Gramsci Antonio Jr.– La storia di una famiglia rivoluzionaria.
Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia.
Introduzione di Raul Mordenti-Non si può non concordare con Antonio Gramsci jr. quando afferma a proposito del suo libro: «Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé», cioè non solo come fonte per aspetti poco illuminati della vicenda biografica del massimo pensatore politico del Novecento italiano, suo nonno Antonio Gramsci.Questo giudizio dell’Autore sarà condiviso da qualsiasi lettore di questo libro, che è davvero più romanzesco di qualsiasi romanzo nel narrarci una storia familiare, cioè un concerto di tante storie personali intrecciate vitalmente fra loro sullo sfondo del «mondo grande e terribile, e complicato», (per usare le parole che il nonno del nostro Autore scrisse più volte a sua moglie).
Dall’introduzione di Raul Mordenti
[…] Man mano che il lavoro procedeva, ho capito che la storia della famiglia Schucht era interessante di per sé. È la storia di quella parte dell’intelligencija russa di estrazione nobiliare che in nome della Rivoluzione rifiutò il proprio ceto di appartenenza e, prendendo le distanze dai «preconcetti» di classe, tentò di inserirsi nel nuovo sistema di valori. Ci sono stati casi simili nella storia russa, ma quasi tutti con esiti tragici. In questo senso, la storia della famiglia Schucht, sopravvissuta felicemente alle varie terribili fasi dell’epoca sovietica, costituisce un esempio unico. […]
Nonostante il libro tratti la storia della famiglia Schucht, al centro della narrazione, anche se a volte non manifestamente, c’è sempre la figura di mio nonno, Antonio Gramsci. Sono fermamente convinto che lo studio della sua opera e della sua vita, come del resto di altri grandi classici del marxismo, non è affatto anacronistico, anzi, penso che sia molto attuale e necessario proprio ora, quando sembra che i pilastri della civiltà occidentale stiano per crollare e quando dobbiamo ricevere risposte alle domande essenziali: chi siamo, in quale direzione ci muoviamo e per quali ideali viviamo.
(Dalla prefazione dell’autore)
Antonio Gramsci jr., è nato a Mosca nel 1965 da Giuliano, secondogenito di Antonio Gramsci, e Zinaida Brykova. Laureato in biologia, ha insegnato Morfologia, sistematica e ecologia delle piante presso l’Università pedagogica di Mosca. Ha ricevuto anche una formazione musicale: inizialmente dal padre – noto musicista e pedagogo, uno dei primi promotori della musica antica in Unione Sovietica – successivamente ai corsi di musica antica nell’istituto mu- sicale «Carta Melone» e percussioni etniche. Insegna alla scuola italiana a Mosca e partecipa a varie attività musicali suonando gli strumenti antichi a fiato e percussioni etniche in varie formazioni di Mosca: «Volkonsky consort», «La Campanella», «La Spiritata», «Al-Mental» e altri. Dirige la scuola di percussioni etniche, «UniverDrums» presso l’Università Statale di Mosca e presso il laboratorio di musica elettronico-acustica del Conservatorio di Mosca, effettua ricerche sugli aspetti matematici del ritmo.
In collaborazione con la Fondazione Istituto Gramsci ha effettuato ricerche sulla storia del Pci negli anni Venti e sulla famiglia del nonno. Nell’Archivio del Comintern e in quello della famiglia Schucht ha rinvenuto molti documenti importanti che hanno contribuito a colmare lacune sia nella storia del Pci, sia nella biografia di Antonio Gramsci.
Nel 2007-2008 ha collaborato a l’Unità. Ha scritto La Russia di mio nonno. L’album familiare degli Schucht, pubblicata dall’Unità nel 2008 e nel 2010 è uscito presso Il Riformista il libro I miei nonni nella rivoluzione. Gli Schucht e Gramsci.
Editori Riuniti -Roma
La storia di una famiglia rivoluzionaria. Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia
Autore: Gramsci Antonio Jr.
ISBN13: 9788864731278
Anno pubblicazione: 2014
€18.90 €19.90
Antonio Gramsci nacque ad Ales il 22 gennaio 1891 da Francesco Gramsci (1860-1937), i cui avi erano di origine arbëreshë, e da Giuseppina Marcias (1861-1932), di lontana ascendenza ispanica. I due si conobbero a Ghilarza, si sposarono nel 1883 e dopo un anno nacque il primogenito Gennaro; poi la famiglia si trasferì ad Ales dove Giuseppina Marcias diede alla luce Grazietta (1887-1962), Emma (1889-1920) e Antonio. Nell’autunno del 1891 il padre divenne responsabile dell’Ufficio del Registro di Sòrgono e i Gramsci traslocarono nel paese che era centro amministrativo della Barbagia Mandrolisai;[3] qui nacquero altri tre figli: Mario (1893-1945), Teresina (1895-1976) e Carlo (1897-1968).[4] Infine la famiglia rientrò a Ghilarza nel 1898 e lì fissò la dimora definitiva.[5]
Il piccolo Antonio aveva solo diciotto mesi quando sulla sua schiena si manifestarono i segnali del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che causa il cedimento della spina dorsale e la comparsa della gobba. Ma la famiglia scelse di rifugiarsi nella superstizione, rifiutando di affidarsi alla medicina che, con una diagnosi tempestiva e un intervento chirurgico, avrebbe evitato che gli effetti della malattia provocassero danni permanenti allo scheletro e a tutto l’organismo.[6] All’età di quattro anni, Antonio per tre giorni di seguito soffrì di emorragie associate a convulsioni; secondo i medici tali avvisaglie avrebbero portato a un esito fatale, tanto che vennero comperati una piccola cassa da morto e un abito per la sepoltura.[7]
Goethe J.W- Roma, 7 novembre 1788.-Sono qui , scrive Goethe , da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografi a della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l’altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.Confessiamolo pure, è un’impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione.Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell’antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all’osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova.Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare.Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti.
[…].”
BIOGRAFIA di Johann Wolfgang von Goethe. drammaturgo, poeta, saggista, scrittore, pittore, teologo, filosofo, umanista, scienziato, critico d’arte e critico musicale tedesco.
Johann Wolfgang von Goethe –Poeta, narratore, drammaturgo tedesco (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832). Genio fra i più poderosi e poliedrici della storia moderna, si manifestò in un’epoca in cui ormai risultava operante la consapevolezza d’una acquisita libertà di sentimenti e di espressione; gli fu quindi spontaneo rendersene partecipe e anzi incrementarla segnando un cambiamento radicale nella coscienza culturale tedesca ed europea. Definito “olimpico” per il suo equilibrio, per esso esaltato e anche censurato, e talora persino schernito, di questo equilibrio non fece oggetto di soddisfatta fruizione bensì oggetto ambizioso d’una continua, tutt’altro che olimpica ricerca, operata nei varî campi d’interesse, negli studî scientifici, nell’azione pubblica e soprattutto nella produzione poetica. Il padre Johann Kaspar, di modesta famiglia originaria della Turingia, valente giurista e consigliere imperiale, gli fu modello nella serietà degli studî e nella inesausta curiosità; la madre Katharina Elisabeth Textor, figlia del sindaco della città e appartenente alla migliore borghesia originaria della Svevia, gli trasmise il “piacere del favoleggiare”. Cresciuto quindi in un ambiente assai scelto, ebbe un’educazione adeguata, e già a 16 anni era a Lipsia per studiarvi diritto. Nel clima illuministicamente aperto della città fornì le sue prime prove poetiche secondo la moda anacreontica promossa da F. Hagedorn e Ch. M. Wieland, privilegiando un’espressione personalizzata contro la pedanteria moraleggiante imposta da J. Ch. Gottsched e da Ch. F. Gellert. Così, nel 1767, scrisse in alessandrini la commedia pastorale Die Laune des Verliebten (“I capricci dell’innamorato”), che è la prima professione d’un amore agitato e irritabile. Sulla stessa linea, tornato a Francoforte, nel 1769 scrisse la commedia d’ambiente Die Mitschuldigen (“I correi”), quadro acuto e scettico del mondo borghese. Marginali composizioni poetiche, raccolte in Buch Annette (“Libro per Annette”) e in Neue Lieder (“Canti nuovi”) fanno avvertire, oltre la moda, la ricerca d’un senso inconsueto della natura. Una grave malattia lo dispose a subire l’influsso della religiosità pietistica della madre e ancora di più dell’amica di lei, Susanne von Klettenberg, che lo orientò a cercare, come poi sempre fece, l’orma del divino nel segreto della natura.
Nel 1770 si trasferì a Strasburgo per terminarvi gli studî; tra le esperienze decisive che ivi compì spiccano l’incontro “fatale” con J. G. Herder e le sue teorie su storia e natura, creatività individuale e divenire universale, e la lettura di Shakespeare, che segnarono la prodigiosa produzione del successivo quinquennio. Ne sono testimonianza i Sesenheimer Lieder (“Canti di S.”), dettati dall’amore per Friederike Brion, nel loro insieme atto esplicito di adesione al movimento dello Sturm und Drang; la grossa cronaca drammatizzata, d’impronta shakespeariana, Die Geschichte Gottfriedens von Berlichingen mit der eisernen Hand (“Storia di G. di B. dalla mano di ferro”, 1771), poi (1773) rielaborata col titolo di Götz von Berlichingen, vasto e farraginoso affresco di argomento nazionale che fece decadere altri e persino più ambiziosi progetti di drammi come Mahomet e Prometheus, di cui rimasero solo brevi ma significativi frammenti. A questi, però, si affiancano inni a sfondo cosmico-panteistico, che sono testimonianze inequivocabili d’un sentimento integralmente aperto a un’esperienza di totalità, sull’onda d’un ardore creativo che G. non conobbe mai più (oltre Mahomets Gesang, “Canto di Maometto“, Prometheus, Wanderers Sturmlied, “Canto del viandante nella tempesta”, e Ganymed). Del resto quello era un periodo di tormentata inquietudine anche sul piano esistenziale, e nella produzione poetica si avverte una smania creativa che rischia talora la dispersione. Nel recupero del popolaresco, alla maniera del lontano H. Sachs, scrisse le satire carnevalesche Jahrmarktsfest zu Plundersweilern (“Festa della fiera di Pl.”, 1773) e Ein Fastnachtsspiel … vom Pater Brey (“Una rappresentazione carnevalesca di Padre Pappa”, 1773); una farsa di forte anche se non limpida accentuazione critica (Satyros, 1773); un’epica religiosa che sferza il filisteismo delle chiese (Der ewige Jude, “L’ebreo errante“, 1774). Prova d’uno stato d’animo di disagio, a lungo insanabile, per il colpevole abbandono di Friederike Brion è Clavigo (1774), tragedia della fanciulla abbandonata dall’amato più per leggerezza che per responsabile scelta. Di lì a poco Stella (1775), dramma d’un uomo che con pari intensità ama due donne, denuncia l’aspirazione alla libertà sentimentale. Una produzione tanto varia è tenuta insieme tuttavia dalla continua disposizione a confessarsi, a legare fino alla più intima convergenza vita e poesia. In tale spirito nacque anche l’opera conclusiva e più fortunata di questa felice stagione, il romanzo epistolare Die Leiden des jungen Werthers (“I dolori del giovane W.”, 1774), appassionata storia di una delusione amorosa che si conclude con il suicidio del protagonista; essa, in un’epoca segnata da un sentimentalismo esorbitante, conobbe un immediato, clamoroso successo. Intanto si era già affacciato nello spirito di G. il tema del Faust, che lo accompagnerà ossessivamente sino agli ultimi giorni della sua lunga vita.
Tornato a Francoforte al termine degli studî, dopo aver soggiornato a Wetzlar per farvi pratica presso il supremo tribunale imperiale, abbandonò gli ambiziosi disegni di carriera tracciati per lui dal padre, e nell’autunno del 1775 lasciò, questa volta definitivamente, la città natale per stabilirsi alla corte di Weimar, minuscola capitale d’un povero ducato di 120.000 abitanti. Entrato nelle simpatie della famiglia ducale, fu nominato consigliere segreto e quindi ministro, ottenendo infine il titolo nobiliare. Il primo decennio trascorso a Weimar fu di relativo silenzio poetico e d’intensa attività pratica. Il contatto costante coi problemi della vita lo sospingeva, piuttosto, verso le scienze naturali. Si occupò di geologia e di mineralogia (fra l’altro scrisse il trattato Über den Granit, “Sul granito”, 1784), passò all’anatomia, scoprendo nello stesso 1784 l’osso inframascellare; fu attratto infine dalla botanica e dalla storia naturale, in cui la sua riflessione trovava testimonianza di quella immanenza del divino che aveva già avvertito in forma intuitiva. Si compiva così la maturazione di quel panteismo cui del resto già da tempo aderiva. La produzione letteraria di questo periodo si può considerare limitata alle liriche e all’atto unico Die Geschwister (“I fratelli”, 1776), ispirati a Charlotte von Stein, donna di grande cultura alla quale G. fu legato per dieci anni e che influì profondamente sulla sua formazione. Nell’autunno del 1786, il viaggio in Italia si configura quasi come una fuga e segna un passaggio decisivo per la vita e l’ispirazione del poeta. Nel “paese dei limoni”, l’Italia classica del meridione e, più ancora, Roma, trovò realizzata quella sintesi di natura e arte, passato e presente, spiritualità e sensualità verso cui era proteso, e sentì rifiorire tutte le aspirazioni poetiche che il decennio attivistico di Weimar aveva in buona parte represso. Nel giugno del 1788 tornò a Weimar e il suo cambiamento gli procurò accoglienze decisamente fredde. Interruppe la relazione con la signora von Stein, e iniziò la convivenza con la giovane e umile Christiane Vulpius, che sposò solo nel 1806 pur avendone avuto fin dal 1789 un figlio, August, morto poi a Roma nel 1830. L’operosità creativa che era esplosa in Italia continuò a Weimar, in una stagione contrassegnata dal succedersi di opere quasi tutte ad alto livello. In Italia aveva portato a termine l’Egmont (1787), dramma della libertà dell’uomo che soccombe solo davanti alle forze del mondo esteriore e nemico, e ultimata la stesura in versi della Iphigenie in Tauris, testimonianza di un umanesimo ormai pienamente maturato, fusione perfetta di grecità e cristianesimo. Fu terminato invece a Weimar il Torquato Tasso, dramma di anime in cui gli elementi autobiografici (il poeta consapevole della propria genialità inserito in una sorda e intrigante corte principesca) sono filtrati ma tutt’altro che rimossi. Frutto dell’esperienza italiana, e in particolare romana, furono anche le Römische Elegien (1788-89), che nella fusione di classicità formale e sensualità di immagini segnano nel modo più palese il taglio fra questa e la precedente stagione poetica; ad esse seguiranno, dopo un nuovo, meno fortunato viaggio in Italia, i Venetianische Epigramme (1790). Dopo lo scoppio della Rivoluzione francese, G. da un lato dichiarò apertamente il proprio disprezzo verso gli ipocriti fautori del nuovo corso (nelle mediocri commedie Der Grosskophta, “Il gran mago egizio”, 1792, e Der Bürgergeneral, “Il cittadino generale”, 1793), dall’altro però fu egli stesso profondamente turbato dalla Rivoluzione, con sentimenti misti di adesione ai suoi principî e apprensione per il suo corso. Cercò allora sfogo in quella che definì la sua “Bibbia empia del mondo”, cioè nella versione in esametri omerici del bestiario medievale Reineke Fuchs (“La volpe R.”, 1793), satira più cinica che accorata dei dilaganti vizî. Una più pacata e valida presa di posizione fu quella dell’idillio in esametri Hermann und Dorothea (1797), che inquadra i valori morali di una sana, tradizionale etica borghese.
Intanto, nel 1794 si era creato il sodalizio con J. C. F. Schiller che, durato fino alla morte di quest’ultimo (1805), nel decennio definito per eccellenza classico, portò a reciproco arricchimento le due personalità, pur tanto diverse per estrazione e per temperamento. Per G. l’amicizia con Schiller significò una coscienza della propria missione poetica pienamente riconquistata. Sulla rivista di Schiller, Die Horen, G. pubblicò, nel 1795-97, le Unterhaltungen deutscher Ausgewanderten (“Conversazioni di emigrati tedeschi”), specie di piccolo Decameron, prototipo del genere ancora inedito della novella classica; vi pubblicò anche il Märchen (“Fiaba”), da cui tanto dipese la fiabistica romantica. La solidarietà fra i due giunse persino alla scrittura in comune, da cui nacque la raccolta di Xenien (“Doni ospitali”, 1797), epigrammi di aspra censura ai letterati contemporanei. Sia pure per pochi numeri, anche G. pubblicò una sua rivista, Die Propyläen (1798-1800), in cui propagandò il suo verbo classicistico. Come teorico, pur fornendo prove di alto interesse, per esempio il saggio Winckelmann und sein Jahrhundert (“W. e il suo secolo”, 1805), non riuscì sempre a evitare l’insidia dell’accademismo, in cui del resto incorse anche una certa produzione poetica: è il caso della frammentaria tragedia Helena, del 1800, poi rifusa nella seconda parte del Faust, e dell’epos Achilleis, del 1799, concepito come continuazione dell’Iliade. L’interesse per il classicismo spinse G. a riprendere anche i due temi per antonomasia “goethiani”, quello di Wilhelm Meister e di Faust. Già prima del viaggio in Italia G. aveva iniziato, e poi sospeso, un vasto romanzo a sfondo autobiografico, Wilhelm Meisters theatralische Sendung (“La missione teatrale di W. M.”), il cui manoscritto fu ritrovato solo nel 1910; era la narrazione realistica delle esperienze di un giovane della buona borghesia innamorato del teatro. Nel 1794 G. ne riprese il tema e nel 1796 uscì una compiuta stesura del romanzo sotto il titolo Wilhelm Meisters Lehrjahre (“Gli anni di noviziato di W. M.”), capolavoro del genere tipicamente tedesco dell’Entwicklungsroman (romanzo di formazione) e nello stesso tempo quadro vivace di tutta un’epoca. Al Faust G. si era dedicato fin dal 1772, e nel 1775 era pronta una prima e incompleta stesura, il cosiddetto Urfaust (il cui ritrovamento è avvenuto solo nel 1887), una delle opere più legate alla poetica dello Sturm und Drang. Mutilo delle scene terminali era anche il primo Faust (Faust. Ein Fragment, 1790), e solo nel 1808 uscì la redazione definitiva della prima parte (Faust. Der Tragödie erster Teil), dopo un lavoro frazionato lungo l’arco di un decennio. Per il poeta, ormai giunto all’età matura, si trattava di un’acquisizione di recupero, e la dedica con cui si apre il monumentale edificio poetico rievoca le figure del dramma come emergenti da un passato lontano. L’immediatezza della presenza di Mefistofele, il ritmo serrato della tragedia di Gretchen delle precedenti stesure, sono andati perduti; ma la prospettiva su cui il dramma si apre ha finalmente raggiunto l’estrema vastità significativa del grande dramma simbolico, che coinvolge le potenze divine e demoniache e attinge dimensioni cosmiche, eppure rimane sostanzialmente dramma psicologico dell’uomo che non può rinunciare alla sua volontà di dominare il mondo.
Con la morte di Schiller (1805) e la catastrofe nazionale di Jena (1806), si era aperta per G. la lunga stagione della senilità. Allo sconforto e all’isolamento aveva reagito immergendosi negli studî scientifici, in particolare sull’ottica, senza con questo rallentare l’intensità della produzione letteraria. Allo stesso anno del Faust appartiene il dramma allegorico Pandora, e nel 1809 vide la luce Die Wahlverwandtschaften (“Le affinità elettive”), esemplare romanzo sulla passione amorosa vissuta in età adulta. La profondità dell’analisi psicologica e la tensione della vicenda sono sorrette da una scrittura perfettamente sorvegliata che asciuga senza offuscare il pathos che attraversa l’intera narrazione. Dopo una laboriosa gestazione uscì nel 1819 il Westöstlicher Divan (“Divano occidentale orientale”), dettato anzitutto dall’amore, tanto forte quanto dolorosamente votato a una cosciente rinuncia, per Marianne von Willemer, giovanissima poetessa. È il solo complesso di poesie pubblicato da G. in unico volume, e costituisce l’eccezionale testimonianza di una volontà e di una capacità di rinnovamento che attingevano alle più varie esperienze di vita e di cultura, recuperate attraverso un procedimento selettivo accorto e costante. Anche lo stile, non più immediato e plastico, è divenuto rarefatto e sfiora talvolta il sublime nella mediazione fra la vivacità del sentimento e l’amaro dell’acquisita saggezza. G. nel frattempo si era reso conto, dopo i due incontri con Napoleone, nel 1808, dell’importanza ormai storica della sua persona. All’avvento della Restaurazione, in un mondo che riconosceva sempre meno come proprio, sentì doveroso tornare indietro per fissare indelebilmente la sua personale storia. Non scrisse una vera autobiografia, ma ne lasciò ampî e spesso suggestivi squarci in Dichtung und Wahrheit (“Poesia e verità”, 1809-14 e 1830), che, pur coprendo solo gli anni fino al 1775 e senza essere sempre cronachisticamente attendibile, assunse il significato di documento storico, cioè d’interpretazione di un’intera epoca. Per alcuni aspetti documento ancora più suggestivo, anche se stilisticamente meno accurato, fu l’Italienische Reise (“Viaggio in Italia”, 1816-17, 1829), che ancora oggi gode di enorme fortuna.
Nonostante i frequenti attestati di stima da tutta Europa e l’omaggio di uomini come Byron e Manzoni, G. conobbe negli ultimi anni l’amarezza dell’isolamento quasi integrale nel nuovo clima culturale creatosi con il Romanticismo, a lui radicalmente estraneo. Nel riprendere ancora una volta i temi di Meister e di Faust, volle testimoniare e verificare globalmente la sua esperienza di poeta, di prosatore e di uomo confrontandosi con un mondo in cui non era possibile ripristinare quell’umanesimo integrale che era stato l’ideale del Rinascimento. Il Wilhelm Meisters Wanderjahre (“Gli anni del pellegrinaggio di W. M.”, 1829) rivela la disponibilità e l’interesse di G. per le esigenze di un assetto sociale nuovo, ma reca un sottotitolo sintomatico, Die Entsagenden “I rinuncianti”. L’ultimo Faust fu elaborato tra il 1825 e il 1831, con la dolorosa parentesi della morte del figlio e di una grave malattia da cui G. si riprese, forse, per la estrema determinazione di portare a compimento l'”opera della sua vita”. Quest’opera denuncia il peso dell’investimento che è stato fatto su di essa e risulta eterogenea, sovraccarica, diluita da intellettualismi e genericità, ma ha pagine di straordinaria bellezza e resta la potente e inquietante somma poetica di tutta una vita. Faust, che all’inizio si ridesta a nuova vita, è destinato alle esperienze più sbalorditive, ad attingere dimensioni sempre più vaste e globali, passando di affanno in affanno e di colpa in colpa finché, vecchissimo e quasi cieco, saluterà la morte con un esaltante inno alla libertà. La seconda parte del Faust (Faust. Der Tragödie zweiter Teil) fu pubblicata pochi mesi dopo la morte di G., per sua esplicita volontà. Egli era certo che non avrebbe ricevuto comprensione da parte di contemporanei, e non s’ingannava: in particolare l’ultimo G. non era fatto per essere agevolmente inteso, ma in generale il clima intellettuale e politico degli anni della Restaurazione non era fatto per recepire un autore che sembrava fossilizzato su posizioni esclusive e in ogni modo antiquate. Il 1848, e quanto ad esso tenne dietro, portò a rinvenire in Schiller piuttosto che in G. il genio ispiratore, quale poeta della libertà. La varia, complessa, spesso tragica vicenda storica della Germania durante gli ultimi cento anni a più riprese ha ribadito tale ideologica predilezione. Ma già il cosiddetto “realismo poetico” assunse G. come suo modello e maestro; il liberalismo borghese vide in lui l’ultimo e sommo rappresentante di una cultura umanistica, a un tempo tipicamente tedesca e profondamente europea; più tardi il monismo scientifico e filosofico guardò a lui come al poeta-pensatore capace di grandi e profetiche intuizioni. Nonostante la varietà e disparità d’opinione dei suoi innumerevoli critici (tra cui Hauptmann, Hofmannsthal, George, Hesse, Th. Mann), è unanime il giudizio che lo riconosce campione geniale dell’autonomia individuale, nel solco di una cultura di cui ha saputo raccogliere e incrementare la grande eredità.
Andrea Zanzotto,due nuovi volumi sul Poeta di Pieve di Soligo
Editore Mondadori
Nel centenario della nascita e a dieci dalla scomparsa di Andrea Zanzotto Mondadori pubblica due volumi sul grande poeta di Pieve di Soligo: Andrea Zanzotto, ERRATICI disperse e altre poesie (1937-2011) a cura di Francesco Carbognin e Andrea Zanzotto, TRADUZIONI TRAPIANTI IMITAZIONI a cura di Giuseppe Sandrini.
Il primo volume a cura di Carbognin, propone una serie di poesie di Andrea Zanzotto pubblicate in varie sedi tra il 1937 e il 2011 ma mai confluite nei suoi libri, testimonianze fedeli della vivacità e dell’operosità della sua officina poetica.
“L’esplorazione dell’archivio privato in cui il poeta spesso teneva traccia o a volte copia delle sue pubblicazioni occasionali, assieme alla esplorazione sistematica di annate di quotidiani e riviste, ha infatti consentito di espanderne il corpus di un centinaio di poesie, da quelle adolescenziali risalenti agli anni del liceo (1937-38), improntate a un sostanziale pascolismo psicologico, ai versi di impostazione civile (1946) legati agli eventi della Resistenza. Se le poesie successive delineano l’evolversi dell’esperienza poetica zanzottiana fino a quel primo acuminato vertice toccato da Vocativo , quelle degli anni Sessanta ne dilatano l’orizzonte del sapere e del dire tra classicismo, caustica ironia e inclinazione sperimentale, proiettandosi verso i grandi esiti di “La Beltà”. Ed eccoci poi alle prime e già mature ricognizioni in versi sul dialetto (precedenti l’edizione del poemetto “Filò” e la composizione dei testi per il “Casanova” di Federico Fellini), fino alle prove quanto mai varie degli ultimi decenni, quando il soggetto lirico zanzottiano «si diffrange identificandosi con gli enti minimali del paesaggio», o con gli indizi del suo «”accadere” nella pagina, esitante tra silenzi e “promesse” di senso».”(Francesco Carbognin)
Biografia di Andrea Zanzotto- a cura di Carmelo Princiotta
Andrea Zanzotto– Nacque a Pieve di Soligo (Treviso) il 10 ottobre 1921, primogenito di Giovanni e di Carmela Bernardi, cui sarebbero poi nati le gemelle Angela e Marina, colpite da morte prematura nel 1926 e nel 1937, quindi Maria e infine Ettore.
Visse un’infanzia non felice, ma poeticamente ricca, grazie al Corriere dei piccoli e, soprattutto, alla nonna paterna. In Cal Santa, la stradina fra la chiesa e il cimitero, Angela Bertazzon recitava in filastrocche quasi ipnotiche le rime in toscano illustre di Ludovico Ariosto e Torquato Tasso. Il padre era pittore, decoratore e miniaturista, oltre che insegnante, ma dovette emigrare per la sua opposizione al fascismo.
Zanzotto frequentò una scuola materna gestita da suore che seguivano il metodo Montessori e fu ammesso direttamente alla seconda elementare. All’età di sette anni compose i primi versi. Il tentativo del padre di ricongiungere a sé la famiglia si rivelò fallimentare e sopraggiunsero anche difficoltà economiche. La zia Maria, però, coinvolgeva il nipote nel teatrino delle suore e gli trasmetteva l’avida pulsione alla lettura di giornalini e settimanali. Zanzotto ricevette anche le prime lezioni di musica, intanto che assorbiva il francese quasi casalingo dell’emigrazione trevigiana.
Nel 1937 si diplomò come maestro e iniziò a dare ripetizioni private. Era periodicamente soggetto a episodi allergici e asmatici. Dopo una pubblicazione adolescenziale di versi amorosi, dal 1938 raccolse le prime poesie, edite in parte nella strenna di Giovanni Scheiwiller A che valse? (Versi 1938-1942) (Milano 1970). Conseguì come privatista anche la maturità classica. Si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Padova, dove ebbe come maestri, anche di coscienza, Diego Valeri e Concetto Marchesi.
Scoprì Arthur Rimbaud e cominciò a leggere l’amatissimo Friedrich Hölderlin, nella traduzione di Vincenzo Errante, con suggestioni da rispecchiamento. Venne a contatto con la cultura dell’esistenzialismo. Studiò un po’ di tedesco, qualche rudimento di ebraico, e approfondì l’inglese, benché da cultore di grammatiche più che da esperto di lingue.
Vinse i prelittoriali di poesia con un gruppo di versi giovanili. Nel 1940 ottenne la prima di una lunga serie di supplenze. Il 30 ottobre 1942 si laureò discutendo una tesi su Grazia Deledda, pubblicata poi nel 2015.
Nel febbraio del 1943 fu chiamato alle armi e inviato ad Ascoli Piceno, dove si portò Frontiera di Vittorio Sereni. La manifestazione violenta della pollinosi comportò la sospensione dell’addestramento e l’assegnazione ai servizi non armati. L’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, intraprese un avventuroso ritorno a casa. Si nascose sulle colline, ma riuscì anche a impartire lezioni private presso il collegio Balbi Valier di Pieve di Soligo. Nell’inverno cominciò a collaborare con i gruppi partigiani, in cui spiccava la figura non violenta di Antonio Adami. Nella primavera del 1944 si impegnò nella propaganda resistenziale. Il 10 agosto, durante una rappresaglia tedesca contro la piccola repubblica partigiana di Quartier di Piave, perse un amico, Gino Dalla Bortola. Il rastrellamento del 31 agosto mise a ferro e fuoco il paesaggio natio, che aveva protetto il poeta anche dagli orrori della guerra civile. Zanzotto visse alla macchia a fasi alterne, poi fu reclutato per il lavoro coatto, mentre continuavano i massacri. All’inizio del 1945 ritornò sulle colline; il 30 aprile la zona fu liberata. Zanzotto disseppellì i propri scartafacci, interrati un anno prima vicino casa. Riprese i contatti intellettuali con Treviso. Si recò più volte a Milano, dove conobbe Alfonso Gatto e Vittorio Sereni. Nel 1946, per la sua posizione repubblicana, perse una supplenza al Balbi Valier ed emigrò in Svizzera, dove insegnò in un collegio a Villars-sur-Ollon. Pur di non sottostare alle costrizioni dell’istituto, l’anno dopo fece il barista e il cameriere a Losanna. Scrisse o continuò a scrivere prose diaristiche e, alla fine del 1947, fece rientro in Italia.
Nel 1948 chiuse la composizione delle poesie d’esordio, cominciata nel 1940. Tramite Sereni inviò una silloge a Mondadori, che divenne poi suo principale editore, anche se la stampa dell’opera prima di Zanzotto si ebbe un anno dopo la vittoria del premio S. Babila per gli inediti nel 1950, con una giuria in cui figuravano Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Sereni, Leonardo Sinisgalli e Giuseppe Ungaretti. A Milano incontrò Cesare Musatti, cui espose il proprio disagio psichico. Conobbe Giuseppe Bevilacqua, germanista e traduttore, che lo introdusse alla poesia di Paul Celan.
Dietro il paesaggio (Milano 1951) si presentava come il frutto epigonale di un ermetismo radicalizzato dagli apporti del surrealismo europeo; invece rimase, nella sua ambiguità, fra i titoli più emblematici di uno dei più grandi e ormai proverbiali poeti del paesaggio. La cancellazione della presenza umana, la sostituzione del tempo cronologico con quello stagionale, l’adozione di una grammatica a forte carica astrattiva e il ricorso a una specie di citazionismo araldico sono misure manieristiche di protezione psichica.
Nel 1954 ottenne un posto di insegnante di ruolo presso la scuola media di Conegliano. Partecipò al convegno di San Pellegrino, dove fu presentato da Ungaretti, ed entrò in polemica con Italo Calvino, sostenendo tesi d’impronta esistenzialista. Dal punto di vista politico, Zanzotto fu iscritto al Partito socialista italiano (PSI) fino alla metà degli anni Ottanta. Conobbe a Pordenone Pier Paolo Pasolini. Comparve nell’antologia Quarta generazione. La giovane poesia in Italia (1945-1954) (Varese 1954). Le Edizioni della Meridiana stamparono Elegia e altri versi (Milano 1954) nella collana diretta da Sereni, con una nota di Giuliano Gramigna, che sottolineava permanenze e novità rispetto al libro precedente.
Vocativo (Milano 1957) parve a Giorgio Caproni «uno dei libri più belli del dopoguerra, riconoscibilmente nuovo» (G. Caproni, «Vocativo» di Z., in Id., Prose critiche, a cura di R. Scarpa, II, 1954-1958, Torino 2012, p. 925) e già Sereni lo riteneva secondo solo a La bufera e altro. Pasolini non esitò a definirlo come un libro di «piena crisi» (P.P. Pasolini, Principio di un «engagement», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti – S. De Laude, Milano 1999, I, p. 1207), perché Zanzotto oggettivizza, problematizzandoli, i presupposti di ogni poesia soggettiva, a partire dall’io, ridotto alla sua «miseria di fatto “grammaticale”» (Profili dei libri e note alle poesie, a cura di S. Dal Bianco, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, 1999, p. 1435), come recita il risvolto di copertina, anonimo ma di mano dell’autore.
Alla problematizzazione dell’io, in senso psichico, linguistico e storico-letterario, si uniscono quella del colloquio, ridotto alla pura vocatività, e della lingua, avvertita come transeunte. Michel David parlò poi di «inconsapevole lacanismo» (v. A. Zanzotto, Nei paraggi di Lacan, ibid., p. 1211) per il grammaticalismo di questo ‘secondo’ Zanzotto, che irrompe anche come poeta del linguaggio.
Nel 1959 Zanzotto si unì in matrimonio con Marisa Micheli, da cui ebbe Giovanni nel 1960 (a pochi giorni dalla morte del padre) e Fabio nel 1961. Per il periodico riacutizzarsi dell’insonnia e degli stati ansiosi, si sottopose a un’analisi freudiana a Padova. Pur continuando a insegnare, svolse anche le funzioni di preside nella scuola media di Col San Martino.
IX Ecloghe (Milano 1962) inaugurò la collana Il Tornasole, diretta da Niccolò Gallo e Sereni per Mondadori.
Secondo Franco Fortini, che aveva già trovato bellissime alcune poesie di Vocativo, il libro giungeva a risultati ineguagliati negli anni più recenti, anche per l’immissione di linguaggi allotri sotto la grande ombra di Virgilio e, in particolare, per la capacità di trasformare in rapporto con la storia il rapporto con il proprio inconscio.
Nel 1963 ottenne il trasferimento alla scuola media di Pieve di Soligo, dove insegnò fino al 1971. Si stabilì con la famiglia nella nuova casa di via Garibaldi (poi Mazzini). Per Neri Pozza pubblicò Sull’Altopiano. Racconti e prose: 1942-1954 (Vicenza 1964), riproposto e accresciuto in nuove edizioni a partire dagli anni Novanta. Nel 1966 tradusse Età d’uomo (Milano 1966) di Michel Leiris. Altre traduzioni seguirono negli anni Settanta da Georges Bataille, Pierre Francastel e Honoré de Balzac. Partecipò alla conferenza tenuta a Milano da Jacques Lacan per l’uscita degli Écrits. Si sottopose alla cosiddetta terapia del sonno. Nel 1967 si recò a Praga con Sereni, Fortini e Giovanni Giudici, per un incontro di poesia: uno dei non frequenti ma significativi spostamenti europei di questo appartatissimo poeta.
La Beltà (Milano 1968) fa «esplodere la “lingua”», come recita l’anonimo risvolto di copertina. Il volume fu presentato a Roma da Pasolini e, in modo piuttosto drammatico, a Milano da Fortini, che vi aveva individuato la «testimonianza […] di un accurato cerimoniale di autodistruzione» (R. Cicala, Zanzotto «in su la cima». Sulle lettere editoriali degli esordi in Mondadori e del rapporto con Sereni, in Andrea Zanzotto. La natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018, p. 167, con stralcio d’archivio), oltre che un ammicco allo strutturalismo ormai imperante.
Secondo Montale, autore di un’importante recensione, la coltissima nevrosi di Zanzotto problematizzava in modo estremamente contemporaneo il rapporto fra poeta e mondo, creando un cortocircuito sostanzialmente tragico fra espressione di secondo grado e pre-espressione, in una percussività da batticuore. Il libro, forse il più importante del Novecento poetico italiano dopo Le Occasioni di Montale, si presenta come le stazioni di un Calvario psicoanalitico che non abbia perso la propria laica spinta pasquale (donde un certo dantismo paradisiaco) e, insieme, come una strada senza uscita.
Nel 1969 Zanzotto partecipò al festival di Spoleto, dove ebbe modo di incontrare Ezra Pound. Stampò semiclandestinamente Gli Sguardi i Fatti e Senhal (Pieve di Soligo e s.l. 1969; Milano 1990), un poemetto sull’allunaggio come ferimento del mito lunare. Iniziò gli Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto, pubblicati in rivista nel 2001 e in volume nel 2019. Nel 1970 acquistò un piccolo appartamento a Milano. Dal 1971 al 1975 fu distaccato come formatore nelle scuole della provincia di Treviso. Nel 1973 morì la madre.
La fortunata antologia Poesie (1938-1972) (Milano 1973) fu curata da Stefano Agosti, che, da principale critico di Zanzotto, ne metteva in relazione la poesia con la nozione di arbitrarietà del segno postulata da Ferdinand de Saussure e con la priorità del significante sul significato elaborata da Jacques Lacan. Pasque (Milano 1973), libro dei passaggi rituali, anche pedagogici, che coinvolgono una comunità e dei passaggi psichici dell’individuo, chiuso in un’ambigua privatizzazione, fu recensito, fra gli altri, da Pasolini, che vide ne La Pasqua a Pieve di Soligo la «poesia più importante scritta in Italia in questi ultimi anni; forse, addirittura, dagli anni Cinquanta» (cfr. P.P. Pasolini, Andrea Zanzotto, «Pasque», in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., II, p. 2019).
Nel 1975 uscì la prima traduzione in volume della poesia di Zanzotto, avviando l’internazionalizzazione della sua fortuna. Nel 1976 collaborò a Casanova di Federico Fellini, con testi in dialetto poi ricompresi in Filò (Venezia 1976; Roma 1981; Milano 1988) insieme con altri materiali e soprattutto col poemetto omonimo, civile tentativo di rifondazione del rapporto fra natura, uomini e linguaggio, in aperto confronto con La ginestra o Il fiore del deserto, di Giacomo Leopardi. Altre importanti collaborazioni cinematografiche seguirono negli anni successivi. Uscì intanto un’edizione petrarchesca con un memorabile contributo di Zanzotto.
Il Galateo in Bosco (Milano 1978 e 1996) è aperto da una prefazione di Gianfranco Contini, che indica in Zanzotto «il più importante poeta italiano dopo Montale» (p. 5).
Il libro avvia una «pseudo-trilogia» (v. A. Zanzotto, Note a «Idioma», in Id., Le poesie e prose scelte, cit., p. 811). La partizione va intesa in senso topografico, con la collocazione del Galateo nel Montello e di Fosfeni (Milano 1983) sulle Dolomiti, rispettivamente a sud e a nord di Pieve di Soligo, centro di Idioma (Milano 1986), ma è anche tematica, stilistica e tonale, come mostrano l’inselvamento del Galateo, la rarefazione quasi noumenica di Fosfeni e la quotidianità comunitaria di Idioma. Al centro del volume fa spicco l’Ipersonetto, che sembrò quasi autorizzare il ritorno alle forme chiuse degli anni Ottanta. A dispetto di consensi come il premio Viareggio del 1979, anno in cui usciva anche la prima monografia dedicata al poeta, l’autore temeva che fosse stato frainteso il senso profondo del libro e, quindi, disatteso il suo invito a una ripartenza da zero.
Entrando nella cosiddetta terza età, subì una grave depressione. Intanto venne insignito del premio Librex-Montale con Fosfeni, per cui Parise notava come la grandezza, anche ‘geologica’, di Zanzotto fosse di gran lunga superiore alla sua leggibilità. Nel 1987 l’Accademia nazionale dei Lincei conferì a Zanzotto il premio Feltrinelli. Numerosi anche i riconoscimenti internazionali, fino all’assegnazione del premio Hölderlin nel 2005. L’inizio degli anni Novanta, segnato dalla morte del fratello Ettore, vide l’uscita di Fantasie di avvicinamento (Milano 1991) e Aure e disincanti del Novecento letterario (Milano 1994), poi raccolti, per le cure di Gian Mario Villalta, in Scritti sulla letteratura (I-II, Milano 2001), volumi che fanno di Zanzotto un grande poeta-critico.
Meteo (Roma 1996), con disegni di Giosetta Fioroni, inaugurò la collana poetica di Donzelli come un’anticipazione di lavori in corso. Si apriva un’altra fase della poesia di Zanzotto, con una nuova posizione del soggetto e del linguaggio, oltre che un diverso trattamento del paesaggio. Le poesie e prose scelte (Milano 1999) uscì ne I Meridiani, vincendo poi il premio Bagutta. In Sovrimpressioni (Milano 2001) la deriva anche testuale, non priva di esiti indimenticabili, ruota attorno alla distruzione del paesaggio e alla trasformazione della nozione stessa di natura, come avverte l’anonimo risvolto di copertina.
Nel 2001 Zanzotto firmò un significativo contributo su Hölderlin e il crescente interesse nei suoi confronti lo spinse a pubblicare, a partire dagli eventi per il suo ottantesimo compleanno, conversazioni, scritti sul cinema e qualche altro saggio.Nel 2005 subì ulteriori restrizioni alla propria mobilità per la rottura di un femore.
Conglomerati (Milano 2009) chiude in modo testamentario l’opera in versi di Zanzotto. Non mancarono, però, pubblicazioni successive, come la plaquette Il Vero Tema (Milano 2011).
In Conglomerati si mette in discussione l’idea stessa di definitività: la poesia è ormai sostituita dalle sue varianti, in una virtualizzazione che assume in sé anche la testualità, pur nella sua materica stratificazione. Stefano Dal Bianco, in particolare, presenta Conglomerati come una Commedia contemporanea e la chiusura di una «trilogia dell’oltremondo» (in A. Zanzotto, Tutte le poesie, 2011, p. LXXIII).
Morì a Conegliano, il 18 ottobre 2011, in seguito a complicazioni respiratorie.
Opere. Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco – G.M. Villalta, con due saggi di S. Agosti – F. Bandini, Milano 1999; Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, Milano 2011, e relativa bibliografia, cui si aggiungano almeno: Il Vero Tema, Milano 2011; In nessuna lingua in nessun luogo. Le poesie in dialetto 1938-2009, nota introduttiva di G. Agamben, prefazione di S. Dal Bianco, Macerata 2019; Haiku. For a Season. Per una stagione, a cura di A. Secco – P. Barron, con una nota di M. Breda, Milano 2019. Per la prosa si vedano: Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi, a cura di G. Ioli, Novara 2011; Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano 2013; L’arte di Grazia Deledda, prefazione di A Balduino e introduzione di E. Zinato, Padova 2015.
Fonti e Bibl.: Tra gli studi monografici: P. Steffan, Un «giardino di crode disperse». Uno studio di «Addio a Ligonàs» di A. Z., Roma 2012; Il sacro e altro nella poesia di A. Z., a cura di M. Richter – M.L. Daniele Toffanin, Pisa 2013; “Dirti Z.”: Z. e Bologna (1983-2011), a cura di N. Lorenzini – F. Carbognin, Varese 2013; C. Cardolini Rizzo, Dai versi giovanili al vocativo. Semiologia poetica nel primo Z., Taranto 2013; Hommage à A. Z., textes réunis par D. Favaretto – L. Toppan, Paris 2014; N. Lorenzini, Dire il silenzio: la poesia di A. Z., Roma 2014; S. Agosti, Una lunga complicità. Scritti su A. Z., Milano 2015; «A foglia ed a gemma». Letture dall’opera poetica di A. Z., a cura di M. Natale – G. Sandrini, Roma 2016; M. Natale, Il sorriso di lei. Studi su Z., Verona 2016; L. Stefanelli, Il divenire di una poetica. Il «logos veniente» di A. Z. dalla «Beltà» a «Conglomerati», Milano-Udine 2016; F. Venturi, Genesi e storia della «trilogia» di A. Z., Pisa 2016; S. Sferruzza, Vocativo. A. Z. sul margine. Introduzione e commento alle poesie, Ospedaletto 2017; A. Z., la natura, l’idioma, a cura di F. Carbognin, Treviso 2018; Nel melograno di lingue. Plurilinguismo e traduzione in A. Z., a cura di G. Bongiorno – L. Toppan, Firenze 2018; S. Bubola, Dietro il paesaggio. Friedrich Hölderlin nell’opera di A. Z., Udine 2018; A. Russo Previtali, Il destinatario nascosto. Lettore e paratesto nell’opera di A. Z., Firenze 2018; A. Russo Previtali, Z./Lacan. L’impossibile e il dire, Milano-Udine 2019; C. Cardolini Rizzo, La poesia pastorale nell’età moderna. Le «IX Ecloghe» di A. Z., Avellino 2019.
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte- Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-Editore Laterza
Descrizione-Nell’indagine di Benedetto CROCE si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Articolo scritto da Domenico BULFERETTI per la Rivista PEGASO n°5 del 1933 diretta da Ugo Ojetti
Benedetto CROCE-Poesia popolare e Poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento-
Descrizione-
Nell’indagine crociana si distinguono e insieme e si affiancano una poesia che ritrae sentimenti semplici in corrispondenti semplici forme e una poesia che muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumatura di sentimenti. Fra i contributi raccolti: La poesia del Petrarca; Il Boccaccio e Franco Sacchetti; Fazio degli Uberti ed altri lirici del Trecento; Rime autobiografiche gnomiche-
Biografia di Benedetto Croce
Biografia di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano ed esponente del neoidealismo.
Presentò il suo idealismo come «storicismo assoluto», giacché «la filosofia non può essere altro che “filosofia dello spirito” […] e la filosofia dello spirito non può essere altro che “pensiero storico”», ossia «pensiero che ha come contenuto la storia», che rifugge ogni metafisica, la quale è «filosofia di una realtà immutabile trascendente lo spirito». In funzione anti-positivistica, nella filosofia crociana, la scienza diventa la misuratrice della realtà, sottomessa alla filosofia, che invece comprende e spiega il reale.
Con Giovanni Gentile – dal quale lo separarono la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo dopo il delitto Matteotti – è considerato tra i maggiori protagonisti della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo, in particolare dell’idealismo e del neoidealismo italiano che assieme a Gentile contribuì a fondare, partendo dall’aspra critica fatta al materialismo storico e alla filosofia di Marx in Materialismo storico ed economia marxista.
La dottrina crociana improntata alla storiografia ebbe grande influenza politica sulla cultura italiana; Croce, in particolare, con la sua “religione della libertà, è ricordato come guida morale dell’antifascismo”, tanto che fu anche proposto come Presidente della Repubblica italiana. Fu tra i fondatori del ricostituito Partito Liberale Italiano, insieme con Luigi Einaudi.
Alcune riserve sulla sua estetica, sulla critica letteraria (in particolare sulla sua definizione di «poesia») e sulla superiorità attribuita alla filosofia rispetto alle scienze nell’ambito della logica, tuttavia, sono state espresse in tempi successivi.
D’altra parte, il pensiero di Croce, specialmente quello politico, ha goduto di apprezzamenti più recenti e di una “riscoperta” anche al di fuori dell’Italia, in Europa e nel mondo anglosassone (specialmente gli Stati Uniti d’America), dov’è riconosciuto, al pari di pensatori come Karl Popper, come uno dei più eminenti teorici del liberalismo europeo e un autorevole oppositore di ogni totalitarismo. Il liberalismo politico crociano distinto dal liberismo economico fu causa di disaccordo con un altro importante esponente del liberalismo italiano come Luigi Einaudi.
Diderot, Denis – d’Alembert, Jean-Baptiste Le Rond
Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, 1751
Descrizione-Encyclopédie-Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1751-’65 [ultimo volume: Neufchastel, Samuel Faulche]. In 2°. 404 x 270 mm. – Table Analytique et Raisonée du Dictionnaire… Paris/Amsterdam, Panckoucke-Marc-Michgel rey, 1780. In 2°, 2 voll. – Recueil de Planches sur le s Sciences…Paris, Briasson, David, Le Breton, S. Faulche, 1762-1772. – Nouveau Dictionnaire pour servir de Supplement. Paris, Panckoucke, Stoupe, Brunet, 1776-’77. In 2° 5 voll. incluso un tomo di Planches au Supplement, 1777. 244 tavole. Insieme completo di 35 volumi, di cui 23 di testo e 12 di tavole. Legature coeva in bazzana con dorso a sei nervi e taglia spruzzo, cinque volumi presentano una diversa legatura, sempre in bazzana ma con un vitello più scuro e i tagli sono rossi. Ex libris al contropiatto Aldo Maffey.
Nota a chiariento
L’Encyclopédie è stata originariamente concepita dall’editore, André le Breton, come una semplice traduzione della Cyclopaedia di Chambers, dall’inglese al francese. Denis Diderot, in qualità di editore, insieme al matematico Jean Le Rond d’Alembert, spinse il lavoro ben oltre tanto da essere annoverata, in qualità di editore insieme al matematico Jean Le Rondessere d’Alembert, nella tradizione illuminista. Un gran numero di scrittori del sec. XVIII contribuirono al lavoro e Diderot, in qualità di editore, prendeva gli scritti e li rimodellava sottilmente alla sua veduta del mondo.
Pier Paolo PASOLINI-“La terra di lavoro” da:” Le Ceneri di Gramsci”-
-La terra di lavoro da:. Le Ceneri di Gramsci
Questo è l’ultimo degli undici poemetti che costituiscono “Le ceneri di Gramsci” di P.P.Pasolini, considerato se non il suo capolavoro, uno dei libri più letti per la virulenza dei versi che raggiungono nei testi portanti vertiginose altezze poetiche.
Colpisce il pathos, affiora l’immagine del quadro di Daumier “Il vagone di terza classe” ma gli sguardi di quegli emarginati che si vergognano della loro povertà, vissuta come una colpa, non sono un’immagine descrittiva fine a se stessa. Non sfugge a Pasolini la dolorosa scoperta dello schiacciamento delle masse popolari da parte del potere, vittime di una società che in quei primi anni ’50 si sta delineando nelle sue forme aberranti di privilegio e di esclusione
E questi versi di denuncia non sono altro che il suo bisogno di raccontare le deformazioni della realtà sottraendosi alla logica perversa di una società corrotta e servile.
[…]
Dentro, nel treno
che corre mezzo vuoto, il gelo
autunnale vela il triste legno,
gli stracci bagnati: se fuori
è il paradiso, qui dentro è il regno
dei morti, passati da dolore
a dolore – senza averne sospetto.
Nelle panche, nei corridoi,
eccoli con il mento sul petto,
con le spalle contro lo schienale,
con la bocca sopra un pezzetto
di pane unto, masticando male,
miseri e scuri come cani
su un boccone rubato: e gli sale
se ne guardi gli occhi, le mani,
sugli zigomi un pietoso rossore,
in cui nemica gli si scopre l’anima.
Ma anche chi non mangia o le sue storie
non dice al vicino attento,
se lo guardi, ti guarda con il cuore
negli occhi, quasi, con spavento,
a dirti che non ha fatto nulla
di male, che è un innocente…
[…]
in una gioia ch’è forse conservata
– come una scheggia dell’altra storia,
non più nostra – in fondo al cuore
di questi poveri viaggiatori:
vivi, soltanto vivi, nel calore
che fa più grande della storia la vita.
Tu ti perdi nel paradiso interiore,
e anche la tua pietà gli è nemica.
Opera pittorica allegata è di Honoré Daumier – Il vagone di terza classe
Ferruccio Parri-Come farla finita con il fascismo-
Editori Laterza
Ferruccio Parri :«Non vogliamo che su questa pagina della vita italiana, su questa carica morale si possa stendere un comodo lenzuolo di oblio. Questo no, compagni giovani. Ora tocca a voi.»
DESCRIZIONE-INTRODUZIONE-RASSEGNA STAMPA
Ferruccio Parri, uno dei maggiori esponenti dell’antifascismo italiano e della Resistenza, è una vera e propria guida. I suoi scritti e i suoi discorsi ci conducono, ancora oggi, attraverso una ragnatela di parole chiave necessarie per contrastare il ritorno di retoriche e pratiche violente e identitarie. Che se fasciste non sono, al fascismo assomigliano molto. Ferruccio Parri, vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà durante la Resistenza, è stato il primo presidente del Consiglio dell’Italia libera. Dopo una lunga militanza nel Partito d’Azione, si è impegnato in altre formazioni prima di lasciare l’impegno partitico. Ha dedicato la sua intera esistenza alla politica e non ha mai smesso di lottare contro il ritorno del fascismo.
Introduzione.
Cosa resta
di David Bidussa e Carlo Greppi
Abbiamo già detto tante volte che noi non vogliamo fare una storia idealizzata, né credere e far credere quello che non c’è, o presentare gli attori di questi fatti per quello che non sono o non sono stati; essi furono modesti uomini come tutti.
Ferruccio Parri (1961)
Del fascismo Parri è stato uno dei più irriducibili avversari nel corso della sua lunga vita adulta, che percorre integralmente la storia dell’ideologia che ha insanguinato l’Italia, l’Europa e il mondo. Dalla fondazione dei Fasci di combattimento alla presa del potere, Parri sente, «come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio» [infra, p. 6], ed è lui il primo a fare della sua «avversione morale», che è «perentoria ed irriducibile», appunto, la cifra con cui affronta la dittatura prima, l’occupazione e la guerra civile poi, e, infine, il costante riemergere del neofascismo in incalcolabili forme, i cui echi arrivano fino all’Italia di oggi, un paese le cui stesse premesse democratiche scricchiolano in maniera preoccupante. Ed è utile, in questo tempo di crisi profonda, ripercorrere i passi di una generazione che ha in gran parte voluto – e in questo Parri è stato maestro – sentirsi «ordinaria».
È quando il fascismo si fa regime, ricorderà Parri, che i giovani d’allora scoprono la democrazia: «Si avverte che al fascismo non è possibile opporre soltanto la polemica antifascista, se la polemica antifascista non riposa sui principi, su una costruzione politica superiore, atti a soddisfare le esigenze primarie di libertà e di giustizia. È dunque allora che si crea, soprattutto fra gli intellettuali – ciò che è essenziale per comprendere la lotta di poi – una prima convergenza di forze, fondamentale a spiegare la storia successiva». Convinto che la vittoria sul fascismo si sia costruita passo dopo passo, in oltre vent’anni di lotte e sacrifici, Parri si oppone in diverse occasioni alla «spiegazione poetica che piaceva al nostro sempre compianto Calamandrei», per la quale di colpo, come per delle «misteriose leggi di natura», era gemmata e può gemmare la Resistenza. Dalla svolta con cui Mussolini instaura di fatto il regime, Parri aveva imparato «che la sconfitta si riparava cercando una soluzione superiore; che contro il fascismo non si combatteva più sulla base del diritto formale della società precedente al fascismo; che le vecchie classi dirigenti erano crollate, erano cadute», e che «occorreva una soluzione diversa, una visione più avanzata».
Queste, come quelle che ritroverete in queste pagine, sono parole di un’attualità a dir poco sconcertante, che ripercorrono la presa di coscienza di un uomo «come tutti» che, poco più che trentenne, si rese conto che quella che riteneva essere la sua ordinarietà diventava di colpo speciale, rara, necessaria, da coltivare in un’Italia che sprofondava nel baratro della dittatura. Un uomo che si rese conto, fin dagli anni Venti, che bisognava disobbedire – e rivendicarlo pubblicamente – e poi combattere: «al nemico non si doveva conceder tregua», ricorderà, «sapevamo che la guerra era necessaria e che una volta iniziata non si poteva più tornare indietro» [infra, p. 22].
Accomunati da questa sua tormentata e costante attenzione per una vision – si direbbe oggi – antifascista, fondamentale e fondante in tempo di crisi, sono tre gli aspetti che ritornano più volte nelle parole di Ferruccio Parri e che a vario titolo lo accompagnano nei momenti salienti della propria vita, tanto da definire il suo vocabolario politico.
Il primo aspetto riguarda una dimensione laica della politica. Il secondo nasce dalla convinzione di dover trovare significati e immagini che parlino a generazioni anche lontane dalla sua, consapevole della consunzione non solo delle parole, ma anche dei sentimenti e delle esperienze se non corroborate da una volontà di rimetterle costantemente tra le cose della propria quotidianità, e dunque non proporle come sacre. Il terzo aspetto, infine, consiste nell’essere consci del fatto che scommettere sul futuro ogni volta significa riprendere in mano il passato.
Veniamo dalla polvere e dobbiamo tornare, tutti, nella polvere. Lo spirito che ci rende uomini, soffia quando vuole e dove vuole. La sua brezza ha animato Ferruccio Parri durante tutta la sua lunga vita. Egli era laico, intellettualmente e politicamente […] ma pochi più di Parri possedevano, fra i suoi ed i nostri contemporanei, le doti cristiane della devozione al dovere, dell’obbedienza ai 10 comandamenti, dell’amore della famiglia e dell’umanità, dello spirito di sacrificio, dell’umiltà.
Sono le parole con cui Leo Valiani, il 9 dicembre 1981, apre la sua orazione funebre per Ferruccio Parri. Un addio tra due amici di vecchia data che si erano da tempo divisi sulle scelte politiche, dopo la prima stagione del Partito radicale, quando Ferruccio Parri dava vita al primo nucleo della «sinistra indipendente».
In quelle parole tuttavia non sta solo il rispetto o l’affetto verso «Maurizio» – il mitico nome di battaglia di Parri nella lotta partigiana – o verso la Resistenza, anche se certamente c’è anche quello, memore di quanto Valiani scriveva nel 1947 quando ricordava, nell’inizio incerto della guerra di liberazione, «Tutti vanno pazzi per lui». Quelle parole non sono solo un sincero riconoscimento della capacità che Parri aveva avuto di tenere insieme le molte anime e i molti protagonisti del movimento resistenziale, che avevano accettato come «linguaggio comune» le «semplici parole di libertà e giustizia» [infra, p. 44], che avevano scelto di stare uniti. La commossa orazione funebre di Valiani svela un lessico laico che in Italia non è mai stato linguaggio condiviso, o comunque mai di maggioranza. Laddove con «laico» si intende il riconoscimento del nesso doveri/diritti nonché l’autonomia e la libertà di ciascun essere umano, ovvero il proseguimento del progetto illuminista enunciato da Kant all’inizio del suo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? «L’illuminismo – scriveva il filosofo tedesco – è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro».
Dunque l’essere laico, nelle parole di Valiani e nella biografia di Parri, indica una tendenza continua a uscire dallo stato di minorità in cui ci si trova e a «camminare con le proprie gambe», non confondendo, come sottolinea Michel Foucault, quella condizione di minorità «con uno stato di impotenza naturale». Dunque pare che compito dell’intellettuale e del politico sia essere ottimisti, laddove, con Johan Huizinga, ottimista non è colui che sottovaluta i pericoli gravi sostenendo che tutto finirà per il meglio, bensì colui il quale, pur valutando in tutta la sua portata la minaccia dell’imminente tracollo, tiene alta la speranza, anche qualora non si scorga all’orizzonte una via d’uscita. Ottimista è chi si sforza costantemente di ricomporre un quadro, ma anche di dare il valore alle cose per poterlo sostenere. In altre parole, riprendendo le azioni che nel pensiero di Parri appaiono necessarie per «farla finita con il fascismo», essere laico significa non cedere il passo, saper progettare e saper trainare. Al primo posto, sostiene Parri all’apertura dei lavori della Consulta [infra, pp. 55 sgg.], ci deve essere «la difesa dell’ordine morale» dell’Italia – e della «Giovane Europa» – di domani, in continuità con lo «spirito di concordia» della lotta di liberazione. Senza impantanarsi, invischiarsi, soffocarsi, rischiando così di favorire il ritorno «a regimi di letargo o a regimi senza libertà e quindi senza giustizia» [infra, p. 80].
È un profilo che «Maurizio» ha costantemente presente nella sua riflessione e che nella lezione che tiene nel 1960 – Il CLN e la guerra partigiana –, che abbiamo volutamente sintetizzato con la parola chiave «trasmettere», assume una dimensione paradigmatica. «Trasmettere», infatti, non è solo raccontare perché altri ereditino, ma è soprattutto non celare, non costruire una versione mitizzata del passato per timore della sua dissoluzione, che invece sarà conseguente e logica proprio se quel passato dovesse essere raccontato in versione «eroica». In quell’occasione, in apertura del suo intervento, Parri dice:
Coloro che hanno avuto parte attiva nella lotta di liberazione – alcuni sono qui – sono uomini come voi, con tutti i difetti, gli errori, le insufficienze degli uomini; nessuno di noi le vuole tacere, nessuno le vuole velare, nessuno vuole rivendicare dei meriti che non ha. Ma le cose che si son fatte e la storia di questi anni non han da temere della sincerità, che resta il maggiore dei doveri che abbiamo verso i giovani, verso di voi e verso quelli che verranno dopo [infra, p. 96].
Del resto, anni prima, lo stesso Parri non aveva taciuto sulla dimensione geograficamente contenuta della Resistenza: «Solo una parte del paese, territorialmente parlando, è stata toccata profondamente dalla Resistenza, e solo una parte della società italiana vi partecipa o l’accetta», aveva detto in un’intervista nel 1957, precisando che Resistenza non era stata la ripetizione del moto solo urbano ed elitista del Risorgimento, al quale non manca mai di riferirsi, ma qualcosa di più profondo e partecipato.
In quella stessa intervista, tuttavia, indica una questione molto importante che spiega l’insistenza di parlare della Resistenza, in particolare rivolta alle generazioni anche lontane da quell’esperienza diretta:
il crollo del fascismo – precisa – ha aperto situazioni e vuoti di portata assai più ampia. È crollata l’impalcatura del regime fascista; non sono stati arrestati gli effetti della sterilizzazione dei cervelli. E così un fondo materasso di conformismo e qualunquismo, che è lo stato psicologico di riposo di un paese senza educazione e di scarsa coscienza democratica, fa da supporto alle vendette, alle paure postume, alle restaurazioni conservatrici, alle pressioni retoriche e clericali.
La sua convinzione è che «non si ama quello che non si conosce», e la prima cosa che si ignora, ripete più volte, è la rilevanza del fatto resistenziale, come scelta – un aspetto su cui avrebbe scritto Claudio Pavone nel 1991 proprio su sollecitazione di Parri –, come condizione straordinaria nella storia italiana. Un fatto eccezionale a opera di uomini per lo più, appunto, «ordinari». È un’osservazione che ripete spesso a partire dal 1949, ogni qualvolta riflette sul significato della esperienza resistenziale nella storia degli italiani: vi ritorna nel 1960 nelle lezioni sull’antifascismo [infra, pp. 93 sgg.], poi nel 1963 in un’intervista che dà all’«Avanti!», poi di nuovo nel 1972 ripercorrendo la scena della caduta del governo da lui presieduto [infra, pp. 37 sgg.]. D’altronde lo diceva già nel 1945, descrivendo il «momento psicologico politico» dell’immediato dopoguerra, tratteggiando quella «marea incomposta di malcontento che sale contro il governo, contro il regime dei partiti», della quale «non ci si deve meravigliare», anche perché tra le miserie, i dolori, le inquietudini e «un così diffuso stato di insicurezza», vanno aggiunti «i delusi, gli spostati, gli avventurieri» e «lo spirito di rancore e di vendetta dei colpiti», dei fascisti [infra, p. 79]. La Resistenza aveva visto una partecipazione popolare senza precedenti, è vero, ma restava un’esperienza di una vasta minoranza, che sarebbe tornata a fronteggiare «l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia» [infra, p. 53].
Accanto a quella preoccupazione sta una convinzione: da una dittatura non si esce solo per crollo del sistema e ripristino delle regole democratiche. I conti con le dittature impegnano anche le generazioni successive se non si affrontano le mentalità che hanno fatto sì che quelle dittature durassero nel tempo.
In breve, anche se Parri non usa questa espressione – lui parla di «sagomatura mentale» –, l’Italia del secondo dopoguerra ha appunto un problema di «mentalità fascista» non affrontata e, dunque, rimasta nel codice culturale, nel senso comune. Per questo è necessario coinvolgere e motivare le giovani generazioni: non per un vago rispetto alla memoria del passato, ma alla rovescia, perché quel tempo possa archiviarsi come passato. In Italia, invece, sostiene Parri, quel processo di liberazione culturale, mentale, linguistico, non ha avuto luogo. Per questo, sostiene, ci troviamo a misurarci con la «continuità dello Stato», espressione che significativamente Parri introduce nel gennaio 1972 [infra, p. 46] e che Claudio Pavone assumerà come parola chiave di lavoro, nel 1973, per profilare il tema del passaggio claudicante tra dittatura e repubblica democratica, in un contesto in cui aveva «ripreso fiato» quell’Italia «maggioritaria, piallata, abbeverata da venti anni di regime» [infra, p. 86].
Tuttavia, dichiarare o riconoscere che quel passaggio sia avvenuto in maniera incerta, che spesso sia stato più formale che reale, non implica scegliere la strada del ripiegamento o della delusione, comunque del mesto «ritorno a casa» o, peggio, a una scelta tutta rivolta al «culto del privato».
C’è una dimensione pubblica su cui Parri insiste, soprattutto guardando al passato da dare in consegna alle nuove generazioni. La sconfitta è prima di tutto rivendicazione dei principi della propria azione, è non venire a patti col nemico, anche quando il nemico domina. È il senso della lettera al giudice nel 1927 [infra, pp. 3 sgg.], un testo che verrebbe da definire profetico e che per molti aspetti ha scolpito l’immagine pubblica di Parri, spesso trasformandolo in un’icona.
Ma Parri non ha nessuna intenzione di rimanere avvolto nella leggenda. Per questo il punto che egli sottolinea ogni volta è ricominciare, con pazienza, si potrebbe dire con tenacia. E dunque la logica non è mettere le lapidi o porre il problema della liturgia dell’eroe. Parri, a differenza di Calamandrei, ragiona sul fare la propria parte, evita cioè l’elemento eroico e retorico del martire e ragiona sulla possibilità di azione che ci è data, e anche sul ricominciare daccapo.
È un criterio che appare con nitidezza nel 1933, quando Parri scrive un saggio su Carlo Pisacane. Come è stato sottolineato dallo storico Guido Quazza, Parri in Pisacane legge e trova una parte di sé: sono soprattutto i temi ad attirarlo, quelli cioè legati al dopo 1848, al tempo della sconfitta e dell’esilio di un protagonista assoluto del Risorgimento, agli incontri che l’esule Pisacane fa, alle conversazioni che si hanno tra sconfitti, come scrive Gramsci. Avvicinandosi a un uomo del passato, Parri riflette sull’esperienza dell’esilio come opportunità «per crescere» anziché condizione «per piangere». Invito su cui, significativamente, in anni a noi vicini ha proposto pagine di grande spessore Edward Said.
Ne discende che porgere il testimone della storia non è consegnare il fardello del passato, ma è un modo di fare catena generazionale, e dunque di dare senso alla storia. In questo c’è un superamento della dimensione del militante rivoluzionario e del combattente che Jean-Paul Sartre inquadra nel personaggio di Goetz nel dramma Il diavolo e il buon Dio; e c’è, in parallelo, la dimensione della caparbietà con cui Albert Camus descrive Sisifo, non già nella disperazione dell’attimo successivo alla caduta, ma nella determinazione di Sisifo a scendere di nuovo negli inferi per tentare di nuovo la lotta all’oppressione. «In ciascun istante – scrive Camus – durante il quale egli lascia la cima e si immerge a poco a poco nelle spelonche degli dei, egli è superiore al proprio destino. È più forte del suo macigno».
Così era stata, in fondo, la Resistenza armata, che stabilì «vincoli di solidarietà morale, che sopravvivono ai litigi e non si cancellano mai», scrive Parri [infra, p. 125]. Così erano stati gli «uomini di allora» che «non hanno meriti speciali, ed hanno commesso gli errori che commettono gli uomini, anche se in buona fede; ma qualche merito deve essere rivendicato, soprattutto in difesa e a onore dei caduti. Il principale di questi meriti è forse la chiarezza della visione di quel momento». Sono parole che «Maurizio» pronuncia quasi vent’anni dopo la Liberazione, evocando una determinazione e una chiarezza di vedute che forse in molti casi sono poi mancate, al momento della sconfitta, quando il vento della restaurazione e della reazione è tornato a soffiare con arroganza. Ed è questo, crediamo, uno dei pericoli che nel nostro tempo rendono così urgenti le parole e gli scritti di Ferruccio Parri: lo spaesamento che rende una chimera la laicità – nella sua accezione più nobile – della politica, il non trovare più significati che possano percorrere quelle catene generazionali che lui aveva immaginato con forza, il non essere più in grado di impugnare il nostro passato per dotarci di nuove parole chiave, necessarie a farla finita, una volta per tutte, con il fascismo. All’inizio degli anni Sessanta, ricordando di aver presentato una legge per lo scioglimento del Movimento sociale italiano, Parri sosteneva di non essere stato mosso dalla preoccupazione per il fenomeno politico del neofascismo in sé, ma per «i problemi morali dei giovani»: «Sono questi movimenti giovanili che si ripetono, è questa facilità di propaganda che ci impensierisce: questo periodico ritorno a sistemi, a ideologie di violenza, che non vogliamo e che non dobbiamo volere».
Ideologie di violenza che dobbiamo, a tutti i costi, sgominare.
Riferimenti bibliografici
Il brano in esergo è tratto dalla relazione «Dalla Resistenza alla Repubblica, alla Costituzione» tenuta da Parri il 26 giugno 1961 e pubblicata in Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, vol. II, Feltrinelli, Milano 1962, p. 615, così come le due citazioni seguenti nel secondo capoverso (ivi, pp. 613-614) che evocano quelle qui in Il CLN e la guerra partigiana [infra, pp. 93 sgg.]; mentre la prima riflessione sulla sconfitta citata è in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Luigi Arbizzani, Alberto Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano, vol. I, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 200.
Il testo dell’orazione funebre di Valiani si trova in Parri la religione laica del dovere. Testimonianze di Riccardo Bauer, Arturo Colombo, Giovanni Spadolini, Leo Valiani, in «Nuova Antologia», n. 2141, gennaio-marzo 1982, pp. 19-25 (il passo citato è a pp. 19-20). L’espressione «Tutti vanno pazzi per lui» è in Leo Valiani, Tutte le strade conduconoaRoma, introduzione di Claudio Pavone, il Mulino, Bologna 1995 (I ed. 1947), p. 104.
Il testo di Kant è ripreso da Immanuel Kant, Antologia degli scritti politici, selezione italiana di scritti a cura di Gennaro Sasso, il Mulino, Bologna 1961, pp. 47-55 (la citazione è a p. 47, i corsivi sono nel testo); le parole di Foucault sono in Michel Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2017, p. 36 (ed. or. Le Gouvernement de soi et des autres, Seuil/Gallimard, Paris 2008); per Huizinga si veda Johan Huizinga, Nelle ombre del domani,a cura di Rodolfo Lancia, Aragno, Torino 2019, p. 3 (ed. or. In de schaduwen van morgen, een diagnose van het geestelijk lijden van onzen tijd, H.T. Tjeenk Willink & Zoon, Haarlem 1935).
L’intervista di Ferruccio Parri ad Antonio Spinosa Solo una parte…, del dicembre 1957, è in «Resistenza», poi in Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 232-236 (i passi citati sono a p. 233 e a p. 234).
Il libro di Claudio Pavone cui si fa riferimento è Una guerra civile. Saggio sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. I testi di Parri del 1949 e del 1963 sono ricompresi in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 512-528 e pp. 530-534. Per una scelta dei testi di Claudio Pavone dedicati al tema della «continuità dello Stato» si veda il suo Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino 1995, pp. 70 e sgg., nonché la bibliografia ivi citata.
Il saggio su Pisacane, lunga recensione alla monografia di Nello Rosselli, Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932, poi Einaudi 1980) è ora in Parri, Scritti 1915/1975 cit., pp. 74-98 (si veda anche Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi [1931], ora in Id., Socialismo liberale, a cura di Aldo Garosci, Einaudi, Torino 1973, pp. 511-525); il giudizio di Quazza su Parri è in Guido Quazza, Enzo Enriques Agnoletti, Giorgio Rochat, Giorgio Vaccarino, Enzo Collotti, Ferruccio Parri. Sessant’anni di storia italiana, introduzione di Luigi Anderlini, De Donato, Bari 1983, p. 43. Il riferimento a Gramsci è in Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. 3, p. 1816. Il riferimento a Edward Said è al suo Riflessioni sull’esilio, ora in Id., Nel segno dell’esilio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 216-231. Per Jean-Paul Sartre si veda Il diavolo e il buon Dio, Mondadori, Milano 1976 (ed. or. Le Diable et le Bon Dieu, Gallimard, Paris 1951); per Albert Camus, Il mito di Sisifo (ed. or. Le Mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942), in Id. Opere, Bompiani, Milano 2000, pp. 316-317.
Le ultime due citazioni sugli uomini della Resistenza e quelle sull’MSI sono in Ferruccio Parri, «La Resistenza», in Arbizzani, Caltabiano (a cura di), Storia dell’antifascismo italiano cit., p. 205 e p. 214.
Gli otto scritti di Parri riprodotti nel volume sono ripresi da: Ferruccio Parri, Scritti 1915/1975, a cura di Enzo Collotti, Giorgio Rochat, Gabriella Solaro Pelazza, Paolo Speziale, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 63-65, 132-142, 110-113, 566-576, 179-193, 576-582, 547-566, 582-588.
Salvo indicazione contraria, le note a piè di pagina sono presenti nell’edizione originale.
Disobbedire.
Lettera al Giudice istruttore di Savona (1927)
Nel dicembre 1926 con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti, Ferruccio Parri prepara e realizza l’espatrio di Filippo Turati, con un motoscafo, da Savona a Calvi in Corsica. Mentre Turati, Pertini e Oxilia proseguono per Nizza, Parri e Rosselli, ritornati con il motoscafo a Marina di Carrara, vengono arrestati, nonostante tentino di sostenere di essere reduci da una gita di piacere.
La lettera al giudice di Ferruccio Parri, all’epoca trentasettenne, è datata 18 febbraio 1927 ed è la dichiarazione di assunzione di responsabilità per un atto, ma soprattutto per una decisione che voleva dire disobbedire, venire meno agli ordini del regime in cui ormai era permessa un’unica voce, quella del fascismo. Ma il documento non ha valore solo per questo. Parri insiste, nella sua lettera, sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi. È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.
Illustrissimo signor Giudice istruttore
La mia volontaria e meditata partecipazione all’espatrio clandestino dell’onorevole Turati è stata determinata – come già le dichiarai, signor Giudice – da moventi strettamente politici. I quali tuttavia dalla deposizione che ho già reso in sue mani – su questo punto necessariamente sommaria – non risultano con quella assoluta chiarezza che deve essere attributo e privilegio di un atto di così piena consapevolezza. Mi consenta pertanto, signor Giudice, di completare per questa parte le mie dichiarazioni.
Non mi hanno guidato ragioni di personale rancore verso il regime; non ambizioni o delusioni o vendette da soddisfare: insisto nel definire motivi strettamente secondari lo stesso sdegno del momento e la sollecitudine per l’uomo nobilissimo minacciato.
Mi onoro di aver servito in pace ed in guerra lo stato italiano con fedeltà ed abnegazione – cui non son mancati riconoscimenti ed elogi –; non ho mai seguito – come le dissi – movimenti di estrema; alieno in genere dalla vita politica, e per questo rimasto sempre estraneo ai partiti, nessuna responsabilità ho certo da rimproverarmi rispetto agli anni torbidi del dopoguerra.
Contro il fascismo non ho che una ragione di avversione: ma quest’una perentoria ed irriducibile, perché è avversione morale: è, meglio, integrale negazione del clima fascista.
Né sono solo: il mio antifascismo non è fermentazione di solitaria acidità. Le mie idee sono di mille altri giovani, generosi combattenti ieri, nemici oggi del traffico di benemerenze e del baccanale di retorica che contrassegnano e colorano l’ora fascista. Indenni di responsabilità recenti, intransigenti perché disinteressati, intransigenti verso il fascismo perché intransigenti con la loro coscienza, sono questi giovani i più veri antagonisti del regime, come quelli che hanno immacolato diritto ad erigersene giudici. Ad essi il fascismo deve, e dovrà, rendere strettissimo conto delle lacrime e dell’odio di cui gronda la sua storia, dei beni morali calpestati, della nazione lacerata.
Il regime li può colpire, perseguitare, disperdere ma non potrà mai aver ragione della loro opposizione, perché non si può estirpare un istinto morale. Consapevoli custodi, alla loro coscienza è affidata per le speranze dell’avvenire la tradizione del passato.
Questa tradizione è nell’aspirazione, perenne nella nostra storia migliore, alla libertà ed alla giustizia, ragione ideale del nostro Risorgimento, ragione ideale domani ancora della nostra storia nella storia del mondo.
Chi, come il fascismo ha fatto, oblia e – cieco – rinnega questa eredità ideale, perduti insieme freno e timore, fatalmente degrada il suo dominio politico a sopraffazione: menzogna ed ipocrisia si fanno strumenti di governo e ragioni di corruzione e corrosione, cade ogni norma e limite di moralità pubblica, è consentita ogni offesa alla dignità personale, si disfrena, serva e padrona dei potenti, la bestialità umana.
Perché questa buia parentesi di cattività sia chiusa e espiata occorre che l’esperimento fascista, percorso tutto l’arco del suo sviluppo secondo la logica del suo impulso e del suo peso, abbia maturato nella coscienza del popolo tutti i suoi frutti amari e salutari, restituendogli ansiosa sete dei beni perduti, ferma volontà di riconquista e ferma volontà di difesa. Secondo Risorgimento di popolo – non più di avanguardie – che solo potrà riallacciare il passato all’avvenire.
È in noi la certezza che libertà e giustizia,idee inintelligibili e mute solo a tempi di supina servitù, ma non periture e non corruttibili perché radicate nel più intimo spirito dell’uomo, che questi due primi valori civili debbano immutabilmente sostanziare ogni sforzo di ascensione, di liberazione di classi e di popolo.
Nella fede in queste idee noi ci riconosciamo: nel dispregio di queste idee riconosciamo il fascismo.Contro le nostre persone esso ha bastone e manette, contro la nostra fede è inane. Non ha invero che i sofismi dei suoi retori e servi.
Esso ci bestemmia, ebbro, antinazione. Ma io, signor Giudice, che credevo al valore civile della storia nazionale che insegnavo in scuola, io, che nel 1915 ho inteso di combattere per la grandezza morale della patria e insieme per un’idea augusta di libertà e di giustizia, io non potevo non sentire che l’esempio del Risorgimento ed il dovere del 1915 erano ancora il dovere di oggi.Ho sentito anche, come in guerra, che ai più consapevoli spetta ineluttabilmente l’onore dell’esempio.
Quando il novembre ha portato la totale sommersione di ogni traccia e modo, nonché di resistenza, di vita pubblica, nello sconforto e nell’accasciamento generale ho sentito degno e doveroso dar opera ad una protesta non sterile e non effimera, che rompendo il silenzio plumbeo fosse viva riaffermazione di fronte all’avvenire di un’Italia migliore. Protesta e riaffermazione che ormai potevano vivere solo oltre confine, mentre la paura del regime con la minaccia delle sue leggi pretendeva vietare ciò che la sua stessa violenza rendeva necessario. Leggi nate dalla paura e dalla violenza, senza radici perché nella coscienza civile, senza diritto quindi al rispetto, persuadenti anzi alla ribellione.
È da questa posizione di spirito, signor Giudice, che deriva il mio atto, è questa diretta e consapevole coerenza con il mio passato che gli conferisce – io credo – una significazione particolare.
Ho invero con l’onorevole Turati un legame che vince ogni diversità di origine ed ogni possibile discordanza del passato: un legame per oggi e per domani essenziale, quale è quello della devozione a quelle idee, dell’avversione a questo clima. L’onorevole Turati per l’altezza del suo animo e per l’onoranda dignità della sua vita poteva a buon diritto rappresentare, sopra ogni divisione e tendenza, di fronte alla civiltà europea, la condanna dell’ottenebramento italiano,la riaffermazione di quei principi ideali nei quali la storia moderna si riconosce, riaffermazione anche di un’Italia che sia patria libera ed equa a tutti gli italiani.
Nessuna jattanza e nessuna libidine di facile martirio da parte nostra.
Ma poiché ora la legge fascista ci chiama a rispondere del nostro atto, con orgoglio ne rivendichiamo la prima e più diretta responsabilità,con tanto più orgogliosa coscienza oggi che nulla più si oppone ai trionfatori; oggi che è pregio delle coscienze più diritte percuotere l’accidia e la ipocrisia della vita pubblica con l’esempio del sacrificio, se anche modesto; oggi che più bisogna sferzare la generale flaccidità e schiaffeggiare la viltà delle classi dirigenti con un esempio di fedeltà alle idee, oggi che è più veemente in noi di fronte all’orizzonte più chiuso la certezza dell’avvenire. Signor Giudice, la legge della fazione colpendoci ci onorerà.
Combattere.
Venti mesi di guerra partigiana (1945)
Testo del discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945, nel corso di una manifestazione organizzata dal Partito d’Azione per presentare Parri e Leo Valiani, segretario del partito per l’Alta Italia, venuti a Roma in rappresentanza del Comitato Nazionale di Liberazione dell’Alta Italia (CLNAI). Oltre a Valiani ci sono anche il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà (CVL), e Luigi Longo, vicecomandante come «Maurizio» ed ex ispettore generale delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna.
Il discorso è forse il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano, e costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri» (come si scrive già all’epoca), del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea, al contrario del Risorgimento, è che gli italiani c’erano e che dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva che possa guardare al futuro democratico all’orizzonte.
I morti ci comandano
Amici romani, il vostro è un applauso che mi mortifica, mortifica me e mortifica l’amico Valiani. Noi non siamo qui per cercare delle piccole gloriole in un momento in cui ci sono compiti così duri da risolvere. Il vostro applauso lo intendiamo rivolto non alle nostre persone così modeste che hanno il solo merito di aver saputo assumere la responsabilità di quanto facevano, ma ai nostri morti: sono essi che ci comandano e che ci comanderanno ancora nel nostro ulteriore cammino, e il vostro saluto lo intendiamo rivolto, oltre che a loro, ai nostri compagni del Nord, non solo a quelli del nostro partito, ma a tutti coloro che con noi hanno lottato anche fuori dai nostri quadri e che hanno combattuto con lo stesso valore e con lo stesso spirito.
In questo senso noi contraccambiamo questo saluto a voi, amici di Roma, che rappresentate, per noi che veniamo da Milano, un po’ tutta l’Italia. E per noi l’Italia è una sola; per noi non esiste un Nord e un Sud, siamo tutti italiani nello stesso modo e facciamo solo una distinzione fra gli italiani che vogliono la libertà e quelli che non la vogliono. Soltanto questo divide gli italiani. Ma se potessi è un abbraccio che vorrei portare da Milano fino all’ultimo compagno nostro in fondo alla Sicilia. Perché questa lotta per la libertà ha stabilito in Italia un’unità morale come non vi è mai stata dal nostro Risorgimento in avanti.
Gli amici di Roma mi hanno impegnato… a tradimento a raccontarvi qualche cosa del movimento della resistenza. Io non sono un uomo politico, non sono capace di arti oratorie e per la verità non so neppure parlare in pubblico, anche se questo è composto di amici sinceri come voi: parlare è per me un sacrificio e un vero e proprio tormento, un barbaro tormento anche perché penso che voi ne abbiate già abbastanza di sentir parlare di partigiani, con tutta la retorica che se ne è fatta. Invece gli amici di qui mi dicono che voi non conoscete molto del movimento e della sua storia. E allora mi debbo arrendere al sacrificio che mi chiedete. Vi prego però di accontentarvi che vi faccia un piccolo, modesto rapporto di quanto è stato fatto. Questo rapporto sarà poco preciso perché non ho con me la documentazione necessaria per precisare con qualche cifra la misura dello sforzo compiuto e l’importanza dei risultati conseguiti.
Voi vivete da qualche tempo in un regime (come dire?) di inflazione declamatoria; e permettete allora che vi faccia un rapporto in uno stile da ragioniere, togliendo da esso tutto quanto possa sollecitare i vostri applausi.
Nascita del movimento partigiano
Immagino che voi possiate facilmente comprendere come sia nato il nostro movimento partigiano: nacque per germinazione spontanea nei giorni del collasso, dello sfacelo. Molti furono i soldati che allora si diedero alla macchia e ad essi si aggiunsero pochi ufficiali che avevano lo stesso spirito di indipendenza. A questi primi nuclei si sono aggiunti poi professionisti, studenti, operai spinti tutti dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare con le armi per lavare una vergogna, una vergogna nazionale. Si sono formate in questo modo le prime bande nelle valli alpine e si formarono i primi Comitati di liberazione nazionale che ebbero il loro punto di unione nel CLN di Milano: questo decise di darsi un ordinamento militare e un comando militare del quale feci parte anch’io.
La stessa cosa, in maniera forse meno programmatica, avvenne nelle altre regioni, soprattutto in Piemonte dove il movimento della resistenza prese subito un grande impulso e fu diretto con molto vigore.
Cominciarono subito i primi scontri. E i primi scontri sono stati atroci. Nella provincia di Cuneo si ebbero rappresaglie feroci. Nei tedeschi vi fu immediatamente il freddo, crudele proposito di estirpare sul nascere e dalle radici questo movimento partigiano. Nel Novarese, nel Bresciano, vi sono stati combattimenti accaniti, nei quali i nostri si sono portati generalmente bene e in alcuni punti molto bene. Avemmo perdite crudeli, ma acquistammo la convinzione che c’era in tutti una capacità combattiva ragguardevole e che il movimento insurrezionale, che si prevedeva immancabile, ci avrebbe trovato con le armi impugnate. Questa sensazione ci fece superare le prime incertezze e le grandi difficoltà incontrate e, passata questa prima fase di incertezze e di disorientamento, abbiamo cominciato il lavoro di organizzazione. Questo lavoro ha marciato piuttosto lentamente nell’inverno, per le difficoltà del soggiorno e della lotta sulle montagne. Non ci scoraggiammo e ci parve di aver raggiunto un risultato veramente notevole quando, nel febbraio ’44, potemmo annoverare circa novemila uomini raccolti in formazioni, per modo di dire, regolari. Da noi questi uomini erano male armati, meglio armati erano in Piemonte, dove i partigiani avevano potuto con maggiore facilità impadronirsi di armi. Ci pareva di avere già un esercito di una certa importanza, ma, passato l’inverno e divenuta più facile la vita dei partigiani nelle vallate, e avuti i primi lanci di armi e di equipaggiamenti dagli alleati, potemmo organizzarci meglio e le nostre file si accrebbero con rapidità.
Il governo fascista pensò allora di darci esso stesso un largo aiuto col richiamo delle classi: era tutta gente che accorreva a noi, ma non avevamo armi ed equipaggiamento sufficienti e l’afflusso di tanti nuovi elementi rappresentò per un certo tempo più un peso che una utilità. Disponemmo allora che si formassero nelle vallate dei campi di istruzione, ma questo nostro desiderio fu fortemente inceppato dal nemico che intensificò la lotta contro i partigiani. Fascisti e tedeschi, passato il primo momento di incertezza in cui non riuscivano ad afferrare il bandolo del movimento partigiano, si gettarono poi risolutamente alla offensiva con rastrellamenti su vasta scala e battute nelle montagne con reparti molto forti, provvisti di autoblinde e anche di cannoni. I risultati di queste offensive furono per noi disastrosi, ma il movimento partigiano era diventato ormai una specie di gramigna che non si sradica più: battuta una formazione in una zona, se ne riformava un’altra nella zona vicina e poco dopo risorgeva nella zona stessa ove prima era stata dispersa, tanto che nell’estate del ’44 potevamo contare su di un complesso di ottantamila partigiani raggruppati in bande che poi si accrebbero fino ad un massimo di centomila uomini un po’ meglio armati di prima. Le bande armate di montagna erano affiancate da formazioni territoriali di partigiani costituite nella pianura e sempre in aumento, tanto che nel colmo dell’estate raggiungemmo i duecentomila mobilitati cui si univano anche le formazioni cittadine.
Organizzazione militare del movimento partigiano
Eravamo intanto riusciti a dare una forma quasi regolare all’organizzazione militare. Il Comitato militare che si era costituito in un primo tempo fu da noi trasformato in Comando militare provvisto di regolari servizi: un ottimo servizio di informazioni degno di un esercito regolare, organizzato con grande ……….
…
BIOGRAFIA
Fu uno dei principali protagonisti dell’antifascismo in Italia. Rifiutata la tessera del PNF fu costretto a lasciare l’insegnamento e si dedicò subito all’attività di antifascista, per la quale fu più volte arrestato. Insieme ai Rosselli organizzò l’espatrio di Filippo Turati e Sandro Pertini. Negli anni Trenta mantenne i contatti con i gruppi antifascisti italiani che si erano formati in Francia, in particolare con Giustizia e Libertà. Dopo l’armistizio del 1943, con l’invasione dell’Italia da parte dei nazisti, fu uno dei capi e organizzatori della resistenza all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale. Diventò il leader del Partito d’Azione e nel 1945 fu Presidente del Consiglio. Il suo governo di unità nazionale però, lacerato dai contrasti tra partiti eterogenei, durò poco. Nel 1946 uscì dal Partito d’Azione e con La Malfa fondò il Partito della democrazia Repubblicana, che poi in seguito confluì nel Partito Repubblicano, e venne eletto come deputato nell’Assemblea Costituente. Fu senatore di diritto nella prima legislatura appoggiando il primo governo De Gasperi. Nel 1953 abbandonò il PRI, in contrasto con la decisione di votare la nuova legge elettorale definita poi “legge truffa”, e diede vita con Calamandrei al Movimento di Unità Popolare che, pur ottenendo un risultato elettorale deludente fu determinante per far mancare il quorum necessario per far scattare il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Nel 1963 venne nominato senatore a vita.
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), nato a Firenze nel 1917 da padre ebreo e madre cattolica (Fortini è il cognome della madre da lui adottato nel 1940), ha compiuto i suoi studi nella città natale laureandosi in lettere e in giurisprudenza. Espulso, in seguito alle leggi razziali, dall’organizzazione universitaria fascista, dopo l’8 settembre 1943 si trasferisce in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Dal l945 si stabilisce a Milano, sua città d’adozione e dove oltre all’insegnamento svolge molteplici attività di copywriter, consulente editoriale, traduttore e, infine, come docente universitario di Storia della Critica all’ Università di Siena. Tra le sue opere: “Foglio di via e altri versi”, Einaudi, Torino, 1946; “Agonia di Natale”, Einaudi, Torino, 1948; “Dieci inverni” (1947-1957), Feltrinelli, Milano, 1957; “Poesia ed errore (1937-1957)”, Feltrinelli, Milano, 1959;”Verifica dei poteri”, Il Saggiatore, Milano, 1965; “L’ospite ingrato”, De Donato, Bari, l966; “I cani del Sinai”, De Donato, Bari, 1967; “Questioni di frontiera”, l977; “Insistenze”, l985; “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, l995. Ha tradotto: M. Proust, “Albertina scomparsa”, Einaudi, Torino, 1952; e, dello stesso autore, “Jean Santeuil”, Einaudi, Torino, l953; Bertold Brecht, “Poesie e canzoni”, Einaudi, Torino, 1961; W. Goethe, “Faust”, Mondadori, Milano, 1970; “Il ladro di ciliege”, Einaudi, Torino, l983; “Composita solvantur”, Einaudi, Torino, 1994. Franco Fortini ha collaborato ad alcune tra le più importanti riviste del Novecento: a “Letteratura” (di Bonsanti) e “Riforma letteraria” (di Carocci e Noventa), sotto il regime fascista; e, dopo la guerra, a “Il Politecnico” (di Vittorini), “Ragionamenti” (da lui fondata nel l955 con L. Amodio, S. Caprioglio, e Roberto e Armanda Guiducci) “Officina” e “Comunità”, nonché a diversi quotidiani: dall’ “Avanti!” (di cui è stato redattore dal l945 al l948) al “Corriere della Sera”, al “Sole-24 0re”.
E’ morto a Milano nel l994.
Sonetto dei sette cinesi
Una volta il poeta di Augsburg ebbe a dire
che alla parete della stanza aveva appeso
l’Uomo del Dubbio, una stampa cinese.
L’immagine chiedeva: come agire?
Ho una foto alla parete. Vent’anni fa
nel mio obiettivo guardarono sette operai cinesi.
Guardano diffidenti o ironici o sospesi.
Sanno che non scrivo per loro. Io
so che non sono vissuti per me.
Eppure il loro dubbio qualche volta mi ha chiesto
più candide parole o atti più credibili.
A loro chiedo aiuto perché siano visibili
contraddizioni e identità fra noi.
Se un senso esiste, è questo.
(da L’ospite ingrato secondo, 1985)
Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.
Franco Fortini, Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più voce. Gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi, mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelle dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
1944/47
*
Scoprivi il mare di sera, era qua
e là verde, qua e là nero vino.
Un’alga lunga era quieta a mezz’acqua.
Così non visto muta un destino.
Non dava segno di vita la “monaca” violetta.
Poi si staccò, calò al fondo su ali eque.
Fu paura o che? Da allora tacque
la verità ma aspetta.
PER TRE MOMENTI
1
Queste foglie d’aceri e questa luce
mi rammentano che una volta sono stato
visitatore d’un santuario, viaggiando la Cina.
Era il mese di settembre, c’era una luce così.
Così le foglie nella valletta ventilata.
Indulgo ai cortili perfetti, indulgo alle carpe
che nelle vasche, se applaudi, salgono. Penso
che anime offese o vinte sempre così cercarono
di persuadersi. Perché in segreto le accusa
l’erba che fino a sera annuisce al vento?
2
Ma l’erba che fino a sera annuisce al vento
e devota sembra a morte consentire
ah non sa nulla delle anime ferite,
di quel loro cauto bramare quiete. E’ senza
mente, una pianta che pazienta, poco
diversa dall’insetto o dal rettile. Sono io
che la mia forma effondo
in quella definita forma e ingenuo credo
realtà la metafora.
Nega l’eterna lirica pietà,
mi dico, la fantastica separazione
del senso del vero dal vero
delle domande sul mondo dal mondo. Disperdi
la deliziosa nuvola del pianto
e fuor del primo errore procedi almeno.
Anche se non è tempo ancora di riposo,
se non è luogo ancora per la saggezza
e tu starai alla fine con un sorriso deluso
che gli altri bene vedranno tremando per sé.
3
Questo conosco nei chiostri chiari, nei santuari,
nelle perfette cavità lasciate dagli anni giovani.
Questo nel suo simbolo mi comanda
l’erba che il vento realmente consuma.
LE PICCOLE PIANTE…
Le piccole piante mi vengono incontro e mi dicono:
«Tu, lo sappiamo, nulla puoi fare per noi.
Ma se vorrai entreremo nella tua stanza,
rami e radici fra le carte avranno scampo».
Ho detto di sì a quella loro domanda
e il gregge di foglie ora è qui che mi guarda.
Con le foreste riposerò e le erbe sfinite,
vinte innumerabili armate che mi difendono.
Molto chiare…
Molto chiare si vedono le cose.
Puoi contare ogni foglia dei platani.
Lungo il parco di settembre
l’autobus già ne porta via qualcuna.
Ad uno ad uno tornano gli ultimi mesi,
il lavoro imperfetto e l’ansia,
le mattine, le attese e le piogge.
Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.
La forza di luglio era grande.
Quando è passata, è passata l’estate.
Però l’estate non è tutto.
Postfazione: Edoardo Albinati- Nota filologica: Demetrio Marra-
-Interno Novecento-
Descrizione della raccolta poetica di Ottiero Ottieri.La collana «Interno Novecento» riporta in libreria l’esordio in poesia, pubblicato nel 1971 da Bompiani, dell’allora già celebre narratore “industriale” Ottiero Ottieri. Una riedizione curata nei minimi dettagli, grazie ai contributi di Edoardo Albinati e Demetrio Marra, per un volume accolto dalla critica come «un libro bellissimo» (Pasolini) e un «oggetto bruciante […], alieno nel senso profondo» (Zanzotto). Un’opera prima nata da un’intuizione: per cogliere “dal vivo”, cioè osservandolo in atto, quindi esorcizzandolo, i meccanismi, i significati ritmici del pensiero ossessivo, per natura interrotto, lacunoso, “chiuso”, sono necessari i versi o le «righe corte», cioè la forma “chiusa” della poesia. La patologia viene esposta, allora, portata alla luce attraverso una scrittura paradossalmente non metaforica, quasi “filosofica”: l’autore si ricalca sul foglio, diviene personaggio in lotta con il cancro della mente, con le funzioni perverse che soffocano quelle sentimentali e sessuali. Al centro il dubbio: «Dal dubbio deve essere / occupata la mente. / Altrimenti che pensa la mente? / Che fa la mente imperplessa?».
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
lasciatogli libero dal pensiero ossessivo.
Cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo.
Non lavora, non esce, non mangia,
all’infinito perfeziona la tessitura d’aria
con un’aderenza perfetta
schiacciata incollata alla cerebrale
spoletta. Schifiltosità disperata
verso ogni dolce contaminazione,
non guarda, non tosse, immobile e puro
sfuggendo la pena che avvampa
dopo il barlume d’una distrazione. Se si accantona, se schiaccia.
la molla del dubbio, scatta
più forte, il velo opaco che era
nella scatola della testa
si indurisce, il dubbio marrone
scuro picchia da sinistra e da destra.
Sensazionale è nel letto la notte dello scoppio
(precedente per l’obbligo
real mentale
la scelta obbligatoria). È bianca,
lunga, corta, morta,
piena di pantere e di germi,
precipita, ferma sbarra gli occhi al traguardo.
Si sbatte, arranca, fila.
Fruga prevede cieca
nella visione storta
del mattino,
se sceglie si condanna,
la non scelta è dannata.
Scrive del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
roso, dal margine sfilacciato e breve:
impegnata, tesa è la testa nella notte,
inutile il corpo, l’istinto morto,
e misterioso, il buio
istinto del cervello trivella
l’aria e il tempo. Acrobatico cervello
esteso fino allo stiramento
della carnale propria ineffabile
estensività per toccare la cosa
assente
la cosa
opposta. È vicino
il mattino e più soffia vicino
più la spoletta urge e s’avventa
nella testa, meno la mesta
rassegnazione imbalsama la festa del dubbio.
Dà questo dubbio finali squilli,
cunei di ghisa, enormi spilli.
Tesa è la notte ossessiva mentre il resto
del mondo riposa, tesa e non si rompe:
il tempo invincibile gomma,
il tempo che come il dubbio
pompa il pensiero nero.
Continua la notte illuminata
dalla fiamma ossidrica della
mente tramortita e accesa.
La scadenza, l’alba
fende l’esistente.
Nudo il cervello si muove e sposta coi sussulti,
le esplorazioni da faro dell’ossessione impaziente,
perché la gente aspetta. Non può aspettare la gente
il figlio del travaglio
mongoloide forgiato dal maglio
che fora il tubo di ferro e d’aria.
Troppo corta è sempre la notte
per il pensiero ossessivo, di natura
infinito. Il pensiero
ossessivo pensa sempre più dentro
e sempre più fuori del mondo
perché la decisione interiore
sia più acuta
e meno sussultorio il risveglio.
Meglio non dormire che svegliarsi.
Scatenata è la sindrome. La depressione
sotterra vivacissimo il dubbio, lo slarga,
l’ansia lo piglia per le due
corna e lo sbatte per lo spazio mentale
percuotendo il vuoto pieno di segretissimi
lampi, di qualche cenere, di soffocato fuoco
del più acre pensiero umano.
L’uomo a letto immobilizzato
tutto pensa la ridicola decisione.
È l’ora di essa. Un corno
del dilemma si drizza: ha vinto senza catarsi,
maturazione autonoma e sfuggente,
ei non sa bene perché ha vinto.
Per l’antica coazione
che non apre l’orizzonte del mare,
mare del nascimento? destino.
L’uomo s’alza pesante sotto il piombo
della riserva mentale, sotto
la rinuncia che scuce il cervello.
Appare come pigrizia!
Esce fosco nei trattenuti sussulti
della psiche bevuta durante il trasporto,
avvelenato dall’idea
irrealizzata, avversa nel suo comportamento perverso,
trainato dalla decisione immatura,
slogato dal corno trascurato che tira
verso una mira già diventata ideale,
la mira che non s’avvera,
in una mattina di repellente cera.
la molla del dubbio, scatta
più forte, il velo opaco che era
nella scatola della testa
si indurisce, il dubbio marrone
scuro picchia da sinistra e da destra.
Sensazionale è nel letto la notte dello scoppio
(precedente per l’obbligo
real mentale
la scelta obbligatoria). È bianca,
lunga, corta, morta,
piena di pantere e di germi,
precipita, ferma sbarra gli occhi al traguardo.
Si sbatte, arranca, fila.
Fruga prevede cieca
nella visione storta
del mattino,
se sceglie si condanna,
la non scelta è dannata.
Scrive del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo
roso, dal margine sfilacciato e breve:
impegnata, tesa è la testa nella notte,
inutile il corpo, l’istinto morto,
e misterioso, il buio
istinto del cervello trivella
l’aria e il tempo. Acrobatico cervello
esteso fino allo stiramento
della carnale propria ineffabile
estensività per toccare la cosa
assente
la cosa-
Biografia di Ottiero Ottieri (Roma, 1924 – Milano, 2002)si trasferisce a Milano nel 1948, dove lavora come giornalista. Dal 1953 è “psicotecnico” alla Olivetti. Dopo l’esordio “Memorie dell’incoscienza” (Einaudi, 1954) Ottieri pubblica “Tempi stretti” (Einaudi, 1957), primo libro “industriale”, a cui seguono Donnarumma all’assalto (Bompiani, 1959) e La linea gotica (Bompiani, 1962). Dopo aver collaborato alla sceneggiatura di “L’eclisse” (1962) di Michelangelo Antonioni scrive “L’impagliatore di sedie” (Bompiani, 1964). Negli anni Sessanta vince il Premio Viareggio con “L’irrealtà quotidiana” (Guanda, 1966), inaugurando la scrittura “psicologica”. Nel 1968 per Bompiani esce I divini mondani. Dopo il lungo ricovero in clinica due libri: “Il pensiero perverso” (Bompiani, 1971), l’esordio poetico, e “Il campo di concentrazione” (Bompiani, 1972). In versi scriverà “La corda corta” (Bompiani, 1978), “Vi amo” (Einaudi, 1988), “L’infermiera di Pisa” (Garzanti, 1991), “Il palazzo e il pazzo” (Garzanti, 1993), “Storia del PSI nel centenario dalla nascita” (Guanda, 1993), “La psicoterapeuta bellissima” (Guanda, 1994), “Diario del seduttore passivo” (Giunti, 1994), fino al prosimetro “Il poema osceno” (Longanesi, 1996). Parallelamente, coltiva la scrittura in prosa, nella quale spiccano per esempio “Contessa” (Bompiani, 1976), “Improvvisa la vita” (Bompiani, 1987) e De Morte (Guanda, 1997), fino a “Un’irata sensazione di peggioramento” (Guanda, 2002).
Piero Calamandrei- Uomini e città della Resistenza-
Discorsi, scritti ed epigrafi
a cura di Sergio Luzzatto, prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Editori Laterza-Bari
Il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Noi non dimentichiamo.Piero Calamandrei.. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata.Carlo Azeglio Ciampi.Uomini e città della Resistenza, pubblicato una prima volta nel 1955, in occasione del decennale della Liberazione, ha il merito di individuare una fra le dimensioni fondamentali della Resistenza: la sua natura tellurica, il legame
Non piangetemi, non chiamatemi povero.
Muoio per aver servito un’idea.
Guglielmo Jervis
VIVI E PRESENTI CON NOI
FINCHÉ IN LORO
CI RITROVEREMO UNITI
MORTI PER SEMPRE
PER NOSTRA VILTÀ
QUANDO FOSSE VERO
CHE SONO MORTI INVANO
Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi
Mi compiaccio vivamente della decisione dell’Editore Laterza di ripubblicare il volume Uomini e città della Resistenza di Piero Calamandrei, a cinquant’anni dalla prima edizione, e nel cinquantesimo, anche, della morte dell’Autore.
A distanza di mezzo secolo, questa raccolta di discorsi, scritti ed epigrafi di Piero Calamandrei su uomini ed eventi della Resistenza ci appare, se possibile, ancor più attuale. È una testimonianza diretta, e al tempo stesso una riflessione su quella che fu l’ispirazione profonda della Resistenza, il carattere «religioso e morale, prima che sociale e politico» che essa ebbe, nella concezione, e nell’esperienza, di Piero Calamandrei; il suo essere stata, «più che un movimento militare, un movimento civile».
Questo volume raccoglie testi che l’Autore scrisse tra il 1944, subito dopo la liberazione di Firenze, e il 1955. Si rileggono con commozione sia i discorsi e gli scritti, sia le bellissime e famose epigrafi da lui dettate per monumenti della Resistenza. Subito dopo la Liberazione, Calamandrei venne chiamato ripetutamente, in diverse «città della Resistenza», per parlare della Resistenza. Ho ancora un vivido ricordo di un discorso da lui pronunciato a Livorno, nel 1945. Quel discorso non compare in questa raccolta, pur vasta e ricca: ma in essa ho ritrovato diverse riflessioni che non avevo dimenticato.
Lo ascoltavamo allora con una passione che questi scritti, a distanza di oltre mezzo secolo, suscitano ancora in me. Così come sollecitano una rinnovata riflessione su ciò che fu, e su ciò che ci ha lasciato, la Resistenza; che cosa «è rimasto di vivo della Resistenza nelle nostre coscienze».
Questa è la domanda che lo stesso Calamandrei si poneva nel testo con cui si apre questa raccolta – il discorso del 28 febbraio 1954, tenuto a Milano alla presenza di Ferruccio Parri. Cinquantuno anni dopo, sono tentato di dare una risposta forse più fiduciosa di quella che allora proponeva lo stesso Calamandrei.
Le solenni cerimonie tenute a Roma e a Milano, al Quirinale e in Piazza del Duomo, nel sessantesimo anniversario del 25 aprile 1945; le innumerevoli altre occasioni in cui ho partecipato, come Presidente della Repubblica, a commemorazioni di eventi tragici o gloriosi della Resistenza (ricordo per tutte la visita-pellegrinaggio a Marzabotto, compiuta con al fianco il Presidente tedesco Rau, nell’aprile 2002); l’appassionata partecipazione popolare a tutte queste manifestazioni, mi dicono che la Resistenza è ancora viva nella memoria degli Italiani.
Questa memoria è fondamento della nostra passione per la libertà. Dalla Resistenza discende la Carta costituzionale, garante dei diritti democratici per tutti gli Italiani, di ogni parte politica. Coloro che in quella lotta diedero la loro vita vollero un’Italia libera e unita. Il loro sacrificio ci insegna la concordia, insieme con l’amore per la Repubblica democratica.
Dalla Resistenza discende anche la nostra scelta europeista, stella polare, ancora oggi, della politica dell’Italia repubblicana.
Noi non dimentichiamo. A noi, i sopravvissuti, è toccata la fortuna di essere partecipi di una grande rinascita democratica della nostra Patria; partecipi altresì della miracolosa costruzione di una unione di Stati e di popoli, che assicura a tutte le nazioni europee, dopo millenni di guerre, una pace irreversibile. C’era, in quegli anni di durissime prove, fra tante tragedie e lutti, una speranza nell’aria. Possiamo affermare oggi che in larga parte quella speranza si è realizzata. Il ricordo della Resistenza incita ad andare avanti sulla strada intrapresa.
Giugno 2005
Introduzione di Sergio Luzzatto
Sul Calamandrei fondatore dell’epos resistenziale circola una sorta di vulgata, il cui primo artefice e propagandista è stato il più illustre fra i suoi allievi spirituali, Norberto Bobbio. Seguace politico del «maestro e compagno» dal 1945 in poi, oltreché collaboratore assiduo del «Ponte», Bobbio ha tenuto a presentare quello di Calamandrei con la Resistenza come un incontro naturale, quasi obbligato. «Dal suo rifugio in un piccolo paese dell’Umbria, seguì con trepidazione, con fierezza, con struggimento, la crescita del movimento partigiano, la graduale trasformazione dell’insurrezione popolare in guerra di liberazione», si legge nell’introduzione di Bobbio agli Scritti e discorsi politici di Calamandrei. «Nacque in lui durante quei mesi il sentimento di ammirazione e di gratitudine per l’Italia del popolo, che avrebbe trasfigurato la guerra di liberazione in epopea popolare e dato impeto, vigore, forza di persuasione e di commozione, ai discorsi coi quali sarebbe passato di città in città per celebrarla».
Le cose furono più complicate di così. Fra 1943 e ’44, a dispetto del suo viscerale antifascismo, Calamandrei esitò a riconoscere nei partigiani i giusti vendicatori di un popolo oppresso, i sospirati eroi di una guerra di liberazione nazionale. Beninteso, non si tratta qui di fargliene rimprovero: meno che mai al giorno d’oggi, quando una nuova storiografia va finalmente ragionando sul carattere tutt’altro che lineare del rapporto intercorso fra l’antifascismo politico e la lotta armata. Piuttosto, si tratta di risalire alle origini dell’apparente paradosso per cui il più tenace forgiatore del mito della Resistenza poté assistere alla nascita del movimento partigiano non soltanto senza contribuirvi di persona, ma considerandolo con sufficienza o addirittura con diffidenza. Si tratta di individuare le molteplici ragioni (ideologiche o psicologiche, confessate o segrete, politiche o personali: insomma pubbliche e private) che spinsero un antifascista integrale come Calamandrei ad accogliere la Resistenza senza sollievo, quasi a malincuore. Si tratta di scoprire per quali vie egli sarebbe giunto a imboccare, dopo il 1944, la strada maestra dell’epica. Infine, si tratta di chiedersi se la memoria della Resistenza possa sopravvivere, fin dentro il nostro ventunesimo secolo, declinata nella forma che fu più cara a Calamandrei: come una necrologia prima ancora che una mitologia.
1. L’altra patria
Risalire all’8 settembre 1943 non basta a rendere conto di questa storia. Data fatidica per quanti si trovarono a viverla da ventenni o poco più (per la generazione cui apparteneva il figlio stesso di Calamandrei, Franco), l’8 settembre non rivestì un significato altrettanto epocale per la generazione dei padri: per chi, come Piero, ne fece esperienza a cinquant’anni suonati da un pezzo. Nella sensibilità di questi ultimi, che si erano fatti adulti nelle trincee della Grande Guerra e per cui il ventennio fascista aveva coinciso con la maturità, la data decisiva va situata fra il 1939 e il ’40: quando dapprima la prospettiva, poi la realtà della seconda guerra mondiale aveva obbligato tutti i padri di famiglia italiani, o almeno i più consapevoli tra loro, a fare i conti con se stessi e con la propria vita. Nel caso di Piero Calamandrei, il momento decisivo – quello senza capire il quale nulla si intende di lui negli anni successivi – era scoccato nel mese di maggio del 1940: dunque in anticipo sul 10 giugno, sull’entrata in guerra dell’Italia. A stravolgere la sua esistenza era stato il crollo della Francia, la caduta della Terza Repubblica a fronte del Terzo Reich.
Strumento imprescindibile per ritrovarne la vita interiore, il diario di Calamandrei attesta senza equivoci la portata del trauma. 13 maggio: «La morte è sulla Francia e sul Belgio, sulla nostra famiglia, sulla nostra patria che è là». 18 maggio: «Se sapessi pregare oggi pregherei in ginocchio per la Francia». 24 maggio: «I giorni trascorsi dal 19 a oggi sono i giorni più angosciosi della mia vita»; «finita la Francia è come se fosse spento il sole: non si vedranno più i colori». Per chi ricordava di avere vissuto, venticinque anni prima, un ben diverso 24 maggio («la notte fummo fino a tarda ora a cantare Trento e Trieste per le vie del centro»; «si andava con la Francia, contro gli assassini del Belgio»), riusciva sin troppo naturale di ravvisare nella tragedia francese la propria tragedia. Durante le settimane seguenti la fine della drôle de guerre, quando le fortificazioni della linea Maginot si rivelarono pateticamente inadeguate a contenere il Blitzkrieg hitleriano, Calamandrei sperimentò – in fondo – qualcosa come la morte della patria. E dopo il 10 giugno, considerò un sesto atto del dramma il fatto che l’Italia di Mussolini infierisse sulla Francia pugnalandola alle spalle.
«Peggio di questo nulla potrà accadere: né mai più vergogna di così»: l’angoscia non velava lo sguardo del compilatore del diario, nell’ora in cui pure sentiva che si era toccato il fondo. Con una lucidità che pareggiava lo sgomento, Calamandrei avvertiva come da quell’abisso, individuale e collettivo, si potesse soltanto risalire. Qui va riconosciuto, in effetti, l’inizio della sua nuova vita interiore e, alla lunga, della sua nuova vita pubblica. Non a caso, esattamente tra il maggio e il giugno del ’40 le pagine del diario si infittiscono di appunti sopra un tema che diventerà capitale per lui: il rapporto fra politica e religione. Stimolato dal dialogo con uomini di lettere come Pietro Pancrazi e Luigi Russo, il giurista fiorentino prende allora a meditare intorno ai nessi tra morale laica e fede cristiana, giustizia umana e giustizia sovrumana: secondo parole sue, tra le mischie dell’aldiqua e la credenza nell’aldilà, fra i moventi del terreno operare e i risarcimenti di un ultraterreno sopravvivere. Da allora Calamandrei si interroga sulle virtualità di quanto chiama (memore forse di Péguy) una mistica, mentre altri l’avrebbero detta una religione civile. E da allora si affatica intorno al modo di rendere la patria agli italiani attraverso un sacrificio originario, un olocausto glorioso.
I martiri di una qualche forma di resistenza vengono da lui invocati ben prima della Resistenza. Eccolo – in quel solito, cruciale mese di maggio 1940 – discorrere con Guido Calogero sui valori da contrapporre agli appetiti hitleriani, alla furia animalesca della conquista e della violenza: «Ci vorrebbe un cristianesimo eroico, con martirî e supplizi». Eccolo annunciare a Pancrazi che, presto o tardi, sarebbe toccato in sorte agli italiani «un urto a morte con i tedeschi»: e che l’unica opportunità per vincere sarebbe venuta non già dal diffondere fra le masse gli ideali liberali, ma dal risuscitare in esse «la fede cristiana dei primi martiri». Lungi da Calamandrei la tentazione di convertirsi al cristianesimo; anzi, agli amici egli confessava di allontanarsene sempre più a misura che l’invecchiare gli andava rivelando, con l’irrazionalità della vita, la vanità di ogni speranza postuma. La religione petrina gli appariva né più né meno che come un instrumentum regni: l’unica arma disponibile per sottrarre gli italiani al tallone dei nuovi Unni, a un futuro di schiavitù sotto i barbari ritornati.
Durante gli anni successivi, Calamandrei approfondì la propria riflessione sia sul ruolo politico della religione, sia sui modi per sollecitarlo nella storia. E se dobbiamo giudicare dal diario e dall’epistolario, sempre più egli lo fece nella forma di un congedo intellettuale da Benedetto Croce (cui pure capitava di frequentare l’eletta schiera di umanisti che si riunivano intorno a Calamandrei nella sua nuova casa in Versilia, a Marina di Poveromo). L’intero sistema crociano dei rapporti fra storia e morale, critica e azione, giudizio e fede, gli sembrò spaventosamente inadeguato all’ora presente: quasi un incitamento all’indifferentismo o, peggio, al collaborazionismo. L’atteggiamento stesso di un Russo, che rimproverava a Calamandrei la sua fede «esclamativa» e lo canzonava quasi fosse un catecumeno, gli parve un gesto di remissività che sconfinava nella vigliaccheria. Per tutta risposta, il giurista prese a carezzare l’idea di un’estetica così anticrociana da riuscire, in se stessa, una politica.
C’è una lettera, risalente all’agosto 1941, che dice molto del Calamandrei di allora e della sua evoluzione di poi. A Pancrazi – il confidente più intimo di quel giro di anni – egli spiegava di apprezzare enormemente lo «stile mazziniano» di Giani Stuparich nel suo ultimo libro dedicato all’esperienza della Grande Guerra; e di valutarne come massimo pregio proprio il «carattere oratorio», perché la vera arte non si contenta di esprimere gli umani sentimenti, ma sceglie di stabilire una gerarchia fra essi, «in modo da far apparire in primo piano soltanto i sentimenti grandi ed eterni». Il romanzo di Stuparich, dove pure il lavoro della fantasia tendeva a prevalere sui depositi della memoria, era un libro sui due volti della guerra triestina: da una parte i volontari al fronte, dall’altra la città in attesa. Per parte sua, Calamandrei trovava istintivo di leggerlo confrontando la poesia del «maggio radioso» alla prosa dell’attualità italiana, e sospirando il giorno in cui giovani allevati da balilla si sarebbero dimostrati altrettanto capaci dei loro padri di immolarsi per la patria.
2. I «pietromicchismi» che fanno la storia
Il futuro cantore dell’epopea partigiana non aveva atteso dunque la caduta del fascismo e l’armistizio con gli Alleati – la tragedia necessaria del suo paese – per arrovellarsi intorno alle questioni decisive del dopo 8 settembre: il problema morale della scelta, la funzione storica dell’esempio, il carattere trascendente del sacrificio.
In un appunto del diario vergato nell’estate dello stesso 1941, Calamandrei si era interrogato sull’olocausto personale di Lauro de Bosis (una figura che sarebbe ritornata a occuparlo in Uomini e città della Resistenza). Quale significato poteva mai rivestire, nella storia politica e civile d’Italia, il gesto del giovane aviatore dilettante che in un giorno d’ottobre del 1931 aveva sfidato l’Aeronautica di Balbo per lanciare nei cieli di Roma quattrocentomila volantini di tenore antifascista, salvo inabissarsi nel Tirreno lungo la rotta di ritorno verso la Costa Azzurra? Tanto gravida di intenzioni quanto leggera di effetti, la missione aerea era valsa forse a riflettere la superiorità etica dell’antifascismo sul fascismo? De Bosis andava considerato un eroe estemporaneo ma possibile, un Pietro Micca del ventesimo secolo? Sì, aveva risposto Calamandrei a se stesso. Perché «sono questi pietromicchismi che fanno la storia», ed «è alla fine che bisogna giudicarli».
Poche settimane più tardi, il 13 luglio 1941, il diario del giurista aveva registrato un impressionante vaticinio su quanto sarebbe effettivamente avvenuto fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. Il popolo italiano – profetizzava Calamandrei – non sarebbe stato capace di compiere da solo una rivoluzione antifascista. Il regime di Mussolini sarebbe stato tuttavia rovesciato, non appena gli anglo-americani avessero preso il sopravvento sui tedeschi nella guerra mondiale: gerarchi fascisti quali Grandi e Bottai, d’accordo con Casa Savoia, avrebbero organizzato un colpo di stato contro Mussolini e i suoi compari più stretti. Infine, nell’ultimo periodo del conflitto mondiale, l’Italia sarebbe entrata in guerra contro la Germania. Nella prospettiva di un tale futuro, Calamandrei aveva smesso di invocare dai soli giovani il coraggio della scelta militante, aveva formalmente rinunciato alla soluzione di comodo della delega: «allora – si era impegnato – anche noi vecchi andremo volontari».
Lasciamo trascorrere ventiquattro mesi debordanti di storia e di sangue, per ritrovare Calamandrei esattamente due anni dopo, il 13 luglio 1943. Come sempre d’estate, il professore fiorentino sta alloggiando nella bella casa versiliese del Poveromo, ch’egli ha fatto costruire da poco secondo i dettami della più ortodossa architettura modernista. Senonché la sua non somiglia affatto a una villeggiatura. Tre giorni prima, gli Alleati sono sbarcati in Sicilia. Alla radio, Calamandrei segue con animo sospeso l’avanzata degli anglo-americani «sulle terre ove sbarcò Garibaldi» (mentre «ogni città che il nemico conquista […] pare che sia una città liberata…»). Molto più vicino a lui, lungo le strade stesse della Marina di Poveromo, un altro nemico – il medesimo della Grande Guerra, il nemico ereditario – si prepara al tradimento dell’alleato italiano, serra le file nell’imminenza di un’occupazione militare:
Stamani un reparto in armi faceva esercitazioni qui sul vialone: non potevo lavorare a sentire quei comandi secchi come starnuti rientrati. Sono sceso a vedere dietro la siepe. Facevano ordine chiuso e ordine sparso colla maschera antigas a proboscide: mostruosi, sotto gli elmi col viso a scheletro di gorilla. A un certo punto il plotone si è ricomposto, e colle maschere sul viso si son messi in marcia per tornare all’accampamento, e il tenente, senza maschera lui, ha dato lo scatto del coro: cra-cra-cra. E allora s’è sentito questo coro cantato dentro le maschere: lontano, funebre, con quel tremolio metallico che hanno le musiche rimaste chiuse dentro una scatola. Uno spettacolo terribile questo corteo di scheletri che si allontanava cantando con voce remota, soffocata, come quella dei fantasmi che viene dall’altro mondo: questo è proprio il simbolo della marcia della Germania.
In tale manovra del luglio 1943 sembra già di riconoscere i tedeschi dell’estate successiva: quei soldati freddi e fieri, insieme robotici e nibelungici, che faranno strage di italiani anche nelle immediate vicinanze del Poveromo, a Vinca, alle Fosse del Frigido, a Sant’Anna di Stazzema. E la penna di chi li descrive sembra già possedere la qualità icastica, lapidaria, della sua scrittura post-bellica. Ma quest’ultima è solo un’impressione, poiché l’urgenza dell’ora batte alle porte della casa di Calamandrei, vietandogli il distacco pensoso e solenne del moralista. «Sulla strada corrono motociclisti coll’elmetto prussiano che abbiamo imparato a odiare nell’altra guerra»: nascosto dietro la siepe, il compilatore del diario si accorge di spiarne le mosse come il soldato nascosto dietro una macchia sorveglia i movimenti del nemico da uccidere, o da cui essere ucciso.
Il fotogramma successivo ci porta – tre mesi dopo – in un’altra casa dei Calamandrei, non fresca di calce, questa: la casa avita di Montepulciano, dove il piccolo Piero era stato cresciuto all’«arte magica della scrittura» grazie alla scuola estiva del nonno, magistrato a riposo. Per intanto, in Italia è successo di tutto. Mussolini è stato deposto dal colpo di stato del 25 luglio, imprigionato dapprima a Ponza, poi alla Maddalena e quindi al Gran Sasso, liberato da paracadutisti tedeschi per dirigere una Repubblica di Salò nei fatti asservita al Terzo Reich. Badoglio ha tergiversato per quarantacinque giorni dopo la nascita del suo governo, prima di decidersi a sottoscrivere con gli Alleati un gravoso armistizio. Quanto a Calamandrei, ha fatto appena in tempo, dopo la caduta del fascismo, a indossare le vesti di rettore dell’università di Firenze, prima di doverne scappare a causa dell’occupazione tedesca. Presto, il ritiro stesso di Montepulciano riuscirà insidioso per un docente da sempre nel mirino dei fascisti fiorentini, obbligandolo a fuggire anche da lì per riparare presso parenti a Colcello Umbro, nel Ternano. Già il 12 settembre la villa del Poveromo è stata sequestrata da militari tedeschi, che ne hanno fatto un alloggio per il loro comando. Eppure, quando ci ripensa, quando pone mente alle circostanze frenetiche quanto patetiche del passaggio di consegne dai legittimi proprietari ai profanatori germanici, Calamandrei non può fare a meno di riconoscere come si tratti – in ultima istanza – di una «giusta sanzione». Troppo bella la villa del Poveromo, per meritarla nello sfacelo d’Italia. E troppo drammatica la rovina della nazione, perché al prof. avv. Calamandrei non toccasse di condividerla con milioni di altri perseguitati o fuggiaschi.
È un uomo altero quello che si china sul proprio diario in questo 9 ottobre 1943. Più che sull’ingrato destino del Poveromo, egli riflette sul bisogno di «armare un esercito» che combatta la Germania anche quando l’occupante sarà stato ricacciato oltre l’Appennino e le Alpi: «un esercito di volontari» che siano «pronti a sacrificarsi a centinaia di migliaia». Soltanto così, precisa Calamandrei, l’Italia avrebbe potuto redimersi: «altro sangue, altre stragi per lavare altro sangue e altre stragi…». Tuttavia, l’uomo che dalla sua casa di campagna va baldanzosamente programmando tale levée en masse (mai e poi mai «far finire tutto senza sangue, senza tragedia, senza possibilità di fare i conti») è il primo a non sentirsi sicuro che i connazionali rispondano presente al nuovo appello delle armi. Annota sul diario, subito dopo aver discettato dell’esercito di volontari:
Pancrazi mi scrive una cartolina ottimistica: dice che attraverso questi febbroni il ragazzo rifarà le ossa. Ma per rifar le ossa ci vuole il midollo: c’è il midollo in questa Italia? Non so, a me par di vedere in tutti, nei giovani e nei vecchi, una generale rassegnazione, un desiderio di non morire: di scegliere sempre, a ogni bivio, la strada che porta alla viltà pur che viva, anziché alla dignità con pericolo di morte. Anche ai giovani migliori manca forse, per la nostra civiltà, questa capacità quasi meccanica di esercitare la violenza, di far saltare il ponte, di uccidere il tedesco: questa mollezza umanitaria che ci fa impietosire dinanzi al sangue porta con sé una fiacchezza svirilizzata che per esempio non hanno i croati e i serbi, meno civili ma aspri e inflessibili.
Così, mentre la Resistenza italiana andava muovendo i primi difficilissimi suoi passi, colui che – ex post – meglio di ogni altro avrebbe saputo dirne la necessità o addirittura la poesia, consegnava al prudente segreto di un diario la più scorata tra le professioni di impotenza.
3. Guerriglia civile
Alla Resistenza Piero Calamandrei non andò volontario, come pure si era ripromesso. Trascorse a Colcello Umbro il periodo compreso fra l’ottobre 1943 e il giugno ’44, quando l’avanzata anglo-americana diede luogo alla liberazione di gran parte dell’Italia centrale; dopodiché visse tra Roma e Firenze, ormai da leader politico dell’Italia nuova, i dieci mesi necessari perché l’azione congiunta degli eserciti alleati e delle brigate partigiane sfociasse nell’insurrezione popolare dell’aprile 1945. Nel frattempo, i «giovani migliori» del paese – gli stessi che a Calamandrei erano sembrati affetti da una «fiacchezza svirilizzata» – intrapresero la via della lotta armata, compirono la scelta di «uccidere il tedesco»: e l’unico figlio suo, Franco, contò tra i loro capi.
Inutile almanaccare qui sulle ragioni che dissuasero Calamandrei padre da un impegno diretto nella Resistenza. Forse, cinquantaquattro anni gli parvero troppi per vivere un’esperienza fondamentalmente giovanile come quella della macchia. O forse, più semplicemente, prevalse in lui il «desiderio di non morire». Certo è che gran parte della successiva evoluzione psicologica e ideologica di Calamandrei – sia nel rapporto con il figlio, sia in quello con la patria – avrà a che fare con questo atto mancato: con la sua non-resistenza. Le pagine stesse, famose, sulla «desistenza» dell’Italia degasperiana, acquistano intero il loro senso se le si rilegge non soltanto come una critica, ma anche come un’autocritica: perché il demone della desistenza si era annidato, tra 1943 e ’44, fin nel cuore di Calamandrei. Da qui, nel resto del tempo che gli restava da vivere (lo straordinario decennio in cui il noto avvocato e il colto giurista si sarebbero trasformati in ben altro: nell’uomo politico, nel legislatore costituente, nel venerando epigrafista, insomma nel «padre della patria»), qualcosa di più, in Calamandrei, che una vaga nostalgia per l’azione non compiuta, del genere di quella che l’amato Carducci si era trovato ad avvertire per i fasti del Risorgimento. Piuttosto, si direbbe, un vero e proprio senso di colpa: e l’elaborazione di qualcosa come una strategia destinata a sublimarlo.
È ancora dal Diario che bisogna partire, se si vuole riconoscere gli ingredienti essenziali di questa vicenda. In particolare, si tratta di riprendere in mano le tante pagine che Calamandrei vergò a Colcello durante la sua stagione da sfollato. Sono questi, del resto, gli unici frammenti del journal intime ch’egli avrebbe deciso di pubblicare da vivo, sul «Ponte», nel 1954; ma in una versione fortemente ridotta, e dove l’autore avrebbe comunque rinunciato a trascrivere i passi più significativi e più gravi, i più rivelatori dello stato d’animo ch’era stato il suo quando in Italia infuriava la guerra civile. A cominciare dal dubbio che lo aveva assalito non appena giunto a Colcello, dopo la fuga da Montepulciano: «Come sarà giudicata questa mia assenza?». «Quale sarà la mia situazione, dopo che ho tagliato i ponti così, e creato a me stesso questa situazione singolare di fuoruscito in patria?». Quello di Calamandrei non era solo, evidentemente, lo scrupolo del pubblico funzionario lontano dal suo posto di lavoro all’università, né solo il fastidio del libero professionista costretto a sospendere la pratica forense; era anche, più in profondità, il disagio dell’antifascista consapevole di mancare all’appuntamento con la storia. «Questa mia assenza da Firenze sarà quasi da tutti interpretata per fuga e viltà. E si dirà che nei momenti del più cupo dolore, quando nella mia città tutte le persone di buona volontà tenevano il loro posto, io ho disertato».
Neppure per un istante, nei nove interminabili mesi in cui rimase nascosto a Colcello Umbro, un uomo con la moralità (e con le ambizioni) di Calamandrei poté celare a se stesso quanto vi era nella sua condizione di sorprendente e, in fondo, di deludente. Lui, l’antifascista della prima ora, il sodale dei fratelli Rosselli, l’erede fiorentino di Salvemini come simbolo della resistenza culturale alla dittatura; lui, cui l’intellighenzia liberalsocialista e la dirigenza azionista guardavano come a un sicuro primattore sulla scena dell’Italia nuova, ridotto alla striminzita quotidianità di una vita da sfollato «che si interessa del proprio sonno e della propria digestione, collo scaldino e colla candela che puzza di moccolaia». Certo, quando più nettamente prevaleva in lui un umanissimo istinto di conservazione, Calamandrei confidava al diario niente più che il sollievo di esserci ancora: «basta vivere, per ora…» (non diversamente, nella Francia del Termidoro, l’abate Siéyès aveva replicato con tre sole parole a chi gli chiedeva ragione della sua eclissi sotto il Terrore: J’ai vécu…). Ma almeno altrettanto spesso, Calamandrei era abitato dalla «pena» e assediato dall’«umiliazione». Che cosa avevano materialmente fatto, lui e quelli come lui, per far cadere il fascismo? E adesso, che cosa andavano concretamente facendo per combattere il nazifascismo? «Parole e parole: non uno che si faccia uccidere, non uno che sia pronto a dare un esempio di sacrificio personale. Sempre gli stessi: e io che scrivo, con loro». La vergogna di Calamandrei, il suo tormento, era scoprirsi incapace di qualunque pietromicchismo.
Quando poi, all’uscita dell’inverno 1943-1944, fu dato al profugo di Colcello di cogliere i primi segnali di un progressivo organizzarsi della Resistenza, non per questo egli ne trasse immediato conforto. Il 16 marzo lo raggiunse la notizia dei gravissimi scontri di Poggio Bustone, presso Rieti: dove un commando partigiano aveva attaccato un contingente della Guardia nazionale repubblicana seminando la morte nei ranghi fascisti. Sia la temerarietà dell’azione compiuta dalla brigata Gramsci, sia la ferocia con cui la popolazione locale si era accanita contro i cadaveri dei militi sarebbero rimaste lungamente impresse nella memoria collettiva degli abitanti del Ternano: a Poggio Bustone, la Resistenza dell’Italia centrale aveva conosciuto il suo battesimo di sangue. Ma Calamandrei, sfollato poco lontano, non maturò dell’episodio che un’immagine tanto più negativa quanto più la sua visione delle cose riusciva laterale e distorta. «La gente scappa da Rieti, terrorizzata da questa guerra civile»; «questi ribelli sono comandati, a quanto si dice, da ufficiali inglesi: salutano col pugno chiuso. In una scaramuccia sono stati fatti prigionieri un gruppo: su settanta, cinquanta erano tedeschi disertori!». Pugni chiusi, ufficiali inglesi, disertori tedeschi: nell’isolamento di Colcello, un intellettuale raffinato come Calamandrei si trovava a dipendere totalmente dal chiacchiericcio popolare, dall’immancabile rincorrersi bellico di voci, notizie false, leggende.
Il sor Piero (come gli abitanti del villaggio avevano l’abitudine di chiamarlo) risultava tributario dei «si dice» anche nella rappresentazione delle brigate partigiane come un movimento surrettiziamente infiltrato dal comunismo russo. Era con la falce e martello ricamata sui berretti che i «ribelli» si avvicinavano sempre più ad Amelia, dunque a Colcello! «Giorni fa hanno catturato e tenuto tre giorni sotto accusa di essere fascista un omino che fa l’esattore della luce elettrica e che pochi giorni fa vidi io stesso qui, all’uscio di casa a riscuoter la bolletta». La segretaria di una scuola del circondario era giunta ad Acquasparta sconvolta, fuggendo da un paesino sopra Terni dov’era sfollata, perché i «ribelli» erano andati a casa sua, avevano bastonato il marito accusandolo di essere un gerarca, avevano devastato la mobilia… «Guerriglia civile – concludeva Calamandrei – che si inasprirà e diventerà rapidamente una lotta contro i “borghesi”». E tutto in questa sua pagina di diario, dalla scelta dei termini all’uso delle virgolette, diceva di un uomo più preoccupato che entusiasta all’approssimarsi della Resistenza in corpore vili.
Nella notte fra il 14 e il 15 giugno 1944, quando l’offensiva dell’esercito anglo-americano si fece più decisa dopo la conquista di Roma, la linea del fronte passò fragorosamente oltre Amelia, lasciando i pochi abitanti di Colcello – e Calamandrei con loro – dalla parte giusta, nell’Italia liberata. Ma una banda di partigiani si era manifestata in paese già pochi giorni prima, mentre ancora la zona era sotto il controllo dei tedeschi. Senza che il sor Piero si lasciasse incantare dall’epifania della Resistenza:
Ieri Colcello fu «occupato» per due ore da patrioti. Ciro mi venne ad avvertire del loro arrivo: non si sapeva che volessero. Erano una diecina, al comando di un capo che è un socialista di Amelia: tra essi vi erano due ex carabinieri ex guardie repubblicane, un disertore austriaco di Vienna (diciottenne), un prigioniero russo, un sottotenente che è stato molti mesi in prigione a Perugia imputato di diserzione e che appena lasciato libero si è dato alla macchia, un sottufficiale di aviazione ed altri due o tre: tutti armati di moschetto o rivoltella, e il capo col binocolo.
Uscii con Ciro: qui sulla piazzetta dinanzi a casa su una panchina dove stanno a sedere di solito le donnine, c’erano due di essi, seduti, col moschetto sui ginocchi. Più su, alla Buca, c’era l’austriaco e un altro attorniati da ragazzi e donne. Ci dissero che il capo era a conferire con Guido Valentini, che viene considerato l’esponente antifascista del borgo: il resto della squadra era andato a occupare le diverse vie d’uscita del villaggio. Il capo, in pullover, senza cappello, con occhiali neri e zucca spelacchiata, piuttosto buffo, dice che avevano l’ordine «da Roma» di disarmare i fascisti. […] Ci trattenemmo a lungo con tutta la squadra, tra i quali il sottotenente. Quando sentì il mio nome mi disse di essere studente di lettere a Roma, allievo di De Ruggiero: è un ragazzo con grandi occhi febbricitanti in una faccia pallidissima resa più sparuta da una barba non fatta da due settimane. Che cosa voglion fare non lo sanno bene neanche loro.
Adesso che gli studiosi della Resistenza hanno cominciato a scriverne la storia indipendentemente dal mito, noi andiamo scoprendo come – per molti aspetti – le cose stessero proprio quali Calamandrei le registrò nell’unico incontro de visu che mai gli capitò di avere con dei partigiani. I resistenti non sapevano bene che cosa volevano fare. Volevano cacciare i tedeschi, certo, e volevano farla pagare ai fascisti; ma non avevano chiare le coordinate del mondo nuovo da costruire, né antivedevano il proprio ruolo nella città futura. D’altronde, i più sinceri fra loro lo avrebbero ammesso, in testi scritti a caldo dopo l’avventura della macchia o della clandestinità, nei più riusciti fra i racconti o le memorie di ambientazione partigiana: come tutte le rivoluzioni che si rispettino, la Resistenza era stata un guazzabuglio inestricabile di determinazione e di confusione, di ordine e di disordine, di pulizia e di sporcizia, di umiltà e di prosopopea… Il che non toglie che vi sia qualcosa di stonato nella rappresentazione dei «ribelli» che Calamandrei consegnava al proprio diario. Perché davvero si fatica a riconoscervi un qualunque elemento in comune con la rappresentazione dei partigiani ch’egli avrebbe diffuso dopo la Liberazione, nei «discorsi, scritti ed epigrafi» raccolti in Uomini e città della Resistenza. Semmai, le pagine del Calamandrei di Colcello ricordano quelle di un altro diario coevo, tenuto da uno scrittore scettico e vagamente qualunquista come l’Andrea Damiano di Rosso e Grigio: il quale pure, nell’unica occasione in cui si incontrò con una banda di partigiani, ne trasse un’immagine picaresca e maccheronica, da armata Brancaleone avanti lettera.
4. Una questione privata
La pagina di diario in cui Calamandrei descrisse l’epifania della Resistenza au village appare tanto più significativa in quanto – dietro il velo di una toscanissima ironia – risulta impregnata di umori professorali, o comunque generazionali. Fra le ragioni per cui Calamandrei faticò a capire e ad apprezzare la Resistenza va annoverata questa: egli faticava a capire e ad apprezzare i giovani ai quali, dalla sua cattedra di docente universitario, si era trovato a rivolgersi negli ultimi anni, sino alla vigilia immediata dell’8 settembre. Mentre erano soprattutto quei giovani borghesi che, con altri di estrazione popolare, andavano combattendo nella Resistenza.
Niente di più normale, d’altronde, dello sconcerto di Calamandrei. Fra 1943 e ’44, non era facile comprendere – nel corso stesso del suo sviluppo – la parabola umana e politica dei «redenti»: della generazione intellettuale che dopo avere militato, alla fine degli anni Trenta, entro i ranghi della «sinistra» fascista, andava scoprendo nella lotta armata contro il nazifascismo (e all’occorrenza nel comunismo) una nuova risposta alla propria domanda di giustizia e di rivoluzione. Né era facile comprendere come, nella mente e nel cuore dei giovani, la Resistenza potesse essere insieme una questione di immaturità e una questione di maturità, come potesse fondere la dimensione leggera del gioco da bambini con quella onerosa del diventare grandi. Nel caso di Calamandrei, una complicazione supplementare nasceva dal fatto di avere un redento in famiglia: suo figlio Franco, che dopo una giovinezza trascorsa, con ovvio scorno del padre, negli ambienti della sinistra fascista, all’indomani dell’8 settembre gli aveva lasciato intendere – durante un burrascoso faccia a faccia – di sentirsi votato a un futuro da militante comunista.
Per oltre tre anni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Calamandrei aveva disseminato nel proprio diario giudizi inclementi sulla gioventù universitaria, di cui il padre antifascista considerava il «figlio fascista» un degno rappresentante: «gioventù di merda», capace bensì di obbedire, ma non di credere né di combattere; patetica genia di «egotisti incorreggibili», «letteratucoli» occupati dall’ermetismo più che preoccupati dell’hitlerismo; «sparuto gruppetto di poveri ragazzi presuntuosi malati di narcisismo». Cos’era stato l’intero regime dei Bottai o dei Pavolini, se non un desolante esempio di «paidocrazia»? Nell’Italia che fosse riuscita a estrarsi dalla catastrofe, dopo la fine della dittatura fascista e della guerra mondiale, «bisognerà che i ragazzi tornino a fare i ragazzi», aveva severamente concluso il professore universitario. Secondo i taccuini di guerra di Piero Calamandrei come secondo quelli coevi di Benedetto Croce, il cosiddetto problema dei giovani si riduceva al problema di un’«immaturità» che il regime dei fasci aveva avuto l’astuzia di elevare a professione, la gioventù dei Guf l’ingenuità di sbandierare come merito.
Alla severità del giudizio che i padri davano sulla generazione dei balilla corrispondeva però, nel vissuto emotivo e politico dei figli, una severità uguale e contraria. Fra le molle che dopo l’8 settembre spinsero alcune migliaia di giovani italiani sulla strada della lotta armata fu precisamente il disprezzo per l’inane atteggiamento dei padri. Anche quando i vecchi antifascisti finivano col rivelarsi buoni per scrivere gli articoli di fondo dei giornali clandestini, i loro figli naturali o putativi non li trovavano convincenti per davvero; rifiutavano di pensare che tali sussiegosi maestri di retorica, con le guerre del Risorgimento sempre in bocca, potessero valere da figure-modello nella lotta contro Mussolini e contro Hitler: «Credevamo in un corpus di sapienza anti-fascista; ma rigettavamo l’idea che ne fossero questi i custodi». E poi, di là dalle parole, in quale maniera la generazione dei padri si era mai espressa nei fatti? Dove, come, quando si era mai sacrificata? Per riscattare il male storico del fascismo – pensavano le reclute di una banda partigiana come quella vicentina di Luigi Meneghello – qualcuno doveva pur soffrire. Dal momento che tanti padri non si erano resi disponibili, certi figli dovevano farlo per loro.
Vent’anni dopo, il titolo stesso della memoria resistenziale di Meneghello, I piccoli maestri, avrebbe offerto un’immagine trasparente del modo in cui i giovani partigiani avevano inteso replicare ai vecchi «professori addottrinati»: sarebbe riecheggiato come lo schiaffo dei figli resistenti ai padri desistenti. Ma senza attendere così a lungo, senza rimetterlo all’arte sincera o bugiarda della memoria, c’era chi quello schiaffo lo aveva dato da subito, secondo il tempo impaziente e divisivo della storia. Tale fu il caso di Franco Calamandrei. Come documentano le pagine del diario ch’egli riuscì a tenere nel pieno della Resistenza romana, fin dentro la sua clandestina quotidianità di comunista e di gappista, la scelta partigiana di Calamandrei figlio maturò nella consapevole forma di un «congedo» da Calamandrei padre. Il risultato fu, per entrambi, qualcosa di estremamente lacerante: un autentico psicodramma, senza penetrare il quale si rischia di intendere poco del cammino che avrebbe fatto di Piero l’autore di Uomini e città della Resistenza.
Franco Calamandrei non aveva atteso l’8 settembre 1943 per prendere le distanze da un ingombrantissimo padre. Un po’ tutte le sue decisioni di vita successive alla laurea in giurisprudenza (ch’egli aveva conseguito ventiduenne nel ’39) si erano configurate come le tappe di un progressivo allontanamento non solo dalla città di Firenze, ma dalla figura di Piero: la frequentazione degli ambienti letterari fascisti, la rinuncia a perfezionarsi da avvocato, l’entrata nella funzione pubblica come impiegato presso l’Archivio di Stato di Napoli. Nell’agosto del ’41, un verbo aveva fatto capolino nella prosa del suo diario, in relazione al rapporto con l’ambiente d’origine e segnatamente con il padre: era il verbo salpare. Sicché rinunceremo a stupirci se all’indomani dell’8 settembre – dopo che Piero e Franco avevano avuto il loro drammatico faccia a faccia, e il figlio aveva comunicato al padre la propria intenzione di arruolarsi da comunista contro il nazifascismo – il diario di Franco aveva ospitato la trascrizione dei versi di un poeta americano, nella traduzione che Fernanda Pivano ne aveva appena dato per l’editore Einaudi. Era la finta lapide di George Gray, nell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: «E adesso so che bisogna alzare le vele / e prendere i venti del destino / dovunque spingano la barca. / Dare un senso alla vita può condurre alla follia, / ma una vita senza senso è una tortura / dell’inquietudine e del vano desiderio, / è una barca che anela al mare eppure lo teme».
Qualcosa come trentasei anni più tardi, nel novembre del 1979, Franco Calamandrei avrebbe ancora fatto ricorso al verbo salpare per rendere conto della propria scelta resistenziale nella fatidica notte dell’8 settembre 1943; spiegando come, pur di raggiungere i lidi di un antifascismo fattivo anziché parolaio, si fosse sentito pronto a «passare sul corpo di [suo] padre». Dettaglio rivelatore: nel romanzo di ambientazione partigiana da lui rimuginato per decenni, Franco avrebbe organizzato la scena madre dell’incontro-scontro fra il padre desistente e il figlio resistente sulla base di criteri strettamente autobiografici: salvo immaginare che quello del padre non fosse il mestiere dell’avvocato, ma il mestiere del giudice. Altrettanti modi per esprimere, agli sgoccioli della vita, quanto gli era stato comunque ben chiaro già al tempo della Resistenza. Da un lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato un esercizio tanto continuo quanto logorante di recitazione, nel tentativo di presentarsi allo sguardo indagatore del padre in una postura che gli riuscisse soddisfacente. «Scrivo una lettera per i miei genitori» – leggiamo nel diario di Franco alla data del 28 febbraio 1944, cinque giorni dopo ch’egli aveva guidato a Roma il commando gappista di via Rasella – «con il solito disagio, il solito sentimento di scrivere in una lingua straniera, di porgere in vece mia un manichino, una figura retorica». Dall’altro lato, essere figlio di Piero Calamandrei aveva significato una precisa assunzione di responsabilità. «I figli devono educare i genitori», si legge pure nel diario, come una citazione di Marx secondo Lafargue.
Se volessimo riprendere la terminologia di Meneghello, diremmo che Franco ce l’aveva avuto in casa, il professore addottrinato cui servire da piccolo maestro. Se invece ci volessimo nuovamente affidare alla ricostruzione retrospettiva del figlio, diremmo che il trauma originario aveva coinciso con un banale incidente capitato in Versilia durante una vacanza al mare. A causa di un’onda anomala, il padre aveva rischiato di affogare, e il figlio che gli nuotava accanto aveva letto sul suo viso un’angoscia senza limiti, il terrore di morire: «Brusca rottura dell’immagine dell’autorità paterna. Un “poveruomo”». Il poveruomo del Poveromo: per il resto della vita, dopo la crisi della Resistenza, Franco non avrebbe smesso di rielaborare l’immagine del padre, provando fierezza per la sua vigorosa «moralità», ma rabbia per una «meschinità» patetica o addirittura «ripugnante». Un egoista, Piero Calamandrei, nell’animo del quale l’attaccamento alla moglie e al figlio si confondevano con l’eterna paura di soffrire; un velleitario, la cui unica forma di opposizione al fascismo era consistita nella pluriennale tenacia con cui aveva raccolto da destra o da sinistra barzellette antiducesche.
Quello della psicoanalisi è un terreno scivoloso per lo storico, che si trova nell’ovvia impossibilità di trattare i propri personaggi alla maniera di Freud con i suoi pazienti. Nondimeno, la natura del rapporto fra Piero e Franco Calamandrei sollecita una ricostruzione storiografica che non escluda a priori la dimensione della psicologia del profondo. Quali risultano dai taccuini privati di entrambi, alcune situazioni avevano un contenuto freudiano addirittura flagrante. Così, se la metafora del salpare era centrale nel modo in cui Franco si figurava il congedo da Piero, un’identica metafora occorreva – rovesciata di segno – nelle nostalgie e nelle fantasie di Piero, a proposito di un riavvicinamento con Franco. Il 16 gennaio 1944, registrando le proprie impressioni di lettura sulle Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini, il Calamandrei di Colcello si diceva commosso dalle pagine in cui l’oppositore dei Borboni aveva evocato «con tanta tenerezza» la figura del figlio Raffaele; in particolare, da «quelle in cui racconta del figliuolo, che s’imbarca come cameriere sulla nave per liberare il padre». Due mesi più tardi, rimpiangendo la mancanza di notizie riguardo alla vita romana di Franco, Piero annotava: «L’ho sognato stanotte […] in una specie di grande adunata in cui egli era senza cappello e in camicia nera, e così tutti noi: io sono arrivato in ritardo, e lui mi ha fatto cenno di andarmi a mettere in un certo punto della folla, e mi par che m’abbia detto: “Lì, vicino alla ringhiera, non tirano”, come per rassicurarmi».
Sarebbe certo imprudente spingersi oltre sulla strada della psicoanalisi, fino a sostenere che nella vita interiore di Franco Calamandrei la suprema prova di virilità – «l’uccisione», «l’uccisione del fascista» – abbia rappresentato una forma sublimata di uccisione del padre. Sta di fatto che soltanto dopo aver praticato l’esperienza perigliosa e inebriante della clandestinità, l’attività sabotatoria e terroristica, insomma la guerra civile guerreggiata, Franco si scoprì disponibile a recuperare un qualche rapporto con i genitori. Ebbe allora l’impressione che i ruoli si fossero invertiti, e che ormai toccasse a lui, al comandante partigiano, di prendersi cura di un padre e di una madre irrimediabilmente scavalcati dalle correnti della storia. Si legge nel diario di Franco alla data del 2 aprile 1944, dieci giorni dopo l’attentato di via Rasella e la strage delle Fosse Ardeatine: «Una lettera triste della mamma: tutto viene meno intorno a loro. E temo che non abbiamo più parole ormai con cui io possa cercare di consolarli. Vorrei poterlo fare, vorrei tanto trovare un contatto». Due settimane più tardi si legge nel diario di Piero: «Ieri Franco ha scritto da Roma: in tono genericamente fiducioso e virile: lui, per sua fortuna, ha dinanzi a sé l’avvenire. Non può sentire questo logoramento del tempo che fugge inutile, che si prova all’età mia…». Così, la virilità del figlio non sembrava possibile che a prezzo della senilità del padre.
Ma per quanto si sentisse vecchio, stanco e colpevole, il sor Piero di Colcello non aveva rinunciato all’antica abitudine di salire in cattedra. Poteva dunque – nella medesima pagina di diario in cui ripicchiava sul tasto della «vergogna» per l’inconcludenza e la vigliaccheria della sua propria generazione – assumere un tono di condiscendenza verso «questi giovani ingenui, i nostri figliuoli, che a rischio della vita si danno alla macchia come “ribelli” o preparano nella città la riscossa». Viceversa, Calamandrei padre poteva parlare sia dell’attentato di via Rasella (quando ancora non lo sapeva guidato dal figlio!), sia della rappresaglia delle Fosse Ardeatine, con accenti sorprendentemente leggeri, analoghi a quelli di certa vox populi capitolina: «Ogni tanto a Roma qualche camion tedesco è fatto saltare dai “comunisti”: l’ultimo in cui furono uccisi da una bomba 32 tedeschi, ha portato come rappresaglia la fucilazione di 320 ostaggi innocenti…». Senza percepire il valore politico e militare dell’azione compiuta dai Gap in via Rasella, momento simbolicamente fra i più intensi della Resistenza europea, Calamandrei si contentava dunque di alludere alle responsabilità degli attentatori, colpevoli indiretti dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. E anche in questo il profugo di Colcello era in buona compagnia, se è vero che i gappisti di via Rasella dovettero subito difendersi dall’accusa di avere sulle proprie mani – oltre al sangue dei carnefici tedeschi – il sangue delle vittime italiane.
5. Un segnalatore d’incendio
Soltanto a partire dal luglio 1944, dopo che l’arrivo degli anglo-americani in Umbria gli ebbe permesso di concludere la propria esperienza da sfollato e di raggiungere Roma, Piero Calamandrei prese a guardare alla Resistenza attraverso nuove lenti. Né avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che il suo arrivo nella capitale coincise con l’inizio di un’attività politica frenetica, a stretto contatto con i capi del Partito d’Azione, i dirigenti del Cln, le autorità alleate. Dopo nove mesi di completo isolamento, e dopo venti lunghissimi anni di censura e di autocensura, al giurista fiorentino era dato ora di ritornare a essere se stesso; e al suo antifascismo intellettuale era dato di riconciliarsi con l’antifascismo militare di chi andava combattendo nella Resistenza.
Per Calamandrei padre, questo significò anzitutto l’opportunità – e il sollievo – di una riconciliazione con il figlio. Al limite, proprio la scoperta del contributo di Franco al gappismo romano («non c’è stato attentato che non abbia fatto lui, o a cui non abbia assistito») spinse Piero a riconoscere come «eroico» il «contegno dei giovani» dopo l’8 settembre: fu l’agnizione intorno al ruolo del figlio che mutò l’atteggiamento del padre rispetto alla Resistenza. Non che le retrouvailles fra Piero e Franco avessero dissipato ogni ombra nel loro rapporto. Ben presto dopo l’arrivo nella capitale, il diario del padre ospitò acidi commenti sulla maniera in cui il figlio aveva trasformato la propria passione letteraria per l’ermetismo in passione politica per il comunismo. L’intuizione stessa del coinvolgimento di Franco nell’attentato di via Rasella («arrossisce quando si parla della bomba sotto il Quirinale») mosse Piero a riflessioni intransigenti. Quanto vi era, nel coraggio di chi compiva simili gesti, di residuo libresco, di un maldigerito Gide da Sotterranei del Vaticano («Lafcadio che uccide il compagno di viaggio per prova»)? Ma al di là di queste e di altre riserve affidate al segreto del diario, per Calamandrei ritrovare il figlio fece tutt’uno col ritrovare la patria.
Nel vissuto di Piero durante quel fervido mese di luglio del 1944, il primo uomo della Resistenza fu Franco, la prima città della Resistenza fu Roma. Pochi giorni dopo essere giunto nella capitale, Calamandrei prese parte – con il figlio stesso, e la moglie Ada – a qualcosa come un pellegrinaggio verso la famigerata pensione Iaccarino di via Romagna: là dove Franco, tratto in arresto alla fine di aprile, era sfuggito per un soffio alle torture di Pietro Koch e del suo Reparto speciale di polizia. Ecco l’ingresso della pensione da cui Franco era entrato in catene; ecco il «giardinetto con oleandri fioriti» dove il prigioniero, approfittando di una disattenzione dei po-liziotti collaborazionisti, si era gettato da una finestra al piano rialzato, riuscendo poi a dileguarsi oltre una cancellata. Senonché, nella Roma da poco libera, i pellegrinaggi sentimentali di un uomo come Calamandrei non potevano limitarsi a questo. Era inevitabile ch’egli sentisse il bisogno di spingersi sino alla «fossa della via Ardeatina», luogo di scempio che andava rapidamente trasformandosi in luogo di memoria.
Per una somma di pulsioni private e di pubbliche ragioni, capitò quindi a Calamandrei di avvertire doveroso l’omaggio sia all’attentatore di via Rasella, sia alle vittime della successiva rappresaglia. Logiche familiari e logiche politiche si combinarono per sottrarlo alla tentazione di insistere sulla responsabilità morale dei gappisti romani nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. In generale, con l’estate del ’44 il pensiero di Calamandrei conobbe un processo di radicalizzazione: piena fu la sua adesione alla richiesta azionista di una Resistenza inflessibile, di una guerra civile senza prigionieri. «Gli inglesi e il governo Bonomi sono troppo miti: i fascisti bisogna spengerli», a costo di «snida[rli] con lanciafiamme», era il commento del diarista alla notizia della liberazione di Perugia. Tuttavia, la sensibilità di Calamandrei inclinava meno all’elogio della violenza impartita e più al necrologio della violenza subita. Fin dalla giovinezza, quella del giurista-letterato era stata una poetica della morte e della resistenza alla morte; prima ancora della Grande Guerra, nell’Italia della belle époque, la sua poesia aveva ruotato intorno alle figure dei defunti anzitempo e della loro sopravvivenza spirituale nel mondo. Perciò, fu quasi giocoforza che il Calamandrei del ’44 si trovò ad abbozzare – senza ancora saperlo – il progetto di Uomini e città della Resistenza: «Quale lista di martiri, quando tutta la storia potrà essere raccontata!».
Ma un passo restava da compiere al professore fiorentino, prima di recuperare la propria vena funeraria per farsi ineguagliabile poeta di una Repubblica nata viva dai morti della Resistenza: gli restava da elevare il genere stereotipato del martirologio a riflessione originale intorno alla specificità storica del nazifascismo. È il passo che Calamandrei mosse nel corso medesimo del 1944, quando trasformò un invito editoriale dell’amico Pancrazi – in apparenza, poco più che una proposta erudita: scrivere per Le Monnier una prefazione a Dei delitti e delle pene di Beccaria – nell’occasione per un confronto intellettualmente serrato con alcuni caratteri distintivi della violenza nazifascista. Poiché Calamandrei percepì nettamente come le vittime di Hitler e di Mussolini non fossero, se così si può dire, vittime come le altre. La «carneficina d’Europa» alla metà del ventesimo secolo non andava confrontata con alcuna strage del passato; la tortura sistematicamente praticata sui corpi di «person[e]» ridotte a «cos[e]», la fucilazione in massa di «donne innocenti» e «bambini ignari», la deportazione di «popoli come mandrie», la messa a punto dell’«esterminio» quale «un’industria “razionalizzata”», rappresentavano un sovrappiù nella vicenda storica del male.
L’edizione Le Monnier di Beccaria uscì nelle librerie dell’Italia liberata il 17 gennaio 1945: quando la parte settentrionale del paese ancora si trovava sotto l’occupazione tedesca, e quando – molto più a nord – i cancelli di Auschwitz ancora non erano stati abbattuti dai blindati dell’Armata Rossa. Ma in anticipo sui ritmi della competizione militare, la prefazione del libretto conteneva il sugo di tutta la storia. Nel lessico ermeneutico di oggi, diremmo che Calamandrei identificò chiaramente l’essenza del nazifascismo come aberrazione biopolitica: irrimediabile attentato contro l’homo sacer, contro la sacralità della nuda vita. Annichilito il principio della personalità della pena, i carnefici di Berlino avevano oliato una macchina capace di gestire «la tortura metodicamente inflitta a popoli interi», «intere regioni accuratamente attrezzate da sale di supplizio». E se il colmo dell’efferatezza era stato raggiunto dagli aguzzini germanici nell’Europa centrale e orientale, i loro collaboratori di Salò avevano fatto il possibile per reggere il confronto al di qua delle Alpi.
Il nome di Piero Calamandrei va aggiunto a quello dei rari segnalatori d’incendio i quali – all’uscita dalla seconda guerra mondiale – riconobbero nell’«esterminio» un punto di non ritorno della storia universale. Nel decennio successivo il 1945, la sua voce di cantore della Resistenza sarebbe risuonata tanto più alta, quanto meglio Calamandrei sapeva che l’innocenza del mondo era perduta per sempre.
6. Monumenti
Il 7 ottobre 1945, nel piccolo comune di Bellona presso Caserta, venne inaugurato un monumento alla memoria dei cinquantaquattro abitanti del paese trucidati due anni prima in una feroce rappresaglia nazista. La cerimonia davanti alla lapide fu semplice e decorosa: benedizione del prete, discorso del sindaco. Un po’ discosto, defilato, l’unico personaggio davvero illustre presente quel giorno a Bellona, che era poi l’autore dell’epigrafe incisa a ricordo delle vittime: Benedetto Croce. Ma la discrezione dell’anziano filosofo non lo preservò dall’emozione: «Vedendo da un lato il folto gruppo delle persone vestite a lutto, madri, figlie e figli e padri degli uccisi, e udendo tra i repressi gemiti il prorompere di qualche grido angoscioso verso il monumento, “Papà! papà!”, mi sono commosso a segno da dover tergere le lacrime».
Quella di Bellona non fu la sola epigrafe che Croce ebbe a dettare alla memoria delle vittime di eccidi nazisti: fu invitato a scriverne un’altra per una lapide poco lontano, a Caiazzo; un’altra ancora a Santa Maria Capua Vetere, presso l’albero dove era stato impiccato un eroico sedicenne. Né Croce fu l’unico grande intellettuale che al riemergere dalla guerra accettò di contribuire al genere delle scritture epigrafiche, quali proliferarono ovunque in Italia e in Europa dopo la fine dell’occupazione tedesca. Alle nuove autorità locali, nei borghi e nelle città finalmente libere, dovette riuscire spontanea l’idea di rivolgersi a questo o quel letterato, affinché trovasse le parole per esprimere uno strazio comunitario altrimenti indicibile. Ai letterati, o comunque agli umanisti, dovette riuscire preziosa l’opportunità di trascendere il cordoglio rinnovando un genere fondativo della tradizione occidentale. Nel dopoguerra, «innumeri stele» furono dunque scolpite ai quattro angoli del continente, tragici segnaposti di un’inopinata geografia dell’orrore. In terra italiana, particolarmente memorabili apparvero gli epitaffi dettati da Piero Calamandrei: come quello, più di tutti famoso, murato il 21 dicembre 1952 nel Palazzo comunale di Cuneo, Il monumento a Kesselring.
Ma il filosofo di Napoli e il giurista di Firenze condividevano qualcosa di più che l’arte della retorica e la gravitas dei moralisti. Comune a entrambi era una forma di sensibilità che potremmo definire insieme archivistica e museale: la cura di conservare e di esporre le vestigia del passato, foss’anche un passato ignominioso. Così, per quanto le loro opinioni divergessero sull’interpretazione storica da dare del fascismo, Croce e Calamandrei precocemente misurarono il rischio che l’uscita dalla dittatura si traducesse nella dispersione del patrimonio culturale (o inculturale) prodotto dal regime. Già nel maggio del 1944, da ministro nel secondo governo Badoglio, Croce si adoperò per disciplinare l’«abbattimento dei monumenti fascistici», che s’andava compiendo «in modo tumultuario». Pochi mesi dopo, con eccezionale lungimiranza rispetto allo spirito del tempo, Croce immaginò addirittura un «futuro museo storico dell’età fascista». Per parte sua, già da prima dell’8 settembre Calamandrei aveva ragionato intorno al modo di conservare, ed eventualmente di esibire, fatti e misfatti del fascismo. Nel ’48, il progetto assunse la forma – molto provvisoria, per la verità – di una rete di biblioteche che valessero da «archivi dell’“antiresistenza”».
Dalla Liberazione in poi, «Il Ponte» fu anche questo: una specie di supporto cartaceo al quale appendere gli orrori del fascismo. Sulla rivista, Calamandrei pubblicò persino il testo di lapidi finte. Come l’epigrafe immaginaria ch’egli volle dettare dopo le elezioni politiche del 7 giugno 1953, quando varcarono l’ingresso di Montecitorio – da deputati del Msi – alcuni veterani del Ventennio e di Salò: a cominciare da quel Filippo Anfuso che era stato coinvolto, nel 1937, nell’assassinio dei fratelli Rosselli, prima di solidarizzare con Goebbels e la nomenklatura nazista in qualità di ambasciatore italiano a Berlino. Per l’occasione, il direttore del «Ponte» non esitò a sollecitare un «raccoglitore di curiosità storiche», Carlo Galante Garrone, affinché ristampasse sulla rivista, tali e quali, vecchi scritti o discorsi di Anfuso e degli altri gerarchi fascisti trionfalmente rientrati a Montecitorio. Quasi altrettanto che di elevare un monumento materiale e immateriale alla Resistenza, premeva infatti a Calamandrei di elevare un monumento infamante all’Antiresistenza. E l’etimologia latina della parola monumento lo confortava in tale duplice intenzione, in quanto conteneva, con la nozione di un ricordo del passato, quella di un monito rispetto all’avvenire.
Per Calamandrei forse più che per qualunque altro intellettuale italiano dell’epoca, tutto ciò aveva a che fare con la Shoah: non ce ne stupiremo, dopo averlo individuato come uno dei rari «segnalatori d’incendio» nel distratto Occidente post-bellico. Ad aprile del 1945, la prima pagina del primo numero del «Ponte» contenne una descrizione dei campi di sterminio così vivida da risultare stupefacente, ove si consideri che fu scritta quando fotografie e filmati dei Lager ancora non avevano preso a circolare nell’Europa liberata. Pochi mesi dopo, enumerando i cinquantacinque milioni di vittime della seconda guerra mondiale, Calamandrei evocò anzitutto le ombre dei prigionieri «sigillati senza cibo e senz’acqua nel carro bestiame», dei deportati «spinti in ordine chiuso nelle camere a gas». A qualche anno di distanza, il direttore del «Ponte» indugiò sui «magazzini di balocchi usati» che si conservavano «come sale di museo» presso i crematori di Auschwitz. Oggi queste cose fanno parte integrante della nostra memoria collettiva; al tempo in cui Calamandrei le metteva nero su bianco, Primo Levi faticava a trovare un editore disposto a stampare Se questo è un uomo.
Il bisogno che Calamandrei avvertiva di esporre (nel duplice significato del termine: raccontando e mostrando) le nefandezze del nazifascismo, fu all’origine di un’idea ch’egli ebbe per «Il Ponte» nel 1948, in occasione del decimo anniversario delle leggi razziali di Mussolini: ripubblicare il Manifesto della razza accompagnandolo – «perché la loro gloria non si estingua» – con i nomi di coloro che lo avevano firmato. Nel numero d’ottobre di quell’anno, sulla rivista comparvero effettivamente alcuni stralci del manifesto del ’38, sia pure senza la menzione dei firmatari. Di lì a poco, Calamandrei tornò a sollecitare Carlo Galante Garrone, questa volta per una ricerca storica, appunto, sul razzismo fascista. Al giudice torinese, il direttore del «Ponte» chiedeva di fare luce sulle origini politiche della campagna razziale, sulla maniera in cui la magistratura si era prestata a contribuirvi, sulla teoria e sulla prassi delle discriminazioni, su «quell’altra misteriosa faccenda delle arianizzazioni». Proponeva uno «spoglio accurato delle riviste e dei giornali», «per vedere chi scriveva articoli feroci contro gli ebrei, chi speculava sui loro dolori…». E forse non sapeva, Calamandrei, che fra quanti avevano scritto di questioni razziali era un uomo ch’egli considerava suo pupillo, che gli era amico e collaboratore, che sarebbe stato il suo biografo: il fratello stesso di Carlo, Alessandro Galante Garrone. Anch’egli giudice del tribunale di Torino, nel ’39 aveva discusso di ariani e di ebrei, di cattolici e di catecumeni, di matrimoni misti e di battesimi fasulli, sulla «Rivista del diritto matrimonale italiano e dei rapporti di famiglia».
Magistrato di fermo sentire antifascista, Galante Garrone si era quasi certamente ripromesso – commentando una sentenza della Corte d’Appello di Torino sulle modalità di «accertamento della razza» – di identificare alcuni strumenti giuridici che riducessero al minimo l’ambito di applicabilità delle leggi antiebraiche: aveva inteso cioè sottrarre spazio giurisdizionale al ministero dell’Interno, restituendo competenza decisionale al potere formalmente indipendente dei giudici. Ma la semplice scelta di intervenire in punta di diritto sopra una questione del genere aveva autorizzato certi fascisti a dedurne che risultava comunque ammessa la plausibilità giuridica della legislazione razziale; dunque a concludere, trionfalmente, che esperti di ogni specie ne riconoscevano la legittimità politica. Tale fu il ragionamento dei redattori di un neonato periodico dal titolo assai parlante, «Il Diritto razzista»: i quali, a insaputa dell’autore, pensarono bene di riprodurne il commento sulle pagine della loro propria rivista, ed ebbero buon gioco nel sottolineare l’importanza del contributo prestato alla causa antisemita dal «camerata Alessandro Galante Garrone».
Fra i componenti il comitato scientifico del «Diritto razzista» figurava nientemeno che Santi Romano, professore ordinario dell’università di Roma nonché presidente del Consiglio di Stato: un autentico luminare del diritto costituzionale e amministrativo, giurista fra i massimi del nostro Novecento, arruolato da un pugno di carneadi per fregiare con il suo nome la copertina di una rivista svergognata e vergognosa. Legislazione razziale a parte, la dittatura mussoliniana era durata troppo a lungo nel tempo, e aveva infiltrato troppo a fondo la società italiana, per non produrre tra fascisti e antifascisti forme di collaborazione o di accomodamento, con un inevitabile séguito di appropriazioni politiche e di travisamenti morali. Piero Calamandrei in persona non aveva forse prestato aiuto al ministro della Giustizia di Mussolini, Dino Grandi, per mettere a punto la riforma del Codice di procedura civile promulgato nel 1942? È ben vero che in tale codice fascista egli aveva tenuto a infondere tutto quanto aveva imparato dai suoi maestri liberali sulla legalità del processo e sulla funzione del giudice; ed è ben vero che nel medesimo torno di anni, dopo avere militato nel movimento clandestino di Giustizia e Libertà, egli aveva contribuito alla nascita del Partito d’Azione. In ogni caso, dopo il 1945 l’argomento di una collaborazione puramente tecnica al codice Grandi – quale Calamandrei lo aveva addotto prima di tutto a se stesso, scrivendone a più riprese nel diario – poteva ben apparire una coperta troppo corta per mascherare la realtà di un’expertise politicamente significativa. Quanti fra i soloni dell’Italia libera erano scesi a patti con il regime fascista! Calamandrei compreso, come ricordava un intellettuale «epurato», lo storico Gioacchino Volpe.
Nous sommes tous des ci-devant: la formula impiegata da un giornalista del Direttorio a proposito della Francia post-termidoriana calzava a pennello per l’Italia post-fascista. In un modo o in un altro, tutti i cittadini della neonata Repubblica erano uomini ex. Il che contribuiva a spiegare quanto pure suscitava, con la delusione di tanti ex partigiani, lo scandalo di tanti ex azionisti: il fatto che l’antifascismo e la Resistenza scaldassero il cuore di pochi, nell’Italia dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta. Più in generale, il tono liquidatorio che gli ex azionisti riservavano alla linea politica di De Gasperi e della Democrazia cristiana – bollandola come una versione aggiornata del clericofascismo – riusciva gravemente inadeguato sia rispetto ai meriti intrinseci di quella politica, sia rispetto alla domanda di cambiamento che saliva dalla società civile. Si voleva allora guardare avanti piuttosto che volgersi indietro; si voleva costruire il futuro piuttosto che rivangare il passato; si voleva ricominciare a vivere piuttosto che reimparare a morire. E Piero Calamandrei, volente o nolente, se ne rendeva conto. Verso la fine del 1947 aveva bensì pensato di porre mano a «una specie di antologia» delle «cose più belle» sulla Resistenza; aveva presto rinunciato al progetto, poiché nell’intera penisola non vi sarebbe stato un solo editore «disposto a pubblicare un’opera così lontana, in questo momento, dai gusti del pubblico».
7. In stile lapidario
Quell’editore, Calamandrei lo trovò sette anni più tardi (con l’unica differenza che nella specie di antologia le cose più belle sulla Resistenza, anziché scaturire da più penne, vennero tutte dalla sua): fu Vito Laterza, giovane dirigente della casa editrice che per mezzo secolo era stata di Benedetto Croce. All’approssimarsi di una scadenza significativa – nel 1955 ricorreva il decimo anniversario della Liberazione – la Laterza aveva mobilitato una piccola schiera di intellettuali di provenienza genericamente ciellenista per una riflessione senza eufemismi intorno ai caratteri e ai limiti della «vita democratica italiana»: come recitava il sottotitolo del corposo volume messo fuori per il 25 aprile, Dieci anni dopo. Anima dell’iniziativa era stato Leo Valiani, e Calamandrei vi aveva contribuito con un impegnativo saggio sulla Costituzione. Fu nell’ambito dei rapporti intrattenuti con Vito Laterza per la preparazione di tale volume collettivo che Calamandrei concepì l’embrione di Uomini e città della Resistenza:
Già che le scrivo vorrei sottoporle un’idea. In questi ultimi anni mi è avvenuto moltissime volte (circa una ventina) di dover dettare epigrafi che ricordano eventi o figure della Resistenza, alcune delle quali, come quella per il monumento a Kesselring, ho visto riprodotte a mia insaputa e affisse nei più svariati luoghi d’Italia. Mi sono persuaso che questa rievocazione in stile lapidario di episodi degni di esser ricordati dal nostro popolo può avere una notevole forza suggestiva; per questo avrei pensato se non fosse il caso di raccogliere queste epigrafi in un volumetto, magari accompagnandole con disegni, uno per ciascuna, di Carlo Levi (se egli fosse disposto a farli). Che ne dice?
È una lettera istruttiva, che dimostra quanto – nella logica culturale e morale di Calamandrei – la meditazione sulla Resistenza fosse esposizione della Resistenza, e la parola su di essa fosse gesto. Riflessi pavloviani di un avvocato, aduso alla scenica e alla mimica della vita forense? No, molto di più. Tanto è vero che il progetto originario del «volumetto» pareva non poter prescindere dal contributo di Carlo Levi: un artista che era anche un moralista (oltreché un ex azionista), e che fin dal ’44 era andato cercando una sua maniera antiretorica per figurare l’esperienza resistenziale.
Quale si conserva presso gli archivi della casa editrice, la successiva corrispondenza fra Calamandrei e Laterza documenta nel dettaglio la genesi di Uomini e città della Resistenza. L’editore aderì alla proposta con entusiasmo. All’autore, che titubante gli domandava se l’immaginato volume avesse «qualche probabilità di interessare il pubblico», rispondeva senza esitare che in ogni caso, «a parte l’interesse» dei potenziali lettori, un libro simile rappresentava il più degno dei contributi possibili alla celebrazione del decennale repubblicano. Peraltro, Vito Laterza invitò Calamandrei ad «andare al di là» del progetto originario, accompagnando ciascuna epigrafe con un racconto più disteso dell’episodio o del momento ricordato dal testo epigrafico. A fronte della ritrosia di Calamandrei a impegnarsi in una vera e propria ricostruzione storica, l’editore gli suggerì di raccogliere in volume, con le epigrafi, i principali discorsi ch’egli aveva dedicato alla Resistenza: «allora le due parti si integrerebbero a vicenda e ne verrebbe un insieme di interesse veramente unico». Calamandrei accettò; e sua fu la proposta di «intercalare» i discorsi e le epigrafi. Il titolo venne suggerito invece da Laterza, così come l’ordinamento interno del volume.
…
L’autore
Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, scrittore e uomo politico, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e tra gli artefici della Costituzione repubblicana. Nel 1945 fondò a Firenze la rivista “Il Ponte”, animando il dibattito politico, culturale e civile del primo decennio della Repubblica. Nel catalogo Laterza anche: Zona di guerra. Lettere, scritti e discorsi (1915-1924) (a cura di Silvia Calamandrei e Alessandro Casellato); Una famiglia in guerra. Lettere e scritti (1939-1956) (con Franco Calamandrei, a cura di Alessandro Casellato); Fede nel diritto (a cura di Silvia Calamandrei); Non c’è libertà senza libertà senza legalità; Il fascismo come regime della menzogna.
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.