Marisa Carelli-Poesie inedite -pubblicate dalla Rivista AVANPOSTO-
MARISA CARELLI
è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Figlie: ci sogni bambine, dici: «È bello così».
Avrei voluto spiegarti che a me piace ora
il timbro delle nostre voci o che il passato
non si perde, fa da scivolo al presente,
sullo sterno fra i seni come fra le valli,
giù dai dorsi. O che la rosa va sfogliata
dei suoi petali per sentire che rinasce
quando non t’aspetti sullo stelo paradigma
e la ritrovi memoria in punta di dita.
Ma il non detto è una risalita al contrario,
su per spine-gradini dove tu
ti imbatti ancora in te.
***
Dove si fa giorno
a ogni paesaggio,
in te sia il suo risveglio.
Chiedi,
come Hegel sulle Alpi,
in che modo maturano i formaggi
e non dimenticare l’aurora.
Dai figli non pretendere
che a sé vogliano bene
indifferenti a strade,
aeroporti o ferrovie.
Perché talvolta chi
si strania
lo rimette al mondo
una piana,
le dolci colline,
le grida di montagne.
Una fisarmonica
che suona chiusa
è il sonno.
Si spalanca ed è
divinazione
imparare ad amarsi.
***
Sono nata con le mani strette
nella più mistica delle preghiere:
non chiedete per me
disegni dal futuro.
Cresciuta a ritroso,
mi sono fatta compasso
leggera su una bici
o cercando gli orari
dei tram per il rientro.
Ora torno a nutrirmi del petto,
un tronco che viene dal ramo.
(Fino allo scheletro della foglia
si affacciano queste parole.
Fino a te che leggi, in controluce).
***
Si potrebbe pianificare una fuga solare,
un appuntamento col raggio di luce,
nell’altrove, in un luogo non tuo:
un sasso, un punto, il prato battuto
che si apre nei suoi fili d’erba.
Il premio è la sanzione del mutare.
Guarda,
è tutto vero.
Achille e la testuggine
fianco a fianco,
sincroni avanzano
come nel dipinto
di un Quarto Stato.
Così nella costante è
la luce
il significante.
Marisa Carelli è nata ad Acquaviva delle Fonti nel 1981. Laureata in Filosofia all’Università di Bari, dal 2009 insegna Filosofia e Storia nei licei. Gli inediti qui presentati fanno parte della raccolta Il curriculum dell’introspettivo, in fase di pubblicazione.
Salvatore Quasimodo,Premio Nobel 1959, le 5 poesie più belle
Eclettico per natura, Salvatore Quasimodo si stanca subito delle attività cui si dedica. Nel corso dell’età adulta si destreggia con vari mestieri, fra cui il commesso, il disegnatore tecnico, il contabile, l’impiegato al genio civile… tutte mansioni che può svolgere grazie al suo diploma da geometra. Ma ciò che non lo stanca mai è lo studio delle lettere, a cui si dedica parallelamente alle attività saltuarie. Si appassiona così tanto ai classici e all’arte della scrittura che ben presto comincia a scrivere.
Ed è subito sera
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera
.
Ora che sale il giorno
Finita è la notte e la luna si scioglie lenta nel sereno, tramonta nei canali.
È così vivo settembre in questa terra di pianura, i prati sono verdi come nelle valli del sud a primavera. Ho lasciato i compagni, ho nascosto il cuore dentro le vecchi mura, per restare solo a ricordarti.
Come sei più lontana della luna, ora che sale il giorno e sulle pietre bette il piede dei cavalli!
.
Già la pioggia è con noi
Già la pioggia è con noi, scuote l’aria silenziosa. Le rondini sfiorano le acque spente presso i laghetti lombardi, volano come gabbiani sui piccoli pesci; il fieno odora oltre i recinti degli orti.
Ancora un anno è bruciato, senza un lamento, senza un grido levato a vincere d’improvviso un giorno.
.
Fresche di fiumi in sonno
Ti trovo nei felici approdi, della notte consorte, ora dissepolta quasi tepore d’una nuova gioia, grazia amara del viver senza foce.
Vergini strade oscillano fresche di fiumi in sonno:
E ancora sono il prodigo che ascolta dal silenzio il suo nome quando chiamano i morti.
Ed è morte uno spazio nel cuore.
.
Imitazione della gioia
Dove gli alberi ancora abbandonata più fanno la sera, come indolente è svanito l’ultimo tuo passo che appare appena il fiore sui tigli e insiste alla sua sorte.
Una ragione cerchi agli affetti, provi il silenzio nella tua vita.
Altra ventura a me rivela il tempo specchiato. Addolora come la morte, bellezza ormai in altri volti fulminea. Perduto ho ogni cosa innocente, anche in questa voce, superstite a imitare la gioia.
Biografia di Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo
Salvatore Quasimodo nasce a Modica nel 1901. Il padre è capostazione, e da piccolo Salvatore viaggia molto; anche la sua adolescenza trascorre serena, all’insegna degli spostamenti in diversi paesi siciliani per via del lavoro paterno.
Eclettico per natura, Quasimodo si stanca subito delle attività cui si dedica. Nel corso dell’età adulta si destreggia con vari mestieri, fra cui il commesso, il disegnatore tecnico, il contabile, l’impiegato al genio civile… tutte mansioni che può svolgere grazie al suo diploma da geometra. Ma ciò che non lo stanca mai è lo studio delle lettere, a cui si dedica parallelamente alle attività saltuarie. Si appassiona così tanto ai classici e all’arte della scrittura che ben presto comincia a scrivere.
Intanto, a Milano ottiene una cattedra per l’insegnamento della letteratura. Il cognato Elio Vittorini ha un grande ruolo nella carriera di Salvatore Quasimodo: è proprio lui che presenta lo scrittore agli intellettuali legati alla rivista letteraria Solaria, dove vengono pubblicate le prime poesie dell’autore.
Presto, Quasimodo si lega ai poeti ermetici e fa dell’ermetismo la sua cifra poetica. Le sue raccolte affrontano i temi più disparati ma, soprattutto dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, larga parte della sua produzione è dedicata esclusivamente alla tematica bellica e all’impegno civile. Nel 1959 gli viene conferito il Premio Nobel per la Letteratura. Muore improvvisamente a Napoli, nel 1968.
Salvatore QuasimodoSalvatore Quasimodo: vita, opere e poetica-Articolo di Ilaria Roncone
Salvatore Quasimodo, vincitore del premio Nobel nel 1959, è stato uno dei più importanti poeti italiani del Novecento. Vediamo insieme la vita, le opere e la poetica di questo grande scrittore alvatore Quasimodo, esponente di rilievo dell’ermetismo, è uno tra i poeti italiani più importanti del Novecento. Vincitore del premio Nobel nel 1959, Quasimodo è stato anche un fondamentale traduttore: ha contribuito alla traduzione di numerose liriche greche e di opere teatrali di Shakespeare e di Molière.
Nonostante il Nobel, la grandezza di Salvatore Quasimodo è stata ed è ancora oggi al centro del dibattito letterario. Negli ultimi anni si è provato sempre più a riascoltare la sua voce, ricollocando la sua opera nella giusta dimensione. Le sue poesie sono state tradotte in ben quaranta lingue e vengono studiate in tutti i paesi del mondo.
Vediamo ora nello specifico come si è svolta la vita di Salvatore Quasimodo, quali sono state le sue maggiori opere e cerchiamo di capire i punti principali della sua poetica.
Salvatore Quasimodo: la vita
Salvatore Quasimodo nasce in provincia di Ragusa, precisamente a Modica, il 20 agosto del 1901. Lo scrittore trascorre l’infanzia a Modica, seguendo il padre nel suo lavoro come capostazione di Ferrovie dello Stato. La sua famiglia viene colpita dal terribile terremoto del 1908 e in seguito è costretta a trasferirsi a Messina, dove il padre è stato chiamato per riorganizzare la stazione locale.
Come molti dei superstiti, appena dopo la grande catastrofe Quasimodo deve vivere nei vagoni dei treni, esperienza che segna profondamente la vita del poeta.
Il giovane Quasimodo si diploma a Messina presso l’Istituto Tecnico “A.M. Jaci” nella sezione fisico-matematica. Già a quell’epoca accade il primo fondamentale evento che lo condurrà lungo la via della scrittura nonostante la sua iniziale formazione: il sodalizio con Giorgio La Pira e Salvatore Pugliatti, legame che si porterà dietro poi per tutta la vita.
A Messina Quasimodo comincia, di tanto in tanto, a scrivere versi, che pubblica su riviste locali. Non appena conseguito il diploma, il giovane lascia l’adorata Sicilia — con la quale manterrà un legame edipico — per trasferirsi a Roma e studiare ingegneria. Qui, mentre continua a scrivere versi, studia latino e greco fino a venire assunto, nel 1926, al Ministero dei Lavori Pubblici, venendo assegnato al Genio Civile di Reggio Calabria. Nel ruolo di geometra, tecnico e magazziniere, Quasimodo fatica a coltivare la sua passione per la scrittura e l’impegno lavorativo lo porta ad allontanarsi dal suo vero interesse, la letteratura. Contestualmente all’allontanamento dalla poesia, il suo incarico segnerà anche la perdita di qualsiasi ambizione di tipo politico.
Sempre nel 1926, per lavoro, si trova a Reggio Calabria. Qui ritrova la fiducia nelle sue capacità letterarie, soprattutto grazie al rapporto con Pugliatti, e riscopre la forza per perseguire il suo obiettivo, riprendendo in mano i versi scritti durante il suo periodo a Roma e lavorandoci su.
Proprio in questo modo nasce una prima bozza delle poesie di Acqua e terre, raccolta che verrà poi pubblicata nel 1930 a Firenze.
Dal 1931 Quasimodo inizia a stendere una seconda raccolta di poesie in Liguria, dove si è recato al Genio Civile. Con questa raccolta, Oboe sommerso, lo scrittore dichiara di aver dato il via all’ermetismo.
Nel 1934 Quasimodo si trasferisce a Milano e riesce a trovare lavoro nel settore editoriale come segretario di Cesare Zavattini. Questi, più tardi, lo fa entrare nella redazione del settimanale “Il Tempo”. In questa fase della sua vita scrive Erato e Apollion, pubblicato poi nella stessa città nel 1936. Con questo scritto, che celebra Apollo e Ulisse, si conclude la fase ermetica delle sua poesia.
Risale al 1938 l’uscita della sua prima importante raccolta antologica, Poesie, che rimane tra le principali opere per la critica quasimodiana. Nel mentre, Quasimodo collabora anche con “Letteratura”, la principale rivista fiorentina dell’ermetismo.
In questo periodo scopre la sua profonda affinità con i lirici greci (da Saffo ad Alceo, passando per Anacreonte). La facilità espressiva della letteratura greca e di questi autori in particolare lo fulminano, e l’immediatezza e la suggestione delle parole nei loro scritti gli appare come frutto di una ricerca profonda e ostinata. In questo momento collimano alcuni aspetti della ricerca ermetica di Quasimodo e alcuni aspetti dell’antica letteratura greca.
Risale al 1940 il primo ruolo come insegnante, precisamente per la cattedra di Italiano al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Questo è il lavoro che farà fino al momento della sua morte.
Il suo più grande successo risale a due anni dopo, nel 1942: questo è l’anno della pubblicazione di Ed è subito sera, sintesi antologica che segna il bilancio del suo primo decennio di poesia. L’opera fu un best seller, evento rarissimo per la poesia.
La Seconda guerra mondiale rappresenta uno spartiacque nella vita del poeta che, nonostante le mille difficoltà, continua a lavorare proficuamente. A partire dal 1947, con la raccolta Giorno dopo giorno, avviene il cambiamento stilistico: la poesia di Quasimodo diventa più attenta alla società e impegnata. Frutto di questo cambiamento sono opere come La vita non è sogno (1949), Il falso e vero verde (1956), La terra impareggiabile (1958).
Nel 1959 a Salvatore Quasimodo viene assegnato il premio Nobel per la Letteratura:
“Per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi”.
Questo evento è una sorpresa per molti, tanto che in tanti lo ritengono immeritato e criticano il poeta a favore di Montale, Ungaretti e Saba.
L’ultima raccolta della vita di Salvatore Quasimodo è Dare e averee risale al 1966. Il poeta muore nel 1968 ad Amalfi, colto da un ictus.
Quasimodo e le sue opere
Come già accennato, Salvatore Quasimodo è stato un autore molto prolifico. Ecco le sue più famose raccolte poetiche: Acque e terre, Firenze, sulla rivista Solaria, 1930; Oboe sommerso, Genova, sulla rivista Circoli, 1932; Odore di eucalyptus ed altri versi, Firenze, Antico Fattore, 1933; Erato e Apòllìon, Milano, Scheiwiller, 1936; Nuove Poesie, Milano, Primi Piani, 1938; Ed è subito sera, Milano-Verona, A. Mondadori, 1942; Giorno dopo giorno, Milano, A. Mondadori, 1947; La vita non è sogno, Milano, A. Mondadori, 1949; Il falso e vero verde (1949-1955), Milano, Schwarz, 1956; La terra impareggiabile, Milano, A. Mondadori, 1958; Dare e avere (1959-1965), Milano, A. Mondadori, 1966.
Tra tutte queste, Quasimodo ha tradotto anche le opere di moltissimi autori greci e non solo (tra gli altri, anche William Shakespeare e Pablo Neruda) e prodotto altri scritti.
La poetica di Salvatore Quasimodo
Quasimodo è l’esponente più importante dell’ermetismo, il movimento poetico spontaneo e capillare che, solo col tempo, ha trovato una sua inquadratura stilistica, basata sul rovesciamento del decadentismo di D’Annunzio. Etica e estetica, in questa chiave, rivendicano la profonda libertà spirituale dell’uomo e la ricerca di una poesia pura, le cui parole si ribellano da qualsiasi imposizione estern
Ilaria Roncone-Redattrice di SoloLibri da settembre 2018, mi occupo principalmente di articoli di news per la rubrica Scuola e approfondimenti di storia della letteratura.
Sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli e di nuove esperienze, scrivo e viaggio per passione. Voglio portare ciò che di bello c’è fuori dentro di me e, attraverso la parole, migliorare il mondo. Laureata in giornalismo, scrivo di vari argomenti e sono particolarmente interessata a libri, ambiente e diritti civili.
Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
IL LAGER
“Visin dela città, soto coline
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ingarbuiate d’erba sgrendenà,
se quacia el campo di concentramento: tuto a torno na mura de cemento
e na corona rùsena de spine:
davanti, sul portòn de piombo e fero na gran parola impiturà de nero LAGER
E drento, su do file, blochi sgionfi
de slorda de fetori e de pioci.
In meso a le do file un largo spiasso,
in fondo de traverso, longo, basso, schissà par tera, el bloco dele cele
e, drio, la tore dele sentinele
pronte col mitra par spassar el campo.” Egidio Meneghetti, matr. 10568
EPITAFFIO PER UNA GIOVANE EBREA
Ela no l’è che du gran oci in sogno e quatro pori osseti
sconti da pele fiapa.
Ebreeta, cos’èlo che te speti
e ci vedeli mai quei oci grandi? forsi to mama? Forsi ti moroso? opura i buteleti
che mai te g’avarè?
Ebreeta, te vo’ morir de fame
e nela fame t’è desmentegado
quela note e sto mondo strangossado da tormenti e bisogni.
Te si scapà nel mondo dei to sogni: la fame ghe volea,
piccola ebrea,
per darte un poca de felicità. Ormai fora da l’onda
dei dolori,
lontàn te miri,
piàn piànin te mori
e caressa legera
de soriso
te consola la boca moribonda. Po’ te chini la facia
verso tera
sempre più,
sempre
più.
Stanote s’è smorsada l’ebreeta come ‘na candeleta
de seriola
consumà.
Stanote Missa e Oto ià butà
nela cassa
du grandi oci in sogno e quatro pori osseti sconti da pele fiapa.
E adesso nela cassa
ciodi i pianta
a colpi de martèl
e de bastiema
(drento ale cele tuti i cori trema
e i ciodi va a piantarse nel servèl).
Traduzione
Non è che due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia. Piccola ebrea, cos’è che aspetti? cosa vedono mai quegli occhi grandi? forse la mamma? forse il moroso? oppure i bimbi che non avrai? Piccola ebrea, vuoi morir di fame e nella fame hai scordato quella notte e questo mondo angosciato da tormenti e bisogni. Sei fuggita nel mondo dei tuoi sogni: ci voleva la fame, piccola ebrea, per darti un poco di felicità.
Ormai fuori dall’onda dei dolori, guardi da lontano, muori impercettibilmente e una carezza leggera di sorriso ti consola la bocca moribonda. Poi chini il viso verso terra, sempre più, sempre più. Stanotte s’è spenta la piccola ebrea, come una candelina di cera consumata. Stanotte Misha e Otto hanno gettato nella cassa due grandi occhi sognanti e quattro poveri ossicini nascosti da pelle floscia.
E adesso nella cassa piantano chiodi a colpi di martello e di bestemmia (dentro le celle ogni cuore trema e i chiodi si piantano nel cervello.
Professor Egidio Meneghetti
PER LA PICCOLA EBREA
Quel giorno che l’è entrada nela cela l’era morbida, bela
e parl’ amòr matura.
Ma nela facia, piena
de paura,
sbate du oci carghi de’n dolor
che’l se sprofonda in sècoli de pena.
I l’à butada
sora l’ tavolasso
i l’à lassada ‘
Sola, qualche giorno,
fin tanto che ‘na sera
Missa e Oto
i s’à inciavado nela cela nera
e i gh’e restà par una note intiera.
Te dala cela vièn par ore e ore
straco un lamento de butìn che more. Da quela note no l’à più parlà,
da quela note no l’à più magnà.
L’è la, cuciada in tera, muta, chiete, nel scuro dela cela
che la speta
de morir.
Traduzione
Quel giorno che entrò in cella era morbida, bella e per l’amore matura. Ma nel viso, pieno di paura, sbatte due occhi carichi di un dolore che si sprofonda in secoli di pena. L’hanno gettata sopra il tavolaccio, l’hanno lasciata sola, qualche giorno, finché una sera Misha e Otto si sono chiusi a chiave nella cella nera e ci sono rimasti una notte intera. E dalla cella viene per ore e ore un lamento stanco di bimbo morente. Da quella notte non ha più parlato, da quella notte non ha più mangiato. È là, accucciata in terra, muta, quieta, nel buio della cella che aspetta di morire.
Professor Egidio Meneghetti
Biografia di Egidio Meneghetti (Verona,14 novembre 1892 – Padova, 4 marzo 1961). Farmacologo di fama, antifascista, di tendenza socialista, fece parte dei gruppi clandestini di Giustizia e Libertà nel Veneto. Fondatore del CLN regionale col comunista Concetto Marchesi, membro di spicco dell’esecutivo militare regionale. Nel gennaio ’45 fu arrestato dalla banda Carità, pesantemente interrogato, ma non parlò. Quindi fu consegnato alle SS che lo portarono a Bolzano per poi avviarlo ai Lager della Germania. L’interruzione della linea del Brennero impedì il compimento di questo disegno. Meneghetti fu liberato al momento della liquidazione del campo, tra la fine di aprile e i primi di maggio del 1945. Medaglia d’argento al valor militare.
Nel 1932, infine divenne direttore dell’istituto di farmacologia all’Università di Padova, dove rimase fino alla morte.
Il 16 dicembre 1943 perse la moglie e la figlia (Maria e Lina), morte nel bombardamento aereo della città di Padova. Entrambe si erano rifiutate di sfollare, nonostante il pericolo, per continuare ad aiutare Egidio nel lavoro segreto che aveva intrapreso. Fra le altre cose, proprio la sera precedente avevano distribuito manifesti clandestini a Padova nel quartiere Arcella. A loro dedicò il libro Scritti clandestini.
Fu rettore dell’Università di Padova nel periodo 1945 – 1947. Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche, diede contributi fondamentali nel settore dei chemioterapici. A lui è dedicata la biblioteca di medicina presso gli Istituti Biologici dell’Università di Verona.
Il 7 gennaio 1945 fu arrestato[1] assieme a Attilio Casilli, Giovanni Ponti, Angiolo Tursi, Luigi Martignoni e a don Giovanni Apolloni dai fascisti della Banda Carità, torturato e consegnato alla SS che lo portarono prigioniero dapprima a Verona presso il loro quartier generale e sede della Gestapo, in Corso Porta Nuova (presso l’ex Palazzo di I.N.A. Assicurazioni) e successivamente a Bolzano per l’invio ai lager di eliminazione in Germania.
Contemporaneamente erano presenti nelle celle di Verona altri partigiani fra cui il Prof. Ferruccio Parri, la signora Lidia Martini, il maggiore inglese Mc Donald e un giovane friulano studente di medicina presso l’Università di Bologna Ettore Savonitto, che diventò suo compagno di cella, fino alla loro liberazione avvenuta il 30 aprile 1945 presso il Campo di concentramento di Bolzano dove erano entrambi stati trasferiti. A causa dell’interruzione delle linee ferroviarie, pesantemente e frequentemente bombardate nel 1945, fu loro fortunosamente risparmiato il trasferimento verso i campi di sterminio tedeschi e polacchi.
A Ettore Savonitto ed altri due compagni di cella (il tipografo Mario e il fornaio Massimo) è dedicato il libro Lager-Bortolo e l’ebreeta, che descrive in dialetto veronese le brutalità del campo e del suo aguzzino Michael Seifert detto Misha e soprannominato “il boia di Bolzano”, successivamente arrestato dopo moltissimi anni di latitanza in Canada, da dove fu estradato nel 2008 per morire in detenzione al termine del 2010.
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
Com’è misurato amarsi meno,
è un lavoro sartoriale,
millimetrico,
amicale;
chirurgica la mano che
tutto fa per non sfiorare,
stare
in cabina di controllo
come da tuo protocollo:
nel collo,
la vena giugulare
col suo flusso da invertire;
nel petto,
silenziare
il rumore del rumore.
Che lavoro disamare,
soffocare,
che cesello da artigiana
che ci vuole;
lambiccare che l’amore
riesca a smettere di amare.
Sempre un triste mestiere
seppellire.
*
Ogni volta che tu
aspetti lei e io
ti osservo –
muta, da dietro,
ferita –
aspettarla,
siamo finalmente
uguali.
Aspettiamo
tutt’e due
la persona sbagliata.
*
Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all’angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei tu
tutti i fattorini,
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il dodici sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
i secchi bianchi con i bordi blu;
la ruggine è tua.
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
delle auto bianche,
del letto,
della guancia,
del petto.
* * *
Beatrice Zerbini-La foto di copertina è di Dino Ignani
Beatrice Zerbini, foto di Dino Ignani
Beatrice Zerbini (Bologna, 1983), si dedica già dal 1987 allo studio del ritmo e della parola, grazie al celebre coro diretto da Mariele Ventre, di cui ha fatto parte. A otto anni, complice un’infanzia travagliata, inizia a scrivere i primi versi. Nel 2006, apre la pagina online di racconti tragicomici e di poesie “In comode rate”, che darà il nome, nel 2019, alla sua prima silloge, In comode rate. Poesie d’amore (ed. Interno Poesia), giunta in soli due anni alla settima ristampa. Nel 2020, inizia a dedicarsi a un progetto a sostegno delle famiglie dei malati e delle malate di Alzheimer, diventato poi anche uno spettacolo portato in diverse piazze emiliano-romagnole. Nel 2021 pubblica Mezze Stagioni (ed. AnimaMundi), una breve raccolta di suggestioni poetiche. D’Amore è la sua seconda opera poetica, in cui trovano sempre più spazio i temi introspettivi, dell’amore, del lutto e della cura tramite la psicoterapia.
-Rivista Collettivo R -Poesie –pubblicate sul N°unico 26/28-Giugno 1981/Maggio 1982
Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-
Rivista Collettivo R-La casa editrice venne fondata nel dicembre 1970 su inizativa di Luca Rosi, Ubaldo Bardi e Franco Manescalchi all’interno del movimento dell’underground culturale ed editoriale fiorentino in stretto collegamento con l’associazionismo politico culturale e ricreativo (Arci, Circoli culturali, Case del popolo, partiti della sinistra storica, sindacati e movimento studentesco). Lo scopo era di collegare la contestazione politica con orizzonti culturali più ampi attraverso la proposta della riflessione di scrittori e poeti, in particolare italiani e latinoamericani, poco noti al grande pubblico. L’iniziativa si concretizzò nella pubblicazione della rivista «Collettivo R», un nome derivato dalle unioni spontanee di quegli anni e una lettera simbolica R ad indicare un triplice richiamo: Resistenza, Ricerca, Rivoluzione.
La rivista mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-Rivista Collettivo R -Poesie pubblicate sul N°unico 26/28-
La Rivista Collettivo R mosse i suoi primi passi come “rivista al ciclostile” e visse nei luoghi di cui si volle fare icona e portavoce. Si interessò e propose accanto alla poesia anche lavori grafici, critiche letterarie, racconti. A fianco della rivista uscirono le serie dei “Quaderni” con raccolte poetiche contemporanee. Nel 1980 fu pubblicata L’utopia consumata: Antologia 1970-1980 che riassume le iniziative e le proposte del primo decennio di esperienza di “poesia militante”. Nel 1981 con la Casa della Cultura e il Consiglio di Quartiere 7 diede vita al Centro Due Arti di documentazione poetica e grafica e affiancò all’attività editoriale la produzione di spettacoli culturali, recital poetici e incontri di divulgazione nelle scuole. Tradusse, pubblicò e introdusse in Italia numerosi poeti latinoamericani in collaborazione con le cattedre di ispanistica delle università di Firenze, Siena e Venezia, tra questi ricordiamo Ernesto Cardenal padre trappista e ministro della cultura del Nicaragua rivoluzionario. Il primo maggio del 1994 Luca Rosi, Franco Varano e Paolo Tassi diedero vita all’attuale configurazione societaria l’Associazione culturale Athaualpa finalizzata al perseguimento di soli obiettivi culturali con il sostegno e l’impegno pratico di numerosi soci che dedicano gratuitamente la loro attività professionale alla realizzazione delle edizioni.
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IN RICORDO DI LUCA ROSI direttore della rivista di poesia “COLLETTIVO R- ATAHUALPA”
Sabato 21 settembre u.s. è morto Luca Rosi. Quanti l’abbiamo conosciuto abbiamo perso non solo il poeta, ma l’amico leale e sensibile, sempre vicino nei problemi di vita quotidiana; tutti noi dopo la sua morte siamo orfani di qualcosa,sentiamo la sua assenza come un vuoto e siamo affranti, questo vuoto era la sua dolcezza nei rapporti con tutti e il suo impegno tenace, di una persona forte e resistente moralmente, con la sua orientazione a portare a termine impegni di traduzione dei testi della rivista, di redazione dei “quaderni” di poesia o della preparazione dei diversi numeri della rivista. In questo impegno in cui si riconosceva pienamente e attraverso esso comunicava con tutti noi ed era felice quando inviava la rivista e spesso aggiungeva in un foglio allegato un caro saluto. Luca, con me, che abito a Roma, spesso era presente con una telefonata o con una lettera. Qualche volta veniva a Roma per i suoi impegni nel sindacato dell’editoria,ed era un’occasione di incontro e di riflessione, ugualmente avveniva nei miei ritorni a Firenze, anche dopo la conclusione del periodo universitario.
Luca era nato settanta quattro anni fa. L’ho incontrato la prima volta a Firenze, nella sua abitazione, per una riunione della redazione della rivista “Collettivo R”, fondata da Franco Manescalchi insieme allo stesso Luca. Quella sera, ricordo ci fossero Silvano Guarducci, Ubaldo Bardi e Paolo Tassi. Ero stato invitato, dopo aver scritto una lettera alla redazione in seguito alla presa visione di uno dei primi numeri che era arrivato alla redazione dei “Quaderni Calabresi” di Vibo Valentia. Siamo nei primi anni ’70, molto ricchi di fermenti culturali, e io ero alla ricerca di un percorso personale, che coniugasse politica e poesia. Allora mi sembrò – e fu poi così – di averlo trovato nella rivista fiorentina e nel gruppo di persone che l’animava.
Quando i rapporti redazionali divennero più frequenti con Luca, si andava formando anche una sincera amicizia, che col tempo si è consolidata, diventando molto preziosa. Io lo apprezzavo molto e gli volevo bene, e lui non mancava di farmi sentire il suo affetto e la sua stima, giudicando positivamente non solo i miei primi testi poetici per la rivista, ma spesso mi incoraggiava tantissimo a continuare a scrivere durante i miei periodi di dubbi e di insicurezza nel trovare un mio percorso. Io intanto scorgevo in lui (anche in Franco e Silvano e Paolo) l’unione tra intelligenza e sforzo morale: cioè l’attenzione che riversava verso la storia coniugata con la poesia. Lui , figlio di emigranti italiani in Venezuela, ritornato in Italia per studiare all’Università, aveva cominciato con l’interesse per i problemi degli studenti stranieri in Italia, con la redazione di un giornale degli studenti immigrati. Nel frattempo aveva avviato con la scrittura di testi poetici una comprensione del mondo e della sua storia. Penso alle prime due raccolte: “TERRA CALCINATA” E “AMORE SENZA TEMPO”. Per la prima volta ho cominciato a sentire da lui ( e da Franco) l’espressione caratterizzante: la poesia comepoesia della tensione. Essa era il risultato di riflessioni sul giusto rapporto morale con il mondo di quella storia che allora era divisa tra oppressione e movimenti di rivolta e rivoluzione. In quella concezione della poesia mi sembrava abitasse qualcosa di spirituale unito al politico. Luca era così, racchiudeva l’uno e l’altro. Lo spirituale mi sembrava basato su ciò che chiamiamo scelta, responsabilità, disponibilità all’apertura al mondo della storia. Così era fatto il suo mondo di poeta e di intellettuale, di poeta-intellettuale. Lui proponeva una poesia fatta con la passione della politica e con una tensione spirituale verso le singole persone oltre che per i fatti storico-collettivi. In Luca era molto presente anche l’orizzonte esistenziale, credo per dare un senso maggiore alla storia e alla vita stessa. Luca, già nei primi numeri della rivista “Collettivo R” individuava il ruolo del poeta come politico, con una sensibilità e una “tensione” verso le classi sfruttate e oppresse. Lui pensava possibile una <<lunga marcia>> in cui i poeti avrebbero lasciato da parte le ambizioni piccolo-borghesi, ogni prestigio personale per identificarsi con i problemi storici dell’oppressione. Luca è stato un innovatore : attraverso i testi classici del marxismo, denunciava nei primi scritti l’alienazione del lavoro intellettuale nell’industria, tra cui quello del poeta, che avrebbe perso l’aureola, e proponeva l’uscita dall’editoria tradizionale, con l’esoeditoria e il ciclostile e la diffusione a braccio della poesia tra gli strati popolari (case del popolo, scuole, ecc), collegandosi con le forze sociali che agivano a livello di massa. Così individuava il ruolo del poeta come ruolo politico in senso lato, con una tensione verso le classi oppresse. La Sua presenza alle feste dell’Unità, in alcune scuole, presso le Case del Popolo, e altri luoghi pubblici era determinante e necessaria: lui non riservava le sue energie che a questa attività di pedagogo, di amante della poesia, per far altresì innamorare gli altri. Una sua grande gioia era quella di poter invitare in questi incontri il poeta Cardenal o Rafael Alberti, o di tradurre dallo spagnolo moltissimi poeti latino-americani, per poterli far conoscere ai lettori italiani, cominciando dall’ antologia collettivamente tradotta: “Poeti a Cuba”. Il suo amore intenso per la poesia lo portava spesso a organizzare cene di sottoscrizione per continuare la pubblicazione della rivista, o a passare giorni interi a correggere le bozze di più di 50 libri di poesia di altrettanti autori, o a interessarsi alla redazione dell’antologia “L’Utopia Consumata” (o Anti-Antologia),o a curare periodicamente e con assiduità la corrispondenza con i poeti della rivista , o a tener testa ai diversi progetti culturali, relativi alla fondazione del Centro Eielson per la conoscenza della poesia latino-americana, o alla fondazione dell’Associazione culturale “ATAHUALPA, o alla edizione della nuova serie della rivista a cominciare dal 2006, o a preparare presso la biblioteca Marucelliana di Firenze la mostra di tutti i materiali di “COLLETTIVO R” e i diversi incontri di presentazione di libri per il quarantesimo anniversario della rivista.In questo suo impegno tenace era sempre sostenuto da una famiglia molto generose e a lui vicina: dalla moglie Felis, dalle figlie e dai nipoti, a cui ha saputo trasmettere con molto affetto il valore della poesia. Ecco, quando prendiamo in mano o pensiamo un numero della rivista o uno dei libri editati da Colletttivo R, pensiamo a Luca, al suo grande amore perché la poesia giungesse a tantissimi, perciò pensiamo a Lui come poeta, intellettuale e pedagogo. Oraquesto suo mondo apparentemente trascorso vivrà nel futuro, nella misura in cui noi lo ricordiamo riproponendolo. (Luca un grazie infinito da parte mia e a nome anche di coloro che ti hanno conosciuto attraverso la Rivista).
POESIE DI VERA PAVLOVA– Tradotte da Linda Torresin
Vera Pavlova-di ascendenze ebraiche, nasce a Mosca il 4 maggio 1963. Vera Pavlova si laurea con il massimo dei voti presso la prestigiosa Accademia di musica Gnesin, specializzandosi in storia della musica. Lavora come guida al Museo Šaljapin, pubblicando anche saggi di musicologia.
Comincia a scrivere versi a vent’anni, in clinica ostetrica, dopo la nascita della sua prima figlia. Nel 1988 la rivista letteraria “Junost’” pubblica alcuni versi della Pavlova, ma il vero successo arriva nel 1996 dopo la pubblicazione di 72 sue poesie sul quotidiano “Segodnja”. Da allora la Pavlova firmerà ben diciotto libri, tradotti in una ventina di lingue.
Attualmente la poetessa vive tra Mosca e New York.
Vera Anatolyevna Pavlova (‹See Tfd›Russian: Вера Анатольевна Павлова; born 1963)[1][2] is a Russian poet.
Biography
Vera Pavlova was born in Moscow, 1963. She studied at the Oktyabryskaya Revolyutsiya Music College and only started publishing after graduation.[2] She graduated from the Gnessin Academy, specializing in the history of music.
She is the author of twenty collections of poetry, four opera libretti, and lyrics to two cantatas. Her works have been translated into twenty five languages. Her work has been published in The New Yorker.[3]
Vera Anatól’evna Pávlova è nata a Mosca il 4 maggio 1963. Si è diplomata presso l’Istituto Musicale “A.G. Shnitke” e l’Accademia di Musica“Gnesinych”, specializzandosi in storia della musica. Ha cominciato a scrivere poesie a 20 anni, dopo la nascita della prima figlia Natal’ja, oggi cantante lirica. In una intervista ha dichiarato: «La mia prima poesia è stata un messaggio inviato a casa dal reparto maternità dell’ospedale. Avevo appena partorito la mia prima figlia. Fu un genere di felice esperienza mai provata né prima né dopo. La felicità fu così intollerabile, che mi spinse a scrivere una poesia per la prima volta. Da allora scrivo e ricorro alla scrittura ogniqualvolta mi sento intollerabilmente felice o infelice. E poiché la vita mi riserva in abbondanza occasioni per entrambi i sentimenti, negli ultimi ventisei anni ho scritto praticamente senza sosta. Non posso permettermi di stare lontano dalla scrittura. Potrebbe essere chiamata tossico-dipendenza, ma io preferisco chiamarla la mia forma di metabolismo».
Parlando di sé con estrema franchezza, la sua poesia è rivolta principalmente alla vita privata e intima della donna contemporanea. Linda Torresin scrive: «Musicista prima ancora che poetessa, le armonie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame tra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia di Vera Pavlova. La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – è questa per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita».
È una poesia di breve intenso respiro, scritta tutta d’un fiato. Mi fa venire in mente Ars poetica del poeta polacco Leopold Staff, da me tradotta tanti anni fa:
Un’eco dal cuore sussurra:
«Prendimi prima ch’io languisca,
Che diventi diafana, azzurra,
Che impallidisca, che sparisca!»
Come una farfalla l’afferro,
Non per sbalordire il mondo,
Ma per rendere l’attimo eterno,
Perché tu comprenda a fondo…
Ha scritto più di venti raccolte di poesie, cinque libretti d’opera e quattro testi per cantata. È stata tradotta in venticinque lingue. Vive tra Mosca e New York.
Poesie di Vera Pavlova tradotte da Paolo Statuti
* * *
Un hobby? – Ce l’ho: raccolgo
arcobaleni, meteoriti,
sogni, cartoline del paradiso,
conversazioni al buio,
cartellini NON DISTURBARE,
pareri di esperti,
anelli di fidanzamento
e programmi di concerti.
* * *
Alle sette è già buio.
Mi gusto un libro in poltrona.
Una foglia gialla è volata dentro,
ha chiesto asilo.
Da’ ospitalità alla rifugiata
e prendila come segnalibro.
Libro, cosa viene dopo?
Un breve epilogo.
* * *
Piego un gesto amorevole come latta
e costruisco una casa, cominciando dal tetto.
Scrivo ciò che voglio leggere.
Dico ciò che voglio sentire.
Scrivo: la tua amarezza è ardente.
Taccio, ti compatisco per il Braille.
Formiche, entrate in casa, trascinando
la tenerezza cento volte più pesante di voi stesse!
in modo che tu non possa pronunciarla impulsivamente
e, riflettendoci, possa fermarti
a metà…
*
La solitudine è una malattia
trasmissibile sessualmente.
Io ti lascio in pace, e fallo anche tu.
Stiamo un po’ da soli
per parlare di questo e quello
senza dire tutto,
abbracciamoci e capiamo:
chi è solo non si può curare.
*
Mi tieni fra le tue braccia e pensi forse di avermi presa?
Ma io mi libererò del corpo come coda di lucertola,
e tu dovrai cercare tra le stelle
ciò che mi cercavi tra le gambe.
La traduzione è stata condotta sulla base del testo russo pubblicato in: Vera Pavlova, Sem’ knig, Moskva, Eksmo, 2011
Traduzione dal russo di Linda Torresin
NIENTE FUGHE
la poesia concreta di Vera Pavlova
di Linda Torresin
________________________________________
VERA PAVLOVA Poetessa russa
Per la russa Vera Pavlova (1963), musicista prima ancora che poetessa, le melodie – raramente armoniche e più spesso dissonanti – della realtà si rivelano uno strumento efficace per comprendere l’individuo nella sua essenza più profonda. Il legame fra lo spirituale e il terreno è al centro della poesia della moscovita, come riassume Pavel Belickij (“Nezavisimaja gazeta”): «La carnalità, col suo gusto e il peso, la quintessenza della carnalità, musica degli umori come musica della vita, carnalità degli amplessi, la vita della carne, la morte della carne e la sua legittima trasfigurazione nella poesia: ecco l’universo poetico di Vera Pavlova». La carnalità, il corpo, il rapporto uomo-donna – questa è per la Pavlova la chiave di lettura (concreta e palpitante) della vita.
Dopo Achmatova e Cvetaeva, la Pavlova si conferma dunque la nuova voce della poesia femminile russa.
Giuseppe Bartoli –Militare antifascista, Partigiano, Autore del libro il libro
-Edizioni Zero Lire-
25 aprile
. 25 APRILE
L’importante è non rompere lo stelo
della ginestra che protende
oltre la siepe dei giorni il suo fiore.
C’é un fremito antico in noi
che credemmo nella voce del cuore
piantando alberi della libertà
sulle pietre arse e sulle croci.
Oggi non osiamo alzare bandiere
alziamo solo stinti medaglieri
ricamati di timide stelle dorate
come il pudore delle primule:
noi che viviamo ancora di leggende
incise sulla pelle umiliata
dalla vigliaccheria degli immemori
Quando fummo nel sole
e la giovinezza fioriva
come il seme nella zolla
sfidammo cantando l’infinito
con un senso dell’Eterno
e con mani colme di storia
consapevoli del prezzo pagato
Sentivamo il domani sulle ferite
e un sogno impalpabile di pace
immenso come il profumo del pane
E sui monti che videro il nostro passo
colmo di lacrime e fatica
non resti dissecato
quel fiore che si nutrì di sangue
e di rugiada in un aprile stupendo
quando il mondo trattenne il respiro
davanti al vento della libertà
portato dai figli della Resistenza.
Giuseppe “Pino” Bartoli- “Il fiore della libertà”
AD UN PARTIGIANO CADUTO
E’ un fiume di ricordi ormai amico
la strada che conduce
a quei giorni lontani di smeraldo
dove sostammo come creduli ragazzi
a creare coi sogni nelle vene
fantasie di speranze e di parole
fra pugni di “canaglie in armi”
Forse potrei dimenticare il giogo
che mi lega all’arco dei rimpianti
se soltanto le voci dei compagni
tornassero a cantare
come quando la vita dilagava
e tu portavi alla gioia di tutti
il tuo sorriso di fanciullo
e la forza serena dei tuoi occhi
Ma anche se il tempo non ricama
che fili d’ombra sulla memoria
e il tormento di quell’assurdo giorno
quando attoniti restammo
davanti alla pietà della tua forca
è pur sempre l’ora della tua lotta
del tuo caldo vento di libertà
immenso come grembi di colombe
in volo fra fiori d’acquadiluna
Tu solo amico adesso
puoi scegliere i ritorni
e dirci ancora
col battito delle tue ali
le bellezze della vita
e le dolci innocenze della morte.
NOI CHE CADEMMO
Fummo una zolla qualunque
al taglio del vecchio aratro
che il nuovo trattore ferisce
inpianto, sudore e lavoro
Ora ascoltiamo i sospiri
di neri e snelli cipressi
dipinti da soffi di sole
in chicchi di riso azzurrino
che l’acre piovasco flagella
Viviamo in bellezze di morte
fra pioppi inclinati sul rio
E siamo la gialla pannocchia
che nutre la fame del povero
che accende la fede nell’uomo
Siamo promessa di pace
che tesse tovaglie d’altare
e bianchi lini di sposa
per alta promessa di vita
…………………………………….
noi che cademmo a vent’anni
nel sogno sublime dei liberi.
CA’ DI MALANCA
Se non sai leggere
negli occhi rossi
delle ginestre
nate dal sangue
della libertà
la muta preghiera
che scuote le catene
dei tiranni . . . .
Se non t’inginocchi
sulla brace
della carne accesa . . . .
Se non piangi
sui muri di corallo
delle case arse
e se non baci
la paglia insanguinata
dalle vene di tuo fratello
sei solo un fardello inutile
che non paga
il giusto prezzo ai Morti
Solo quando capirai
tutto questo . . . .
Solo quando ricorderai
come mordevi con dente di lupo
l’ultimo pane
nel cavo della mano contadina
potrai rivivere
quella primavera colma di rosso
per il primo fiore della Libertà
Giuseppe “Pino” Bartoli
I MORTI ASPETTANO UN RAGAZZO DAGLI OCCHI DI SOLE LA MÖRT ED CURBERA LA MORTE DI CORBARA I DISCORSI D’ALLORA A CRESPINO LA DISFATTA UN BARATTOLO DI LATTA UNA FARFALLA DI CENERE
INTRODUZIONE
Udimmo il tonfo delle rane
negli alti silenzi dei meriggi
e il respiro lieve dei cavalli
nelle estese vele delle notti
gonfie di lucciole e di fremiti
Sulle nostre tavole di fieno
abbiamo mangiato
lacrime e canti
fra grappoli di rondini
in giostra nel cielo
Udimmo la scure abbattersi
sui letti deserti dei boschi
mentre carri di ricordi
si trascinavano lenti
Poi arrivò l’alba
d’una rossa primavera
con brezze di mandorli avvolte
nell’immemore pianto della terra
Tornammo dalle nostre madri
dopo una lunga notte insonne
intonando canti senza dolore
Le culle delle foglie
che ci furono compagne
raccolsero il vagito
della rinata libertà
e sui crateri di sangue
– scavati –
dalla nostra lotta
mani nude di orfani
sfidarono il cielo
Dal buio delle fosse
vergini di croci
gli occhi spalancati
dei partigiani caduti
si chiuderanno solo
se la loro speranza
diventerà la nostra.
Sono tornato dove un ragazzo
dai grandi occhi di sole
ha maturato le sue radici
Sono tornato dove abbiamo
sepolto la nostra giovinezza
e dove il nome di battaglia
nasceva tra bagliori di fuoco
Ed ho ritrovato la mia estate
L’estate dei ramarri sui muri
la fionda dall’elastico rosso
i piedi scalzi color di terra
e tutta la luce del giorno
a tingerci d’ambra le mani
Qui “giocavamo” alla guerra
fra siepi di rovi e di more
dietro lo scudo delle foglie
povera “canaglia” della libertà
inerme come grembi di colombe
Raccogliemmo morte e mirtilli
e tra cappotti di lune rosse
rubammo l’oro alle lucciole
Quando tua madre ingobbita
come la collina che ti colse
soffocò l’urlo e i singhiozzi
nella “tana” d’uno scialle nero
per te cantarono le cicale
e si schiusero nidi di viole
C’era un profumo di ginestre
nel cielo della tua ultima estate
Ora ti guardo senza piangere
compagno dagli occhi di sole
e mi chiedo se non fu fortuna
quel tuo andartene allora
col freddo sudore di morte
sul tenerume delle labbra
ancora ebbre di latte materno
Te ne andasti e forse fu meglio
perchè adesso solo le pietre
urlano come monumenti nudi
e perchè ragazzo senza nome
siamo ormai pochi a ricordare
il “sorriso” delle tue tenere vene
che si svuotavano come calici
per l’ultimo brindisi alla vita.
I s’arbuteva coma spig’d grân Si rovesciavano come spighe di grano
cun del biastèm che pareva preghir con delle bestemmie che sembravano preghiere
e vers e’ zêl e verso il cielo
pal’d s-cióp spudedi fra i dént palle di schioppo sputate tra i denti
l’andeva e’nom’d Maria e chietar sént andava il nome di Maria e degli altri santi
E prèm a caschê e fo Curbera Il primo a cadere fu Corbari
e par la bòta e per il tonfo
o tremê la tëra e o fo sobit sera tremò la terra e fu subito sera
A lé stuglé, ribèl senza pio’ él Lì disteso, ribelle senza più ali
u raspeva da e’ mêl raspava dal male
cun cla manaza grânda e cuntadéna con quella manaccia grande e contadina
……. bôna l’era la tëra ……….. ……………… buona era la terra
grasa e féna ……………. grassa e fine
Raspa Curbera, raspa stvò truvé Raspa Corbari, raspa se vuoi trovare
l’eteran cunzem dla libartê: l’eterno concime della libertà:
e’ sangue rumagnöl il sangue romagnolo
cla imbariaghê ogni côr che ha ubriacato ogni cuore
Strèca, strèca la tëra Stringi, stringi la terra
l’è sèmpar cl’udôr è sempre quel profumo
l’è sèmpar l’amôr dla stesa mâma è sempre l’amore della stessa mamma
cut fa da lët pövar fiol’d Rumâgna che ti fa da letto povero figlio di Romagna
Strèca ed elza la tësta, so canàja! Stringi ed alza la testa, su “canaglia”!
L’as drèza la camisa sanguneda Si alza la camicia insanguinata
la pê ôn lôm a Mérz, lôm’d premavera sembra un lume a marzo, lume di primavera
l’è bèl finì e’ su dé par na bangera è bello finire la vita per una bandiera
E cvànd che la prema sfója’d sôl E quando la prima sfoglia di sole
la spôrbia d’ôr tota la campagna spolvera d’oro tutta la campagna
e’partigiân e mör il partigiano muore
Bsén a lô ôn pòpul’d cuntadén Vicino a lui un popolo di contadini
o prega e o biastèma a tësta basa prega e bestemmia a testa bassa
Sôra a lô na bânda d’asasén Sopra di lui una banda d’assassini
la rid cun la vargôgna in faza ride con la vergogna in faccia
E’ sôl c’nas e dà vita a la brèza Il sole che nasce da vita alla brezza
nud coma Crèst, inciudê tna trèza nudo come Cristo inchiodato in una treggia
e pasa per l’amiga campâgna passa per l’amica campagna
l’ultum re dla muntâgna l’ultimo re della montagna
Brigant dla libartê e preputént Brigante della libertà e prepotente
ma s-cét com l’è s-cét la su zént ma schietto come è schietta la sua gente
s-cét coma i nost dê pasê bsén el stël schietto come i nostri giorni passati vicini alle stelle
fra e’ piânt’d mâma e cvèl de parabël tra il pianto di mamma e quello del parabello
(1) Silvio Corbari, medaglia d’oro della Resistenza.
Parlavamo di noi
quando la sera maturava
la stanchezza del giorno
e le contadine velate di nero
raccontavano al cielo
i guasti della pioggia
del vento e della guerra
Parlavamo di noi
all’acqua vergine di fonte
mescolando al grattare del mitra
la ragione di crederci uomini
e il diritto di lasciare
alle bestie da soma
il vanto pesante del basto
Parlavamo d’idee
mescolando bestemmie
ai rosari di pietra
per lasciare lontano l’inverno
che marciva nei solchi
e la fame
che uccideva le ultime favole
negli occhi dei bambini
Parlavamo di noi
cercando nei boschi la vita
e nei sentieri di piombo
le nostre radici di uomo
Parlavamo di noi
quando albe di fuoco
scoprivano i nostri fantasmi
già stanchi al primo mattino
già vecchi a soli vent’anni
Parlavamo del nostro domani
davanti alla salma nuda
d’un compagno caduto
e ad un ventre di terra
– che ingoiava –
le noste tenere radici
lasciandoci in bocca
la voglia rabbiosa
d’un tempo migliore
in cui ancora sperare
Giuseppe “Pino” Bartoli
Vennero i giorni della primavera
La terra si coprì d’allegria
cantò tutti i colori del cielo
andò a piangere sui seminati
Nell’antica valle del Lamone
fiorì il natale sacro dei ciliegi
e le spighe in curva preghiera
baciarono il rosso dei papaveri
I campi non furono più tristi
quando sopra sbocciarono gentili
le rose selvatiche del maggio
Nessuno parlava di morte
fra le spine dei rossi lamponi
Ma la morte era in ogni pietra
nel filo dell’erbe e delle foglie
La morte vagava lungo il fiume
negli occhi delle bestie inquiete
nel taglio affilato della scure
E venne il giorno del martirio
sull’inerme cuore contadino
sulle mani rotte dal lavoro
sulla vanga ancora impastata
di buona terra e sacro sudore
Quando i barbari furono pronti
tacque il mormorio dell’acque
e una nube scura salì al cielo
a nascondere la rosa del sole
Le mani strinsero altre mani
Le parole e un pianto disperato
narraron sogni e favole smarrite
e negli occhi grandi delle madri
si posò il bacio dei figli
E l’ultimo pensiero andò lontano
ai fuochi spenti alla terra arata
all’oro reciso delle spighe
e ai giorni senza più domani
ai canti che si spegnevano
a loro che salivano il Calvario
e a noi, a noi, che siamo rimasti
a cogliere i frutti d’una stagione
nata da vittime innocenti
Era l’intera valle delle Scalelle
e dei castagni sacri a Campana
che consumava l’ultima ora
Non li chiamavano per nome
per non spaccare la cesta dell’odio
Un cenno, una spinta, un urlo
e la morte li coglieva sul petto
unendo il gemito di chi andava
all’angoscia di chi attendeva
Il campo diventò bara immensa
nel tiepido meriggio estivo
Noch ein! Noch ein! Noch ein!
Ancora uno! Ancora uno! Ancora uno!
E un colpo dopo l’altro
rompeva il grido della carne viva
e il sangue si fondeva in grumi
nel rosario dei ceppi delle mani
nella coppa umida della terra
Quando il silenzio raccolse dai pendii
l’ultimo colpo e l’ultimo grido
– lontano –
oltre la malinconia dei roveti
un requiem di coralli accesi
si scaldava al lume delle case
e noi,, noi, quelli ancora vivi
attendevamo un “nuovo” mattino
P.S. Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Questa poesia intende ricordare l’eccidio di 42 inermi contadini vittime della barbaria nazista a Crespino sul Lamone – Luglio 1944.
Io non ho perso la guerra quando combattevo
nella nuda terra africana
seppellito come un pidocchio
dentro una gabbana
fatta di sabbia e di sete
mangiando cavallette
Io non ho sporcato
l’argento delle mie stellette
nella steppa russa
mordendo con dente di lupo
le ossa condite di ghiaccio
dei miei fratelli caduti
Io perdo ancora la guerra
tutte le volte che penso
a me e agli altri ragazzi
che col fucile in mano
tenevamo Anna Frank
sepolta in una soffitta
E fra l’occhio spento del cielo
e l’odio assassino della terra
l’ebrea costruiva col sangue
quel monumento di pace
che schiaccia ancora adesso
l’anima di tutti i boia
Quella si che fu la vera disfatta
il marchio d’una sconfitta
che mi urla sempre addosso
con una bocca larga
come una camera a gas
La stella dalla coda
aveva appena perso
l’ultimo filaccio
ancora pregno di sangue
Adesso il mondo
poteva piangere
rannicchiato
fra gli spigoli
delle case arse
Ma un bambino
aveva tanta
tanta voglia di vivere
di correre sulla rugiada
che non appassiva più
sulla terra dischiusa
Cercava un barattolo
per giocare a palla
per capire dal suono
di quel giocattolo
che rideva fra i sassi
che il macello era finito
Ma nessuna luna d’argento
– rotolava –
sul grembo della terra
e allora spense
i suoi piedi nudi
fra spine di pietra
e diventò subito un uomo
Sarà festa grande
al taglio del maggese
per coriandoli di farfalle innamorate
libere dalle culle
dell’amore agreste
Voleranno
verso la vela
tenera del cielo
tra grida pulite
di bambini
frammenti ansiosi
d’albe serene
nati dalla brace
della carne accesa
E tornerà puntuale
il ricordo
della bimba di Bologna
che sognava
una farfalla di fiordaliso
da chiudere
nella gabbia del cuore
Vedo la sua immagine
dibattersi prigioniera
fra i rovi delle schegge
come rosa di macchia
nella siepe
Ogni anno
– per non dimenticare –
un filo di calendule d’oro
illuminerà
il sentiero di cenere
grigio
come la dolcezza
d’un settembre
Angela
non rivedrà più
gronde di luna
né si scalderà
all’abbaino del sole
con occhi
di passero sperduto
Di lei resta solo
un volo immenso
di cenere
che si posò leggero
sui suoi capelli
“come solinga
lampada di tomba”
Giuseppe “Pino” Bartoli
Qualcuno di fronte a questa pubblicazione potrebbe intanto giustamente chiedersi a cosa serve la poesia. Rispondo con una frase dello scrittore americano William Carlos Williams laddove afferma che «niente di utile si trova nella poesia, ma l’umanità sta morendo miseramente ogni giorno per mancanza di ciò che si trova nella poesia». Pur ritenendo valido questo concetto si potrebbe pensare che la poesia possiede uno status specifico che la destina, lo si voglia o no, ad un pubblico di elite, a ristrette minoranze.
Ma così non è.
Abbiamo intanto un ricco patrimonio di versi dia-lettali che affonda le sue radici proprio nell’animo più popolare della nostra gente. E’ sufficiente ricorrere al lirismo di Aldo Spallicci o alla satira di Olindo Guerrini, alias Stecchetti, che esaltano la sensibilità più riposta e il diapason spirituale dei romagnoli, per capire l’importanza e il valore di immagini espressive che si richiamano alla fatica e al dolore dell’uomo, all’amore per la propria terra e le proprie tradizioni, concetti questi ancora profondamente radicati nell’animo più schietto del popolo.
La poesia è anche pensiero e fantasia, immagine e sentimento e lo sarà sempre fino a quando il sole risplenderà sulle sciagure umane.
Ed è proprio partendo dalla grande tragedia dell’ultima guerra che intendo dipanare il filo delle mie parole evidenziando, in particolare, l’olocausto di milioni di persone che assieme all’antifascismo, va visto come il substrato della Resistenza.
Ho avut o modo di leggere poesie scritte da bambini che hanno vissuto, prima di essere polverizzati nei lager tedeschi, momenti dilaganti di morte e disperazione. Si può cogliere in questi scritti una testi-monianza d’amore, un grido di condanna, un canto di speranza, un anelito di libertà che trascende la ricerca stessa della vendetta. Sono versi che diven-tano humus e linfa vitale offrendosi ad un’epoca in cui l’uomo barcolla alla ricerca di una luce che rischiari sentieri futuri per non morire per sempre.
Sentite cosa ha scritto, prima di entrare nei forni crematori, un ragazzo di quattordici anni: “Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza quando cammini tra la natura per intrecciare ghirlande con i tuoi ricordi e anche se le lacrime ti cadono lungo la strada vedrai che è bello vivere”
E non va dimenticato neanche il monito del piccolo ebreo Hanus “gasato” ad Auschwitz quando dice “che l’uomo non deve più lasciarsi riprendere dal sonno”. E il sonno in questo caso significa accettare supinamente le libertà perdute.
Ed Alena Synkova sogna orizzonti di pace, pur sapendo di dover morire, lasciandoci questi versi: “Vorrei andare sola dove c’è altra gente migliore in qualche posto sconosciuto dove nessuno uccide” Ho voluto di proposito far precedere alle mie poesie le stupende parole di alcuni dei tanti ragazzi che con il tappeto delle loro ceneri innocenti prepararono la Resistenza di tutta Europa. C’è una poesia che per il suo alto contenuto va inclusa in questa breve documentazione. Non è mia, ma del poeta siciliano Ottavio Profeta. “Se la mia voce morirà sulla croce di pietra cittadina portatela sulla cima del mio monte che s’alza nel vento e si corica nella nebbia Se la mia voce morirà nella mia pianura cercatela nel canneto nella conchiglie del mare e nell’acqua del fiume Se la mia voce morirà ridatemela viva fra gli alberi del bosco dove ogni sera canta un usignolo” –
Disegni di Terezin: l’Olocausto visto dai bambini
Tornando ai bambini di Terezin e degli altri campi di sterminio, è sorprendente constatare la consonanza della poesia con la natura del fanciullo, il gusto estetico essenzialmente contenutistico, che non disdegna l’aspetto formale, le continue trasfigurazioni in immagini semplici e profonde. L’età evolutiva rivaluta il suo copioso scrigno di sogni. di intuizioni, di amore. Nel caso dei ragazzi di Terezin, il realismo è esaltato dalla virtù della speranza. Di fronte al bivio del “day after”, la storia e la poesia ripropongono la missione millenaria dell’umanità che si può sintetizzare in pochi versi: “…..e la speranza libera dalla gabbia colorerà la nebbia delle ore”. Questa pubblicazione, voluta dalla Comunità Montana nell’ampio quadro delle celebrazioni del cinquantenario della Resistenza, è indirizzata, in particolare, verso i ragazzi affinchè il ricordo dei loro coetanei che si aggiravano come passere bianche tra i fili spinati dei campi di prigionia, non sia dimenticato. Siamo di fronte alla tragedia di una adolescenza senza dimensione che va vista come un bozzolo di sole spento da uomini in delirio. L’olocausto dei ragazzi polverizzati nelle camere a gas, fu forse segno d’incantesimo, di cenere che s’innalzò come un vortice sulla notte di una civiltà calpestata. Ognuno di noi deve finalmente capire che l’innocente battito d’ali e il solco di terra che “annegava” tenerezza di ossa, appartiene all’umanità tutta come un monito tremendo.
«…..non è più tempo amico di trascinare uomini col giogo sui «Golgota» affamati di croci Non è più tempo delle gioie né di rimembranze serene se capisci che affondi i piedi sul sangue degli innocenti Resta coi bambini di Terezin e vedrai che dopo la lunga notte i licheni tenaci della libertà chiuderanno le crepe profonde delle nostre coscienze stanche» –
Giuseppe “Pino” Bartoli
Breve biografia di Giuseppe “Pino” Bartoli, nato a Brisighella il 18/07/1920 e deceduto il 20/06/2004. Ex Ufficiale di Stato Civile ed ufficiale della formazione partigiana “Silvio Corbari”, grado riconosciutogli dal Ministero della Difesa, ha ricoperto, nel comune di Brisighella, tutti gli incarichi pubblici: Sindaco, Presidente della Comunità Montana, della Pro Loco, delle Opere Pie e del Museo del Lavoro Contadino. Poeta in lingua e vernacolo nonché prosatore, si è affermato in oltre 500 concorsi letterari, molti dei quali di livello nazionale ed internazionale. Cavaliere della Comunità Poetica Europea e Commendatore dell’Ordine Militare di S.Andrea, socio di 10 Accademie di lettere, arti e scienze, ha conseguito per due volte l’Oscar di Letteratura “Romagna”.
In sua memoria, si tiene annualmente un concorso di poesia, elaborati, disegni, ceramiche, ecc. riservato agli
Giuseppe “Pino” Bartoli
quei giovani in cui Giuseppe riponeva la sua speranza per il futuro e che credeva fossero la gioia più bella del mondo.
Giovanni Prati – Il Romanticismo italiano-Nuovi canti Poesie-
– Editore Stabilimento Tipografico Fontana di TORINO 1844 –
Giovanni Prati
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Giovanni PratiGiovanni PratiGiovanni Prati
Giovanni Prati – Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Giovanni Prati (1814-1884) fu uno dei più importanti esponenti del secondo romanticismo italiano. Partecipò attivamente alle vicende politiche risorgimentali con una attitudine cavalleresca e disordinata che gli creò seri problemi e difficoltà di rapporto con gli altri attori dei movimenti patriottici. Ebbe una vita avventurosa passando dal natio Trentino, a Padova, dove frequentò senza concluderli gli studi giuridici, a Milano, a Torino, in Svizzera, sempre seguito da polemiche anche calunniose. Fu allontanato dall’insorta Venezia come elemento perturbatore e per la fede monarchica; anche la Firenze del Guerrazzi lo respinse per i suoi legami con la dinastia sabauda, infine furono proprio i Savoia a procurargli impieghi e serenità e al loro seguito si trasferì da Torino a Firenze e infine a Roma. Non smise mai di dedicarsi alla prediletta attività poetica e letteraria contraddistinguendosi per il suo stile melodico e musicale, e per la realistica attenzione al mondo e al sentire della borghesia.
Giovanni Prati-Nuovi canti – Torino, Stabilimento Tipografico Fontana 1844 –
Poesie di Giovanni Prati
Incantesimo
La maga entro l’arena
girò, cantando, l’orma:
con frasca di vermena
mi ha tocco in sull’occipite,
ed io mi veggio appena in questa forma.
Sì picciolo mi fei
per arte della maga,
che in verità potrei
nuotar sopra diafane
ale di scarabei per l’aura vaga.
O fili d’erba, io provo
un’allegria superba
d’esser altrui sì novo,
sì strano a me. Deh fatemi,
fatemi un po’ di covo, o fili d’erba.
Minuscola formica
o ruchetta d’argento
sarà mia dolce amica
nell’odoroso e picciolo
nido che il sol nutrica e sfiora il vento.
E della curva luna
al freddo raggio, quando
nella selvetta bruna
le mille frasche armoniche
si vanno ad una ad una addormentando;
e dentro gli arboscelli
si smorza la confusa
canzon de’ filunguelli,
e sotto i muschi e l’eriche
l’anima dei ruscelli in sonno è chiusa;
noi, cinta in bianca veste
la piccioletta fata
vedrem dalla foresta
venir nei verdi ombracoli,
di bianchi fior la testa incoronata.
E dormirem congiunti
sotto l’erbetta molle;
mentre alla luna i punti
toglie l’attento astrologo,
e danzano i defunti in cima al colle.
I magi d’Asia han detto
che quanto il corpo è meno,
più vasto è l’intelletto,
e il mondo degli spiriti
gli raggia più perfetto e più sereno.
Infatti, io sento l’onde
cantar di là dal mare,
odo stormir le fronde
di là dal bosco; e un transito
d’anime vagabonde il ciel mi pare.
Da un calamo di veccia
qua un satirin germoglia,
da un pruno, o mo’ di freccia,
la sbalza un’amadriade
è in parto ogni corteccia ed ogni foglia.
Lampane graziose
giran la verde stanza:
e, strani amanti e spose,
i gnomi e le mandragore
coi gigli e con le rose escono in danza.
Del mondo ameno e tetro
com’è che ai sensi tardi
mi piove il raggio e il metro?
E né cornetta acustica
mi soccorre né vetro orecchi e sguardi?
Com’è che le mie colpe
non anco all’olmo e al pino
latra la iniqua volpe?
Né il truculento martoro
mi succhiella le polpe a mattutino?
Sono un granel di pepe
non visto: ecco il mistero.
L’erba sul crin mi repe,
ed è minor che lucciola
nell’ombra siepe il mio pensiero.
Oh fata bianca, come
un nevicato ramo,
dagli occhi e dalle chiome
più bruni della tenebra,
e dal soave nome in ch’io ti chiamo.
Oh Azzarelina! in pegno
dell’amor mio, ricevi
questo morente ingegno,
tu che puoi far continovi
nel tuo magico regno i miei dì brevi.
L’erbetta ov’io m’ascondo
so che è incanata anch’ella;
né vampa o furibondo
refolo o gel mortifica
lo smeraldo giocando in che è sì bella.
So che, d’amor rapita,
in un perpetuo ballo
mi puoi mutar la vita
o su fra gli astri, o in nitide
case di margherita e di corallo.
sien acque, o stelle, o venti,
ove abitar degg’io,
per primo don m’assenti
il bacio tuo: per ultimo,
dei rissosi viventi il pieno oblìo.
Ascolta, Azzarelina:
la scienza è dolore,
la speranza è ruina
la gloria è roseo nugolo,
la bellezza è divina ombra fiore.
Così la vita è un forte
licor che ebbri ci rende,
un sonno alto è la morte
e il mondo un gran Fantasima
che danza con la Sorte e il fine attende.
Vieni ed amiam. L’aurora
non spunta ancor; gli steli
ancor son curvi; ancora
il focherel di Venere
malinconico infiora i glauchi cieli.
Vieni ed amiam. Chi vive,
naturalmente guada
alle tenarie rive:
ma chi è prigion nel circolo
che la tua man descrive a ciò non bada.
Giovanni Prati
Un giorno d’inverno
Sempre sul farsi della tacit’ora
Crepuscolar m’invade una tranquilla
Malinconia, che dolcemente irrora
Questi occhi del dolor che da lei stilla.
Guardo il foco morente, e m’innamora
Tenervi intenta e risa la pupilla,
lnsin che appena qualche brace ancora
Tra la commossa cenere scintilla.
Il crepitar di quella ultima vita,
L’ombra addensata e la cadente neve
Di piu cupa tristezza il cor mi serra.
E prorompoll dall’anima atterrita:
Mio Dio, che sogno è questo viver breve!
Mio Dio, che solitudine è la terra!
Oh che cielo!
Oh che cielo ! oh che mar ! Quella profonda
e doppia immensità quanti sospiri
mi trae dal cor ! di che malie m’inonda!
con che forza m’assorbe entro i suoi giri!
La man per gioco, o fanciulletta bionda,
non por sugli occhi miei: lascia ch’io miri
queste due glorie. A te né il ciel né l’onda
parlano: ed altro muove i tuoi desiri,
Te move il riso dell’età tua verde,
un’ape d’oro, una farfalla, un fiore:
me l’infinito ciel, l’onda infinita.
E in questi abissi il mio pensier si perde,
e mentre scherzi, o bimba, il pensatore
piange tra il vel delle tue rosee dita.
Alba
Fumano i campi; la rugiada stilla
sull’erba nova; il cheto aere si desta
il sol che spunta, e con l’aletta in resta
il cardellino in cima al gelso trilla.
Al giocondo lavor sparsa è la villa
sui bruni solchi; pei declivi a festa
saltan le capre; e in seno a la foresta
le allegrie della caccia il corno squilla.
Questa è vita davver; questo è divino
elemento di forza all’uman petto:
aria, luce, tripudio, opera intorno.
E noi, civico vulgo, ogni mattino
(fatica insigne!) ci leviam dal letto,
pallidi spettri, ad invecchiar d’un giorno.
Ramuscello
O ramuscel di mandorlo,
quando su te si posa
il cardellino, e ai limpidi
rigagni e al ciel di rosa
sparge la fresca e lieta
anima di fanciullo e di poeta;
o ramuscel, per magica
arte io vorrei mutarmi
nell’ augellin che dondola
su te, trillando carmi;
su te che spargi al vento
la molle nebbia de’ tuoi fior d’argento.
E là, cantando il giovane
mio tempo e i dolci inganni,
le ingrate nevi e il cumulo
non sentirei degli anni.
Ma ognun la sua fatale
stella ha sul capo; ed accusarla è male.
Marionette
Al fantolino, più che pesca o mela,
piace il casotto degl’incanti, dove
un piccol mondo di figure nove
al suo cupido e fermo occhio si svela:
né sa che dietro la dipinta tela
per fili arcani in giocolier le move;
e crede velo il finto; e in quelle prove,
in quegli atti, in que’ volti avvampa e gela.
Grandeggia quindi il fantolin con l’ora:
e nel mondo degli uomini s’aggira,
e crede vero ciò ch’ è finto ancora.
Uom poi diventa, e si travaglia e stanca
pur dietro a sogni: e il dì che l’ombra ei mira
del Ver, spìa sul quadrante, e il tempo manca.
Giovanni Prati
Or passeggi solinga
Ti veggo, o madre; per i conscii lochi
dove teco scherzava io fanciulletto
or passeggi solinga, e il caro aspetto
del tuo lontano lacrimando invochi.
Parmi d’udire i tuoi gemiti fiochi
i quando mesta riguardi il vacuo letto,
e tuo figlio mancar vedi al banchetto,
e il cerchi indarno ai consueti giochi.
Sì, vederti mi par, parmi d’udirti
povera madre! e rimaner lontano,
tal rimorso è per me ch’io non so dirti.
Conosco il fallo e m’addoloro e piango!
Ahi! Com’è questo cor misero e strano!
Conosco il fallo, eppur lontan rimango.
Tra veglia e sonno
Un verno a notte bruna
mentre nell’erma stanza
d’Usca inducea la luna
un pallido chiaror,
cantò questa romanza
il reduce Gildorl.
«Senti diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor:
compi la tua promessa;
vieni, mio dolce amor.
Eccoti il lino bianco,
segnaI della tua fede;
mirami cinta al fianco
la ciarpa tricolor;
vieni, nessun ti vede,
angelo del mio cor.
Mio bel tesor, calcai
sabbie infuocate e nevi;
un oceàn varcai
per te, mio bel tesor;
per me varcar tu devi .
solo un vial di fior.
Tu mi dicesti un giorno,
con lacrime dirotte:
«Quando farai ritorno,
chiamami, o mio Gildor,
chiamami a mezzanotte, .
ti volerò sul cor.»
Senti, diletta mia,
la mezzanotte appressa;
io gelo sulla via,
e tu non vieni ancor;
compi la tua promessa,
vieni, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
piti bello ho salutato
ma te recando in core,
fu mio secondo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.
Che fai, diletta mia?
Quell’ora è già suonata.
lo gelo sulla via,
e tu non vieni ancor …
Ti sei di me scordata;
addio, mio dolce amor.
Soldato e trovatore,
le belle ho ricusato ;
or senza te nel core,
sarà mio solo amor
la spada del soldato
e il suon del trovator.»
E dileguò. Svegliata
Usca, sul far del giorno,
disse d’aver sognata
la voce di Gildor;
e aspetta il suo ritorno
la poveretta ancor.
Biografia di Giovanni Prati
Busto di Giovanni Prati (Trento)
Giovanni Prati (Comano Terme, 27 gennaio 1815 – Roma, 9 maggio 1884) è stato un poeta e politico italiano.
Giovanni Prati
Giovanni Prati nacque nel 1815 a Dasindo (oggi frazione del Comune di Comano Terme) nel Trentino, all’epoca appartenente all’Impero Austro-Ungarico e si formò nell’Imperial Regio Ginnasio d’Austria-Ungheria di Trento, intitolato alla sua persona nel 1919, Liceo Classico Giovanni Prati, dopo il passaggio del Trentino – Alto Adige all’Italia. Nello stesso Ginnasio studiò il poeta e patriota Antonio Gazzoletti.
Studiò legge a Padova e si dedicò alla poesia. Si sposò nel 1834 con Elisa Bassi, dalla quale ebbe tre figli: Riccardo, Rita ed Ersilia (i primi due morirono infanti). La moglie venne a mancare nel 1840. I temi della morte della moglie e dell’affetto per la figlia ritorneranno frequentemente nelle sue liriche. Pubblicò a Padova la prima raccolta, Poesie, nel 1836. Decise di trasferirsi a Milano nel 1841; qui conobbe Alessandro Manzoni e pubblicò l’Edmenegarda, una novella sentimentale in endecasillabi sciolti che ebbe un grande successo di pubblico ma fu stroncata dalla critica.
A Milano pubblicò nel 1843 i Canti lirici, canti per il popolo e ballate; nel 1844 dette alle stampe Memorie e lacrime e Nuovi canti. Dal 1845 al 1848 soggiornò a Padova, a Venezia e a Firenze. Nel 1848, recatosi a Torino, si mostrò sostenitore della Monarchia Sabauda. Negli anni che precedettero la prima guerra di indipendenza, fu sostenitore di Re Carlo Alberto di Savoia: per questo motivo, gli austriaci lo espulsero dal Regno Lombardo Veneto (anche Milano e Venezia all’epoca appartenevano all’Impero),e il governo di Firenze del Granducato di Toscana (sotto la dinastia Asburgo-Lorena) gli rifiutò l’asilo politico.
Furono questi i tempi più difficili e tormentati della sua vita perché professava i suoi ideali a favore della Monarchia Sabauda in una terra ostile e tra uomini decisamente avversi. Legato da ideali alla Monarchia Sabauda tornò a Torino, dove la sua fedeltà fu premiata con la nomina del Re Vittorio Emanuele II di Savoia a storiografo della Corona. Nel 1851 sposò in seconde nozze l’attrice drammatica Lucia Arnaudon.
Nel 1861 nel Governo Cavour (VIII legislatura del Regno d’Italia) venne eletto Deputato nel Parlamento Italiano con Torino divenuta Capitale del Regno d’Italia. A Torino presso il Caffè Fiorio in via Po, frequentato tra gli altri anche da Camillo Benso conte di Cavour, Massimo D’Azeglio, Urbano Rattazzi, Gabrio Casati, discuteva le sorti della neonata Italia. Nel 1865 seguì il Governo Unitario a Firenze divenuta Capitale, dove conobbe Mario Rapisardi, Niccolò Tommaseo, Atto Vannucci, Pietro Fanfani, Arnaldo Fusinato, Francesco Dall’Ongaro, Terenzio Mamiani ed altri.
Nel 1871 si trasferì a Roma divenuta Capitale d’Italia, nel 1876 divenne Senatore nel governo Depretis I XIII legislatura del Regno d’Italia nel 1878 divenne membro del Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 1878 il Ministro dell’Istruzione Francesco De Sanctis governo Cairoli I fondò a Roma l’Istituto Superiore di Magistero del quale Giovanni Prati divenne direttore. Durante questi anni la sua poesia aveva continuato a fluire con la pubblicazione del poema Armando (1868, una parte del quale era apparsa nel ’64), degli oltre cinquecento sonetti di Psiche (1876) e delle liriche raccolte in Iside (1878). Morì a Roma nel 1884.
Sepolto a Torino, le sue ceneri furono trasferite nel paese natio ricongiunto alla patria. Dal 1923 le sue spoglie risiedono nella chiesa di Dasindo di Lomaso.
Note biografiche tratte e riassunte da Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Prati
Biografia di Amarú Vanegas (Merida, Venezuela, 1977). Cittadina del ponte. Poeta, ingegnere, attrice e produttrice teatrale colombiano-venezuelana. Responsabile editoriale della rivista New York Poetry Review e curatrice della rivista messicana Ablucionistas. Master, ricercatrice e docente di Letteratura latinoamericana e caraibica. Fondatrice del Teatro Catharsis e Purpurá Poesia. Da 10 anni partecipa a raduni artistici in Argentina, Uruguay, Cile, Ecuador, Colombia, Venezuela, Messico ed Europa. Ha pubblicato: Mortis (monologo) e Criptofasia (racconto). Le sillogi: El canto del pez, Dioses proscritos, Añil, Cándido cuerpo mío, Fisuras, Fiebre y Ábaco. Ha vinto i premi: V Concorso di Racconti SttoryBox, Spagna (2016), Premio Internazionale di Poesia Candelario Obeso, Colombia (2016), Premio Internazionale di Poesia Alfonsina Storni, Spagna (2019), Premio Ediciones Embalaje Museo Rayo (2020) e finalista del Premio Internazionale di Poesia Pilar Fernández Labrador, Spagna, per due anni consecutivi (2021, 2022).
Amarú Vanegas
Traduzione di Antonio Nazzaro
OFFERTA
Oggi non ci sono agnelli in cammino verso l’altare.
Pallide, le bambine,
sfilano la loro sorda nudità
sul tappeto steso.
Nell’avanzare si sciolgono i capelli macchiati
da tinte multicolore Excellence Crème de L’Oréal.
Il verso proscritto
gli freme negli stomaci vuoti.
Si scuce la voce del clerico che,
adesso, alza il calice eucaristico.
Solo sulla luna alta della mezzanotte,
con la predica data a metà,
alzano le bambine gli occhi estasiati.
Davanti alla delizia di quei volti di cera
le concede dio il suo primo sguardo.
Inizia l’offerta di sangue fresco
dio battezza le sue recenti figlie.
Alla fine della cerimonia,
sfoggeranno le loro ali
i nuovi angeli di Victoria’s Secret.
*
OFRENDA
Hoy no hay corderos camino del altar.
Pálidas, las niñas,
desfilan su sorda desnudez
sobre la alfombra tendida.
En el avance se descuelgan sus cabellos manchados
de tintes multicolor Excellence Crème de L’Oréal.
El verso proscrito
les tiembla en los estómagos vacíos.
Se descose la voz del clérigo quién,
recién, alza la copa eucarística.
Sólo en la luna alta de la medianoche,
con la prédica servida a medias,
levantan las niñas sus ojos extasiados.
Ante la delicia de esos rostros de cera
les concede el dios su primera mirada.
Comienza la ofrenda de sangre fresca
el dios bautiza a sus nacientes hijas.
Al finalizar la ceremonia,
estrenarán sus alas
los nuevos ángeles de Victoria’s Secret.
*
IBRIDA
Non c’è fede.
Strofina la maschera e inginocchiati, apri bene le mia gambe.
Pulisci le tue maligne mani
prima di metterle nelle mie viscere
e non far caso ai lamenti.
Togli da lì i figli morti
che sono scoppiati alla frontiera.
Non li guardare, sono volti sacri che ti faranno polvere.
Adesso vattene
allontanati senza fermarti
che sei l’unico boia-testimone della mia agonia.
Ricorda che d’ora in poi ti vigilo.
Mi sono rimasti dei buchi sui seni dove c’erano i capezzoli
Ormai non c’è latte da offrire
solo sangue depravato, tossicomane.
Pongo ai piccoli mostri
che mi strapparono pancia sotto,
le teste purulenti.
Mi hanno smembrato sul monte.
Credo che qualcuno s’avvicina
sono sicura che qualcuno mi segue.
Tutto inizia a tremare, Sarò io che tremo?
La notte e una lingua di lucertola rasposa
che mi graffia le ferite,
lecca la mia caverna vuota,
lecca i figli morti.
Farfalle notturne appaiono
e tagliano con le ali come lamette.
Gusto il flagello,
sono Medea, assaporo il castigo.
Vedo un anello di morte,
mi seduce con il sesso aperto,
i pezzi del mio corpo sono liquefatti
e sparsi sul monte,
i corpi dei miei figli strappati a morsi.
Adesso siamo concime della montagna.
*
HÍBRIDA
No hay fe.
Frota la máscara y arrodíllate, separa bien mis piernas.
Limpia tus malignas manos
antes de meterlas en mi entraña
y no hagas caso de los quejidos.
Saca de ahí a los hijos muertos
que se estallaron en la frontera.
No los mires, son rostros sagrados que te harán polvo.
Ahora vete,
aléjate sin parar
que eres el único verdugo-testigo de mi agonía.
Recuerda que en adelante te vigilo.
Me quedaron agujeros en el pecho donde estaban los pezones.
Ya no hay leche que ofrecer
solo sangre depravada, toxicómana.
Tiendo a los pequeños monstruos
que me arrancaron boca abajo,
las cabezas purulentas.
Me han desmembrado en el cerro.
Creo que alguien se acerca,
estoy segura de que alguien me sigue.
Todo empieza a temblar, ¿seré yo la que tiembla?
La noche es una lengua de lagarto carrasposa
que me araña más la herida,
lame mi cueva vacía,
lame a los hijos muertos.
Mariposas nocturnas aparecen
y cortan con sus alas como hojillas.
Disfruto el azote,
soy Medea, saboreo el castigo.
Veo una argolla de muerte,
me seduce con su sexo abierto,
los trozos de mi cuerpo van siendo licuados
y esparcidos en el cerro,
los cuerpos de mis hijos arrancados a dentelladas.
Ahora somos abono de la montaña.
Da Dioses proscritos, premio internazionale di poesia Candelario Obeso, Colombia 2016
*
L’ORA
Aspettavo l’ora
e quest’incubo per immolarmi.
L’ora in cui gli uccelli
chiudevano gli occhi
e altri mondi si mischiavano con la mia ferita.
In quest’ora un bambino dalla bocca savia
– mio figlio morto –
non conosceva tutto il corpo
ogni plagio dei dolori
Allora i miei capezzoli
affondavano in una bocca più perversa
e indolente.
Ho conosciuto il piacere
e liberà ho abitato la chioma dell’albero.
Mi hanno chiamata strega
lanciarono il sale
e, al promettere il rogo,
temettero la mia risata.
Ma la risata era il freddo di una storia
che ormai non mi apparteneva.
*
LA HORA
Esperaba la hora
y esa pesadilla para inmolarme.
La hora en que los pájaros
cerraban sus ojos
y otros mundos se mezclaban con mi herida.
En esa hora un niño de boca sabia
─mi hijo muerto─
desconocía todo cuerpo,
todo plagio de dolores.
Entonces mis pezones
se hundían en una boca más perversa
e indolente.
Conocí el placer
y libre habité la copa del árbol.
Me llamaron bruja,
arrojaron la sal
y, prometiendo la hoguera,
temieron mi risa.
Pero la risa era el frío de una historia
que ya no me pertenecía.
Da Añil, Premio Internazionale di poesia Alfonsina Storni, Spagna, 2019
Biografia di Amarú Vanegas(Merida, Venezuela, 1977). Cittadina del ponte. Poeta, ingegnere, attrice e produttrice teatrale colombiano-venezuelana. Responsabile editoriale della rivista New York Poetry Review e curatrice della rivista messicana Ablucionistas. Master, ricercatrice e docente di Letteratura latinoamericana e caraibica. Fondatrice del Teatro Catharsis e Purpurá Poesia. Da 10 anni partecipa a raduni artistici in Argentina, Uruguay, Cile, Ecuador, Colombia, Venezuela, Messico ed Europa. Ha pubblicato: Mortis (monologo) e Criptofasia (racconto). Le sillogi: El canto del pez, Dioses proscritos, Añil, Cándido cuerpo mío, Fisuras, Fiebre y Ábaco. Ha vinto i premi: V Concorso di Racconti SttoryBox, Spagna (2016), Premio Internazionale di Poesia Candelario Obeso, Colombia (2016), Premio Internazionale di Poesia Alfonsina Storni, Spagna (2019), Premio Ediciones Embalaje Museo Rayo (2020) e finalista del Premio Internazionale di Poesia Pilar Fernández Labrador, Spagna, per due anni consecutivi (2021, 2022).
Traduzione di Antonio Nazzaro
Biblioteca DEA SABINA -La rivista «Atelier»
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La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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ADRIANA SIGNORELLI-Nata a Caltagirone, in Catania, è psicologa e psicoterapeuta in formazione presso l’Istituto di Gestalt di Siracusa. Utilizza la scrittura come canale espressivo privilegiato tanto nel privato, come passione, quanto nell’attività professionale. Esistenzialista di fondo, sempre alla ricerca del senso della vita e delle sue vicissitudini, affronta temi universali quali amore, dolore, solitudine, morte e fede. Trova nella capacità introspettiva e nell’incontro empatico con l’altro la chiave di ispirazione per i suoi testi.
Sognando due Ali
<Tutte le cose sono belle,
e lo diventano ancora di più
quando non abbiamo paura
di conoscerle e provarle.
L’esperienza
è la Vita con le ali. >>
(K.Gibran,”Lettere d’Amore del Profeta”)
Non avevo aperto neanche gli occhi quando il mio cuore cominciò a battere.
Per la verità non sapevo neanche che quell’affare lì si chiamasse “cuore”, ma imparai presto.
Avevo però già sentito parlare della “Luce” e dicevano che con quella si potevano vedere tante cose belle.
<<Chi me lo aveva detto?>>. Beh! Adesso non ricordo. E’ passato così tanto tempo!
Però lui, il mio cuore, lo sapeva bene e, a giudicare dai battiti, sembrava che non vedesse l’ora di incontrarla, la Luce.
Non so neanche come facesse a sapere quando sarebbe avvenuto il momento della “scoperta”, però mi avvisò: cominciò a gridare così forte che, più che battiti, i suoi sembravano scosse di terremoto!
Io, comunque, capii cosa stava cercando di comunicarmi e mi preparai per l’avvento.
<<Anch’io ero ansiosa di sapere!>>.
Passarono delle ore: qualcuno dice otto, qualcun’ altro nove. A me sembrò un’eternità.
<<Ecco, ci siamo!>>. Sentii gridare. Ma non era il mio cuore che urlava!
<<E allora chi era? >>. Non ricordo neanche questo: i miei occhi erano ancora chiusi.
<<Magari altri cuori che parlano!>>. Pensai.
Sì, doveva essere per forza così.
Uno di loro disse: <<È venuta alla luce!>>.
Ma io non capivo, per me era ancora buio.
<<E va bene, aspettiamo!>>. E pazientai.
Passarono dei giorni.
******
Una notte mi svegliai di soprassalto, per la paura aprii gli occhi e per tranquillizzarmi dissi a me stessa: <<Sarà stato solo un incubo. Qui è tutto così bello!>>. Avevo appena visto la luce.
<<Allora era vero quello che dicevano di lei!>>, dissi gioendo. Era tutto così bello!
Non sapevo cosa fossero quelle cose che si muovevano e perché ce ne fossero tante altre che invece stavano ferme, però, mi piaceva guardarle. E poi, sembravano tutti così contenti.
Beh! Se erano così felici doveva pur esserci un motivo e io dovevo scoprirlo: <<Anche io volevo essere
così!>>.
******
Passarono gli anni, e io imparavo in fretta.
Pensate, non avevo neanche l’età da scolaretta quando entrai in prima elementare.
<<Ero un genio!>>. E sì, proprio così.
Non lo dicevo per presunzione, non sapevo neanche cosa fosse.
Però, io sapevo di esserlo e anche gli altri lo sapevano. Era tutto così bello!
<<Ora capisco perché tutte quelle facce contente!>>. Finalmente realizzai.
Ma certo, come si fa a non essere contenti: <<È cosi bello vivere!>>.
Pensavo di avere capito tutto della vita, se no … che “genio” ero?
E invece – ahimè! – non avevo ancora capito niente!
******
Arrivò il giorno in cui tutti i visi che ricordavo sorridenti si spensero e ancora una volta non capivo il perché.
Ero troppo piccola, non potevo capire i cosiddetti “grandi”.
Ma vi dirò di più: <<Non volevo neanche capirli!>>.
Preferivo restare piccola e ignorante e se essere grande significava diventare triste, beh, <<Allora non voglio crescere!>>. Mi ripetevo.
E per saziare questo desiderio, mi convinsi che i vecchi nascessero vecchi, i genitori nascessero già genitori e i bambini nascessero bambini e che ognuno di questi moriva così come nasceva.
Ma certo. Doveva essere per forza così: <<Se io non volevo diventare triste, allora non potevo neanche diventare grande!>>.
Tutto filava, ma … ahimè! Non era così.
******
Potevo decidere di rimanere “piccola” dentro, ma fuori ero già grande.
E anche per me arrivò l’odiato giorno della trasformazione.
“Metamorfosi”: è così che la chiamava qualcuno più grande e più famoso di me. Parlava di un uomo e di uno scarafaggio, credo.
Adesso non ricordo: <<Non mi piaceva imparare l’arte di essere triste!>>.
Preferivo concentrarmi sulle cose che, al di là dell’età biologica, continuavano a trasmettermi la gioia di vivere.
<<Cosa erano queste cose?>>. Ma i sogni, ovviamente.
Non so perché gli altri non li usassero, eppure ce li abbiamo tutti. Mah!
<<Forse che agli altri piace essere tristi? Chissà!>>.
Forse a loro sì, ma a me <<No!>>.
Io non li capivo proprio: prima ti insegnano che la vita è bella, che devi ritenerti fortunata perché ci sono tanti altri bambini che hanno meno di te – o, peggio ancora, non hanno niente -, che devi essere buona ed ubbidiente – e fino a qui, a me stava bene tutto! – e poi …
Così, all’improvviso, ti costringono a credere che non è vero niente, o quasi.
Diciamo che ti cambiano le regole del gioco: devi continuare ad essere ubbidiente e fare la brava, ma la vita è brutta e non c’è spazio per i sogni.
E come se non bastasse: gli altri sono cattivi, ma tu devi essere buona. <<Ma come??!!>>.
Ma, allora, tutte quelle brave persone che finora mi avevano amorevolmente cresciuto in realtà mi avevano preso solo in giro!
Allora, la vita è un inganno!!!
Scusate se parlo, ma almeno avvertitemi prima; così, anziché morire avrei preferito non nascere mai. Ma oramai ero lì, viva e vegeta.
E come si fa a rinunciare ad un dono che ti viene dato con tanto amore?
E poi, come si fa a rinnegare chi si era preso cura di te? E di fatti, non si può.
Così mi rassegnai, e feci come mi dissero o ordinarono – fate voi, per me era uguale! –.
******
<<Che dire? >>. Avrò pure fatto felice Lui, e loro… Ma io stavo morendo lo stesso.
Con l’unica differenza che: mentre la “Morte” vera dura un attimo, la mia stava durando un’eternità.
Ma presto mi rassegnai anche a questo.
<<Forse è proprio così che doveva andare! >>.
E poi, io avevo tutto – o almeno così sembrava – mentre il mondo era pieno di gente che non ha niente e non per questo stava male.
<<Avrei preferito nascere povera, se è la povertà che rende felici>>. Mi ripetevo, e ripetevo… e ripetevo.
Ma neanche questo era vero, non del tutto.
<<Allora siamo tutti destinati a soffrire!!!>>. Esclamai con tanta ferocia.
Eppure c’era tanta gente che rideva intorno a me.
<<Ma come fanno?>>, mi domandavo.
<<Forse sono io che chiedo troppo!>>, rispondevo.
Ma neanche questo era vero.
E nel silenzio della mia morte, mi rassegnai.
E poi, se questo rende felici almeno loro, così sia!
******
Mi avevano tolto tutti i sogni, ma non mi avevano ancora tolto tutto.
La “speranza”, quella, non te la può togliere nessuno.
E mi rassegnai a sperare.
Passavano i giorni, niente di nuovo. Io, però, dovevo resistere.
Non sapevo ancora come sarebbe finita, ma – come si suol dire – l’avrei scoperto solo vivendo.
O meglio, facendo finta di vivere.
Non so come facevo a respirare dato che il mio cuore non batteva più oramai da tempo. E non capivo neanche come facesse il mio cuore a soffrire dato che non vivevo più.
Ma ci fu un momento in cui cominciai a capire una cosa: la vera Luce, quella bella di cui tanto avevo sentito parlare ancor prima di nascere, era proprio quella che non si vedeva. E che l’incubo, quello vero, era iniziato proprio nell’istante in cui aprii gli occhi.
<<Povera bimba ingenua, altro che genio!>>. Il “genio dell’invisibile”, forse.
Ma che bello c’è ad essere genio di qualcosa che nessun’altro vede?
Eppure io ne ero certa: ero un genio! Forse un genio solitario, ma pur sempre un genio.
E sapevo pure che un giorno lo avrei dimostrato. Non sapevo ancora come, ma anche di questo ne ero certa.
E di lì, a poco, le cose cominciarono a cambiare.
******
Un giorno, non ricordo se mattina o sera – per me era sempre notte! –, comunque…
Un giorno, bussò un angelo alla mia porta: non aveva le ali, ma aveva un cuore ed era venuto a fare luce sul mio.
Mi portò una brutta notizia, almeno così sembrava.
Mi disse che il mio Babbo, quello vero, era morto ancor prima che io fossi stata concepita e che quelli che mi avevano cresciuto non erano i miei veri genitori. <<Ero stata adottata, dunque>>.
Dovevo molto a quelle persone e non avrei mai voluto far loro del male, ma loro stessi mi avevano insegnato che l’obbedienza verso i genitori è d’obbligo per i figli. Pertanto, mi capirete quando vi dico che ho cominciato ad obbedire al mio Babbo. Quello vero, però!
Forse voi sì, ma loro non mi capirono.
L’angelo mi disse pure che il mio Papino caro, prima di morire, mi lasciò una grande eredità, ma dovevo andarmela a cercare da sola.
<<Ero ricca, quindi>>.
E magari finalmente avrei potuto realizzare tanti sogni. Forse.
Beh! Non so cosa intendesse quell’angelo con il termine “eredità”, ma ad essere sincera non me ne fregava poi così tanto.
Io volevo solo ciò che era mio e mi era stato tolto: << Io volevo il mio Papino!>>.
Partii lo stesso, dunque, ma alla sua ricerca.
Sapevo che un giorno avrei trovato quello che cercavo, anche se ancora non sapevo neanche io cosa cercassi.
Prima di partire dissi: <<Vado a cercare il mio Babbo, e poi ritorno!>>.
Ma erano tutti così impegnati a pensare a loro stessi che nessuno ascoltò le mie parole. E, nel silenzio del mio cuore, me ne andai.
******
Dicono che ai grandi, alla “gente adulta”, – così si fanno chiamare! – non bastano le parole: loro vogliono i fatti!
Ebbene! Finalmente avevamo trovato un punto d’incontro: <<Loro vogliono i fatti, e io non sarei tornata se non prima di aver trovato il mio tesoro. Quello vero, però!>>.
Passarono gli anni e, nonostante le fatiche, la solitudine e l’umiliazione, la mia ricerca non si fermò.
Continuavo ad ignorare ciò che cercavo, ma più andavo avanti e più sentivo che doveva essere qualcosa di veramente grande. E meno avevo desiderio di tornare indietro!
Non avevo ancora trovato il mio tesoro, però, – senza saperlo! – lo stavo seminando, e da lì avrei raccolto. <<Cosa ho raccolto?>>.
I miei sogni, ovviamente!
Ah! Scusate, ma non vi ho ancora detto quali erano. Lo faccio adesso: <<Pace, Amore … e Libertà!>>.
E non vi ho ancora detto la fine. Lo faccio ora.
Il mio Papino è vivo! E sapete cosa mi ha detto? Ve lo dico io: <<I sogni esistono, basta crederci!>>.
E mentre lo diceva, mi porgeva in dono la mia eredità: due Ali!
******
<<Ora si che i conti tornano!>>
Non c’è vita senza sogni, e non c’è sogno che non può realizzarsi. E se lo dice Lui potete crederci.
<<Chi è Lui?>>. Ma come?!
Tutti ne parlano, tanti professano la sua parola, altri fanno propria la sua legge, ma solo gli Angeli ci credono. Quelli veri, però!
Comunque, chiamatelo Dio, o Signore, o Spirito Santo se volete: <<Io l’ho chiamato Babbo, e lui mi ha risposto!>>.
ADRIANA SIGNORELLI-Nata a Caltagirone, in Catania, è psicologa e psicoterapeuta in formazione presso l’Istituto di Gestalt di Siracusa. Utilizza la scrittura come canale espressivo privilegiato tanto nel privato, come passione, quanto nell’attività professionale. Esistenzialista di fondo, sempre alla ricerca del senso della vita e delle sue vicissitudini, affronta temi universali quali amore, dolore, solitudine, morte e fede. Trova nella capacità introspettiva e nell’incontro empatico con l’altro la chiave di ispirazione per i suoi testi.
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