ai poeti crepuscolari; prosaica ma non per questo meno ricercata e intimamente lirica. Una poesia, quella di Cardarelli, che è discorso sempre in atto, fluente, vivido.
Le parole di Cardarelli
Dice di sé stesso il poeta:
«che la mia poesia “discorra” non c’è dubbio. Anzi corre precipitosamente allo scopo, con un ritmo che non ammette divagazioni, non concede indugi, quantunque non sempre in modo graduale e pacifico. Più spesso procede per giustapposizione di idee o d’immagini, per rifrazioni di un medesimo concetto che, accennato fin dalle prime sillabe, si svolge, se mi è permesso di dirlo, come un tema musicale. È la mia maniera di esprimermi».
Il tempo: ossessione ed occasione
La soggettività di Cardarelli si spande nel tempo perché il tempo è la tela del suo io, come l’autoritratto non potesse mai davvero finire; se non con la morte, ovviamente. E allora il tempo è ossessione ed occasione insieme. Non interessa tanto il tempo storico, quanto il tempo in cui l’io ha modo di scoprire il suo passaggio silenzioso nell’esistenza.
Il brano Idea della morte
Si legge nel brano Idea della morte (1918), incluso in Viaggi nel tempo (1920):
«Sono turbato dalla sensazione del tempo come un pericolo assiduo. Il desiderio, spesso spropositato in me, di abbandonarmi, è vinto da una vaga inquietudine senza causa, che urge e mi consiglia di levarmi su, presto, come se ad ogni istante si potesse correre il rischio di perdere tutto il tempo in una volta, tutte le probabilità e le occasioni. […] E mentre noi che ne andiamo, ilari e distratti, per la nostra strada, egli ci cammina dietro, e allorché, trasalendo, ci rivolteremo per guardarlo, ci avrà già passati».
Il tema del vagabondaggio
Il tema del tempo si lega a quello dell’occasione perduta e dell’infanzia passata inesorabilmente.
C’è anche il tema del vagabondaggio, spiccatamente autobiografico, perché Cardarelli si percepisce come un uomo sempre messo al bando.
La sofferenza permea ma non spezza il rigore espressivo e logico della poesia di Cardarelli che riesce sempre a trovare la giusta armonia e una mai acquietata dolcezza.
Il concetto di «impassibilità»
Mengaldo sottolinea il concetto di «impassibilità», come capacità di volgere l’ispirazione «indifferentemente su tutte le cose, come si diffonde la luce». E aggiunge che questa definizione dello stesso poeta «chiarisce benissimo le motivazioni del cosiddetto classicismo cardarelliano, in quanto rifiuto delle salienze espressive e dell’esposizione violenta di singoli particolari in nome di un’equa distribuzione dell’energia stilistica su tutta la superficie del testo…» (Poeti italiani del Novecento, 366).
Vediamo alcune delle poesie più rappresentative di questo poeta, cercando di dare un piccolo commento a ognuna. Non serve la parafrasi perché non si parla più in italiano antico!
Abbiamo detto che il tema del tempo è di assoluta importanza per Cardarelli. Lo è per tanti poeti, in verità, se non per tutti. Cardarelli ha comunque un modo tutto suo di esprimerlo: ora dolce, ora terribile; ora occasione, ora rimpianto.
Il tempo è anche il passaggio in cui la realtà si rinnova. Come se fossimo in un sonetto della corona dei mesi, Cardarelli sceglie di parlarci di febbraio, il mese più corto dell’anno, un mese piccolo e sempre bambino.
Febbraio
Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
Cardarelli innamorato
L’amore è il tema dei poeti: quanto è difficile parlarne? Quanto è difficile scriverne? Scommetto che tutti ci abbiamo provato ad esprimere questo sentimento su carta per poi capire che non ne siamo capaci.
Compito sopraffino da lasciare ai poeti, che parlano per noi tutti. In questa poesia Cardarelli si accorge di essersi innamorato: se ne accorge dallo sguardo di lei triste e felice a un tempo.
Nella mancanza di lei, come in un provenzale “amore da lontano”, il poeta si agita e pensa a cosa sta accadendo e a come quel sentimento, come un uccellino si sia aggrappato ai rami del suo cuore.
Amore
Come chi gioia e angoscia provi insieme
gli occhi di lei cosí m’hanno lasciato.
Non so pensarci. Eppure mi ritorna
piú e piú insistente all’anima
quel suo fugace sguardo di commiato.
E un dolce tormento mi trattiene
dal prender sonno, ora ch’è notte e s’agita,
nell’aria un che di nuovo.
Occhi di lei, vago tumulto. Amore,
pigro, incredulo amore, piú per tedio
che per gioco intrapreso, ora ti sento
attaccato al mio cuore (debol ramo)
come frutto che geme.
Amore e primavera vanno insieme.
L’addio
Gli amori dei poeti di norma finiscono tutti. Ma come è dolce il finire delle cose, a volte, quanto è strano di colpo capire che qualcosa è finito. Sotto i nostri occhi, d’improvviso.
E qualcosa si spezza in noi e quella vita, quella possibilità, quella promessa di giorni felici svanisce per sempre. Resta solo il ricordo, amaro, poi magari più dolce e sbiadito, come una luce che passa attraverso le tende. In questa poesia l’addio è netto, deciso: «Non mi lasciasti nessuna speranza», dice Cardarelli.
Ed è così che di lei resta solo lo spettro, un compagno silenzioso e fastidioso; quel silenzio è un baratro dove l’assenza sembra chiamare a sé ogni cosa.
Crudele addio
Ti conobbi crudele nel distacco.
Io ti vidi partire
come un soldato che va alla morte
senza pietà per chi resta.
Non mi lasciasti nessuna speranza.
Non avevi, in quel punto,
la forza di guardarmi.
Poi più nulla di te, fuorché il tuo spettro,
assiduo compagno, il tuo silenzio
pauroso come un pozzo senza fondo.
Ed io m’illudo
che tu possa riamarmi.
E non fo che cercarti, non aspetto
che il tuo ritorno,
per vederti mutata, smemorata,
aver noia di me che oserò farti
qualche amoroso e inutile dispetto.
Nostalgia e rimpianto
Nascono ombre smisurate da corpi troppo brevi, perché breve è il loro passaggio nel tempo. I ricordi sono così: uno «strascico di morte».
Con una metafora truce e dolorosa, Cardarelli ci porta nella dimensione della nostalgiae del rimpianto che l’amore genera in lui. I ricordi sono «fantasmi agitati da un vento funebre», per riprendere l’immagine dello spettro della poesia precedente, cara al poeta.
La donna amata è un ricordo e quindi, implicitamente, uno spettro che si aggira nella memoria del poeta (la parola «trapassata» si usa infatti per i morti).
L’ultimo sussulto della storia, prima del commiato, è nella consapevolezza che il tempo raggiunge ogni cosa e che l’amore è un fuoco che brucia e agita quel tempo, breve, concesso alla vita.
VINCENZO CARDARELLI
Passato
I ricordi, queste ombre troppo lunghe
del nostro breve corpo,
questo strascico di morte
che noi lasciamo vivendo
i lugubri e durevoli ricordi,
eccoli già apparire:
melanconici e muti
fantasmi agitati da un vento funebre.
E tu non sei più che un ricordo.
Sei trapassata nella mia memoria.
Ora sì, posso dire che
che m’appartieni
e qualche cosa fra di noi è accaduto
irrevocabilmente.
Tutto finì, così rapito!
Precipitoso e lieve
il tempo ci raggiunse.
Di fuggevoli istanti ordì una storia
ben chiusa e triste.
Dovevamo saperlo che l’amore
brucia la vita e fa volare il tempo.
Amore e solitudine
“Attesa” è giustamente una delle poesie più famose di Cardarelli, per dolcezza, malinconia e finanche lieve candore delle immagini. Come nei poemi cavallereschi l’amore è una ricerca attiva o passiva: possiamo andare incontro all’amata come il furioso Orlando di Ariosto o possiamo attendere l’arrivo dell’amata, alla finestra, febbricitanti nell’attesa.
L’amore ha un modo tutto suo di disattendere l’una e l’altra dinamica. Se cerchiamo, non troviamo. Se aspettiamo, non arriva. E allora l’amore si fa compagno della solitudine, intensa esplorazione dell’altro dentro di noi.
È un’assenza che si colma di senso. L’assenza della donna amata brilla tumultuosa come una stella. Come un temporale che, eccolo, è lì, pronto a scrosciare con impeto, ma poi se ne va verso altri luoghi.
L’amore è tutto. Saffo lo definiva dolce-amara bestia. Cardarelli lo vorrebbe coprire di fiori, ma anche di insulti.
Attesa
Oggi che t’aspettavo
non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
s’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
L’amore, sul nascere,
ha di questi improvvisi pentimenti.
Silenziosamente
ci siamo intesi.
Amore, amore, come sempre,
vorrei coprirti di fiori e d’insulti.
Gregory Corso, il poeta ribelle della Beat Generation –
Gregory Corso (1930-2001) was a founding member of the Beat Generation, and for over fifty years one of America’s most popular and beloved poets. He was the author of over a dozen books of poetry and one novel, in addition to posthumously published collections of plays, interviews and correspondence. His book, The Golden Dot: Last Poems, 1997-2000, edited by Raymond Foye and George Scrivani, will be published in Spring 2022 by Lithic Press.
Gregory Corso
Born in New York City’s Greenwich Village. He was placed in numerous foster homes, and as a teenager served time in detention centers and prisons in New York and Vermont. His lifelong friendship with Allen Ginsberg began in 1951 with their meeting in a Greenwich Village bar, shortly after Corso’s release from Clinton Correctional Facility. In 1954-55, Corso was based in Cambridge, Massachusetts, staying with friends from Harvard and Radcliffe colleges, and befriending Frank O’Hara and Bunny Lang at the Poet’s Theater. His first book The Vestal Lady on Brattle and Other Poems was published there in 1955. As an original member of the Beat Generation along with Ginsberg, Herbert Huncke, William S. Burroughs and Jack Kerouac, Corso was a public figure and a poet of great popularity who published and read widely. In 1965 he was invited to teach at SUNY Buffalo but was dismissed upon arrival when he refused to sign a loyalty oath to the US Government. He lived a peripatetic life, dividing his time between New York, San Francisco, Paris, Rome, and Athens. A faculty member in poetics at the Naropa Institute in Boulder in the 1980s and 1990s, Corso died of prostate cancer in January 2001.
La poesia di Gregory Corso ‘Bomb’ pubblicata nel 1958 è stata, secondo Catharine Seigel, una delle prime poesie ad affrontare l’esistenza della bomba nucleare. Fu pubblicata come un foglio volante (broadside) con il testo disposto a formare la forma di un fungo atomico. I primi 30 versi creavano la forma della cima del fungo, mentre i versi 30-190 formavano il pilastro di detriti e distruzione che si innalzavano dal suolo. Corso si rifaceva alla tradizione della poesia visiva ma fece la scelta irriverente di creare la forma della nuvola che risulta dalla detonazione di una bomba nucleare. Usi precedenti di questa tecnica davano alla poesia la forma di ali d’angelo e altari, per cui la scelta di Corso risulta secondo Siegel “ironicamente appropriata”. La poesia apparve nel volume “The Happy Birthday of Death” che conteneva una fotografia in bianco e nero dell’esplosione nucleare sopra Hiroshima.
Gregory Corso
Budger of history Brake of time You Bomb
Toy of universe Grandest of all snatched sky I cannot hate you
Do I hate the mischievous thunderbolt the jawbone of an ass
The bumpy club of One Million B.C. the mace the flail the axe
Catapult Da Vinci tomahawk Cochise flintlock Kidd dagger Rathbone
Ah and the sad desparate gun of Verlaine Pushkin Dillinger Bogart
And hath not St. Michael a burning sword St. George a lance David a sling
Bomb you are as cruel as man makes you and you’re no crueller than cancer
All Man hates you they’d rather die by car-crash lightning drowning
Falling off a roof electric-chair heart-attack old age old age O Bomb
They’d rather die by anything but you Death’s finger is free-lance
Not up to man whether you boom or not Death has long since distributed its
categorical blue I sing thee Bomb Death’s extravagance Death’s jubilee
Gem of Death’s supremest blue The flyer will crash his death will differ
with the climbor who’ll fall to die by cobra is not to die by bad pork
Some die by swamp some by sea and some by the bushy-haired man in the night
O there are deaths like witches of Arc Scarey deaths like Boris Karloff
No-feeling deaths like birth-death sadless deaths like old pain Bowery
Abandoned deaths like Capital Punishment stately deaths like senators
And unthinkable deaths like Harpo Marx girls on Vogue covers my own
I do not know just how horrible Bombdeath is I can only imagine
Yet no other death I know has so laughable a preview I scope
a city New York City streaming starkeyed subway shelter
Scores and scores A fumble of humanity High heels bend
Hats whelming away Youth forgetting their combs
Ladies not knowing what to do with their shopping bags
Unperturbed gum machines Yet dangerous 3rd rail
Ritz Brothers from the Bronx caught in the A train
The smiling Schenley poster will always smile
Impish death Satyr Bomb Bombdeath
Turtles exploding over Istanbul
The jaguar’s flying foot
soon to sink in arctic snow
Penguins plunged against the Sphinx
The top of the Empire state
arrowed in a broccoli field in Sicily
Eiffel shaped like a C in Magnolia Gardens
St. Sophia peeling over Sudan
O athletic Death Sportive Bomb
the temples of ancient times
their grand ruin ceased
Electrons Protons Neutrons
gathering Hersperean hair
walking the dolorous gulf of Arcady
joining marble helmsmen
entering the final ampitheater
with a hymnody feeling of all Troys
heralding cypressean torches
racing plumes and banners
and yet knowing Homer with a step of grace
Lo the visiting team of Present
the home team of Past
Lyre and tube together joined
Hark the hotdog soda olive grape
gala galaxy robed and uniformed
commissary O the happy stands
Ethereal root and cheer and boo
The billioned all-time attendance
The Zeusian pandemonium
Hermes racing Owens
The Spitball of Buddha
Christ striking out
Luther stealing third
Planeterium Death Hosannah Bomb
Gush the final rose O Spring Bomb
Come with thy gown of dynamite green
unmenace Nature’s inviolate eye
Before you the wimpled Past
behind you the hallooing Future O Bomb
Bound in the grassy clarion air
like the fox of the tally-ho
thy field the universe thy hedge the geo
Leap Bomb bound Bomb frolic zig and zag
The stars a swarm of bees in thy binging bag
Stick angels on your jubilee feet
wheels of rainlight on your bunky seat
You are due and behold you are due
and the heavens are with you
hosanna incalescent glorious liaison
BOMB O havoc antiphony molten cleft BOOM
Bomb mark infinity a sudden furnace
spread thy multitudinous encompassed Sweep
set forth awful agenda
Carrion stars charnel planets carcass elements
Corpse the universe tee-hee finger-in-the-mouth hop
over its long long dead Nor
From thy nimbled matted spastic eye
exhaust deluges of celestial ghouls
From thy appellational womb
spew birth-gusts of of great worms
Rip open your belly Bomb
from your belly outflock vulturic salutations
Battle forth your spangled hyena finger stumps
along the brink of Paradise
O Bomb O final Pied Piper
both sun and firefly behind your shock waltz
God abandoned mock-nude
beneath His thin false-talc’s apocalypse
He cannot hear thy flute’s
happy-the-day profanations
He is spilled deaf into the Silencer’s warty ear
His Kingdom an eternity of crude wax
Clogged clarions untrumpet Him
Sealed angels unsing Him
A thunderless God A dead God
O Bomb thy BOOM His tomb
That I lean forward on a desk of science
an astrologer dabbling in dragon prose
half-smart about wars bombs especially bombs
That I am unable to hate what is necessary to love
That I can’t exist in a world that consents
a child in a park a man dying in an electric-chair
That I am able to laugh at all things
all that I know and do not know thus to conceal my pain
That I say I am a poet and therefore love all man
knowing my words to be the acquainted prophecy of all men
and my unwords no less an acquaintanceship
That I am manifold
a man pursuing the big lies of gold
or a poet roaming in bright ashes
or that which I imagine myself to be
a shark-toothed sleep a man-eater of dreams
I need not then be all-smart about bombs
Happily so for if I felt bombs were caterpillars
I’d doubt not they’d become butterflies
There is a hell for bombs
They’re there I see them there
They sit in bits and sing songs
mostly German songs
And two very long American songs
and they wish there were more songs
especially Russian and Chinese songs
and some more very long American songs
Poor little Bomb that’ll never be
an Eskimo song I love thee
I want to put a lollipop
in thy furcal mouth
A wig of Goldilocks on thy baldy bean
and have you skip with me Hansel and Gretel
along the Hollywoodian screen
O Bomb in which all lovely things
moral and physical anxiously participate
O fairylike plucked from the
grandest universe tree
O piece of heaven which gives
both mountain and anthill a sun
I am standing before your fantastic lily door
I bring you Midgardian roses Arcadian musk
Reputed cosmetics from the girls of heaven
Welcome me fear not thy opened door
nor thy cold ghost’s grey memory
nor the pimps of indefinite weather
their cruel terrestial thaw
Oppenheimer is seated
in the dark pocket of Light
Fermi is dry in Death’s Mozambique
Einstein his mythmouth
a barnacled wreath on the moon-squid’s head
Let me in Bomb rise from that pregnant-rat corner
nor fear the raised-broom nations of the world
O Bomb I love you
I want to kiss your clank eat your boom
You are a paean an acme of scream
a lyric hat of Mister Thunder
O resound thy tanky knees
BOOM BOOM BOOM BOOM BOOM
BOOM ye skies and BOOM ye suns
BOOM BOOM ye moons ye stars BOOM
nights ye BOOM ye days ye BOOM
BOOM BOOM ye winds ye clouds ye rains
go BANG ye lakes ye oceans BING
Barracuda BOOM and cougar BOOM
Ubangi BOOM orangutang
BING BANG BONG BOOM bee bear baboon
ye BANG ye BONG ye BING
the tail the fin the wing
Yes Yes into our midst a bomb will fall
Flowers will leap in joy their roots aching
Fields will kneel proud beneath the halleluyahs of the wind
Pinkbombs will blossom Elkbombs will perk their ears
Ah many a bomb that day will awe the bird a gentle look
Yet not enough to say a bomb will fall
or even contend celestial fire goes out
Know that the earth will madonna the Bomb
that in the hearts of men to come more bombs will be born
magisterial bombs wrapped in ermine all beautiful
and they’ll sit plunk on earth’s grumpy empires
fierce with moustaches of gold
Incalzatrice della storia Freno del tempo Tu Bomba
Giocattolo dell’universo Massima rapinatrice di cieli Non posso odiarti
Forse che l’odio il fulmine scaltro la mascella di un asino
La mazza nodosa di Un Milione di A.C. la clava il flagello l’ascia
Catapulta Da Vinci tomahawk Cochise acciarino Kidd pugnale Rathbone
Ah e la triste disperata pistola Verlaine Puskin Dillinger Bogart
E non ha S. Michele una spada infuocata S. Giorgio una lancia Davide una fionda
Bomba sei crudele come l’uomo ti fa e non sei più crudele del cancro
Ogni uomo ti odia preferirebbe morire in un incidente d’auto per un fulmine annegato
Cadendo dal tetto sulla sedia elettrica di infarto di vecchiaia di vecchiaia O Bomba
Preferirebbe morire di qualsiasi cosa piuttosto che per te Il dito della morte è indipendente
Non sta all’uomo che tu bum o no La Morte ha distrutto da un pezzo
il suo azzurro inflessibile Io ti canto Bomba Prodigalità della Morte Giubileo della Morte
Gemma dell’azzurro supremo della Morte Chi vola si schianterà al suolo la sua morte sarà diversa
da quella dello scalatore che cadrà Morire per un cobra non è morire per del maiale guasto
Si può morire in una palude in mare e nella notte per l’uomo nero
Oh ci sono morti come le streghe d’Arco Agghiaccianti morti alla Boris Karloff
Morti insensibili come un aborto morti senza tristezza come vecchio dolore Bowery
Morti nell’abbandono come la Pena Capitale morti solenni come i senatori
E morti impensabili come Harpo Marx le ragazze sulla copertina di Vogue la mia
Proprio non so quanto sia terribile la MortePerBomba Posso solo immaginarlo
Eppure nessuna morte di cui io sappia ha un’anteprima così buffa Panoramo
una città la città New York che straripa a occhi desolati rifugio nel subway
Centinaia e centinaia Un precipitare di umanità Tacchi alti piegati
Capelli spinti indietro Giovani che dimenticano i pettini
Signore che non sanno cosa fare delle borse della spesa
Impassibili distributori automatici di gomma Ma 3° rotaia pericolosa lo stesso
Ritz Brothers del Bronx sorpresi sul treno A
La sorridente réclame del Schenley sorriderà sempre
Morte Folletto Bomba Satiro Bombamorte
Tartarughe che esplodono sopra Istanbul
La zampa del giaguaro che balza
per affondare presto nella neve artica
Pinguini piombati contro la Sfinge
La cima dell’Empire State
sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia
Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens
S. Sofia atletica Bomba sportiva
I templi dell’antichità
finite le loro grandiose rovine
Elettroni Protoni Neutroni
che raccolgono capelli Esperidi
che percorrono il dolente golf dell’Arcadia
che raggiungono timonieri di marmo
che entrano nell’anfiteatro finale
con un senso di imnodia di tutte le Ilio
annunciando torce di cipressi
correndo con pennacchi e stendardi
e tuttavia conoscendo Omero con passo aggraziato
Ecco la squadra del Presente in visita
la squadra del Passato in casa
Lira e tuba insieme congiunte
Odi e wurstel soda oliva uva
galassia di gala usciere togato
e in alta uniforme O felici posti a sedere
Applausi e grida e fischi eterei
La presenza bilione del più grande pubblico
Il pandemonio di Zeus
Hermes che corre con Owens
La Palla lanciata da Buddha
Cristo che picchia la palla
Lutero che corre alla terza base
Morte planetaria Osanna Bomba
Fa sbocciare la rosa finale O Bomba di Primavera
Vieni con la tua veste di verde dinamite
libera dalla macchina l’occhio inviolato della Natura
Davanti a te. li Passato raggrinzito
dietro dl te il Futuro che ci saluta O Bomba
Rimbalza nell’erbosa aria da tromba
come la volpe nell’ultima tana
tuo campo l’universo tua siepe la terra
Salta Bomba rimbalza Bomba scherza a zig zag
Le stelle uno sciame d’api nella tua borsa tintinnante
Angeli attaccati ai tuoi piedi giubileo
ruote di pioggialuce sul tuo scanno
Sei attesa e guarda sei attesa
e i cieli sono con te
osanna Incalescente gloriosa liaison
BOMBA O strage antifonia fusione spacco BUM
Bomba fa l’infinito una Improvvisa fornace
distendi il. tuo Spazzare che abbracci moltitudini
avviati orribile agenda
Stelle del Carro pIaneti carnaio elementi di carcassa
Fa’ cadere l’universo salta ciucciante coi dito in bocca
sui suo da tanto da tanto morto Neanche
Dal tuo minuscolo peloso occhio spastico
espelli diluvi dl celestiali vampiri
Dal tuo grembo invocante
vomita turbini di grandi vermi
Squarcia Il tuo ventre o Bomba
dal tuo ventre fa’ sciamare saluti di avvoltolo
incalza col tuoi moncherini stellati dl iena
lungo il margine del Paradiso
Bomba O finale Pied Piper
sole e lucciola valzeggiano dietro la tua sorpresa
Dio abbandonato zimbello
Sono la Sua rada falso-narrata apocalisse
Lui non può sentire le un-bel-giorno
profanazioni del tuo flauto
Lui è rovesciato sordo nell’orecchio pustoloso del Silenziatore
il Suo Regno un’eternità di cera vergine
Trombe tappate non Lo annunciano
Angeli sigillati non Lo cantano
Un Dio senza tuoni Un Dio morto
Bomba il tuo BUM la Sua tomba,
Che io mi chini su un tavolo di scienza
astrologo che guazza in prosa di draghi
quasi esperto dl guerre bombe soprattutto bombe
Che io sia incapace di odiare ciò che è necessario amare
Che io non possa esistere in un mondo che consente
un bimbo abbandonato in un parco un uomo morto sulla sedia elettrica
Che io sia capace di ridere di tutte le cose
dl tutte quelle che so e quelle che non so per nascondere il mio dolore
Che dica di essere un poeta e perciò amo ogni uomo
sapendo che le mie parole sono la riconosciuta profezia di ogni uomo
e le mie non parole un non minore riconoscimento,
che io sia multiforme
uomo che Insegue le grandi bugie dell’oro
poeta che vaga tra ceneri luminose
come mi immagino
un sonno con denti di squalo un mangia-uomini di sogni
Allora non ho bisogno di esser davvero esperto di bombe
Per fortuna perché se le bombe ml sembrassero larve
non dubiterei che diventerebbero farfalle
C’è un inferno per le bombe
Sono laggiù Le vedo laggiù
Stan li e cantano canti
soprattutto canti tedeschi
e due lunghissimi canti americani
e vorrebbero che ci fossero altri canti
specialmente canti russi e cinesi
e qualche altro lunghissimo canto americano
Povera piccola Bomba che non sarai mal
un canto eschimese io ti amo
voglio mettere una caramella
nella tua bocca forcuta
Una parrucca di Goldilocks sulla tua zucca pelata
e farti saltellare con me come Hansel e Gretel
sullo schermo di Hollywood
O Bomba in cui tutte le cose belle
Morali e fisiche rientrano ansiose
fiocco di fata colto dal
più grande albero dell’universo
lembo di paradiso che dà
un sole alla montagna e al formicaio
Sto In piedi davanti alla tua fantastica porta gigliale
Ti porto rose Midgardian muschio d’Arcadia
Rinomati cosmetici delle ragazze del paradiso
Dammi il benvenuto non temere, la tua porta aperta
né il grigio ricordo del tuo freddo fantasma
nè i ruffiani del tuo tempo incerto
il loro crudele sciogliersi terreno
Oppenheimer è seduto
nella buia tasca di Luce
Fermi è disseccato nei Mozambico della Morte
Einstein la sua boccamito
una ghirlanda di patelle sulla testa di calamari lunari
Fammi entrare Bomba sorgi da quell’angolo da topo gravido
non temere le nazioni del mondo con le scope alzate
O Bomba ti amo
Voglio baciare il tuo clank mangiare il tuo bum
Sei un peana un acmé dl urli
un cappello lirico del Signor Tuono
fai risuonare le tue ginocchia di metallo
BUM BUM BUM BUM BUM
BUM tu cieli e BUM tu soli
BUM BUM tu lune tu stelle BUM
notti tu BUM tu giorni tu BUM
BUM BUM tu venU tu nubi tu nembi
Fate BANG voi laghi voi Oceani BING
Barracuda BUM e coguari BUM
Ubanghi BANG orangutang
BING BANG BONG BUM ape orso scimmion
tu BANG tu BONG tu BING
la zanna la pinna la spanna
Si Si In mezzo a noi cadrà una bomba
Fiori balzeranno di gioia con le radici doloranti
Campi si inginocchieranno orgogliosi sotto gli halleluia del vento
Bombe-garofano sbocceranno Bombe-alce rizzeranno le orecchie
Ah molte bombe quel giorno intimidiranno gli uccelli in aspetto gentile
Eppure non basta dire che una bomba cadrà
sia pure sostenere che il fuoco celeste uscirà
Sappiate che la terra madonnerà in grembo la Bomba
che nel cuore degli uomini a venire altre bombe. nasceranno
bombe da magistratura avvolte in ermellino tutto bello
e si pianteranno sedute sui ringhiosi imperi della terra
feroci con baffi d’oro.
Gregory Corso
Gregory’s Last Lines
( previously published in Eliot’s book Love, War, Fire Wind)
He was a poet of silk and the shredding of silk.
No earthling nor deity remained immune from his probing questions.
When the academy turned its head for a pulitzer second
he slipped an enlightened humor worm into the gut of poetry
that hasn’t yet wriggled its way out.
With fountain pen tears he mourned the nationalism of the nation
even as he hosanna’d the home run.
He fooled death, coaxing it into the soup of life
every time but for one.
Writing in “Many Have Fallen” about American soldiers
marched by Army into radioactive bomb blasts
Gregory wrote: “All survived / …until two decades later
when the dead finally died”–
a last line of stunning poetry enough to make the top
of Emily D’s head pop off.
In 1983, Andy Clausen brought him to carouse
our New Brunswick bars.
We stopped at my kitchen table electric typewriter,
where Gregory pulled his pocket notebook
and tapped out a piece for Long Shot magazine.
The poem was called “Delacroix Mural at St. Suplice.”
Deep into typing, Gregory stopped & asked
what thought I of his last three pencil’d lines.
I eyed his notebook, said I liked ’em but not as much
as the rest of the poem.
I thought he might write three new lines on the spot–
but instead he stood up, waved his left hand suavely
& declared the poem done at what’d been
the fourth-to-last line:
“I know the ways of god / by god!”
He knew how to end / at the ending.
I had the chance to read him “Ode to the West Wind”
on his cancer bed:
“If Winter comes, can Spring be far behind?”
After approaching mortality’s last breath in summer,
he arose to see another new year.
Now, I hear his ashes will be buried in Rome’s cemetery,
a neighbor of Shelley & the one whose name is writ in water.
In “Getting to the Poem,” Gregory ended:
“I will live / and never know my death.”
Who can say whether he was aware of that golden moment
when the breath says “no”?–
but he damn sure got to the poems.
Death, Gregory knew your secret name,
he knew your habits, your weapons, your games–
now give his verse the life it deserves
& do what you will with his gilgamesh hair
–Eliot Katz, 2001
about Love, War, Fire, Wind: Looking Out from North America’s Skull from Amazon.com:
Selected by Poetry.About.com as one of its Best Books of 2009. Mixing humor and imagination, visions of a healthy future and the windstorm realities of today, this collection of poems by Eliot Katz and artwork by William T. Ayton deals with themes of love, war, politics, ecology, and daily life. “I love these poems, which are full of passion and thought. Eliot Katz is among a handful of contemporary American poets whose work speaks to me.”–Howard Zinn “Eliot is right up there carrying the torch for Whitman and Ginsberg, keeping their vision alive and well….A must-read for anyone who believes poetry can still celebrate life.”–Alicia Ostriker “William Ayton has mastered the art of drawing with ink and brush. Like the words of Eliot Katz, his brush marks the page with deliberate force. A broken eggshell, weapons and dreams, a stroke that cannot be taken back.” –Tim Slowinski
Gregory Corso
Gregory Corso
Per Omero
C’è ruggine sulle vecchie verità
– Banalità corazzate erodono
menzogne nuove non hanno il buon profumo
delle scarpe nuove
Ho anni di poesie da battere a macchina
40 anni di fumo da smettere
non percepisco uno stipendio
Non ho una casa
E poiché le mie mani sono autoctonie
non riesco mai a lavarle abbastanza
Mi sento scemo
Mi sento come un vecchio toro spelacchiato
che si getta contro lo straccio rosso
di un giorno alcolizzato
eppure tutto è così bello
non è vero?
Che perfezione il sistema delle cose
Il corpo umano
tutto in proporzione alla sua forma
Nulla di superfluo
Proprio come se un dio l’avesse programmato così
E il sole per il giorno la luna per la notte
E l’erba la mucca il latte
Il fatto che tutti alla fine moriamo
Si penserebbe che dovrebbe esserci il caos
data la futilità di tutto
Ma i bambini continuano a nascere
spesso immagini sputate di noi
E le disuguaglianze
milioni dati a uno
zero all’altro
entrambi nella stessa barca che fa acqua
Io non ho nessuna religione
e per me venererei Ermes
E non c’è domani
c’è solo qui e ora
tu e chiunque sia con te
vivo come sempre
ed eternamente ignorante di quella morte che non conoscerai mai
E tutto è bene quel che si fa
Una felicità ellenica pervade la pace
e il dono continua a venire…
un lavoro iniziato splendidamente terminato
Vedere persone sensibili e buone
tranquille e contente nello stupore
come i sogni dei ciechi
I cieli parlano attraverso le nostre labbra
Tutto ciò che non si poteva trovare è afferrato
Tutto ciò che era rimasto indietro è portato
There’s rust on the old truths
-Ironclad clichés erode
New lies don’t smell as nice
as new shoes
I’ve years of poems to type up
40 years of smoking to stop
I’ve no steady income
No home
And because my hands are autochthonic
I can never wash them enough
I feel dumb
I feel like an old mangy bull
crashing through the red rag
of an alcoholic day
Yet it’s all so beautiful
isn’t it?
How perfect the entire system of things
The human body
all in proportion to its form
Nothing useless
Truly as though a god had indeed warranted it so
And the sun for day the moon for night
And the grass the cow the milk
That we all in time die
You’d think there would be chaos
the futility of it all
But children are born
oft times the spitting images of us
And the inequities
millions doled one
nilch for another
both in the same leaky lifeboat
I’ve no religion
and I’d as soon worship Hermes
And there is no tomorrow
there’s only right here and now
you and whoemever you’re with
alive as always
and ever ignorant of that death you’ll never know
And all’s well that is done
A Hellene happiness pervades the peace
and the gift keeps on coming…
a work begun splendidly done
To see people aware & kind
at ease and contain’d of wonder
like the dreams of the blind
The heavens speak through our lips
All’s caught what could not be found
All’s brought what was left behin
In a life of wide and restless travels, Gregory Corso produced six collections of poetry, together with a handful of plays and a novel, but left trailing in the wake of his urgent journeys an unknown number of lost poems. In interviews, Corso has recounted the sad loss of a suitcase full of his early poems in a Greyhound Bus terminal in Florida during the mid 1950s.1 He has also lamented the theft of two suitcases of poems – four years work – left in the care of the poet Isabella Gardner at the Hotel Chelsea in the mid 1970s.2 And he has regretted the sale to university libraries of his personal notebooks filled with unpublished poems: “When I needed money for dope, you see, I would never recopy the poems. I’d just sell the book. So a lot of my poems, you know, are in the universities and have never been published.”3 Other of Corso’s poems would seem simply to have been scattered behind him, mislaid and left unremembered in the rush of further poetic inspiration and precipitous departures to somewhere else. I believe that this latter explanation is likely the case as regards the three poems that I have excavated, so to speak, from a recording of a public reading of his poems given by Gregory Corso at the Poetry Center at San Francisco State College in October of 1956.4
Corso begins the 36-minute reading with nine poems selected from his collection, The Vestal Lady on Brattle (1955), then reads eight poems from a manuscript notebook titled “Poems Written in San Francisco, 1956.” Of these poems, four would later be gathered in Gasoline (1958), and one would be printed in The Happy Birthday of Death (1960.) The three fugitive poems embedded in the audio tape are “In the Madness of my Cellar,” “Creepy Flower Peddler,” and “Buddha.”5
Presented here below are my transcribed versions of these three hitherto unpublished poems. I cannot, of course, vouch either for punctuation, lineation or stanzaic patterns in the poems as I have rendered them here. Moreover, in the poem “Buddha,” despite repeated listening to Corso’s recitation on the audio tape, I am not fully confident as to my correct understanding of certain individual words. These include “peril,” “assayed,” “infant,” and “barium.” (Alternative suggestions concerning these words would be very welcome.) And let me take the opportunity here to express my gratitude to Raymond Foye for his gracious and invaluable help in correcting my transcriptions of the poems.
IN THE MADNESS OF MY CELLAR
I lost my God in the madness of my cellar.
I watched the janitor scorch a sacramental rat,
beat it against the pipe, rub hot pepper in its eyes.
No loves, no loves, in the madness of my cellar.
My baby brother leans against the hot furnace.
My father hangs red peppers to dry.
And my mad, mad mother giggles to the tarantella.
CREEPY FLOWER PEDDLER
He sells flowers and is a creep.
He sells flowers and wonders why he cannot sleep.
Unlike most peddlers, he grows his own,
and cuts them before they’re fully grown.
And here’s his nowhere song:
Little flowers without a stem.
Little flowers without a stem.
Three for a nickel, who wants them?
BUDDHA
A Harmonic Motion For Jack Kerouac, Buddha-Fish
Buddha is dead.
Dead in the empty lot, in the fish box.
Dead without peril or theory.
Dead rehabilitated to dumb heroism.
A dead Buddha cannot view the pint wine bottle.
What does Buddha know of pushcarts?
With Buddha died his children, speechless, enamored by kind demons.
Sweet Buddha, where is he now?
Whose cowhorn is he sucking?
Buddha immortal mute suffering with mortal memories
has gone to the mountains below the mountains.
Strong solemn law inhabits Peril.
Peril is the demon.
He steals the angels of Buddha, puts salt on their wings,
handcuffs their brains to masculine limbs.
Who will talk to the demon?
Who will admire his new secondhand hearse?
Who will kiss his gnaw of eucharistic feet?
Lay their abundant blonde verse upon his gridiron?
Pluck wolfbane from his gargoyle-eyed, regnant skull?
Shoot a silver bullet into his dropping mouth?
Drive a maple stake into his reasonable heart?
Steal the soil of his native Transylvanian acreage?
Who will do this?
You will, children of Buddha.
You mad children of sodacaps.
You’ll stick nails in the tires of his hearse.
Sip gasoline from the tank of his hearse.
Put rocks in the watertank of his hearse.
O Buddha, marled and gnawed, aimless in America,
in secondhand hearse parked on Pine Street,
watching children of love play, and on their knees pray
God the Father of ice cream.
O Buddha, ghouled and gargoyled,
bugged and assayed in the pale arms of Mother Death Columbia.
Get thee beneath that pushcart and see it all.
See the broken glass and the bits of rope
that burst in on the radio wire.
Feel it, see it all Buddha!
Buddha is dead.
In death Buddha’s skin is wet yet shaky
like penguin does ice water, the beads of life,
owing everything to flash light, nothing to sunlight.
I know you, Buddha.
When you were born, really born,
you was Brooklyn 33, New York,
a Jewish section where everything was secret,
like shopping bags.
Your home was a street with ground windows and wide gray stoops,
with desiccant flowerpots and dry yellow curtains
– all this would obscure your infant mother’s twisted fate.
Bosatsu, now in motion.
Brother Bosatsu who teaches Buddha,
yet is engaged entirely in his own salvation.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who testifies the wisdom of Buddha and himself.
Spit on Bosatsu!
Bosatsu who strives to introduce and establish the ideal land.
Bosatsu who dares set down into the realm of agony.
Spit on Bosatsu!
Now, Buddha, now that you’re dead, what have you got to say?
The back legs of a goat.
The empty matchbox.
The sweet spray smell of insecticide
or the old barium in a cow’s hoof.
That’s what I’ve got to say.
”In the Madness of my Cellar” depicts the traumatic encounter of the poet-speaker with the cruelty and horror of the world, an experience that serves to undermine his religious faith and causes him to lament life in a realm without love. Appropriately, the events of the poem take place in a cellar, a hot, Hadean underworld, a realm of evil and pain. In addition to the poet-speaker who narrates the grim incidents recounted in the poem, the hellish cellar is inhabited by a sadistic janitor, an apparently indifferent father, an innocent, neglected, suffering “baby brother,” and a mother driven to madness (presumably by the cruel and loveless world to which, like the narrator, she is also a horrified, helpless witness.) “Cellar” and “tarantella” make an unusual and inventive rhymed pair lending a subtle lyrical unity to this vivid, potent poem. “In the Madness of my Cellar” resonates with motifs expressed in several poems in The Vestal Lady on Brattle in which terror and violence perpetrated upon innocent victims are prominent.
A similar theme informs “The Creepy Flower Peddler,” where the peddler in question cuts short the lives of young flowers, doing so for selfish commercial reasons. Already in the title of this poem, Corso affects a reversal of reader expectations. Traditionally, the trope of the flower seller is associated with innocence, as Eliza in G.B. Shaw’s Pygmalion and the figure of the blind flower girl in Charlie Chaplin’s classic film, City Lights.6 In Corso’s poem, however, the flower peddler is seen as a man callously restricting the full development of natural life, and the poet views him as malevolent and despicable, another embodiment of the brutish and unfeeling life-thwarting forces of the world, another destroyer of innocence. On the audio tape of the Poetry Center reading, after having read “The Creepy Flower Peddler,” Corso remarks “I believe flowers should be left to grow, let them grow and let them die where they are, we have no right to take these things away from the earth.” In this poem, the parallel constructions, repetitions, insistent metre, and emphatic rhymes seem to suggest the narrow limits of the flower peddler’s outlook.
In contrast to the taut structure of “The Creepy Flower Seller,” the poem titled “Buddha” capitalizes on the deep resources offered by free verse in combination with epiphanic leaps of imagination. In this elegy – both brash and reverent – the poet contrasts the demonic, destructive forces of the world with those agencies that resist such forces and whose aims are, instead, redemptive and liberating. Poverty, squalor, sterility and death clash in the poem with the teachings of “sweet Buddha,” and are defied by the sly, joyous sabotage undertaken by the “children of Buddha,” the “children of love.” Buddha’s insights are betrayed in this fallen world by hypocritical figures such as Brother Bosatsu (clearly undeserving of his misleading name) who seeks not the benefit and awakening of all sentient beings –as taught by Gautama Buddha – but only his own salvation. Yet, though “marled and gnawed … ghouled and gargoyled,” the spirit of Buddha somehow endures, reborn into the desiccated, spiritually claustrophobic contemporary world, and even in death remaining poetically eloquent, communicating through koan-like utterances. In Corso’s use of parallelism and refrain in the Brother Bosatsu stanza a faint echo may be detected of sections I and II of Allen Ginsberg’s poem, “Howl.”
Readers of Gregory Corso’s Gasoline will recall that in the “Introduction” to that volume Allen Ginsberg quotes with approval a line from an unpublished poem by Corso: “mad children of soda caps.”7 At last, we know the source of that line: the phrase occurs in “Buddha.” Similarly, readers of Jack Kerouac’s Desolation Angels may remember that in that novel the poet Raphael Urso (the author’s pseudonym for Gregory Corso) recites to the narrator via telephone his latest poem which includes the line: “Spit on Bosatsu! Spit on Bosatsu!”8 Again, the source is to be found in the same unpublished poem, “Buddha.”
I think it probable that the three lost poems printed above – together with others written during the same period – were not discarded by Corso but were intended to appear in a collection to be titled Early Poems which was to be published in 1960 by the Totem Press. In a letter written from Paris in November of 1958 to Allen Ginsberg, Corso mentions that LeRoi Jones (of Totem Press) wants to publish a book of his early poems and specifically names “Creepy Flower Peddler” as being among the poems to be gathered in that volume. A collection titled Early Poems is listed as forthcoming from Totem Press in the bibliography for Gregory Corso included in The New American Poetry 1945-1960 and is also mentioned in the bibliography for “Five Poets in their Skins,” an article by Paul Carroll in Big Table. For unknown reasons (most likely economic in nature) the book never appeared. We can only speculate as to what may have become of the manuscript of this intriguing collection.
The recovery of the three lost poems from 1956 transcribed above serves to extend and deepen our understanding of Gregory Corso’s work during the period between the publication of The Vestal Lady on Brattle in 1955 and Gasoline in 1958, and to remind us that further examples of Corso’s rich, visionary, quirky early poems may yet be retrieved from manuscript notebooks and other sources.
1 ”They were lost in a suit case at Hollywood, Florida … in the Greyhound Bus Terminal. And, Hope, my girlfriend – she went to all the Greyhound presidents to get the things back.” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, “I’m Poor Simple Human Bones,” in The Whole Shot: Collected Interviews with Gregory Corso, ed. by Rick Shober (2015) p. 108. See also letter from Gregory Corso “To Mr. and Mrs. Randall Jarrell” November 14, 1956, in An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso (2002), p. 16.
2 “So there was a big gap – 1970-1974 – four years work gone.” Gregory Corso interviewed by Gavin Saleri in The Riverside Interviews: Gregory Corso, (1982) p. 32. See also “The Enigmatic Relationship of Poets Isabella Gardner and Gregory Corso” by Marian Janssen, The Journal of Beat Studies, Vol. 3, January 1, 2014, pp. 93-118.
3 “When I needed money for dope …” Gregory Corso interviewed in 1974 by Robert King, op.cit p. 102.
5 From The Vestal Lady on Brattle: “Dementia in an African Apartment House,” “Greenwich Village Suicide,” “Coney Island,” “In the Morgue,” “Sea Chanty,” “Vision Epizooic,” “In the Early Morning,” and “Requiem for Bird Parker, Musician.” From Gasoline: “Mad Yak,” “On my 26th Year” (aka “I am 25”), “Italian Extravaganza,” “The Table was Hard Possible Music like Steel” (aka “This Was my Meal.) And from The Happy Birthday of Death: an early version of “Power.”
6City Lights, film written and directed by and starring Charlie Chaplin, 1931. Pygmalion, play by George Bernard Shaw, 1913.
7 “Introduction” by Allen Ginsberg in Gasoline by Gregory Corso (San Francisco: City Lights, 1958) p. 7.
8Desolation Angels by Jack Kerouac (New York: Coward-McCann, 1965) p. 128.
9An Accidental Autobiography: The Selected Letters of Gregory Corso edited by Bill Morgan (New York: New Directions, 2003) p. 184.
10The New American Poetry 1945-1960 edited by Donald M. Allen (New York: Grove Press, 1960) p. 447. “Five Poets in their Skins” by Paul Carroll, Big Table Vol. 1, No. 4, Spring 1960, p. 140.
The life of Gregory Corso reads like a cheap and trashy tragic made-for-TV movie. It was one of heartbreak and irony…
Corso was born Nunzio Corso on March 26th 1930, to a sixteen-year-old mother. Michelina Corso had just married Sam Corso before giving birth to Nunzio, and a year later she abandoned him into the care of Catholic charities, his father quickly remarrying and feeding him stories about his mother.
Corso selected the name ‘Gregory’ as his confirmation name, and while known to his Italian American community as Nunzio, he dealt with everyone else as ‘Gregory.’
He spent eleven years in five different fosters homes, coming to appreciate the Catholic church’s efforts in helping orphaned and abandoned children through the depression, despite his own depressing isolation.
To avoid being drafted for WWII, Corso’s largely absent and uncaring father brought his son home in 1941. Nevertheless, Sam Corso was drafted and Gregory Corso became homeless, now without any family, foster or otherwise.
He tried fruitlessly to find his mother over the years, despite the stories his father told him: that she was a disgraced prostitute, cared little for Corso, and had returned to Italy in shame.
Alone, Corso took to the streets, sleeping in the subway and on the roofs, running errands for food from street vendors. He became a street child of Little Italy, continuing his education while denying his homelessness to the authorities.
When only thirteen years old, Corso stole a toaster, sold it, and used the money to buy a tie and see a movie. The movie was The Song of Bernadette, about the appearance of the Virgin Mary. Corso claimed he thought seeing the movie would bring about a miracle wherein he would be reunited with his mother. But upon leaving the theatre, he was arrested for theft and sent to New York’s infamous prison, the Tombs. With no one to pay his $50 bail, Corso was incarcerated with criminally insane murderers for several months.
In 1944, during a blizzard, Corso broke into his tutor’s office and spent the night in the relative warmth. When he woke he was immediately arrested and sent back to the Tombs. He became so traumatised by the brutality of the other inmates that he was sent to Bellevue Hospital’s psychiatric ward. (He was not the only Beat writer locked up in a mental hospital.)
At seventeen, Corso was sent to Clinton prison, a maximum security facility near the Canadian border, for stealing a suit, and without being given legal representation to defend himself. This was the prison where most electric chair death sentences were carried out.
Clinton was kinder to Corso than the Tombs had been. Here, the youngest inmate in the facility was protected by the Mafia and sent to the cell occupied by Charles ‘Lucky’ Luciano, who had donated his library to the prison and had his own reading light by his bed. Corso spent his nights reading the classics, and upon leaving Clinton, his Mafia friends got him a job in the city.
After three years, ending 1950, Corso was back in New York City, writing and reading poetry, and becoming friends with Allen Ginsberg. They met in a lesbian bar, The Pony Stable, and Ginsberg became attracted to Corso and his poetry. Corso showed Ginsberg a poem he’d written about a woman he’d watched lie naked on her windowsill, and it turned out she was a friend of Ginsberg. Ginsberg set the two up, but Corso got scared and literally ran away.
Through Ginsberg Corso met Burroughs, Kerouac, and many of New York’s writers and artists. Corso and Kerouac met in 1950, but didn’t become close friends until 1953. In The Subterraneans, Kerouac recalls an incident in which Corso stole a pushcart and caused a fallout between Kerouac and Ginsberg. Corso came to resent his depiction in the book as he believed Kerouac had no right to speak so harshly of him in the early days of their relationship, which had not yet come to be considered even friendship.
When Ginsberg, Orlovsky and Burroughs were in Tangiers, Corso came and visited them, and then persuaded them to come live in Paris, and introduced them to a place later to be known as the Beat Hotel. Here, Corso and Ginsberg helped Burroughs edit together The Naked Lunch, and the two poets produced some of the finest work.
In 1957, Corso returned to New York. He was the youngest member of the ‘inner circle’ of Beats – that small social group that is the only one that can be accurately and honestly considered the Beat Generation. Yet, despite being the youngster of the group, Corso was the first published Beat, having his collection of poetry, The Vestal Lady on Brattle, published in 1952.
It was for the publication of Gasoline that he returned, and this coincided with the publication of On the Road and the explosion of the Beat Generation as a cultural phenomenon. Kerouac, Ginsberg and Corso stuck around, posed for photos, answered questions for reporters, and took a constant and ignorant barrage of abuse. Corso played the bad boy of the group, talking up his prison time and unkempt appearance.
He began to tour the poetry circuit with Ginsberg, and despite the Beat movement for the most part being considered a fad for dumb kids, playing on the rebellious streak of a few over-popular criminals, Corso began to draw a lot of positive attention for his poetry. Namely, the attention came for Marriage, his long musing on the peculiarities of the institution.
Marriage evokes the music and rhythm within Corso, instead of adhering to the structures and conventions of traditional poetry. His idol was Shelley, English Romanticist, yet in Paris Corso hit upon the notion of simply letting sound come from the mean – what he naturally felt inclined to say. The result was a long and witty poem poking fun at conformity, digging the Beat spirit of rejecting tradition that gripped the group and would become satirised itself in years to come.
Later in his life, Corso, like so many associated with the Beat Generation, came to resent his label and public perception as a Beatnik, and shunned the limelight they’d all at one stage or another occupied.
However, he allowed Gustave Reininger to film Corso – The Last Beat, which showed Corso in Italy lamenting never having known his mother. Reininger secretly launched a search for Michellina Corso, and amazingly found her living in Trenton, New Jersey, and not in Italy, as Corso had always been told by his father.
Corso and his mother were reunited on camera, and the truth came out that she had been beaten almost to death by Sam Corso, and had no choice but to leave him and hand her child over to the church. When she’d later been in a position to support a child, she was unable to find Corso.
Despite feeling ‘healed’ by finding his mother, Corso was soon diagnosed with prostate cancer and died in January, 2001. He was buried next to Percy Bysshe Shelley in the Protestant Cemetery, Rome.
Federigo Tozzi Ecco i calici d’oro delle rime
si accendono e si spengono, a vicenda,
nel tepore dell’anima sublime,
che parmi, adesso, come una leggenda.
Federigo Tozzi è noto principalmente come narratore, in particolare con i romanzi Con gli occhi chiusi, Tre croci e Il podere. Esordì tuttavia come poeta e tra le sue raccolte compare Specchi d’acqua, di cui recentemente Gianfranco Lauretano ha curato per noi la pubblicazione, affiancata da uno studio sull’autore (G. Lauretano, Federigo Tozzi. Una rivelazione improvvisa, Raffaelli, 2020).Riportiamo alcuni esempi di queste liriche di Tozzi, composte probabilmente tra il 1909 e il 1911, che si addensano intorno a temi presenti anche nella sua prosa: la donna, la natura e il costante dialogo con l’anima. Buona lettura.
Di quando in quando, vedo la tua faccia
come un riflesso bello e inafferrabile,
che si dilegui senza alcuna traccia.
E l’anima diviene quasi labile.
[17].
V’erano sogni troppo sparsi e cose
sempre da dirti, che tu non sapevi.
Ma chi cogliere può tutte le rose?
Amica, i giorni nostri sono brevi;
e mentre che t’illude la bellezza
e l’anima tua trepida rilevi,
né men posso finire la carezza
che nella bocca aspetta e nelle mani.
Noi conosciamo poco l’allegrezza.
T’illudi più se credi che domani
avremo quel che non abbiamo ancora.
I nostri sogni sono più lontani.
L’autunno, lentamente, si scolora
e ci lascia avveduti del destino.
Noi sogneremo, forse, per un’ora.
Tu senti che, se vengo a te vicino,
come una volta più non mi puoi credere.
E diviene il tuo cor quasi indovino.
E tu di mano in mano devi cedere
a qualche cosa che è di noi più forte.
Labili son gli abbracci di queste edere.
È forse il velo eterno della morte,
che s’avvicina senza scampo a noi;
sì che anche le memorie sono corte.
Amica, non ritorna quel che vuoi.
[20]. PIOGGIA AUTUNNALE NEL BOSCO
Poi ch’io aspettavo ogni parola vostra,
ogni goccia su l’anima batteva;
e il bosco intorno, a modo di una chiostra,
il suo silenzio a intervalli schiudeva.
Io vi coglievo tutti i ciclamini,
per toccare così le vostre dita;
ma la pioggia tremava sopra i pini,
come ascosa tremava la mia vita.
Ed il silenzio mi parea una soglia
per l’indugio dell’anima dispersa;
e vidi distaccarsi qualche foglia
come una cosa mia che avessi persa.
[48].
Fra le selci il mio cuore ho ritrovato
sì che appena conoscere lo posso.
Ma quando nella mano mi ha aggravato
ben ho sentito il suo sorriso rosso
come una corsa dentro le mie vene.
Ma come lo perdei non mi sovviene.
Era forse una strana primavera,
ond’egli si sentiva più commosso
plasmandosi sì come fosse cera
sotto il sole che gli scendeva addosso.
Ma non m’avvidi quando si disfece
né di quando il Signore me lo fece.
È il mio cuore da vero, oppure sbaglio?
Io non lo so. Mi pare un cuore nuovo;
e per farmi rispondere, lo taglio
e lo trapasso tutto con un rovo.
Se fosse il cuore mio, con una rosa
io mi farei risponder d’ogni cosa.
Ed ecco che risponde: io sono il cuore,
che come un fiume limpido mi muovo;
io mando, quando voglio, un grande odore;
io sono il cuore che dolcezza piovo.
Ti sembro il cuore tuo che non t’è noto,
il cuore tuo sì inutile e sì vuoto?
Rifatti selce tacita, gli grido.
A me bastano gli alberi ondeggianti
nel vento allegro sì che io pure rido.
Mi bastano le stelle fiammeggianti
nel cielo che mi sembra tutto mio.
Tu non guastar questo sublime oblio.
Sbattiti con le selci quanto vuoi;
a me basta sognare fra i giganti;
e invece, cuore umano, tu mi annoi
e d’essere il mio cuore invan ti vanti.
L’anima è qualche cosa che si perde
e si rinnova come un ramo verde.
Federigo Tozzi
Federigo Tozzi-Scrittore italiano (Siena 1883 – Roma 1920). Dotato di una formazione letteraria da autodidatta, riportò nelle sue opere, spesso ambientate in un mondo provinciale e caratterizzate da accenti autobiografici, i sintomi di quella stessa crisi descritta dai contemporanei I. Svevo e L. Pirandello. Dopo le prose liriche Bestie (1917), pubblicò il romanzo Con gli occhi chiusi (1919) e le novelle poi riunite in Giovani e L’amore (entrambi del 1920), mentre molta parte della sua produzione venne pubblicata postuma.
Vita e opere
Perduta la madre, fece studi irregolari ed ebbe un’adolescenza e una giovinezza inquiete, soprattutto per i violenti contrasti col padre, gestore di una nota trattoria senese (cfr. la raccolta post. delle lettere alla fidanzata, Novale, 1925). Nel 1908 fu impiegato delle ferrovie a Pontedera e poi a Firenze, ma alla morte del padre tornò a Siena per vivere sulle poche terre ereditate. Aveva frattanto cominciato a scrivere poesie (pubbl. in due raccolte: La zampogna verde, 1911, e La città della Vergine, 1913) e racconti (uno dei quali, Ricordi di un impiegato, più tardi rielaborato, sarebbe apparso post. nel 1927) e a collaborare a riviste di provincia. Nel 1913 fondò a Siena, con l’amico D. Giuliotti, una rivistina, La Torre, durata pochi numeri (rist. anast. a cura di L. Giorgi, 1977), ispirata a posizioni spiritualiste e di cattolicesimo reazionario, cui T. era approdato dopo una giovanile adesione al socialismo. Nel 1914, costretto a vendere l’ultimo podere, si trasferì a Roma, dove visse anni assai duri (solo nel 1918 entrò nella redazione del Messaggero della Domenica, conoscendovi O. Vergani e L. Pirandello) ma di intensa creatività: la pubblicazione di Bestie, del romanzo Con gli occhi chiusi (1919, scritto nel 1912-13) e di alcune novelle gli procurò finalmente consensi e autorevoli appoggi, fra cui quello di G. A. Borgese. Un altro romanzo, Tre croci (1920), uscì subito dopo la sua morte, dovuta a un’improvvisa polmonite. Postumi apparvero anche i romanzi Il podere (1921) e Gli egoisti (1923) e il dramma L’incalco (1923). Pur essendosi formato fuori dalle correnti letterarie più vive (culminanti in quegli anni nel movimento della Voce) e su disordinate letture, che dagli antichi scrittori senesi giungevano fino a Verga, Dostoevskij e soprattutto D’Annunzio (i cui echi sono frequenti nelle sue poesie), T. fu tra i primi della sua generazione ad avvertire la necessità di uscire dal dilettantismo delle sensazioni per scavare nella propria coscienza e interrogarsi sul senso delle cose; così come, pur essendo portato a un impressionismo lirico a fondo paesistico (felicemente testimoniato dalle prose di Bestie), per molti aspetti vicino al frammentismo dei vociani, meglio e prima di questi egli sentì che occorreva trasporlo in forme oggettive, in narrazione e personaggi (donde la rivendicazione che del significato della sua opera farà la successiva generazione di narratori). Ma se è vero che un residuo di rancoroso autobiografismo contrasta talvolta con tale ricerca di oggettività, è altresì vero che, nel chiuso mondo provinciale da lui descritto, dove gli antichi valori contadini ancora confliggono con quelli della piccola borghesia cittadina e si soffre per meschini interessi e inconfessabili passioni, nel disagio e nel fallimento esistenziale dei suoi personaggi è possibile cogliere i sintomi di quella stessa crisi, inettitudine e smarrimento che, da altri angoli visuali, venivano scoprendo i contemporanei Svevo e Pirandello. Significativi dei suoi gusti e interessi letterari sono altri lavori di T. (Antologia d’antichi scrittori senesi, 1913; Mascherate e strambotti della Congrega dei Rozzi di Siena, 1915; Le cose più belle di Santa Caterina da Siena, 1918; gli scritti critici raccolti in Realtà di ieri e di oggi, post., 1928), mentre alla sua attività creativa vanno ancora ascritti i Nuovi racconti (1960) e Adele. Frammenti di un romanzo (1979), entrambi a cura del figlio Glauco, nonché i testi teatrali, le prose Cose e persone e altri inediti, riuniti, a cura dello stesso, nell’edizione completa e definitiva delle Opere (5 voll., 1961-81). Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Poesie di Giampiero Neri- Grande solitario della Poesia italiana-
Giampiero Neri – Poeta e critico letterario e all’unanimità considerato uno dei maggiori poeti del Secondo Novecento Italiano nonché il più in ombra dei grandi maestri, come lo definì Andrea Cortellessa.
1. L’aspetto occidentale del vestito
A Giancarlo Majorino
Corso Donati, il metrò
scava diverse gallerie ai giardini
radici che non dissero inutilmente
le ossa di qualche romano in provincia
e una valigia di fibra
la ferrovia della stazione Nord,
ora non ricordo tutti i particolari
un tempo passato corre via dietro gli alberi.
Giampiero Neri
*
2.
La Pavonia maggiore o Saturnia
la farfalla Atropo ed altre specie notturne
sono un notevole esempio di mimetismo.
Si adattano in parte all’ambiente
per il colore più scuro e intenso
grigio bruno sulle ali
ma anche per i continui segni
che vi ricorrono in forma di cerchi
e nel modo uguali.
All’origine di questi ornamenti
si incontra una simmetria,
uno schema fissato in anticipo
muove insieme chi cerca
e chi ha interesse a non farsi riconoscere,
una corrispondenza alla fine.
*
3.
Il cattivo tempo è alle porte e consiglia la prudenza, come comanda nostra madre Chiesa.
In concreto il temporale minacciò di far volare un numero straordinario di carte.
Risultava sempre più difficile incontrare il professore, costantemente impegnato nella correzione di qualche compito.
E avendolo visto per caso:
“Il dottor Livingstone, suppongo” disse, mentre gli tendeva la mano attraversando vasti deserti di tavolini rossi e sedie impagliate.
*
4.
L’osservatore si orienta su alcuni particolari. Il colore delle foglie o la presenza di effimere sulle rive dei torrenti. Strani insetti che hanno breve vita, come dice il nome.
Verso il centro della riserva sta il falco rosso, cacciatore notturno. Durante il giorno è nascosto, ma qualche volta attraversa una valletta o una radura, molestato dai passeri.da: Liceo
5.
Villa Nena
La facciata era sicuramente liberty.
Come onde apparivano i balconi
verso il lago,
in parte nascosti dagli alberi.
Nella casa che è stata abbandonata
cigola la porta non chiusa,
della vecchia proprietà
non si hanno notizie da tempo.
E’ rimasto nel quadro alla parete
un documento del ’43,
un attestato che la signora è cittadina straniera
sotto la protezione del Consolato.
*
6
Due tempi
La civetta è un uccello pericoloso di notte
quando appare sul suo terreno
come un attore sulla scena
ha smesso la sua parte di zimbello.
Con una strana voce
fa udire il suo richiamo,
vola nell’aria notturna.
Allora tace chi si prendeva gioco,
si nasconde dietro un riparo di foglie.
Ma è breve il seguito degli atti,
il teatro naturale si allontana.
All’apparire del giorno
la civetta ritorna al suo nido,
al suo dimesso destino.
*
7
Pesce d’acqua dolce
Lavarello è il nome lombardo di un pesce che vive sul fondo del lago. Ha la testa piccola, come di chi deve pensare poco. Ma per la forma si adatta alla profondità. Il colore è bianco argento. Sta nei confini dell’acqua scura, fredda e si suppone pigro e pacifico.
Sul banco del pescivendolo si vede qualche volta, il corpo coronato dal rosso vivo delle branchie.
*
8
Capitolo ottavo, VII
Lo scrittore di provincia soffriva d’insonnia. Si dedicava a ricerche di interesse storico ma non aveva abbandonato i vecchi progetti letterari.
Stava leggendo il finale del capitolo ottavo “anche tu valoroso Casca, le tue lucertole sul muro”.
*
9
Delle misure, dei pesi, III
Del declinante mondo di Maria Signaroli
che abitava da noi in campagna
non si poteva domandare.
Oscillava fra le finestre della stanza,
qualche volta in giardino,
finché cadde sul pavimento.
Era una mattina se ricordo bene,
l’anno il ’32 o il ’33.
*
Giampiero Neri
10
Sovrapposizioni, I
Piegando indietro la testa, l’ospite imitò il verso di un gufo.
Una nota breve, simile a un abbaiare, a un colpo di tosse.
Aveva una barba rada, gli occhi grandi, giallastri.
*
11
IV
Del gufo reale o Sminteo, distruttore di topi, si può dire che è raro. Vive nei boschi abbandonati ma
imbattersi nel suo sguardo severo, nelle sue penne arruffate, può turbare.
Del suono kiok, kiok, del verso teck, teck.
Procedono dalla forma originaria, senza mutamenti. Segnali di un mondo scomparso.
Qualche volta si sente nella notte un richiamo stridulo, una voce alterata.
da : Dallo stesso luogo
13
Dallo stesso luogo alla memoria di Edoardo Persico
(Napoli 1900 – Milano 1936)
Come l’acqua del fiume si muove
contro corrente vicino alla riva
si disperde dentro fili d’erba
lontana dal suo centro
la memoria fa un cammino a ritroso
dove una materia incerta
torna con molti frammenti.
*
14
Dove il fitto bosco
scendeva con avvallamento profondo
verso un luogo nascosto
a un tratto gigantesco,
appariva mutato l’aspetto degli alberi
in quel punto
prendeva nome di orrido
.
*
15
Quella strana colonia
di rari villeggianti
era dispersa.
Dei loro campi di tennis
e vani conversari
era rimasto un eco di saluti notturni
di biciclette che si allontanavano
.
*
16
Viaggi I
Era una trappola per talpe
che aveva progettato, una tagliola
per la loro sortita allo scoperto
e del fumo insufflato nei cunicoli.
Ma era passato il tempo
si svolgeva un diverso avvenimento
anche noi diventati talpe
per il variare delle circostanze
*
da: Altri viaggi
17
Segnali
Dei vari colori
pericoloso è il giallo
accompagnato al nero
nella forma dell’ape
e di altre specie più rare,
e la diversità dei grigi
dei bianchi specialmente.
*
18
si era fermato e lasciato cadere la bicicletta
sulla strada, l’amico di mio padre
“se tutto doveva finire…” mi aveva detto abbracciandomi,
era stato il commento.
*
19
Variazione
Si nasconde il gufo sul ramo
durante il giorno,
si adatta a una diversa parte
nel suo breve travestimento.
Ma col variare della luce
abbandona la sua muta inoffensiva,
nella sua forma e figura
si presenta al rituale appuntamento.
*
20
Figura
In quella parte del campo
vicino al deposito di legna
si era levata una figura indistinta,
come una macchia più scura
nel buio della sera,
sembrava un cane che volava sopra i tetti.
*
21
Tracce
Presa fra i sassi dove si nasconde
la lumaca fa udire un breve suono
unico segno manifesto
della sua muta esistenza.
Del suo andare solitario
si vede qualche volta una traccia,
come una scia luccicante nell’erba.
Giampiero Neri
Biografia di Giampiero Nerinato a Erba (Como) nel 1927. è morto il 15 febbraio a Milano, dove ha vissuto dal 1950 – Poeta e critico letterario e all’unanimità considerato uno dei maggiori poeti del Secondo Novecento Italiano nonché il più in ombra dei grandi maestri, come lo definì Andrea Cortellessa. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: L’aspetto occidentale del vestito (Parma, Guanda, 1976), Liceo (ibid., 1986) e Dallo stesso luogo (Milano, Coliseum, 1992) confluite successivamente in Teatro naturale (Milano, Mondadori, 1988); Erbario con figure (Como, LietoColle, 2000) e Finale (Olgiate Comasco, Dialogolibri, 2002) sono invece parte di Armi e mestieri (Milano, Mondadori, 2004) cui seguono Paesaggi inospiti (Ibid., 2009). Molti gli studi sulla sua poesia ed i volumi pubblicati tra i quali si ricordano Giampiero Neri. Poesie e immagini, regia di Vincenzo Pezzella (Milano, Viennepierre, 2005), Giampiero Neri. Il poeta architettonico, a cura di Pietro Berra (Olgiate Comasco, Dialogolibri, 2005) Giampiero Neri. Il mestiere del poeta, a cura di Massimiliano Martolini (Ancona, Cattedrale, 2009), la traduzione apparsa negli Stati Uniti Natural Theater: Selected Poems, 1976-2009, introduzione e a cura di Victoria Surliuga, traduzioni di Ron Banerjee (New York, Chelsea Editions, 2010) e l’eccellente Giampiero Neri un maestro in ombra, a cura di Alessandro Rivali (Milano, Jaca Book, 2013). L’ultima raccolta di poesia pubblicata da Giampiero Neri è Il professor Fumagalli ed altre figure (Milano, Mondadori, 2012) ed è il volume che segna il distacco del poeta dalla poesia in favore delle prose brevi. Le brevi prose qui proposte sono una anticipazione del nuovo libro.
Presentiamo alcune poesie di Verónica Jiménez: PoesÍa De Chile
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore
non ha niente a che fare la sete con l’acqua che dirompe
né la primavera con il fiore che si stacca dallo stelo.
Sono solo esempi.
L’amore ha a che vedere con l’abitudine di guardarsi più volte negli occhi
ha a che vedere con l’abitudine
di cercare negli occhi avversi l’eco di un lampo
o parole gentili dietro le maschere severe del silenzio.
Non hanno niente a che fare con l’amore i prolungamenti dell’estate
né le foglie che si staccano esauste dagli alberi
neanche quelle che agli alberi si aggrappano come tarli.
È un esempio.
L’amore ha a che fare con una casa distrutta dalla pioggia
con stanze al buio e le pozzanghere
con le tristi camicie avvinghiate al vuoto dell’aria
con i maglioni senza scopo sospinti nel fuoco
con un paio di occhi soffocati nel loro specchio.
L’amore ha a che fare con l’abitudine di guardarsi negli occhi più volte
e riattizzare le fiamme delle pozzanghere più volte
e ospitare la pioggia nelle stanze buie più volte.
L’amore ha a che fare con la fuga dalle nostre case
col fondare nel fango una nuova città per metterci al riparo
col vestirci in nome dell’amore di una nuova ghirlanda di grandine
col rinnegare nel suo nome i frutti e gli alberi.
L’amore non ha niente a che fare con l’amore.
Non ha niente a che fare l’amore con le parole che feconda.
CORPI AVVERSI
La luce è sedentaria, l’oscurità
ci spinge in quattro direzioni
alla velocità del riso o dello spavento
Abbi il coraggio di incrociare i corpi avversi
anche se ti accorgi che i piedi
sono la contraddizione dei piedi
cercando marciapiedi transitori
nella notte. Va e penetra
nei loro corpi
e se qualcuno ti chiede di trattenerti
nel momento in cui le tue mani
contano mani e quanto hai toccato
è preso da un vento verticale
non lo ascoltare, abbi il coraggio
di abitare solchi avversi, come
il nottambulo fa migrare
quanto ha toccato
verso una luce che sprofonda
nella lampada spenta.
Comprendere all’improvviso
il luogo più propizio per il fiore
l’esatta commemorazione del petalo
che si sfoglia, cade e si dissolve
in un sogno senza più sussulti.
La consunzione dello scheletro
la crescita tenace delle unghie
senza altro scopo
d’immaginari graffi nel legno.
Il fiore perde i nettari che lo intridono
la carne si ripiega verso il ventre del nulla.
I miraggi della luce
sulle steppe solitarie della pelle.
Sotto il suolo
i rituali funebri dell’amore
lacerano le foglie.
Una stella bagna l’altra
come prima bagnava il corpo irrigidito.
Acque di dolore, germoglio
estirpato.
Con la luce degli astri costruisce una lanterna
per cercare sotto le ceneri
statue immobili o cadaveri in movimento:
questo è un braccio e giace aggrappato alla lampada
questi sono gli occhi avvezzi a guardare all’interno.
La bocca lancia pietre nel precipizio
e il corpo
si svuota di tutti i nomi.
Il corpo tenta di entrare in quello che rimane
quando finisce l’accoppiamento degli astri.
Traduzioni di Sabrina Foschini
Verónica Jiménez (Santiago del Cile, 1964) dal libro Nada tiene que ver el amor con el amor, pubblicato da Piedra de Sol Ediciones a Santiago nel 2011, e da noi, a cura di Sabrina Foschini, nel 2014 con il titolo L’amore non ha niente a che fare con l’amore. Verónica Jiménez ha ricevuto nel 2013 il premio Migliore Opera Letteraria del Consiglio della Cultura del Cile, per il suo saggio Cantores que reflexionan. Cultura y poesía popular en Chile.
Federico Garcia Lorca: La Fucilazione -Uccidere un uomo per cancellare ciò che rappresenta-
FEDERICO GARCIA LORCA
Federico Garcia Lorca:”Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”
UCCIDERE UN UOMO PER CANCELLARE CIO’ CHE RAPPRESENTA: LA FUCILAZIONE DI FEDERICO GARCIA LORCA
È l’alba del 19 agosto 1936. Spagna. Sono passate solo poche settimane dall’Alzamiento, il colpo di stato dei militari guidato da Francisco Franco. Due automobili lasciano la città di Granada e si dirigono verso una collina vicina, sulla strada tra Viznar e Alfacar. Nelle auto si trovano sei membri della Falange e i loro prigionieri. Ad un certo punto, lungo la strada, si fermano. I sei prigionieri scendono dalle auto e vengono fatti allineare. Il capo pattuglia dà l’ordine, è un attimo, ed i sei prigionieri vengono fucilati. Tra di loro, un insegnante locale, due anarchici e un poeta: Federico Garcia Lorca.
Federico Garcia Lorca, che già da vivo era considerato uno dei più grandi poeti della sua generazione, è un artista cosmopolita e decisamente fuori dagli schemi, un personaggio di spicco dell’avanguardia culturale spagnola insieme ad artisti come Luis Buñuel e Salvador Dalí. Viaggia per il mondo, visita e soggiorna soprattutto tra gli Stati Uniti e Cuba. Fin dalla caduta della dittatura di Primo de Rivera nel 1930, rientra in Spagna e appoggia il governo repubblicano. Aveva anche aderito ad una campagna di alfabetizzazione portata avanti dalla Repubblica, creando un teatro ambulante di poesia popolare, anticlericale e zingaresca. Garcia Lorca rappresentava quindi tutto quello in cui la Repubblica Spagnola credeva e nei cui valori i repubblicani si identificavano. Ucciderlo avrebbe avuto ben più di un significato.
Allo scoppio della guerra civile, Lorca ha 38 anni e si trova a Madrid. Rifiuta l’asilo che gli offrono paesi come Messico e Colombia perchè crede nella Spagna repubblicana. Riesce ad allontanarsi dalla capitale nel mese di agosto per andare a Granada, ospite di alcuni amici. Pensava che Granada fosse una destinazione sicura grazie alla rete di alcune amicizie personali. Purtroppo la decisione gli fu fatale. Venne tradito, e dopo solo un paio di giorni dal suo trasferimento si trovava già in mano ai franchisti.
Il regime pose fin da subito un bando integrale alle opere di Lorca rotto parzialmente solo nel 1953, lasciandole comunque fortemente censurate. Il governo franchista inoltre si dichiarerà sempre estraneo alla sparizione del poeta. Bisognerà aspettare fino al 1965 per avere una “versione” del regime, sul perchè Federico Garcia Lorca venne ucciso quel giorno: dei documenti ritrovati provavano che era stato condannato a morte perchè socialista, omosessuale e accusato di far parte della massoneria. Il luogo esatto dell’uccisione non è mai stato indicato e i resti di Garcia Lorca si trovano ancora da qualche parte, su quella strada tra Viznar e Alfacar, poco fuori Granada.
Nella sua ultima intervista, al giornale Sol, dichiarò “Canto la Spagna e la sento fino al midollo, ma prima viene che sono uomo del Mondo e fratello di tutti. Per questo non credo alla frontiera politica.”
Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
Euridice
I
Così mi hai riportata indietro,
io che avrei potuto camminare con i vivi
sulla terra,
io che avrei potuto dormire tra i fiori vivi
finalmente;
così per la tua arroganza
e la tua spietatezza
sono riportata indietro
dove i licheni morti grondano
ceneri morte sul muschio del frassino;
così per la tua arroganza
io sono distrutta infine,
io che avevo vissuto incosciente,
che ero stata quasi dimenticata;
se tu mi avessi lasciata aspettare
sarei passata dall’apatia
alla pace,
se tu mi avessi lasciata riposare con i morti,
avrei dimenticato te
e il passato.
Giglio di mare
(da Sea Garden, 1916)
Giunco,
squarciato e strappato
ma doppiamente ricco –
le tue grandi cime
fluttuano sui gradini del tempio,
ma tu sei spezzato dal vento.
La corteccia del mirto
è punteggiata da te,
le squame sono distrutte
dal tuo stelo,
la sabbia spezza i tuoi petali,
lo solca con lamina dura,
come selce
su pietra brillante.
Eppure benché il vento
frusti la tua corteccia,
sei sollevato,
sì – benché sibili
per ricoprirti di schiuma.
Euridice (VII)
(da The God, 1913-17)
Almeno io ho i fiori per me stessa,
e i miei pensieri, nessun dio
me li può prendere,
ho il fervore di me stessa per presenza
e il mio stesso spirito per luce;
e il mio spirito con la sua perdita
sa questo;
benché piccola contro il buio,
piccola contro le rocce informi,
l’inferno deve spaccarsi prima che io sia perduta;
prima che io sia perduta,
l’inferno si deve aprire come una rosa rossa
per far passare i morti.
[31]
(The Walls Do Not Fall, in Trilogy, 1944)
Nostalgia, esaltazione,
nocciolo d’infuocate elucubrazioni,
appunti scritti in margine,
palinsesto indecifrabile, coperto di scarabocchi
con troppe emozioni in conflitto,
ricerca d’una definizione finita
dell’infinito, scivolando
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
in vaghe asserzioni cosmiche,
in facili sentimenti,
pratica di conto corrente spirituale,
con il dare-avere troppo nettamente marcati,
ridda d’immagini incontrollate,
appunti numerici d’equazioni psichiche,
rune, superstizioni, evasioni,
invasione della super-anima in una coppa
troppo fragile, in un vaso troppo angusto,
troppo poroso per contenere il traboccare
dell’acqua-che-sta-per-divenir-vino
alle nozze; ricerca sterile,
arroganza, certezza, penosa reticenza,
presunzione, intrusione d’allusioni
improprie, forzate;
illusioni di dei perduti, di démoni;
gioco d’azzardo con l’eternità,
iniziata alla saggezza segreta,
sposa del regno,
miraggi, ritorno d’antichi valori,
interessa perduta, pazzia.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
[1]
(Tribute to the Angels, in Trilogy, 1945)
Ermete Trismegisto
è patrono degli alchimisti;
suo dominio è il pensiero;
scaltro, creativo, curioso,
suo metallo è il mercurio;
poeti, ladri e oratori sono i suoi clienti;
ruba, quindi, Oratore
e saccheggia, o Poeta,
prendi quel che l’antica chiesa
trovò nella tomba di Mitra,
candela, scritture, sonaglio,
prendi quel che la nuova chiesa ha disprezzato
rotto e frantumato;
raccogli i frammenti di vetro infranto
e col tuo soffio e il fuoco
fondi e integra,
re-invoca, ri-crea
opale, onice, ossidiana,
ora dispersi in schegge
calpestate da tutti.
[9]
(The Flowering of the Rod, in Trilogy, 1946)
Non è fantasia poetica
ma realtà biologica,
è un fatto: sono un’entità
come l’uccello, l’insetto, la pianta
o la cellula d’alga;
io vivo; io sono viva;
sta attento, ignorami,
rinnegami, non riconoscermi,
evitami; perché questa realtà
è contagiosa – estasi.
HEAT
O wind, rend open the heat,
cut apart the heat,
rend it to tatters.
Fruit cannot drop
through this thick air—
fruit cannot fall into heat
that presses up and blunts
the points of pears
and rounds the grapes.
Cut the heat—
plough through it,
turning it on either side
of your path.
CALORE
O vento, strappa il calore,
dividi il calore,
laceralo in stracci.
La frutta non riesce a cadere
attraverso questa aria densa―
la frutta non può cadere nel calore
che schiaccia e smussa
le punte delle pere
e arrotonda l’uva.
Taglia il calore―
apriti un varco attraverso di esso,
ruotandolo in ogni lato
del tuo cammino.
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
LETHE
Nor skin nor hide nor fleece
Shall cover you,
Nor curtain of crimson nor fine
Shelter of cedar-wood be over you,
Nor the fir-tree
Nor the pine.
Nor sight of whin nor gorse
Nor river-yew,
Nor fragrance of flowering bush,
Nor wailing of reed-bird to waken you,
Nor of linnet,
Nor of thrush.
Nor word nor touch nor sight
Of lover, you
Shall long through the night but for this:
The roll of the full tide to cover you
Without question,
Without kiss.
LETE
Né la pelle né il cuoio né la lana
ti copriranno,
né la tenda cremisi né l’elegante
rifugio di legno di cedro sarà su di te,
né l’abete
né il pino.
Né la vista del ginestrone né della ginestra
né il tasso di fiume,
né la fragranza di un cespuglio in fiore,
né il pianto di una cannaiola a svegliarti,
né il fanello
né il tordo bottaccio.
Né la parola né il tocco né la vista
di un amante, tu
bramerai tutta la notte solo questo:
lo srotolarsi dell’alta marea che ti copre
senza dubbio,
senza bacio.
Traduzioni di Arianna Giovannini
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
L’evoluzione della poesia modernista: la visione poetica di Hilda Doolittle | L’Altrove
Hilda Doolittle, nota al mondo letterario come HD, è una figura fondamentale nel canone della poesia modernista, spesso trascurata nelle discussioni dominate dai suoi contemporanei maschi come EzraPound e TS Eliot. Tuttavia, i suoi contributi al movimento modernista sono profondi e trasformativi, catturando temi complessi di identità, genere e mitologia, nonché una distinta precisione linguistica che la contraddistingue. Questo saggio approfondisce l’opera poetica di HD, esaminando la sua voce unica, le preoccupazioni tematiche e le innovazioni stilistiche, che insieme illuminano la sua visione e consolidano la sua importanza nel panorama della letteratura del XX secolo.
Nata nel 1886 a Bethlehem, Pennsylvania, HD è cresciuta in una famiglia profondamente influenzata dal ricco arazzo della letteratura classica. La posizione di suo padre come professore di matematica e la discendenza di sua madre collegata all’influente poeta e critico, Theodore H. Doolittle, hanno fornito un ambiente stimolante per le sue ricerche intellettuali. Fu durante i suoi anni di formazione presso l’Università della Pennsylvania e in seguito nelle sue interazioni con i circoli d’avanguardia in Europa che HD avrebbe affinato la sua voce poetica. Divenne parte integrante del movimento Imagist, che sosteneva la chiarezza di espressione, la precisione delle immagini e l’economia ritmica, principi che risuonano attraverso il suo lavoro.
HD emerse nell’arazzo in divenire del modernismo insieme a una comunità di scrittori che cercarono di liberarsi dalle convenzioni della poesia vittoriana. Nei suoi primi lavori, in particolare nella raccolta Sea garden
(1916), esemplifica i principi dell’Imagismo attraverso il suo meticoloso uso di immagini e attenzione al mondo naturale. La poesia “Sea Iris” funge da prima illustrazione di questo aspetto. Attraverso il suo linguaggio preciso, cattura la tensione tra il fisico e il metafisico, illustrando come la natura possa evocare risonanze emotive più profonde:
Gli iris del mare sono di due colori; il bianco, luminoso nella luce dello scintillio dell’acqua, e il blu profondo, scuro, galleggiante, immobile.
In queste righe, HD evoca un immaginario vivido che invita il lettore a sperimentare la bellezza viscerale del mare, accennando anche alla dicotomia tra luce e oscurità, galleggiabilità e immobilità. Tali giustapposizioni riflettono le sue preoccupazioni per la dualità, un tema ricorrente che riecheggia in tutto il suo corpus di opere.
Mentre HD continuava a sviluppare la sua voce, la sua poesia iniziò a riflettere un profondo impegno con i miti antichi e gli archetipi femminili come mezzo per esplorare identità e genere. Le sue raccolte, in particolare “Helen in Egypt” (1961), offrono un riesame delle narrazioni classiche, accostandole a temi contemporanei di agency e resilienza femminile. Qui, HD riconfigura il mito di Elena di Troia, che è stata storicamente ritratta come una vittima passiva del destino, in una figura di forza e autonomia. Intrecciando storie antiche con l’esperienza personale, HD trascende i confini tra lo storico e il personale, suggerendo che le storie delle donne sono state ampiamente emarginate o travisate.
Il rapporto di HD con il mito di Eco esemplifica ulteriormente la sua esplorazione tematica di voce e silenzio. In The Walls Do Not Fall (1944), che affronta l’impatto della seconda guerra mondiale, gli echi del passato diventano un motivo potente, suggerendo come la storia riverberi nel presente, in particolare per le donne le cui voci sono state soffocate o rese inudibili. Il suo desiderio di connessione e comprensione in mezzo al caos emerge in modo toccante in versi che riflettono sia disperazione che resilienza, utilizzando il motivo dell’eco per evocare un senso di continuità anche di fronte alla desolazione.
Nelle sue opere successive, HD ha ulteriormente interrogato la nozione di identità, spesso attingendo alle sue esperienze e lotte con la salute mentale, in particolare la sua battaglia contro la depressione e le conseguenze delle sue relazioni tumultuose. La raccolta “Trilogy”, composta durante i suoi anni in Inghilterra durante la seconda guerra mondiale, incarna la sintesi delle sue influenze eclettiche: mitologia, femminismo e traumi personali. Il verso è intriso di una cupa meditazione sulla perdita e il rinnovamento, ma conserva una qualità eterea che cattura il potenziale trasformativo dell’arte.
Stilisticamente, la poesia di HD è caratterizzata dalla sua fluidità e densità, caratterizzata da versi liberi e strutture frammentate che sfidano le forme convenzionali. Il suo uso dell’enjambement crea un senso di movimento e urgenza, costringendo il lettore a impegnarsi con il testo a un livello più profondo. Inoltre, la sua profonda attenzione al suono e al ritmo le consente di infondere le sue immagini con profondità emotiva, elaborando versi che risuonano con il lettore sia sensualmente che intellettualmente.
L’eredità poetica di HD è una testimonianza del suo spirito innovativo e del suo incrollabile impegno nell’esplorare le complessità dell’esperienza umana attraverso la lente del modernismo. Le sue opere sfidano i lettori a considerare l’intersezione tra identità, mito e memoria, mentre le sue immagini vivide e la sua voce unica continuano a parlare al discorso artistico contemporaneo. Mentre studiosi e lettori rivisitano i suoi contributi, diventa innegabilmente chiaro che HD non solo occupa il suo legittimo posto all’interno del canone modernista, ma funge anche da profonda influenza per le future generazioni di poeti che navigano nelle complessità delle loro narrazioni. Nel celebrare Hilda Doolittle, dobbiamo riconoscerla come qualcosa di più di una semplice partecipante al movimento modernista; è una forza fondamentale il cui lavoro ci invita ad approfondire l’interazione tra testo, identità e il potere duraturo dell’espressione artistica.
L’Altrove è un Blog di poesia contemporanea italiana e straniera
Chi siamo
“La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”. (Federico García Lorca)
Con questo presupposto, L’Altrove intende ripercorrere insieme a voi la storia della poesia fino ai giorni nostri.
Si propone, inoltre, di restituire alla poesia quel ruolo di supremazia che ultimamente ha perso e, allo stesso tempo, di farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto.
Troverete, infatti, qui tutto quello che riguarda la poesia: eventi, poesie scelte, appuntamenti di reading, interviste ai poeti, concorsi di poesia, uno spazio dedicato ai giovani autori e tanto altro.
Noi de L’Altrove crediamo che la poesia possa ancora portare chi legge a sperimentare nuove emozioni. Per questo ci auguriamo che possiate riscoprirvi amanti e non semplici seguaci di una così grande arte.
Ricordata prevalentemente per la sua partecipazione alla nascita del movimento imagista guidato da Ezra Pound, con il quale ebbe una relazione nell’adolescenza, si distaccò con la maturità dallo stile modernista per abbracciare temi mitologici e personali, influenzati in parte dalle teorie psicoanalitiche di Carl Gustav Jung.
Se la sua lirica Oread (“Oreade”) venne giudicata da Pound come il miglior esempio poetico imagista, già ai tempi della prima guerra mondiale le sue opere, sia per il linguaggio e per gli argomenti si accostarono ai modelli dell’antica Grecia. Dal 1918 H.D. tradusse classici greci, tra i quali l’Ippolito di Euripide.
Nel periodo londinese diresse brevemente la rivista letterariaThe Egoist, vicina alla poetica di Pound e T.S. Eliot, e nel dopoguerra intensificò la pubblicazione di raccolte poetiche, come Hymen (“Imene”) (1921) e Heliodora and Other Poems (“Eliodora ed altre poesie”) (1924).[1]
Scrisse inoltre testi teatrali, adattamenti del teatro greco fra cui Hippolytus temporizes (“Ippolito temporeggia”) (1927), e numerosi romanzi.
Si sposò con Richard Aldington, ebbe una figlia, Perdita, da un’altra relazione, fu intima di D.H. Lawrence. Rimase permanentemente in Europa, ed ebbe una lunga relazione con la poetessa Bryher (pseudonimo di Annie Winifred Ellerman), con cui fondò la rivista cinematografica Close-up e la casa di produzione POOL. Di questa rimane solo il film Borderline, che annuncia i temi della produzione letteraria tardiva di H.D., quali l’inconscio e gli stati mentali.
Durante la seconda guerra mondiale la scrittrice raccolse le sue poesie di matrice religiosa nell’opera Tribute to the Angels (“Omaggio agli angeli”) (1945).
Si rivelò interessante anche il saggio psicoanalitico intitolatoTribute to Freud (1956), impreziosito dall’aggiunta delle lettere scambiate tra i due personaggi.
Opere
Poesia
Sea Garden (1916)
The God (1917)
Translations (1920)
Hymen (1921)
Heliodora and Other Poems (1924)
Hippolytus Temporizes (1927)
Red Roses for Bronze (1932)
The Walls Do Not Fall (1944)
Tribute to the Angels (1945)
Trilogy (1946), trad. Trilogia, a cura di Marina Camboni, Caltanissetta: Sciascia, 1993
Flowering of the Rod (1946)
By Avon River (1949)
Helen in Egypt (1961)
Hermetic Definition (1972)
Prosa
Notes on Thought and Vision (1919)
Paint it Today (scritto nel 1921, pubblicato nel 1992)
Asphodel (scritto nel 1921–22, pubblicato nel 1992)
Palimpsest (1926)
Kora and Ka (1930)
Nights (1935)
The Hedgehog (1936)
Tribute to Freud (1956), trad. I segni sul muro, con alcune lettere inedite di S. Freud all’autrice, trad. di Massimo Ferretti, Roma: Astrolabio, 1973
Visions and Projections (1982), trad. Visioni e proiezioni, a cura di Marina Vitale, Napoli: Liguori, 2006 ISBN 978-88-207-4014-6
Majic Ring (scritto nel 1943–44, pubblicato nel 2009)
The Sword Went Out to Sea (scritto nel 1946–47, pubblicato nel 2007)
White Rose and the Red (scritto nel 1948, pubblicato nel 2009)
The Mystery (scritto nel 1948–51, pubblicato nel 2009)
Hilda Doolittle Poetessa statunitense
Fonte – Enciclopedia Treccani on line–Hilda Doolittle Poetessa statunitense (Bethlehem, Pennsylvania, 1886 – Zurigo 1961), nota con le iniziali H. D. In Europa dal 1911. Aderì fin dall’inizio al movimento imagista, nel cui orientamento la sua arte è rimasta anche dopo che il movimento finì praticamente dissolto. Sposò nel 1913 R. Aldington, dal quale divorziò nel primo dopoguerra. Le sue prime poesie apparvero sulla rivista Poetry nel 1913. Pubblicò in seguito i volumi: Sea garden (1916), Hymen (1921), Heliodora and other poems (1924), Palimpsest (1926, romanzo), Hedylus (1928, romanzo), Hedgehog (1937), The walls do not fall (1944), Flowering of the rod (1946), By Avon river (1949), Tribute to Freud (1956, con alcune lettere inedite di Freud all’autrice), il madrigale Bid me to live (1960) e il poema Helen in Egypt (1961).
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