Descrizione del libro di Monica Ferrando «Bruna sono ma bella, / o figlie di Gerusalemme, / come le tende di Chedar, / come i padiglioni di Salma»: cosí i versi del Cantico dei Cantici (I, 5-6). Perché questa bellezza bruna piena di mistero, in cui avviene l’elezione di Israele a Sposa di Dio, è stata ripudiata? Perché la poesia del Cantico, invece di stagliarsi come impenetrabile testimonianza di un’elezione «erotica» è stata sostituita da una teologia dell’elezione avanzata da un’altra religione? Queste sono le domande da cui muove questo agile libro in cui Monica Ferrando mostra come il crescente dominio economico-tecnologico del mondo, non solo del mondo umano ma anche di quello naturale, è avvenuto attraverso un capovolgimento del paradigma biblico dell’elezione. Un capovolgimento in cui il paradigma teologico della predestinazione, dell’imperscrutabilità dell’elezione divina, ha permesso ai gruppi dominanti dei cristiano-protestanti, luterani e calvinisti di vantare un preteso primato su ebrei e cristiani greci e latini. I prescelti sono divenuti gli appartenenti a un certo tipo umano (bianco) e a una certa classe (alta) i quali, grazie a un estorto messianismo fondato sul privilegio di razza, di censo e di cultura, hanno edificato un sistema tecnico ed economico che si arroga il diritto sovrano e patriarcal-maschilista di decidere al posto della divina varietà dell’umano e dell’umanità nel suo complesso.
RECENSIONI
«Per secoli i gruppi dominanti dei cristiano-protestanti, luterani e calvinisti, forti di un monoteismo teologico cui avrebbero dato crescente legittimazione politica, hanno vantato un preteso primato su ebrei e cristiani greci e latini».
Monica Ferrando
AUTORE
Breve biografia di Monica Ferrando ha pubblicato vari studi di filosofia e pittura. Ha curato le edizioni italiane di Triade e de I nomi degli Dei di Hermann Usener, di Ercole al bivio di Erwin Panofsky e di La pittura e lo sguardo di Avigdor Arikha (Neri Pozza, 2016). Dirige la rivista on-line «de pictura» www.quodlibet.it/riviste/testata/80. Ha pubblicato L’oro e le ombre (Quodlibet, 2015).
Roberto Fineschi-Italo Calvino è stato marxista. In memoriam .
Ass. La Città Futura -Roma
Italo Calvino
Italo Calvino è stato un grande intellettuale comunista e marxista. Se nella seconda fase della sua vita si allontanò da quelle posizioni, permanevano tuttavia importanti linee di continuità che permettono di ricondurlo nell’alveo di quella tradizione filosofica, politica, civile e morale.
Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo.
Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.
ITALO CALVINO
Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano – interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione -, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche – oltre che, ovviamente, pratiche – che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56. Queste ragioni spingono a sostenere – questa la tesi – non solo che Calvino sia stato e rimasto comunista nell’arco della sua vita, ma che le sue posizioni possano essere identificate come “marxiste”, ovviamente intendendo con questo termine una adesione in senso ampio ad alcune linee di ragionamento derivate da Marx, sulle quali, pur mutando accenti e priorità, non ha mai cambiato idea. Ancora più arditamente credo si possa sostenere che, dieci anni prima della “crisi del marxismo” degli anni Settanta, Calvino ne avesse anticipato i tratti di fondo oggettivi e soggettivi e pure i vicoli ciechi di alcuni dei suoi esiti; ne trasse conseguenze pratiche coerenti dal suo punto di vista, con una sospensione di giudizio che non significò affatto fine della ricerca o assenza di posizionamento critico-intellettuale; si trattò piuttosto di una epochè attiva, inquirente, pungolo costante volto a stimolare la realtà per rendere visibile l’invisibile, dire il non detto. Credo si possa affermare che, in questo senso, non ci fosse intento più realistico del suo interesse per l’utopia e il mondo fantastico-invisibile.
In questa ricerca, che inizialmente pare prendere vie completamente diverse, si riannodano linee di continuità che paiono a me evidenti: il paradigma teorico su cui si era basato fino a quel momento non era ritenuto completamente sbagliato, ma insufficiente a pensare l’accresciuta complessità del reale. Se certi aspetti andavano ridimensionati, per altri versi si trattava di ampliarlo, ma a partire da basi non rinnegate. L’esplorazione del complesso reale, anche nella prospettiva di tale ampliamento, è quanto farà nel resto della sua vita. Se da una parte è evidente che nella seconda metà degli anni Sessanta, successivamente alla pubblicazione del saggio L’antitesi operaia[1] e agli sviluppi esposti in Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio)[2], Calvino ripensò profondamente le proprie posizioni “filosofiche”, pare però a me, dall’altra, che definire che cosa fosse lo “storicismo dialettico” con il quale fece i conti nel primo dei saggi menzionati sia parte integrante del problema; questa espressione è infatti quanto mai imprecisa e irrisolta ed è difficile stabilire, alla luce dello stato corrente degli studi, in che misura si possa avvicinare a spunti interamente hegeliani o marxiani. Rispetto alle determinanti fondamentali di quelle impostazioni, non ritengo che le linee generali del suo ragionamento deviassero così drasticamente.
Questo “marxismo” di fondo, il legame contraddittorio di esso con il “comunismo” e con lo “stalinismo” e la progressiva distinzione di queste tre categorie è stato il retroterra di molte delle sue riflessioni, anche tarde, che più volte nella maturità lo hanno portato a riflettere sull’esperienza giovanile, sui suoi limiti ma anche sul suo valore. In questa nota, tra i molti, vorrei fare brevemente cenno a un articolo in cui riflette sullo “stalinismo” di quella generazione e dove riprende i termini del discorso dando almeno in parte il senso storico-culturale della continuità/discontinuità del Calvino fine anni Settanta. L’articolo si intitola significativamente con una domanda: Sono stato stalinista anch’io?[3]; a essa Calvino risponde coraggiosamente: “Sì, sono stato stalinista” (2836). Spiega:
“Per molti comunisti di «base» rimasti in attesa dell’ora X della rivoluzione, Stalin era la garanzia vivente che questa rivoluzione ci sarebbe stata […] C’era poi lo Stalin che diceva che il proletariato doveva raccogliere la bandiera delle libertà democratiche lasciata cadere dalla borghesia, e questo era lo Stalin la cui strategia serviva d’appoggio alla linea del partito di Togliatti, e sembrava corrispondere a una prospettiva di continuità storica tra la rivoluzione borghese e quella proletaria” (2836).
Calvino non si nasconde quanto “già” si sapesse su Stalin e confessa la sua reticenza del tempo a darne conto o ad ammetterlo; tutto ciò rientrava nel “pacchetto” Stalin: le possibili linea di divergenza e di criticità rispetto alle purghe e all’autoritarismo vivevano accanto ai principi suddetti senza soluzione di continuità. Nella propria autocomprensione Calvino può dunque affermare: “Tanto il mio stalinismo quanto il mio antistalinismo hanno avuto origine dallo stesso nucleo di valori” (2837). In sostanza:
“Lo stalinismo aveva la forza e i limiti delle grandi semplificazioni. La visione del mondo che veniva presa in considerazione era molto ridotta e schematica, ma all’interno di essa si riproponevano scelte e lotte per far prevalere le proprie scelte, attraverso le quali molti valori che si presumevano esclusi tornavano in gioco” (2839). Insomma: “lo stalinismo si presentava come il punto d’arrivo del progetto illuminista di sottomettere l’intero meccanismo della società al dominio dell’intelletto. Era invece la sconfitta più assoluta (e forse ineluttabile) di questo progetto” (2840).
Questo – oramai consapevole – rapporto contraddittorio emerge anche nell’apprezzamento e nella sostanziale condivisione da parte di Calvino del pragmatismo anti-ideologico staliniano, che però adesso Calvino capisce non essere stato autentico in Stalin, non trattandosi altro che di concessione di monarca, rispetto a una vera concretezza metodologica e pratica.
ITALO CALVINO
Pur con le sue criticità, l’idea di fondo era che l’URSS avesse raggiunto una saggezza suffragata dal travaglio storico della sua realizzazione:
“Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell’ideologia, al di là del socialismo e del comunismo” (2841).
Ma fuori dal moralismo o dalla semplificazione storica, Calvino ammette che il suo stalinismo, nel bene e nel male, fu un momento di un processo storico complesso con i suoi tratti di necessità e i suoi ristretti margini di consapevolezza e autodecisione. Da ciò conclude il suo intervento con queste affermazioni:
“Se sono stato (pur a modo mio) stalinista, non è stato per caso. Ci sono componenti caratteriali di quell’epoca, che fanno parte di me stesso: non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato o approssimativo. Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi. Non credo a nessuna liberazione né individuale né collettiva che si ottenga senza il costo di un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo. Se a qualcuno questo mio modo di pensare potrà sembrare stalinista, ebbene, allora non avrò difficoltà ad ammettere che in questo senso un po’ stalinista lo sono ancora” (2842).
Il senso profondo di questa riflessione pare a me la consapevolezza non tanto dell’inconsistenza del retroterra filosofico-culturale del comunismo storico, ma quella delle sue insufficienze, dei suoi limiti e del suo necessario ripensamento, ma a partire da capisaldi che sono propri di quel pensiero e che neppure lo spauracchio dello stalinismo riesce a scalfire nel suo profondo. Non solo la legittimità di quella lotta storica comunista è rivendicata, ma anche un approccio metodologico individuale e collettivo e alcuni principi di fondo (razionalismo, storicità determinata, libertà possibile solo nella necessità, contraddizioni storiche, temi che qui posso evidentemente solo rievocare); tutti hanno una matrice marxiana che cercherò di mostrare a suo tempo nello studio annunciato.
ITALO CALVINO
Nella disfatta culturale postmodernista, nel cieco individualismo metodologico e morale dell’ideologia contemporanea, la voce di Calvino risuona come chiaro richiamo a una ben precisa tradizione storica, politica, culturale. Concludo ricordandolo con le sue stesse parole:
“Detto questo, rimango molto legato a certe caratteristiche che sono state l’immagine positiva del comunista, per me, e che mi hanno spinto a identificarmi con quel modello di vita… Lo spendersi per il bene comune, la disciplina interiore, l’affrontare le situazioni difficili, il senso della storia. Anche se oggi mi sarebbe impossibile darmi delle etichette politiche se non molto generiche, mi situo pur sempre in una storia che ha come spina dorsale il movimento operaio»[4].
Note:
[1] Originariamente apparso in “II menabò 7 – Una rivista internazionale”, Einaudi, Torino 1964. Ripubblicato in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 127ss.
[2] Originariamente apparso col titolo Cibernetica e fantasmi in “Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana”, fase. XXI, 1967-68, pp. 9-23; successivamente, in un testo ridotto, col titolo Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in “Nuova Corrente”, n. 46-47, 1968. Raccolto infine in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980; ora in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 205ss.
[3] Originariamente apparso su “La repubblica” del 16-17 dicembre 1979 come contributo di un inserto dedicato al centenario della nascita di Stalin. Ora raccolto in Italo Calvino, Saggi, cit., pp. 2835 ss. (si cita da questa edizione).
[4] Calvino, Il futuro che vorrei vedere, «Nuova Gazzetta del popolo», 23 luglio 1978, p. 2.
FONTE– Ass. La Città Futura | Via dei Lucani 11, Roma | Direttore Resp. Adriana Bernardeschi
Descrizione dl libro di Tanguy Viel- Iceberg –La letteratura, nelle mani degli sciocchi, è intollerabile. La letteratura, tuttavia, ha sempre contato tra le sue fila una parte di miserabili, che prendono in mano la penna solo perché si trovano interessanti. Del resto, come diceva Goethe, «ci sono libri che sembrano scritti non per l’istruzione del lettore, ma per fargli vedere che l’autore sapeva qualcosa». Ed è così che, anno dopo anno, le librerie vengono invase di opere inconsistenti quanto un refolo d’aria.
Tanguy Viel- Iceberg –
Esiste, tuttavia, un esiguo numero di scrittori che si chiedono cosa voglia dire scrivere, a cosa serva e, soprattutto, a chi. Scrittori che non si sentono, a differenza di altri, autorizzati a scrivere. O per cui la scrittura rimane, al di là di tutto, un’attività poetica, un’opera di invenzione e di ricerca con successo irregolare. Attraverso una serie di illuminanti digressioni sulla scrittura e sulla lettura, Tanguy Viel passeggia tra gli scaffali delle biblioteche, si interroga sulla vita degli scrittori e scorge, in ogni pagina letta, la promessa di una risposta alla ricerca che sta svolgendo. Ad accompagnarlo in questo viaggio subacqueo – poiché nei libri veri c’è sempre qualcosa di marino – alcune tra le più
Tanguy Viel
Breve biografia di Tanguy Viel è nato nel 1973 a Brest e vive a Nantes.Ha collaborato con France Culture, ha scritto per numerose riviste. I suoi libri sono: Le Black Note, Cinéma, L’assoluta perfezione del crimine (Neri Pozza 2004), Insospettabile (Neri Pozza 2006, BEAT 2017), Paris Brest (Neri Pozza 2010).
La storia della casa editrice Neri Pozza
Nel 1938, Neri Pozza e i suoi amici, una piccola brigata di «teste calde» tenuta d’occhio dalla polizia fascista, creano a Vicenza le Edizioni dell’Asino Volante. Le edizioni sorgono per uno scopo preciso: pubblicare il primo libro di poesie di Antonio Barolini, che l’avvocato Ermes Jacchia, un eccentrico editore ebreo costretto alla fuga dalle leggi razziali, non può più dare alle stampe. In questo modo, ereditando, cioè, il compito di un editore ebreo vittima della stupidità e della crudeltà dell’epoca, Neri Pozza scopre la sua vocazione d’editore. Una vocazione che, al di là dei due brevi periodi di prigionia nelle carceri vicentine di San Biagio e San Michele per «sospetta attività antifascista», si esprimerà ininterrottamente, dapprima con le edizioni del Pellicano e infine con la fondazione, nel 1946 a Venezia, della Neri Pozza Editore.
La storia di Neri Pozza: Gli anni 50 e 60
Dalla pubblicazione, nell’anno di fondazione, di Peter Rugg l’errante di William Austin fino all’apparizione della Grande vacanza di Goffredo Parise nel 1953, le edizioni Neri Pozza costituiscono una delle più straordinarie avventure intellettuali del dopoguerra italiano. Con una grafica moderna e la collaborazione dei maggiori poeti e scrittori del tempo (Gadda, Montale, Sbarbaro, Luzi, Cardarelli, Bontempelli), Neri Pozza pubblica titoli spesso indimenticabili: La bufera e altro e Farfalla di Dinard di Eugenio Montale, Il primo libro delle favole di Carlo Emilio Gadda, In quel preciso momento di Dino Buzzati, Il ragazzo morto e le comete, il capolavoro di Goffredo Parise scritto quando l’autore non era ancora ventenne. Negli anni Sessanta, Neri Pozza dà vita a una innovativa collana di letteratura americana: «Tradizione americana», diretta da Agostino Lombardo, in cui appaiono autori come Whitman, James, Melville, Thoreau, Emerson, Hawthorne. Saggisti della casa editrice sono Carlo Ludovico Ragghianti, Giorgio Pasquali, Concetto Marchesi, Amedeo Maiuri, Emilio Cecchi, Carlo Diano, figure fondamentali della cultura italiana del tempo.
La storia di Neri Pozza: dagli anni 2000 ad oggi
Nel corso dei decenni Neri Pozza unisce la fedeltà all’impostazione originaria del suo fondatore alla scoperta delle nuove tendenze della narrativa internazionale e nazionale, pubblicando alcuni tra i maggiori bestseller come La ragazza dall’orecchino di perla di Tracy Chevalier, Shantaram di Gregory David Roberts, Annus Mirabilis di Geraldine Brooks, Il Simpatizzante di Viet Thanh Nguyen, Le quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino, I Melrose di Edward St Aubyn, La sesta estinzione del premio Pulitzer Elizabeth Kolbert.
Sotto la direzione di Giuseppe Russo prima, e dal settembre 2023 con l’arrivo di Giovanni Francesio, Neri Pozza ha portato in Italia romanzi di successo come Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton, One Day di David Nicholls, ha riscoperto autori come Michael McDowell (di cui la casa editrice, dopo il successo della serie Blackwater, sta traducendo tutte le opere), e poi ancora autori come Abraham Verghese, che con Il patto dell’acqua ha stregato i lettori, e Barbara Kingsolver, che con il suo Demon Copperhead ha vinto il Pulitzer per la narrativa e il Women’s Prize for Fiction nel 2023, arrivando fino a Triste Tigre di Neige Sinno, il libro vincitore del premio Strega Europeo 2024.
Tra i grandi successi della narrativa italiana si annoverano Due vite di Emanuele Trevi, romanzo vincitore del Premio Strega 2021, e autori e autrici come Denise Pardo, Francesca Diotallevi, Giuseppe Berto, Alberto Riva, Roberto Cotroneo, Eugenio Murrali e Paola Barbato, il cui nuovo romanzo è in uscita ad autunno 2024.
Accanto alla produzione di narrativa, Neri Pozza pubblica anche saggistica – dalla opere di Irvin D. Yalom fino a Splendore e viltà di Erik Larson, passando per i recenti successi di Vittorio Zincone (Matteotti dieci vite), Riccardo Chiaberge (La formula della longevità), di Nathan Thrall (Un giorno nella vita di Abed Salama, vincitore del Premio Pulitzer 2024) e la prestigiosa collana La quarta prosa, curata dal professore e filosofo Giorgio Agamben.
Le collane di Neri Pozza
Il programma della casa editrice si articola nelle seguenti collane: I narratori delle tavole, con le voci più originali della letteratura americana ed europea; Neri Pozza Bloom, contenente le ultime tendenze della letteratura nazionale ed internazionale; Le tavole d’oro, portavoce delle narrazioni del nuovo Oriente; Biblioteca Neri Pozza, collana di novità e riscoperte in edizione tascabile; La quarta prosa, collana di saggi e filosofia diretta da Giorgio Agamben; Neri Pozza Beat, un ampio repertorio di romanzi tascabili; Il tempo storico, diretta da Pierluigi Vercesi; I neri di Neri Pozza, sezione dedicata ai gialli con autori dal successo internazionale come Lisa Jewell, Jean-Luc Bannalec, Pierre Martin.
Il Gruppo Athesis
La casa editrice è una società per azioni e fa parte del Gruppo editoriale Athesis, espressione delle Associazioni Industriali di Verona e di Vicenza. Tra le società di Athesis figurano quotidiani (L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, La Gazzetta di Mantova), concessionarie di pubblicità (PubliAdige), televisioni (TeleArena, Tele Mantova). Neri Pozza editore costituisce la Divisione Libri di questo Gruppo con l’insieme dei suoi marchi: la casa editrice Neri Pozza e Beat, la Biblioteca degli Editori Associati di Tascabili, la casa editrice di paperback.
Isabella Insolvibile La prigionia alleata in Italia 1940-1943
Collana dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri
Viella Libreria Editrice-ROMA
Descrizione del libro di Isabella Insolvibile –Tra il 1940 e il 1943 circa 70.000 soldati alleati furono prigionieri in Italia. Catturati sui fronti africani, vennero detenuti in quasi tutte le regioni italiane, in campi che rappresentarono uno specifico universo di cattività, indagato qui per la prima volta nella sua interezza.
L’Italia della seconda guerra mondiale non fu in grado di rispettare i suoi doveri di potenza detentrice, e la miseria patita dai suoi cittadini ebbe serie conseguenze anche sui prigionieri. In alcuni casi, poi, le autorità dei campi si resero responsabili di veri e propri crimini di guerra nei confronti dei nemici detenuti.
La prigionia alleata nel nostro paese, che questo libro ricostruisce, è dunque un altro dei “luoghi” della storia in cui si infrange il mito degli italiani brava gente.
Introduzione
La cattura e la prima detenzione
Le modalità e le caratteristiche della cattura dei soldati nemici al fronte
La detenzione nei campi provvisori e di transito nella zona di operazioni
Il trasferimento in Italia
La gestione dei prigionieri alleati
Gli organismi italiani addetti alla gestione dei prigionieri
Il ruolo della potenza protettrice e della Croce Rossa Internazionale
La British Red Cross
La Santa Sede e gli altri organismi di tutela e cura
I campi in Italia
Il quadro generale
I campi di transito
I campi di concentramento
I campi di lavoro
Fame, freddo e malattie. Le condizioni materiali della prigionia
La fame
Il freddo
Le malattie
Essere prigionieri in Italia
La corrispondenza
La vita di prigionia: «the challenge of the day»
L’istruzione
La nostalgia di casa e la comunità del campo
Autorappresentazione e rappresentazione del nemico
La fraternizzazione
Reati, punizioni e fughe
Reati e punizioni: prigione e isolamento
«NO P.O.W. must escape alive»: le fughe
Tornare a casa, e non tornarci
Gli scambi di prigionieri fino all’armistizio
L’8 settembre: il mancato “tutti a casa” dei prigionieri alleati
La colpa e il dolo: violazioni della Convenzione di Ginevra e crimini di guerra
Le violazioni della Convenzione di Ginevra
I crimini di guerra
Conclusioni
Appendice
Abbreviazioni e sigle
Bibliografia
Indice dei nomi
Indice dei luoghi
L’Autrice-Isabella Insolvibile insegna Storia contemporanea all’Università telematica Mercatorum e collabora con la Fondazione Museo della Shoah. Si occupa di Resistenza, prigionia e crimini di guerra. Tra i suoi libri, ricordiamo Cefalonia. Il processo, la storia, i documenti (Viella 2017, con M. De Paolis); Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-46) (ESI 2012); Kos 1943-1948. La strage, la storia (ESI 2010).
Nota biografica-Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.
MAHLERIANA
Non siamo responsabili di non essere lui.
(Montale)
Siamo sospesi in una stanza chiusa
ma vicini nella luce che ci scioglie nel suo rosso d’uovo.
Siamo qui arruolati come ad un bivacco
in questo lento fuoco estivo
alimentato dal dolore
dove lui è legato al suo respiratore
ed io impotente ad uno dei miei libri
sonnecchiamo nello sfiato leggero
della pompa artificiale
che ha preso il posto ormai delle cicale.
Lo osservo sbirciarmi commosso
nelle finte da flamengo
in cui mima un sonno dolce e affaticato
col suo occhio spalancato e muto
arreso al suo destino di mortale
e sopraffatto da quello che verrà.
E sfioro incapace di conforto
il polso rinsecchito e il viso scosso
le dita ormai di sale. Per distrarlo
prendo un libro uno dei tanti
che fanno peso ormai fra le coperte
nelle ore in cui lo assisto.
E leggo – ed è la prima volta in cui mi scopro
col pudore di un figlio che ha studiato
al padre di tutt’altro innamorato –
una poesia sui pomodori.
È tale la sorpresa che lo investe al mio vociare
che l’osservo irrigidirsi e poi provare a sollevarsi
nello sforzo di capire le parole.
Vuole coglierle dal cesto e con le dita svelte
agganciarle al fil di ferro in ciuffi
preparati per l’inverno. In quell’arancio aspro
nella mia voce stanca
l’ho visto uscire un’ultima volta dalla stanza…
2.
Chissà se quel che dorme in queste ore mio padre
è ciò che chiamano «il sonno dei giusti», la sua prova generale
o più semplicemente un’impietosa legge naturale
dove il più debole si annulla per fare posto ad altri.
Giusto, allora, è chi dà spazio liberando il posto.
Ma giusto è anche il male, se mi aiuta a distaccarmi
dal dormiente. Lo guardo riposare. Le guance ruvide
scavate, i denti spinti in fuori a rosicchiare innaturali
il labbro tumido, piegato dagli spasmi muscolari,
la gola esclusa al cibo ma pronta sempre a esprimere
i guaiti da bestiola in trappola, gli ansimi serrati
della stretta. Macchie sul pigiama ovunque, le vene
che si spezzano. Soltanto attraverso il suo dolore
mi lascio perdonare alla Natura il suo prossimo finire
il suo morire, il suo svuotarmi nel trasloco ingiusto
da cui non tornerà né in altra forma, né in questa.
3.
Ecco mi commuovo
di fronte allo stupore di mio padre
che si osserva morire
fissandosi per ore gli arti ossuti
estraneo ormai al suo nome.
Li rigira nello sguardo muto
la bocca amareggiata
li studia nel loro assottigliarsi
li vede perdersi di grasso e peso
e poi scavarsi le fosse nella pelle
le bocche senza un grido da cui
riemergeranno le voci
di ogni morto che lo scava.
Poi di volta in volta verso me
si volta pieno di veleno se al confronto
ancora troppo gli assomiglio
troppo a lui compagno, troppo figlio
persino qui in magrezza e malattia
noi due scarnificati
e uniti ai suoi occhi inquisitivi
nei polsi alle caviglie
che non ci lasciano sperare
altro di buono
che una punta secca di coltello
per bucarci il collo.
Di entrambi noi saranno
le giunture a parlare
cigolanti e secche, le
clavicole che spingono sul vuoto.
4.
All’alba mi addormento al posto di mio padre.
Lui è steso in un lettino a fianco.
Ieri ha fatto testamento.
Lui non dorme. Io sono stanco.
Nota biografica-Antonio Lillo (1977) vive e lavora a Locorotondo dove è direttore editoriale di Pietre Vive Editore.
La rivista «Atelier»ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
Direttore responsabile: Giuliano Ladolfi Coordinatore delle redazioni: Luca Ariano
Redazione Online Direttori: Eleonora Rimolo, Giovanni Ibello Caporedattore: Carlo Ragliani Redazione: Mario Famularo, Michele Bordoni, Gerardo Masuccio, Paola Mancinelli, Matteo Pupillo, Antonio Fiori, Giulio Maffii, Giovanna Rosadini, Carlo Ragliani, Daniele Costantini, Francesca Coppola.
Redazione Cartaceo Direttore: Giovanna Rosadini Redazione: Mario Famularo, Giulio Greco, Alessio Zanichelli, Mattia Tarantino, Giuseppe Carracchia, Carlo Ragliani.
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale e si occupa di letteratura contemporanea.
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Per tutte le comunicazioni e proposte per Atelier Online, sia di pubblicazione di inediti che di recensioni vi preghiamo di scrivere al seguente indirizzo mail di direzione: eleonorarimolo@gmail.com
Fa piacere segnalarvi il nuovo romanzo dell’apprezzato scrittore veneziano Andrea Molesini. Ambientato tra Venezia e Rodi nel settembre del 1938, un’epoca di crisi che assomiglia un po’ alla nostra, Non si uccide di martedì è una commedia nera e satirica dal gusto anglosassone. Attorno al testamento di una vedova molto ricca si dispiegano torbide relazioni familiari e intrecci criminali, mentre Venezia si affaccia prepotente con la Giudecca e le chiese, il Caffè Florian e l’eterna magia dell’acqua. Autore, tra gli altri libri, di Non tutti i bastardi di Vienna, Molesini è anche fondatore di una casa editrice di poesia raffinata che vi abbiamo presentato QUI.
Andrea Molesini
Indubbiamente Andrea Molesini è bravo, sa bene come si racconta una storia, e sa raccontare storie complesse, interessanti, intriganti, muovere un insieme di personaggi come nel celebrato Non tutti i bastardi sono di Vienna, Premio Campiello 2011, e nel più recente Il rogo della Repubblica. Romanzi che si possono dire storici, dove la creatività sopperisce e allarga la frequentazione di archivi, l’uso di documenti. Il risvolto di copertina di questo Non si uccide di martedì ci avverte che anche qui siamo in presenza di un romanzo storico, forse di minor impegno, visto che il numero di pagine si aggira intorno alle duecento e il sempre medesimo risvolto ci dice che ci troviamo nel 1938, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, proprio mentre a Monaco si discutono i destini futuri dell’Europa, con tragici esiti.
Ma forse questo, prima di essere un romanzo storico è qualcos’altro. Forse è un racconto giallo, termine abbastanza bruttino che si usa in Italia per dire che ci troviamo in presenza di una storia in cui c’è un crimine, una vittima quindi un colpevole e, solitamente, un investigatore che conduce le sue indagini per smascherarlo, che, però, qui non c’è, se non molto marginalmente.
Questa è una storia in cui il delitto e il suo svelamento avvengono tutti, letteralmente fatti in casa, è un home-made crime, come le torte di mele della mamma, fatte appunto in casa. Piccolo inciso: chi non ha scritto, o pensato di scrivere un thriller o un crime o un horror alzi la mano… se ne scrivono tanti, tantissimi, probabilmente troppi nell’illusione, da parte delle case editrici, innanzitutto, di vendere copie, tantissime copie; praticamente ogni angolo d’Italia possiede un investigatore, a differenza dall’America, più raramente privato, in Italia si usa meno, che ha il compito di alzare il velo sul più efferato dei delitti, investigatore a cui solitamente piace mangiare, senza una famiglia regolare, con una buona dose di geniale intuito.
Ecco tutti questi elementi, tipici del noir italiano attuale, li troveremo meno in Non si uccide di martedì, che cerca anche altrove i suoi modelli e i suoi riferimenti. […] Molesini per scrivere questo suo racconto ha sicuramente guardato agli illustri inventori del genere, Agatha Christie su tutti, la sua ambientazione è quella stessa, un gruppo di benestanti, o presunti tali nell’Italia o, meglio, nelle sue colonie alla fine degli anni Trenta. Ma nella miscela originale inserisce una buona dose d’ironia e qualche sottesa preoccupazione moralistica.
Andrea Molesini
In un’intervista sul Piccolo di Trieste, Molesini dichiarava di aver voluto creare una storia satirica ma divertente pensando allo spirito del film di Hitchcock La congiura degli innocenti, o AMurder considered as one of the Fine Arts (L’omicidio come opera d’arte) composto, poco prima della metà del diciannovesimo secolo, da Thomas de Quincey, uno scrittore inglese della prima età vittoriana che fa ricorso ad una dose massiccia di humor nelle sue opere. Un filone umoristico ma anche moralistico che esiste, nella letteratura inglese, anche da prima dell’Ottocento basti a pensare Jonathan Swift e alla sua Modest proposal, caustica e surreale proposta per risolvere la miseria dell’Irlanda. Andrea Molesini compone dunque un racconto zeppo di riferimenti, ma abbastanza raro nella tradizione italiana che, comunque, non si sottrae alla sfida di lanciare qualche interrogativo di peso, del tipo: “Fino a dove siamo disposti a spingerci per il nostro personale guadagno?” o “Quale limite è disposta a fissare la nostra coscienza?”. Ad ognuno spetta l’ardua risposta e il libro ce lo chiede direttamente, senza mezzi termini.
Non solo per questo rapporto fra il piccolo, i fatti dei protagonisti e il grande, i grandi interrogativi morali, la grande storia europea, in Non si uccide, abbiamo l’impressione di trovarci continuamente nelle sabbie mobili, tutto si muove e ogni personaggio, il maritino tonto e la sposina ingenua piuttosto che l’avvocato spiantato, diventano qualcos’altro, piccoli mascalzoni più o meno in gamba, in un gioco metamorfico quasi ovidiano dove ognuno dà il meglio del suo peggio. Alla fine la verità, se verità la possiamo chiamare, che emerge è quella per cui non ci possiamo mica fidare di nessuno, nessuno è quello che sembra, tutti hanno un alias dentro di sé, pronto a prendere il sopravvento, ma questo lo avevano capito piuttosto bene anche il dottor Freud e Robert Louis Stevenson già qualche tempo fa.
Il libro si apre con una tradizionale immagine veneziana: un avvocato, non certo di grido, sfoglia il Corriere della Sera al Caffè Florian di piazza San Marco e si conclude con un perfetto cerchio nuovamente a Venezia, ma la sua azione centrale si svolge nell’isola di Rodi, che dal 1912 al 1945 fu italiana e che per un periodo fu governata dall’ex ministro dell’istruzione De Vecchi, uno dei quadrumviri della marcia su Roma, che applicò con efferato rigore le leggi razziali nella isole del Dodecaneso; la tragedia degli ebrei di Rodi è oggi ricordata da un museo, il libro serve anche a richiamare alla nostra memoria questa pagina vergognosa, e di conseguenza altre ancora potrebbero tornarci alla mente per tanti altri aspetti del colonialismo italiano su cui la riflessione andrebbe approfondita. Il dominio italiano nelle isole greche non fu tutto il miele che tanta pubblicistica vuotamente nazionalistica vorrebbe farci credere. Ciò non toglie che, come sopra detto, le caratterizzazioni storiche rimangono sullo sfondo, sono un fondale in cui prendono vita le azioni dei protagonisti della storia.
Una storia breve che si svolge in un tempo ristretto, un mese nemmeno, in cui ognuno dei personaggi ha il tempo per divenire qualcos’altro, come già sottolineato, anche per passare dalla vita alla morte, anche viceversa dalla morte alla vita. Non vorrei sembrare nemmeno troppo criptico, ma la difficoltà nel parlare di un noir, chiamiamolo così per comodità, è anche quella di non rivelare troppo della sua trama, se non che gusto c’è a leggerlo, poi. Così è anche per il racconto di Molesini che riserva diverse sorprese man mano che si procede nella lettura.
Una annotazione merita la scrittura dell’autore veneziano, capace di tenere saldamente in mano lo svolgimento della vicenda, variando registro linguistico all’occorrenza, i bicchieri divengono tumbler se siamo fra persone o in un luogo in cui è necessario, si fa per dire, chiamarli così. Ma le domestiche parlano con le loro padrone in dialetto, deliziosamente. Così si caratterizzano una serie di personaggi, alcuni dei quali, come le domestiche venete, ricorrenti nella narrativa di Molesini che, sinceramente, mi sembrano molto riuscite: sagge, scaltre e più che collaboratrici delle complici delle loro padrone. Ecco come in tutti racconti updated, anche in Non si uccide di martedì, le fila del gioco sono rette dalle donne, padrone e domestiche ereditiere e ricche nobildonne, mentre gli uomini fanno la figura di tonti e maldestri, sempre disposti al facile guadagno e alla scappatella sentimentale, facili da abbindolare facendo leva sulle loro vanità.
Andrea Molesini ha detto di aver scritto Nonsi uccide di martedì, anche per aver avuto bisogno di divertimento e humor dopo la stesura di una storia cupa come Il rogo della Repubblica, sarà pure vero, ma non per questo quest’ultima sua fatica manca di intelligente gioco intellettuale e anzi, dietro a qualche bocca sorridente ci pone delle questioni intriganti, ci fa pensare insomma, facoltà a cui, visti i tempi in cui la fiducia nel futuro viene a mancare, non sarebbe male ricorrere più spesso.
Roberto Dedenaro
Questa recensione è già apparsa sulla rivista culturale Il Ponte rosso di Trieste, n°96 – ottobre 2023. Come ogni mese, potete scaricare questo nuovo numero e leggere gratuitamente i suoi interessanti contenuti cliccando QUI
Poesie di Pasquale Vitagliano dalla raccolta “Apprendistato alla salvezza”
Editore Interno Poesia – Nota di Antonio Fiori.
Breve biografia di Pasquale Vitagliano è nato a Lecce nel 1965, è poeta e critico letterario. Presente nell’Atlante dei poeti italiani contemporanei “Ossigeno nascente”, curato dall’Università di Bologna, è caporedattore della rivista letteraria Menabò, animatore del Litblog Lapoesiaelospirito, e collabora con la Gazzetta del Mezzogiorno. Tra le sue opere ricordiamo, in prosa: “Le voci del pretorio”, David and Matthaus (2017), “Sodoma”, Castelvecchi (2017); in poesia: “Del fare spietato”, Arcipelago Itaca (2019); in veste critica: “Icone e labirinti”, Terra d’ulivi (2020).
C’è stato tolto tutto
Chi si azzarda più
A dipingere madonne
Ci hanno privato delle ninfe
Le nature morte sono morte davvero
Non più scandalo nemmeno
Un barattolo o un volto scomposto
Ci hanno lasciato infine i rifiuti
Al massimo da differenziare
Che arte puoi fare se non un’alchimia
Almeno per chi come a tutti gli umani
Spetta di camminare.
*
In questa poesia non ci sono alberi
Animali o elementi naturali
Neppure parti del corpo e
Neanche oggetti di uso comune
Che pure sono quelli che preferisco usare
In questa poesia ci sono soltanto
settanta parole che senza aspettarsi premi
Cercano di scrivere appena
Ciò che la vita non riesce a dire
Quello che dalla vita avanza
Perché possa smaltirsi il dolore
Per dare un senso alla salvezza.
*
Arride sulla trincea
La scia del tracciante
Irradia l’ultima notizia
La guerra privata è finita
Il bollettino quotidiano
Sulla battaglia continua
Irride la gloria alla buon’ora.
Quello alla salvezza è un apprendistato che dura tutta la vita; ne dà prova e testimonianza Pasquale Vitagliano non solo in questa silloge ma in tutto il suo percorso di scrittura poetica.
Una poesia che qui certo volge all’introspezione ma sempre partendo dallo sguardo sul mondo, dalla sua vocazione etica e civile: Far sì che agendo/ Il dire e il fare/ Guardino dalla stessa sponda/ Smetterla così di fare cose/ Con le parole agire/ In tutto quello che accada.
Chiuso nella sua stanza, il poeta è assediato da dubbi, sospetta congiure, cerca di riordinare i pensieri. In un verso ci rivela chedisteso sul letto mi tiene la mano l’assenza più attesa.
Incontriamo anche molti testi meta-poetici, apparentemente assertivi ma forse solo provocatori, vicini al realismo terminale: Le cose sono parole e gli oggetti parlano/ Senza bisogno di muoversi/ Perché adesso puoi toccare/ Ciò che dici.
L’apprendistato conosce tappe di assestamento, nelle quali si addensano insegnamenti e consigli (La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi) e si chiude con la prima poesia intitolata (“Taranto per noi”).
Segue la sezione “Dopo la battaglia”, nella quale irrompe l’attualità: Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave/ Da passare al prigioniero.
Il libro si chiude con una bella lettera di Lino Angiuli, da poeta a poeta: “Poesia come arte dell’abbandono ed elemosina del senso, dunque; allestimento di una disposizione d’animo (e d’anima) che possa fare da apripista alla scaturigine di un quid che si intuisce esserci da qualche parte, e da cui ci si aspetta di essere visitati, senza ovviamente scansare le preziose istruzioni del buio.”
Biblioteca DEA SABINA
-La rivista «Atelier»-
http://www.atelierpoesia.it
La rivista «Atelier» ha periodicità trimestrale (marzo, giugno, settembre, dicembre) e si occupa di letteratura contemporanea. Ha due redazioni: una che lavora per la rivista cartacea trimestrale e una che cura il sito Online e i suoi contenuti. Il nome (in origine “laboratorio dove si lavora il legno”) allude a un luogo di confronto e impegno operativo, aperto alla realtà. Si è distinta in questi anni, conquistandosi un posto preminente fra i periodici militanti, per il rigore critico e l’accurato scandaglio delle voci contemporanee. In particolare, si è resa levatrice di una generazione di poeti (si veda, per esempio, la pubblicazione dell’antologia L’Opera comune, la prima antologia dedicata ai poeti nati negli anni Settanta, cui hanno fatto seguito molte pubblicazioni analoghe). Si ricordano anche diversi numeri monografici: un Omaggio alla poesia contemporanea con i poeti italiani delle ultime generazioni (n. 10), gli atti di un convegno che ha radunato “la generazione dei nati negli anni Settanta” (La responsabilità della poesia, n. 24), un omaggio alla poesia europea con testi di poeti giovani e interventi di autori già affermati (Giovane poesia europea, n. 30), un’antologia di racconti di scrittori italiani emergenti (Racconti italiani, n. 38), un numero dedicato al tema “Poesia e conoscenza” (Che ne sanno i poeti?, n. 50).
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Rino Della Negra: Emigrante-Calciatore e Partigiano
Articolo di Fabio Casalini
Rino Della Negra nacque nel 1923 a Vimy, nel dipartimento di Pas-de-Calais, da genitori italiani: il padre, muratore, era originario di Udine.
Nel 1926 la famiglia si stabilì ad Argenteuil nel quartiere Mazagran, ribattezzato Mazzagrande a causa della numerosa presenza di italiani.
Rino, giovane e pieno di speranze, iniziò la sua carriera calcistica come attaccante nella squadra della cittadina alla periferia di Parigi, ovvero l’Argenteuillais FC.
Riuscì a ritagliarsi molto spazio ed a collezionare diversi successi, come la Coupe de la Seine del 1938 e la Coupe du Matin-FSGT del 1941.
Nel frattempo svolse l’attività di apprendista muratore, prima, e di operaio del settore metallurgico in seguito. Nel 1938 fu naturalizzato francese.
Nel 1942 fu notato dai dirigenti dell’importante squadra del Red Star Football Club, società fondata a Parigi che giocava nello stadio di proprietà situato nella periferia Nord della capitale francese, esattamente a Saint-Ouen-sur-Seine.
Come la storia ci ricorda, la Francia nel 1940 fu invasa dai nazisti. Questo evento colpì anche il giovane Rino tanto che nel 1942, a 19 anni, rifiutò la chiamata al Servizio di Lavoro obbligatorio (Service du travail obligatoire – STO) in Germania, decidendo di unirsi ai Francs-tireurs et partisans (FTP). Il Servizio di Lavoro obbligatorio era un periodo con il quale i francesi dovevano “partecipare” allo sforzo bellico tedesco fornendo lavoro gratuito.
Rino Della Negra si unì al distaccamento italiano dei Francs-tireurs et partisans / Main-d’oeuvre immigrée (FTP-MOI), con il nome di Jean-Claude Chatel (secondo altre fonti Dallat).
Prima di essere catturato partecipò a una quindicina di azioni, tutte nel 1943: tra le operazioni possiamo ricordare sabotaggi, distribuzione di materiale e armi ed attacchi ai convogli nazisti o fascisti.
Nel giugno del 1943 prese parte all’attacco alla sede parigina del Partito fascista italiano, in rue Sédillot.
Sempre nel giugno del 1943 partecipò all’esecuzione del generale Von Apt.
Nel frattempo Rino non abbandonò la famiglia e nemmeno la propria squadra di calcio.
Della Negra giocò solo otto partite nelle file del Red Star FC. Le giocò tutte quando si trovava già in clandestinità. Incurante del pericolo, giocò tutte, anzi le sole, le otto partite con il proprio nome e non con lo pseudonimo di Jean-Claude Chatel o Dallat.
Purtroppo il 12 novembre un’operazione contro i tedeschi non si concluse come le altre. Rino rimase ferito nell’attacco ai nazisti e fu trasportato all’ospedale della Pitié-Salpêtrière. All’interno delle stanze del nosocomio parigino fu arrestato, interrogato dalla polizia ed infine dalla Gestapo.
Rino Della Negra verrà giustiziato insieme ad altri 21 partigiani ad Ovest di Parigi, il 21 febbraio del 1944. Erano 23 in totale; l’ultima, Olga Bancic, verrà decapitata in Germania cinque mesi dopo.
Fu sepolto nel cimitero del Centro di Argenteuil.
Grazie all’estremo sacrificio Rino diventerà una figura emblematica del club Red Star tanto che la sua memoria è regolarmente onorata dai tifosi che hanno voluto installare una lapide commemorativa all’ingresso dello stadio.
Ma perché le i tifosi francesi vogliono bene a questo emigrato italiano?
Rino Della Negra incarna, ancora oggi, i valori in cui si riconoscono i tifosi del club e delle periferie parigine: l’antirazzismo, l’antifascismo e la difesa degli immigrati.
Dimitri Manessis et Jean Vigreux, Rino Della Negra, footballeur et partisan : vie, mort et mémoire d’un jeune footballeur du « groupe Manouchian », Libertalia, 2022
Emily Brontë ed Emily Dickinson: “Tra di noi l’oceano” di Mattia Morretta-Gruppo Editoriale Viator
La modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson: “Tra di noi l’oceano” di Mattia Morretta-
Descrizione-Emily Brontë ed Emily Dickinson–Vite parallele delle due Emily più note e ineffabili del panorama letterario, una narrazione biografica arricchita dall’approfondimento tematico dell’opera e da traduzioni più aderenti al testo originario, ricostruendo i collegamenti esistenziali e artistici, le consonanze dei profili di personalità e dell’ispirazione. Una singolare rilettura che svela perché la loro scelta di votarsi alla scrittura, rimanendo latenti e dietro le quinte del mondo, si sia tradotta in libertà morale e solida eredità culturale. Si scopre infatti che per i contenuti e gli accenti sono nostre contemporanee e che ci rianimano con un vocabolario dotato di eccezionale energia. Maestre di consapevolezza con domande sul dolore, la malattia e la morte, l’identità personale e sessuale, le prove dell’amore e della solitudine, la conoscenza dei fenomeni mentali e il rapporto con la natura. Storie esemplari, fondate sulla qualità della vita interiore e sulla distanza critica indispensabile per dialogare con sé stessi e gli altri. Un viaggio nel passato e nel futuro con tre parole chiave: poesia, memoria, eternità.
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
Articolo di di Simone Bachechi-Fra le due sponde dell’oceano del nostro atlante occidentale si staglia da pochi mesi (il volume è uscito lo scorso maggio per i tipi di Viator) il sorprendente e affascinante studio di Mattia Morretta sulle due Emily più celebri della letteratura moderna: Emily Brontë ed Emily Dickinson sono le protagoniste di questo bel saggio dello psichiatra e sessuologo milanese, il quale ha già all’attivo altri titoli che spaziano dalla biografia d’artista all’analisi sociologica con attinenza alle tematiche più vicine alla nostra contemporaneità.
In Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00) le due donne e poetesse, la Dickinson è universalmente conosciuta come tale, mentre la Emily di Haworth è meno nota per la sua opera poetica (sono circa duecento le poesie pervenuteci, svettando nella sua produzione il capolavoro della letteratura vittoriana Cime tempestose), sono tratteggiate nella comunanza della loro debordante e allo stesso tempo schiva e al limite del monacale personalità, del loro temperamento tormentato, del loro apparente disadattamento sociale e disagio psichico, tutte caratteristiche che non impediscono di riconoscere in loro il ruolo di «integre amazzoni antesignane del femminismo», non fosse altro per l’epoca storica nella quale si è svolta la loro parabola umana e artistica, per «la maestosa sacerdotessa di Amherst», come è stata definita la Dickinson, il New England puritano delle seconda metà dell’Ottocento, per l’altra, la seconda delle sorelle in lettere Brontë, il contesto rurale e isolato di un villaggio perduto nelle lande dello Yorkshire ai piedi dei Monti Pennini, all’interno del presbiterio di campagna di una famiglia povera e numerosa in cui il padre era curato perpetuo. Per loro vale quanto citato nel volume dal Don Giovanni di Byron:
Molti alberi solitari crescono in altezza/maggiormente quelli pigiati nel labirinto della foresta (Canto XVII, 1, 1823).
A dispetto dell’isolamento la loro vocazione artistica diviene strumento di inclusione sociale e allo stesso tempo rivendicazione del ruolo della donna fuori dallo stereotipo e ruolo obbligato imposto dalla società ottocentesca che la vorrebbe relegata alle domestiche occupazioni, magari svenevole, pudica, docile, oggetto della narrazione maschile e non soggetto attivo dedito a “pericolose” attività intellettuali che avrebbero potuto minare la supremazia dell’uomo disposto a un riconoscimento della femminilità basato solo sull’esteriorità.
La Dickinson, la quale ci dice Morretta con la sua «vista telescopica, snobbando esami di abilitazione e quote rosa, aveva già concluso di nascosto la scalata della metafisica», la Brontë decisa a non prendere in considerazione il copione del gentil sesso e che anche con la sua celebre prova romanzesca riesce a scardinare i classici stereotipi femminili. La confusione e compenetrazione dei sessi è un dato costante nelle due Emily senza che questo conflitto arrivi a una sintesi in un ipotetico terzo sesso ma trovando espressione nella corporeità dilaniata che si fa parola poetica nella Dickinson come nei vari personaggi e “tipi” psicologici di Cime tempestose.
Il relativo provincialismo delle due autrici non impedisce di lasciar affiorare nei loro scritti «esempi di sorprendente modernità per l’esercizio di lucida introspezione e osservazione minuziosa del funzionamento mentale, metà protestantesimo e metà insegnamento dei classici, una pagina della Bibbia e una di Shakespeare, filosofia remota e piscoanalisi a venire».
Troppo spesso studiate (soprattutto la Dickinson) a partire dal dato clinico, mettendole così a distanza di sicurezza, accettando il genio solo se inquadrabile in una sindrome, le due Emily sono anche accomunate dall’«astrattezza e strumentalizzazione tipica dell’industria culturale», «ingessate in letture riduttive e abbozzate» dice Morretta, e quindi vittime dell’omologazione. Il successo per molti versi tardivo della Dickinson, il pubblico riconoscimento relativamente recente, frutto di letture spesso superficiali ne è la testimonianza.
Le due Emily sono osservate dall’autore sotto diversi punti di vista: bibliografico, non mancando un’attenta analisi filologica sulle loro opere partendo da estratti delle loro poesie tradotte dallo stesso per una maggiore aderenza al testo originario e nel caso della Brontë facendo riferimento oltre alle liriche anche al celebre romanzo, biografico, scandagliando le loro vicende private (ma cosa c’è di privato nella poesia che vuole farsi voce dell’assoluto?) e allo stesso tempo offrendoci un quadro sociologico delle epoche e degli spazi geografici che le due si sono trovate ad attraversare, focalizzando l’attenzione (forse per deformazione professionale dell’autore?) su una loro caratterizzazione di tipo psicologico che quanto mai come nel caso della Dickinson risente del linguaggio provocatorio del filtro psicanalitico. Non mancano accurate riflessioni sul sentimento che “move il sole e l’altre stelle”. Le due Emily sono fra le grandi cantrici dell’amore che in poche come loro è dimensione ideale, immagine stessa del distacco, ferita, distanza ben espressa in alcuni versi della sacerdotessa di Amherst:
Così dobbiamo incontrarci separati/tu là – io qui/con la porta appena socchiusa/ che Oceani sono – e Preghiera – /e bianco sostentamento – /Disperazione – (n. 640, 1862).
Un costante processo di smaterializzazione, spiritualizzazione dell’eros: «La loro eccitazione è nella calotta cranica», «Emily and Emily sono interamente psichiche». È questo il grande messaggio lasciatoci, l’attenzione, il credo e fedeltà nella forza taumaturgica della parola e dell’influenza divina della poesia come già espresso nell’esergo al volume costituito da alcuni versi di Kavafis:
A te mi volgo/Arte della Poesia, che un poco sai di farmachi,/e del dolore una narcosi tenti/nella parola e nella Fantasia.
Un richiamo alla potenza dell’interiorità, alle “voci di dentro” che ha del religioso, quel sentimento così vivo soprattutto nella Emily di Amherst, perché vivere è sentire, amare, sperare e tanto meno questi beni si trovano nel mondo reale quanto maggiore è la capacità di sentire; un elogio della ricchezza della vita interiore a dispetto della morte che incombe e sulla quale la poesia di Emily Elizabeth è una grande meditazione. Scrive la Dickinson in una lettera a Thomas Higginson, il critico con il quale avrà una pluriennale corrispondenza: «Trovo estasi nell’atto di vivere – il semplice senso di vivere è gioia sufficiente» e ancora «Vi è sempre una cosa di cui sentirsi grati: essere se stessi e non qualcun altro». Un percorso di indagine e autoanalisi che trova espressione nella forma letteraria; scendere dentro se stessi per far maturare lentamente la propria anima, solennemente, in modo nascosto, distillato, in maniera che passi in lei solo il meglio:
Non conosciamo la nostra altezza
Finché non siamo chiamati ad alzarci
(n. 1176, 1870)
È la meraviglia nel constatare la grandezza nella piccola misura, l’immensità nella finitezza, tutte cose rese dalla Dickinson con mirabili metafore che rimandano all’incanto della natura, «la casa stregata» alla quale è dedicata così ampio spazio nelle sue poesie, a partire dai fiori, coltivati con amorevole cura da Emily Elizabeth nel suo giardino, i «nostri piccoli parenti» che svettano in verticale, simbolo spirituale, emblema della bellezza e allo stesso tempo della caducità, la stessa natura osservata dalla Emily di Haworth sia in Cime tempestose che nelle sue liriche, il cui spettacolo di armonia e sacralità ci fa dimenticare (almeno per un po’) la sua crudeltà.
Una lettura quella di Morretta che va ben oltre la semplice biografia d’artista, quasi un piccolo trattato di psicologia o psicanalisi per tramite del medium letterario. Ne nascono vere e proprie tipizzazioni delle due Emily, tanto da arrivare a parlare di processo di ermafroditizzazione in Emily Brontë e facendo ricorso parlando della Dickinson tramite altrui studi doverosamente citati sulla sacerdotessa di Amherst di « voyueurismo, vampirismo, necrofilia, lesbismo, sadomasochismo».
Quale che sia l’apporto della malattia o del semplice disagio psichico all’opera delle due Emily, ben rappresentato in una delle brevi e fulminanti espressioni per sentenze dickinsoniane: «Da un grande male un grande bene» o volendo accreditare in tal senso la somma aritmetica di Roberto Bolaño «Letteratura+malattia=malattia», è innegabile lo svettare della personalità (e Morretta lo mette bene in evidenza) di due «dissenzienti e dissidenti poco decifrabili», refrattarie ai tentacoli della moltitudine, felici interpreti del motto ovidiano Bene qui latuit, bene vixit o del Lathe biosas epicureo, tanto da divenire celebri per la ritrosia a pubblicare i propri scritti, le quali con il loro atteggiamento, non una posa o un vezzo ma una scelta artistica e esistenziale, riescono ancora oggi a parlare «a coloro che insistono nel forgiare la pietra filosofale in un laboratorio sotterraneo nell’era della visibilità e delle creature digitali».
Due autrici nascoste e stanziali, che non si sono mai mosse dalle rispettive dimore e che hanno fatto della staticità fisica e del sostare nel luogo natio l’occasione per la loro crescita mentale e morale, due zitelle solitarie, monacali, quasi ascetiche, votate anima e corpo all’arte, alla poesia, che dalla loro prospettiva a suo modo selvaggia sono riuscite a parlarci dalle stanze di alabastro delle loro dimore del mistero della morte, della natura, dell’amore, di trascendenza, di religione o del suo sentimento. Una, la monaca ribelle del New England osservando il mondo dalla finestra della sua camera, l’altra da un villaggio nel piovoso Yorkshire, entrambe chiamate a dialogare tra di loro nel volume di Morretta e a riconoscersi in un percorso dell’anima avanti e indietro sull’Oceano in un ping pong continuo che è la più forte rivendicazione delle ragioni più esose della letteratura.
Fonte – minima&moralia-
Tra di noi l’oceano – Modernità di Emily Brontë ed Emily Dickinson (Gruppo Editoriale Viator 2021 – pagg. 304, euro 18,00)
SPAGNA-Fotoreportage -Parco Nazionale della Sierra de Guadarrama
Il Parco Nazionale della Sierra de Guadarrama è situato a nord di Madrid, capitale della Spagna.La catena montuosa del Guadarrama domina il parco. Forma il tratto principale orientale del Sistema Central – l’ammasso di catene montuose che attraversa il centro della penisola iberica. La catena montuosa del Guadarrama è salita due volte – la prima volta circa 380 milioni di anni fa, la seconda circa 80 milioni di anni fa. Dopo questa seconda spinta verso l’alto, la catena montuosa ha iniziato a erodere nuovamente, creando il sistema dei corsi d’acqua della montagna. Inoltre, l’episodio glaciale e interglaciale durante il Periodo Quaternario ha portato alla formazione dei ghiacciai nell’area e ai processi periglaciali. Sono questi eventi di erosione che forniscono l’attuale topografia della catena montuosa Guadarrama, come il massiccio Peñalara. Situata sulle pendici meridionali delle montagne Guadarrama, La Pedriza è una particolare caratteristica montuosa unica della penisola iberica – una collezione di rocce e dirupi dalla forma sorprendente.
Sette diverse specie di lucertola vivono nel parco – una di queste è la rara lucertola da muro di Guadarrama.
Poiché il parco non è lontano da Madrid, è fortemente frequentato da appassionati di escursioni tutto l’anno. La rete di sentieri, strade e servizi pubblici è ben sviluppata. E poiché l’area è rimasta in gran parte non colpita dalle attività umane, il parco è un rifugio eccezionale per la biodiversità. Si può sperimentare un gran numero di avvoltoi grifoni e la zona ospita almeno 100 coppie di avvoltoi grifoni da riproduzione. È anche la sede dello stambecco spagnolo.
Parco Nazionale della Sierra de Guadarrama-vultures eating on the dunghill
Per saperne di più nella nostra Guida al Parco Nazionale, Europa, che puoi acquistare qui:
Vi auguriamo che questa sia ispirazione per la vostra prossima avventura escursionistica e vacanza.
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