Giuseppe Fenoglio detto Beppe è stato uno scrittore, partigiano
1 marzo 1922 nasce Giuseppe Fenoglio detto Beppe, partigiano scrittore. Studente universitario, nel 1943 si trovava a Roma come allievo ufficiale dell’Esercito. All’armistizio tornò nella sua città natale. Quando Enrico Martini Mauri organizzò le formazioni partigiane Autonome, vi aderì con entusiasmo, assumendo il ruolo di ufficiale di collegamento. Fenoglio partecipò alla guerra di liberazione nelle Langhe e fu tra i partigiani che il 10 ottobre del 1944 entrarono in Alba, proclamando una repubblica antifascista che durò 23 giorni. Nel dopoguerra, Fenoglio visse lavorando come impiegato in un’azienda locale e scrivendo libri e racconti, in gran parte ispirati alla Resistenza e alcuni dei quali usciti postumi. Tra le sue opere: “I ventitré giorni della città di Alba” (Torino 1952), “La malora” (Torino 1954), “Primavera di bellezza” (Milano 1959), “Un giorno di fuoco” (Milano 1963), “Il partigiano Johnny” (Torino 1968), “La paga del sabato” (Torino 1969). Da “Il partigiano Johnny”, il regista Guido Chiesa ha tratto il film dal titolo omonimo presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2000. Il 10 marzo 2005, all’Università di Torino, a Beppe Fenoglio è stata conferita la laurea “honoris causa” in Lettere alla memoria.
Opere
I ventitré giorni della città di Alba, Einaudi, Torino, 1952
Laurea Honoris Causa in Lettere (postuma) – 2005 – nastrino per uniforme ordinaria Laurea Honoris Causa in Lettere (postuma) – 2005
«la Facoltà propone che a Beppe Fenoglio, scrittore che già annoveriamo tra i “classici”, e certamente tra i massimi del Novecento, venga com’era sua speranza “portata a casa” (post mortem) la laurea in Lettere, a riconoscimento della sua grandezza assoluta[10]»
-Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”-Copia anastatica Rivista PAN-n°12 del 1935
Giuseppe De Robertis Fu poi per qualche tempo collaboratore del Corriere della sera. All’inizio del 1943 fu richiamato alle armi. Non aderì alla Repubblica sociale e nel febbraio 1944 fu arrestato dalla polizia fascista e rilasciato dopo qualche giorno. Dello stesso anno è il volume Studi (Firenze 1944). Gli anni successivi alla guerra lo vedono intento ad ampi studi su Manzoni, Foscolo e Ariosto, mentre non si affievoliva la sua frequentazione del Leopardi. Nel 1945 vide la luce a Milano l’Apparato critico, delle varianti de “L’Allegria“, del “Sentimento“, delle “Poesie disperse“, con unostudio su Giuseppe Ungaretti. Manteneva una regolare collaborazione a riviste e giornali (tra gli altri al Tempo, alla Nazione e al Nuovo Corriere) per i quali scrisse soprattutto di letteratura contemporanea.
Giosuè CARDUCCI:”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”Giuseppe De Robertis :”Nascita della Poesia Carducciana”
Biografia di Giuseppe De Robertis- Critico Letterario
Giuseppe De Robertis
Giuseppe De Robertis-Critico letterario-Nato il 7 giugno 1888 a Matera da Domenico e da Maria Ruggieri, compì nella città natale gli studi ginnasiali e liceali. Nell’autunno del 1907, vinta una borsa di studio, non ancora ventenne si trasferì a Firenze per frequentare il corso di lettere presso l’Istituto di studi superiori, dove ebbe maestri quali Ernesto Giacomo Parodi, Guido Mazzoni, Michele Barbi ma soprattutto Girolamo Vitelli, alla cui scuola si formò insieme con Renato Serra, Emilio Cecchi, Carlo Michelstaedter e Scipio Slataper.
Dal Vitelli apprese il severo esercizio della filologia testuale e come gli altri compagni si fece amante del “testo” più che della “critica” del testo, distanziandosi dallo storicismo e indirizzandosi piuttosto verso uno studio tecnico, antiretorico e schivo, nella convinzione, acquisita dal maestro, che fosse necessario il fispetto scrupoloso del testo, indagato e ricostruito con amorevolezza umile e inquieta: “Quel poco che ho imparato come si leggono i poeti, io lo devo a lui [a Vitelli] … Con quella sua voce pacata e ardente … egli ci offriva tutte le volte una lampante prova di come non si dovesse per nulla aggredire la poesia” (Scrittori del Novecento, Firenze 1940, p. 407). Allo studio filologico il D. già affiancava la ricerca dell’inespresso e cioè di quel “valore” che vivifica la parola cristallizzandola in poesia.
Nel maggio del 1912, non ancora laureato, iniziò la sua collaborazione alla Voce, allora diretta da G. Prezzolini, con un articolo su Salvatore Di Giacomo, seguito da alcuni “consigli del libraio”. Del 28 febbr. 1914 è l’importante saggio Da De Sanctis a Croce, col quale il D. si misurava con tre grandi della critica italiana: De Sanctis, Carducci e Croce. Il suo intento dichiarato era quello di svincolarsi dalla loro autorità, liberarsi da schemi che considerava ormai inattuali e “rinfrescare la sensibilità” del giudizio letterario. Il fatto che nella sua attività risentisse poi quasi necessariamente della loro lezione, non toglie che in questo periodo egli fosse del tutto intenzionato a “Procedere per altre vie”, alla ricerca di nuove verità dell’arte, spinto in questo tanto dall’esperienza della tradizione classica quanto dalle suggestioni che gli provenivano dal mondo “inquieto” della nuova poesia.
Il suo giudizio sulla critica del De Sanctis, sebbene articolato, era chiaramente limitativo. ne riconosceva la grandezza innovativa ritenendola però inadeguata alle esigenze della sensibilità moderna. Ne ammirava la capacità analitica, quella facoltà che gli permetteva di rivivere dentro di sé, e drammaticamente, la letteratura e di saperne ricreare poi l’immagine in forme e figure che erano arte esse stesse (“la prosa desanctisiana è senz’altro arte”), ma in questo intravvedeva una certa incompiutezza: era insodisfatto di come a queste “escavazioni gigantesche operate nell’animo dei poeti” il De Sanctis non sapesse poi far corrispondere “il contatto della poesia come poesia”, il gusto, l’assaggio della parola e del verso per quello che erano in sé e non solo per come erano risuonati in lui. Nei confronti del Croce la sua posizione fu più complessa. Di lui accoglieva certamente il concetto di autonomia del fatto artistico, e nel “saper leggere” (titolo programmatico di un intervento apparso sulla Voce del 30 marzo 1915) intendeva la forma più pura della critica, anzi senz’altro la “critica purat, svincolata da altre ragioni che non fossero quelle inerenti alla poesia stessa. Però gli sembrava inaccettabile quel mantenersi sempre neutrale, quel non compromettersi mai del giudizio crociano che, riconducendo tutto a ragione storica, si lasciava sfuggire l’essenzialità della poesia. La polemica sorta con il Croce, definito senza mezzi termini un De Sanctis freddo, senza sensibilità e commozione, e con i crociani (che – come L. Russo – non gli risparmiarono giudizi fortemente negativi) si appuntò specialmente sul metodo. Il D. riduceva il Croce nei confini di un angusto storicismo, ignorandone o fraintendendone alcuni aspetti (Scalia, Del Beccaro); ma se ricondurre la poesia alle ragioni della storia gli sembrava uno svilimento, uno snaturamento dell’arte, i crociani d’altra parte gli rimproveravano di “novecentizzare” tutti i poeti che avvicinava e di non saper concretizzare in vera critica, in giudizio fermo e fondato sulla storia, quei tentativi enfatici che restavano circoscritti nel puro calligrafismo (Russo). Il D. però percorreva consapevolmente un’altra strada, dopo aver risolto a suo modo il problema della storia, adottando una soluzione di fatto antitetica a quella dei suoi interlocutori, soluzione che del resto fu antesignana di ulteriori e fecondi sviluppi. Il suo “saper porre gli autori in armonia col quadro della storia” consisteva nel rintracciare uno sviluppo della poesia, che fosse soprattutto sviluppo dello stile, storia del muoversi della forma secondo appropriati e variabili motivi di continuità e di trasformazione del sentimento, della parola, della sintassi, della musica (Anceschi). Quel gusto alla “lettura” che il D. trovava troppo scarso nel De Sanctis era più corposamente presente e dichiarato nella lezione carducciana. Il Carducci si era accostato alla poesia con precisione di gusto e il D. sulla scorta del Serra vi ritrovava quel senso dell’arte che era senso umano e morale insieme, che teneva presente la tradizione italiana ma la leggeva e l’intendeva con chiarezza e vigore. La linea della sua critica fu dunque orientata subito nel solco privilegiato Serra-Carducci, anche se di quest’ultimo sembravano sfuggirgli altre componenti, prime fra le altre il senso della storia e l’impianto metodologico. Era infatti conforme ai principi del D. rifuggire accuratamente da qualunque sistema che lo costringesse in un orizzonte limitato, che non gli consentisse di dialogare liberamente con i suoi poeti: “per creare una critica nuova, non c’è tanto bisogno di teorie estetiche diverse, quanto di sensibilità“.
Se la letteratura, centro vivo dell’interesse personale e di una passione intellettuale, lo avvinse totalmente nella sua attività il D. fu attratto particolarmente da certi esempi che gli venivano dal panorama contemporaneo italiano: lo stesso Croce, per i concetti di intuitività e immediatezza del fatto artistico; il Prezzolini per i riferimenti all’estetica; lo colpivano altresì la puntuale sensibilità di E. Cecchi e gli ardori del Soffici (Anceschi). Ma sopra tutti vale per lui la figura di Renato Serra, con cui intrecciò un dialogo fitto di intese e corrispondenze che trovavano la loro ragion d’essere nella comune (anche se nel D. solo mediata) educazione carducciana e nel vivo e inquieto sentimento dell’arte e della letteratura intese come mondi spirituali e morali. Direttamente dal Carducci proveniva ai due il gusto della critica come “lettura”, che si traduceva nel D. in una posizione di programmatica irregolarità, di antiaccademismo, anzi nel sostanziale rifiuto del termine di “critico” per quello più modesto di “lettore”.
Nel giugno del 1911 iniziò il rapporto epistolare con il Serra e il D. ne guadagnò subito l’amicizia e la stima: in una delle sue lettere il Serra faceva pubblicamente cenno a lui come a “un critico serio e robusto” e fu proprio il Serra che lo incoraggiò a scrivere e poi a collaborare alla Voce, restandogli sempre accanto come amico, ma anche esempio e guida. Il D. lavorò con serietà e passione alla Voce e, nonostante la giovane età, con il numero del 15 dic. 1914 ne assunse la direzione per voto unanime del consiglio, che accoglieva così la proposta del dimissionario Prezzolini (proposta sostenuta anche dagli interventi di Papini e Soffici). La Voce “bianca” (per il colore della copertina) assunse un carattere più critico e più spiccatamente letterario rispetto a quella “gialla” di Prezzolini. Esaurita la stagione dell’idealismo militante, l’arte si ripiegava su se stessa e la critica esplicava sul terreno dell’estetica quei valori morali che facevano di ogni pagina una compromissione personale e un’assunzione di responsabilità precise, nella consapevolezza e nella convinzione che la critica non potesse e non dovesse essere mai “disinteressata”. Gli scritti vociani (anche se non solo quelli) del D., attentissimi alla contemporaneità e sempre improntati ad una vigoria di giudizio che, talora diventava anche animosità, sono un dialogo con se stessi, una ricerca delle proprie ragioni letterarie e morali. L’insegnamento del Serra si tradusse nel D. in un giudizio più fermo e si precisò in un’attenzione più concreta al dato stilistico, animata dal rispetto del testo, rispetto che aumentava quando si trattava di autori giovani o di contemporanei: “l’estetica diventa un’etica” (Luperini).
Gli scritti Collaborazione alla poesia, II, Carducci moderno (30 genn. 1915) e Saper leggere (30 marzo 1915) in questo senso sono programmatici: il critico non è un astratto osservatore ma partecipa dell’opera poetica e vi fa partecipare il lettore, anzi la fa rivivere sotto i suoi occhi. Anche se in misura meno accentuata rispetto al Serra, la critica derobertisiana resta comunque fortemente pervasa di autobiografismo e la ricerca del bello si fa in qualche tratto compiaciuto estetismo: la volontà di chiarezza sui luoghi della poesia (la “poesia pura”) e della non poesia, diventa in alcuni casi privilegiato assaporamento di pochi versi e di poche terzine, quasi misticismo della parola. Il terreno privilegiato su cui si esercita una critica siffatta è infatti il “frammento”, il giro breve e serrato dove si concentrano il massimo di intensità e di nitore formale e stilistico, dove il sentimento vibra all’unisono nel poeta e nel critico, originando una pagina intensa e lirica anch’essa, con periodi brevi, isolati, ritmata da un continuo interrogarsi e correggersi. La prosa critica si fa prosa d’arte. Sulla Voce derobertisiana trovano spazio le prime cose di autori che diverranno fondamentali per il Novecento italiano: Ungaretti, Campana, Bacchelli, Cardarelli e altri che conferirono non solo alla rivista ma a tutto il periodo un carattere “prezioso”, di impegno squisitamente letterario e poetico, mantenendosi al di fuori di tutto quanto non fosse la ricerca del bello stile. La Voce del D. rappresentò, di fronte alla diaspora prezzofiniana, la fedeltà alla ricerca della poesia, lo scontento per l’estetica crociana, la reverenza per la serietà della cultura nella ricerca dell’opera d’arte (Garin). C’è chi ha negato l’esistenza della Voce letteraria, riducendola a “un titolo, una declinazione di temi e a una serie di collaboratori” riuniti soltanto dal nome e dall’attività del D. (Scalia). Anche se questa posizione può apparire troppo radicale, bisogna tuttavia riconoscere alla Voce “bianca” una certa eterogeneità e concludere che fu solo grazie all’opera infaticabile del suo direttore se la rivista continuò ad uscire regolarmente e mantenne un certo carattere unitario.
La direzione del D. continuò nominalmente fino a tutto il 1916 (anno in cui la rivista cessò le sue pubblicazioni), ma in realtà la sua collaborazione attiva si era esaurita con l’ultimo numero del 1915. Erano gli anni foschi della guerra e la tragica morte del Serra lo aveva colpito profondamente, anche perché egli sembra accogliere l’ipotesi del suicidio: fare poesia non sulla guerra ma in mezzo alla guerra, come aveva coraggiosamente sostenuto in precedenza, coltivare la poesia come impegno civile, combattere la propria battaglia sulla pagina se non al fronte, tutto questo non gli sembrava più praticabile. La decisione di abbandonare la Voce nacque proprio dalla consapevolezza dell’impossibilità di coltivare l’arte pura, lontana dalle incrostazioni e dalle contaminazioni del presente storico, senza deflettere dalla propria intima moralità. Questo gesto è da intendersi dunque come la constatazione del declino di un ideale, in un momento che preludeva al rondismo come ripristino dell’ordine nelle lettere. Nel 1917 il D. si laureò con una tesi su Salvatore Di Giacomo.
Chiamato alle armi all’inizio dell’anno seguente, partecipò alle ultime fasi del conflitto mondiale come sottotenente di complemento. Nel settembre del 1919 sposò Maria De Palma (da cui ebbe i figli Domenico e Maria Vita), trasferendosi a Bologna dove soggiornò per un breve periodo insegnando in un ginnasio e collaborando al Progresso. L’anno seguente tornò definitivamente a Firenze dove insegnò materie letterarie al conservatorio musicale “Luigi Cherubini”, inizialmente come incaricato, poi in ruolo dal 1931. L’insegnamento comunque non interruppe gli studi che, anzi, si fecero più metodici e regolari e dei quali punto di partenza e continuo centro di riferimento diventavano Leopardi e Ungaretti. Di Leopardi preparò una scelta dallo Zibaldone, preceduta da una Introduzione (Zibaldone scelto a annotato, Firenze 1922) che costituì il primo nucleo del Saggio sul Leopardi (pubblicato prima come introduzione a G. Leopardi, Opere, Milano 1937, quindi come volume a sé, ripetutamente riveduto e accresciuto: Firenze 1944; ibid. 1946; ibid. 1960). Sono questi gli anni in cui preparò, in collaborazione con Pietro Pancrazi, alcune raccolte antologiche di prosa e di poesia destinate alla scuola (Poeti lirici dei secoli XVIII e XIX, Firenze 1923 e Le più belle pagine di V. Alfieri, Milano 1928), mentre continuava i suoi studi leopardiani che sfociarono nell’interpretazione dei Canti (Firenze 1927). Fu collaboratore e redattore di Pegaso (1929-33) e poi di Pan (1933-35), e venne chiamato a collaborare presso la casa editrice Le Monnier per la quale fondò e diresse la collana “Biblioteca di letteratura e d’arte”. Per la stessa casa editrice aveva curato l’edizione delle opere di Poliziano (Le Stanze, l’Orfeo e le Rime, Firenze 1932) e, insieme con L. Ambrosini e A. Grilli, l’Epistolario di Renato Serra (ibid. 1934), seguito dalle Poesie di Parini (ibid. 1935). Per Vallecchi preparò il Fior fiore di A. Soffici (ibid. 1937). Su Ungaretti, superato un primo impatto (1919) che non lo aveva trovato particolarmente favorevole e riconosciutane poi la assoluta grandezza nel panorama della poesia italiana, intervenne a più riprese e nel 1945 curò a Milano l’edizione delle Poesie disperse, cui premise un importante saggio introduttivo (Sulla formazione della poesia di Giuseppe Ungaretti).
Di questa poesia il D. sottolineò “un certo classicismo trasparentissimo” e il ritmo interiore scandito dalla parola-silenzio, anzi restò talmente affascinato dall’azione di scavo operata dal poeta sulla parola che non mancò chi lo accusò di avere “ungarettizzato” tutta la letteratura italiana e di leggere qualunque poeta riconducendolo sempre ad un ideale di verso ellittico, frammentario e non finito (Russo). Sia pure con intento diverso, Adelia Noferi, allieva del D., si inserì in questo stesso solco quando sostenne che egli mutuò da Ungaretti la ricerca dell’assoluto, della verità in un’ansia continua di perfezione. A certo che con questo poeta intrattenne un rapporto intenso fondato sulla vivissima stima e sull’affetto fraterno, di cui si conserva traccia nel carteggio. È con la poesia postsimbolista francese e con quella di Ungaretti in particolare, che in Italia si cominciò ad avere un diverso approccio al testo poetico, con un’attenzione più precisa al fattore tecnico-espressivo, ai valori formali, in un’indagine tutta tesa al recupero della “parola” assoluta: è l’inizio – secondo d’Arco Silvio Avalle- della critica formalistica, che in Italia troverà solo molto più tardi compiuti sviluppi e più precise teorizzazioni. Questo tipo di analisi condusse anche ad un diverso rapporto con l’insieme del materiale poetico e il D., lavorando sulle varianti, ricostruì le diverse fasi della poesia, ne ripercorse la genesi, ne rivisse lo sviluppo, auscultandone i movimenti più segreti. Il fascino e la magia di questo pazientissimo lavoro vennero pienamente in luce negli studi su Leopardi, iniziati nel ’22 e continuati per oltre un ventennio. Il gusto penetrante e intuitivo della lettura, lenta e assaporata, assorta nella meditazione della bellezza poetica, si arricchì e si amplificò nell’analisi delle varianti che concorrono quasi in praesentia l’una con l’altra a dilatare il piacere del verso. Nel loro esame il D. riconferma la sua insofferenza per ogni schema troppo vincolante che mortifichi l’individualità creatrice del poeta per appiattirlo all’ossequio di necessità che non siano solo quelle della sensibilità poetica, anche se col tempo questo si è rivelato l’aspetto più fragile del suo lavoro, come si può intendere dal cordiale dissenso che gli manifesta Gianfranco Contini proprio a proposito delle varianti di ASilvia.
Nel saggio del ’37 il D., che nella lettura del Leopardi aveva maturato e perfezionato la sua stessa educazione, sciolse compiutamente il suo discorso critico: la sua prosa si fa “lettura totale”, tesa a svelare l’intimità del suo poeta secondo modi nati dalla curva delle parole nel puro senso di valori e rapporti che alle più insistite interrogazioni si sostengono da ogni pagina (Anceschi).
Nel novembre del 1938 gli venne conferito l’incarico di insegnamento alla cattedra di letteratura italiana presso la facoltà di lettere di Firenze, quella stessa da cui Momigliano era stato allontanato in seguito alle leggi razziali. In quell’anno curò, con la collaborazione di A. Grilli, gli Scritti di R. Serra. Nel 1939 fu nominato professore ordinario di chiara fama, tenendo la sua prolusione sul tema Linea della poesia foscoliana: mentre uscivano i suoi Scritti con una noterella (Firenze 1939) e l’anno seguente Scrittori del Novecento (ibid.).
Fu poi per qualche tempo collaboratore del Corriere della sera. All’inizio del 1943 fu richiamato alle armi. Non aderì alla Repubblica sociale e nel febbraio 1944 fu arrestato dalla polizia fascista e rilasciato dopo qualche giorno. Dello stesso anno è il volume Studi (Firenze 1944). Gli anni successivi alla guerra lo vedono intento ad ampi studi su Manzoni, Foscolo e Ariosto, mentre non si affievoliva la sua frequentazione del Leopardi. Nel 1945 vide la luce a Milano l’Apparato critico, delle varianti de “L’Allegria“, del “Sentimento“, delle “Poesie disperse“, con unostudio su Giuseppe Ungaretti. Manteneva una regolare collaborazione a riviste e giornali (tra gli altri al Tempo, alla Nazione e al Nuovo Corriere) per i quali scrisse soprattutto di letteratura contemporanea.
Nel febbraio del 1947 venne confermato nel suo ruolo di insegnamento universitario da una commissione ministeriale, in conformità con il provvedimento che sottoponeva ad un accertamento dei meriti effettivi quanti erano stati chiamati alla cattedra per chiara fama.
Offertagli la presidenza di un gruppo culturale intitolato a Renato Serra e fondato da Felice Del Beccaro e Arnaldo Pizzorusso, il 1º febbr. 1947 il D. tenne il discorso inaugurale. Nel 1949 uscirono a Firenze i Primi studi manzoniani e altre cose. Alla fine del ’50 compì l’ultimo viaggio a Matera: nonostante se ne fosse allontanato giovanissimo, vi tornava spesso con il pensiero e considerava quella la “sua” terra, l’alma mater che continuava a vivere dentro di sé, diletta su tutte le altre.
Al termine dell’anno accademico 1957-58 lasciò l’insegnamento. Nel 1962 uscì, presso la casa editrice Le Monnier, Altro Novecento.
Il D. morì a Firenze il 7 sett. 1963.
Giuseppe De Robertis
Postumi videro la luce gli Scritti vociani, a cura di E. Falqui, Firenze 1967; Studi II, a cura di D. De Robertis, Firenze 1971; G. Ungaretti-G. De Robertis, Carteggio 1931–1962, a cura di D. De Robertis, Milano 1984.
Fonti e Bibl.: E. Bigi, in Giorn. stor. della lett. ital., CXLI (1964), pp. 155-58 (necr.); in Convivium, XXXII (1964), 2-3, pp. 281 s.; R. Serra, Le lettere, in Scritti, a cura di G. De Robertis-A. Grilli, Firenze 1938, ad Indicem;E. Falqui, D. e il “saper leggere”, in Novecento letterario, s.5, Milano 1940, pp. 180-91; Id., D. e la “Voce”, ibid., pp. 192-222; L. Anceschi, G. D. tra la “Voce“ e la “Ronda“, in Saggi di poetica e di poesia, Bologna 1972, pp. 113-83; L. Russo, La critica letter. del Novecento, III, Dal Serra agli ermetici, Bari 1943, pp. 208-41; La Fiera letteraria, 3 apr. 1955 (numero monografico a cura di I. Piccioni; articoli e saggi di G. B. Angioletti, L. Baldacci, C. Bo, L. Caretti, C. Cassola, G. Cattaneo, E. Cecchi, E. Falqui, G. Folena, M. Fubini, N. Lisi, G. Luti, M. Luzi, G. Manzini, A. Noferi, A. Parronchi, E. Pea, L. Piccioni, I. Pizzetti, A. Seroni, G. Ungaretti); E. Falqui, La “Voce“ di D., in Letteratura, IV (1956), 19-20, pp. 48-67; G. Prezzolini, Il tempo della “Voce“, Milano-Firenze 1960, ad Indicem; G. Scalia, introd. a “Lacerba“, “La Voce” (1914–1916), in La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, IV, Torino 1961, pp. 77-118 e ad Indicem; G. Ferrata, “La Voce”1908–1916, San Giovanni Valdarno-Roma 1961, pp. 58-61; E. Garin, La cultura ital. tra 500 e ‘900, Bari 1962, pp. 93 s., 201; F. Del Beccaro, G. D., in Belfagor, XVIII (1963), 5, pp. 552-79; W. Binni, Saluto aG. D., in La Rass. della letter. ital., s. 7, LXVII (1963), pp. 399-401; A. Noferi, G. D. e l’oggetto poetico, Paragone letteratura, XIV (1963), 168, pp. 3-28; F. Bruno, Ricerche critiche di G. D., in Idea, XX (1964), pp. 29-32; L. Caretti, D.: “fatto personale“ e congedo, in Dante, Manzoni e altri studi, Milano-Napoli 1964, pp. 159-72; O. Macri, La mente di D. (Il critico come scrittore), in Letteratura, n. s., XII (1964), 69-71, pp. 16-75 (ora in Realtà del simbolo, Firenze 1968, pp. 295-401); Omaggio a D., in L’Approdo letterario, n. s., X (1964), 25 (numero monografico a cura di A. Noferi; scritti di E. Cecchi, L. Caretti, E. Garin, S. Timpanaro, E. Falqui, A. Seroni, P. Bigongiari, C. Bo, A. Gatto, M. Luzi, L. Baldacci, M. Forti, G. Contini; testimonianze e ricordi di I. Pizzetti, G. Ungaretti, R. Bacchelli, C. Carrà, D. Valeri, N. Lisi, G. Devoto, A. Angelini, F. Del Beccaro, A. Rossi, G. Cattaneo, M. Masciotta, M. Carrà, A. Parronchi, L. Piccioni. A. Noferi); G. Titta Rosa, Epiloghi, in Osservatore politico e letter., X (1964), I, pp. 75-78; E. Falqui, Gliscritti vociani di G. D., in Il Veltro, XI (1967), 3, pp. 277-289; F. Del Beccaro, G. D., in I critici, Milano 1969, III, pp. 2329-2357; M. Apollonio, D. e la “forma” fraantico e moderno, ibidem, pp. 2357 ss.; G. Cattaneo, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, IX, Il Novecento, Milano 1969, pp. 253 ss.; N. Sapegno, ibid., p. 895; d’A. S. Avalle, L’analisi letteraria in Italia. Formalismo, strutturalismo, semiologia, Milano-Napoli 1970, ad Indicem; L. Caretti, D. e le “strutture formali“, in Critica e storia letteraria. Studi offerti a M. Fubini, III, Padova 1970, pp. 532-40; E. Cecchi, Letter. ital. del Novecento, a cura di P. Citati, II, Milano 1972, p. 1179-82, 1243-48; R. Luperini, Gli esordi del Novecento e l’esperienza della “Voce“, in Letter. ital. (Laterza), a cura di C. Muscetta, IX, 1, Roma-Bari 1976, pp. 52-55; I classici ital. nella storia della critica, I-III, a cura di W. Binni, Firenze 1977, ad Indices; M. Bruscia, G. D., in Letter. ital. contemporanea, Roma 1979, pp. 803-08; L. Piccioni, Per G. D., in Proposte di lettura, Milano 1984, pp. 99-116; G. D. Giornata di studio e mostra documentaria promossa dal Gabinetto scientifico letterario G. P. Vieusseux, a cura di L. Caretti, Firenze 1985 (con interventi di G. Contini, E. Garin, C. Bo, M. Luzi, G. Gavazzeni, S. Timpanaro).
Eugenio Montale è stato uno tra i più importanti poeti del Novecento –
Eugenio Montale è stato uno tra i più importanti poeti del Novecento, capace di interpretare la crisi dell’uomo contemporaneo, avendo vissuto in prima persona le esperienze delle due guerre e la dittatura fascista.
Nelle sue opere ha cantato il male di vivere e la fine delle speranze, delle illusioni, ricollegandosi alla poetica di Giacomo Leopardi, senza avere certezze o verità assolute, ma impegnandosi sempre nel cercare una ragione e un significato, un valore individuale e collettivo per cui la sofferenza possa essere vinta. Quello di Montale è dunque un pessimismo attivo che si pone delle domande sul senso della vita, per cercare di intravedere la verità, in una posizione capace di stare nella disperazione, nella nostalgia di una serenità perduta, tipica del Leopardi, al fine di comprendere meglio la realtà.
La poesia che apre la sua prima, celebre raccolta, intitolata Ossi di seppia è una vera e propria dichiarazione di poetica in cui l’autore si rivolge al lettore invitandolo a meditare sulla crisi di certezze dell’uomo contemporaneo, che spesso cade nell’inganno di poter trovare una formula risolutiva o una spiegazione sicura alle sue inquietudini, alle vicende della storia. Il poeta è colui che sa di non avere certezze e che può soltanto esprimere “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, cioè l’impossibilità stessa di avere una qualche risposta.
La casa dei doganieri a Varengeville – Claude Monet – 1882
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Eugenio MONTALE
Sempre della stessa raccolta, I limoni è un’altra dichiarazione di poetica da parte di Montale che nei primi versi prende le distanze dai “poeti laureati”, come Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio, che “si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”; egli, invece, ama il linguaggio comune e familiare, assumendo l’umile pianta dei limoni come simbolo della sua poesia che qui richiama lo stile crepuscolare. La tipica figura dannunziana del poeta vate è quindi ben lontana dalla visione di Montale, nonostante consideri d’Annunzio un autore con il quale è necessario confrontarsi per ogni letterato.
Il compito di Montale sarà quello di andare oltre le apparenze, le costruzioni artificiose dei versi, indagando la condizione esistenziale dell’uomo moderno, seguendo l’esempio di autori come Luigi Pirandello e Italo Svevo. Proprio quest’ultimo venne scoperto e amato da Montale quando era ancora ignorato in Italia dai critici. Nel 1925 pubblicò sulla rivista mensile L’esame l’articolo Omaggio a Italo Svevo, in cui sottolinea l’importanza e l’originalità del capolavoro La coscienza di Zeno. Montale ebbe inoltre il merito di essere uno dei primi estimatori, ad oggi il più autorevole, del poeta Dino Campana.
Eugenio MONTALE
Nato a Genova nel 1896, trascorse sin dall’infanzia le vacanze estive a Monterosso, nelle Cinque Terre, nella villa costruita dal padre. Il paesaggio marino avrà un ruolo decisivo nella raccolta Ossi di seppia. Diplomatosi ragioniere, mostrò però sin da subito interessi nella lettura e nella musica. Seguì allora i consigli della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia e si formò da autodidatta, in particolare su Dante, Petrarca, Boccaccio e d’Annunzio.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, nel 1922 uscirono le sue prime poesie in una raccolta dal titolo Accordi, che mostra il suo interesse musicale. Il giovane Montale cercò nella letteratura il riscatto da una vita minacciata da un senso di fallimento e di inettitudine. Apprezzò subito il Simbolismo francese, soprattutto Paul Verlaine e Charles Baudelaire; evidenti nelle poesie di Accordi sono i tentativi di scrivere una poesia che sia soprattutto musica, sull’esempio di Verlaine, e la ricerca di corrispondenze tra uomo e natura, tipico della poetica di Baudelaire.
Veduta del paese di Riomaggiore – Telemaco Signorini – 1892 circa
Due sono le figure femminili decisive in questi anni: Anna degli Uberti, cantata con il nome di Arletta o Annetta nelle sue poesie, e Paola Nicoli. Saranno diverse le muse ispiratrici del poeta.
Il 1925 è l’anno di uscita della sua prima raccolta, Ossi di seppia appunto, mentre a livello politico si schiera in opposizione al regime di Benito Mussolini.
Due anni dopo si trasferì a Firenze, dove entrò in contatto con i maggiori intellettuali dell’epoca, tra cui Carlo Emilio Gadda e soprattutto Umberto Saba, iniziando a collaborare con la rivista Solaria. Fondamentale in questo periodo è la figura di Irma Brandeis, giovane studentessa americana giunta a Firenze per studiare Dante. Saranno a lei dedicate Le occasioni, la seconda raccolta dell’autore, edita nel 1939 da Einaudi. La relazione con Irma durò fino al 1938, quando la donna, di origine ebraica, dovette lasciare l’Italia a seguito della promulgazione delle leggi razziali.
Dal 1939 Montale vivrà con Drusilla Tanzi, detta Mosca, con cui si unirà in matrimonio nel 1962. Insieme si trasferirono nel 1948 a Milano, dove il poeta venne assunto dal Corriere della Sera. Milano è in questi anni la capitale industriale di un’Italia in cambiamento, che negli anni cinquanta conobbe il cosiddetto “boom” economico.
A livello sentimentale, tra i molti incontri di questi anni fu decisivo quello con la giovane poetessa Maria Luisa Spaziani, detta Volpe nel terzo libro intitolato La bufera e altro, uscito nel 1956. La raccolta, più varia rispetto le precedenti, allude allo sconvolgimento causato dalla guerra; Montale manifesta la propria sfiducia nella storia e l’impossibilità di portare avanti qualsiasi impegno politico. Nelle poesie domina ancora la presenza di Irma Brandeis, che diviene la figura mitologica di Clizia, l’amante di Apollo, donna angelicata portatrice di salvezza, sorta di Beatrice moderna. Dall’altra parte vi è anche la figura carnale di Volpe, espressione di un amore sensuale e concreto, lontano da quello ideale rappresentato da Clizia.
Comincia poi un lungo periodo di silenzio poetico interrotto solo nel 1964 con la morte della moglie Drusilla, a cui dedica una bellissima poesia, Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale. Nominato senatore a vita nel 1967, Montale ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1975, succedendo così a Pirandello, che lo aveva ricevuto nel 1934 e Salvatore Quasimodo, nel 1959.
Si spense a Milano nel 1981 presso la clinica San Pio X dove era ricoverato. I funerali di Stato furono celebrati due giorni dopo in Duomo, venendo poi sepolto a Firenze vicino alla moglie.
Eugenio Montale con Irma Brandeis.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Ossi di seppia
Il titolo della prima raccolta di Montale è ripreso da un’immagine presente nell’Alcyone di d’Annunzio e può assumere un duplice significato. Il primo è quello della leggerezza dell’osso di seppia che galleggia sulla superficie del mare abbandonandosi al flusso delle correnti; il secondo è quello della morte e dell’abbandono, da cui si ricava la metafora di una soggettività alla deriva. Le simbologie marine, presenti in quasi tutti i testi, costituiscono il motivo unificante dell’opera.
Il paesaggio è dunque fondamentale nei versi di Montale, un paesaggio i cui tratti distintivi sono le coste brulle e scoscese, una vegetazione scarsa e arsa dal sole, orti e prati polverosi. La simbologia del paesaggio è molto importante in quanto esprime i temi principali del poeta, cioè la difficoltà dell’esistere e il male di vivere. Per esempio l’immagine ricorrente del muro, alto e invalicabile, come nella poesia Meriggiare pallido e assorto, che in cima ha cocci di bottiglia appuntiti, è l’emblema della finitezza dell’uomo, del suo destino segnato dalla sofferenza e dall’impossibilità di andare oltre. Si parla in questo caso di correlativo oggettivo, cioè l’associazione di una precisa emozione ad un singolo oggetto, un’esperienza concreta che evoca subito una sensazione dell’animo.
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Il componimento è tra i più antichi del libro, in quanto l’autore lo ha datato 1916, anche se lo ha corretto e modificato nel 1922. Come spesso accade nella raccolta ad una prima parte descrittiva segue la seconda, conclusiva, di tipo filosofico ed esistenziale. Il paesaggio è quello ligure estivo, brullo e assolato, che presenta oggetti e animali semplici come muri, orti, cicale e formiche. Vi sono molti riferimenti a grandi poeti e ad alcuni topoi letterari. Il verbo “Meriggiare” si ritrova in d’Annunzio e assume il significato di “trascorrere il mezzogiorno”; le rime “sterpi : serpi” e “formiche : biche” sono presenti nella cantica dell’Inferno di Dante; la lingua poetica rimanda a quella di Pascoli e dei crepuscolari; infine il muro vede come illustre precedente la siepe leopardiana de L’infinito. Se però in Leopardi la siepe è un elemento positivo perché, ostruendo lo sguardo, attiva la facoltà di immaginazione, qui è una dura realtà che fa riflettere il poeta sulla propria condizione.
Nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato viene affrontato il tema del male di vivere, in un modo simile a Non chiederci la parola, il primo testo della raccolta, in quanto anche qui il poeta non può fare altro che riportare i fatti che avvengono nella propria vita, con un linguaggio scarno ed essenziale, senza offrire nessuna soluzione esistenziale definitiva. Il sentimento del male di vivere è rappresentato da tre immagini: il “rivo strozzato”, cioè il ruscello impedito nel suo scorrere; la “foglia riarsa”, secca e accartocciata; il “cavallo stramazzato”, crollato a terra per la fatica. Ad esse ne vengono contrapposte altrettante nella seconda quartina: la “statua”, la “nuvola” e il “falco”. Quest’ultime tre, al contrario delle precedenti legate alla terra, raffigurano una dimensione verticale e una tensione verso l’alto in quello che nella poesia è una climax ascendente.
Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Le occasioni
Il secondo libro di Montale è stato composto durante il clima politico del fascismo, divenuto regime. Per quegli scrittori non allineati alle scelte di Mussolini non restava che ritirarsi in una “cittadella delle lettere”, per questo l’opera nacque a Firenze, un tempo culla del Rinascimento e ora vivace centro intellettuale che guardava alla tradizione e ai valori umanistici, sede di riviste come Solaria e Letteratura. Il rifiuto e la presa di distanza dal regime si manifestano sul piano dello stile, più selezionato rispetto alla prima raccolta, e della metrica, più raffinata e priva di sperimentalismo, capace di valorizzare metri più tradizionali come l’endecasillabo. Le occasioni sono eventi particolarmente importanti, rivelazioni che possono cambiare il corso monotono dell’esistenza.
L’opera è dedicata a “I.B.”, sigla con cui indica la giovane studentessa Irma Brandeis con cui fu legato da una relazione amorosa soprattutto epistolare. Molti componimenti, tra i quali Lo sai: debbo riperderti e non posso, si alternano tra l’assenza e la presenza dell’amata, che in questo libro non viene ancora nominata, mentre nella Bufera sarà cantata col nome di Clizia.
Lo sai: debbo riperderti e non posso. Come un tiro aggiustato mi sommuove ogni opera, ogni grido e anche lo spiro salino che straripa dai moli e fa l’oscura primavera di Sottoripa.
Paese di ferrame e alberature a selva nella polvere del vespro. Un ronzìo lungo viene dall’aperto, strazia com’unghia i vetri. Cerco il segno smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia da te. E l’Inferno è certo.
In alcune lettere ad Irma, Montale dichiara che il componimento è ispirato alla partenza della donna dal porto di Genova per fare ritorno negli Stati Uniti. L’ambientazione è infatti quella portuale, in particolare dei grandi e ombrosi portici di Sottoripa, vicini al mare, le cui arcate chiuse impediscono che entri la luce della primavera. Montale rappresenta la città come un inferno di voci e rumori, facendo riferimento a Dante: le grida del porto richiamano quelle dei dannati nel Canto III; la “selva” del v.8 è invece la celebre “selva oscura” del canto d’apertura. Questo scenario diviene l’unica realtà possibile se manca colei che, sola, può dare significato alla vita del poeta.
Molto poetico è l’incipit del componimento Non recidere, forbice, quel volto, in cui l’autore si rivolge al tempo supplicandolo di non cancellare dalla sua memoria anche il ricordo più importante, quello del viso dell’amata. La forbice è in questo caso il correlativo oggettivo del tempo inesorabile. Nella seconda quartina questa perdita si consuma; la dolorosa esperienza viene descritta con un’immagine realistica, cioè il colpo deciso di potatura che recide un ramo di acacia da cui cade, il guscio vuoto di una cicala. In questi versi è importante l’arrivo improvviso del freddo, il quale spazza via la bella stagione, anch’essa caduta nel primo fango d’autunno, nella “belletta”, termine dantesco e dannunziano.
Non recidere, forbice, quel volto, solo nella memoria che si sfolla, non far del grande suo viso in ascolto la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala… Duro il colpo svetta. E l’acacia ferita da sé scrolla il guscio di cicala nella prima belletta di Novembre.
Il tema della memoria e del ricordo, già caro al Leopardi, è espresso dal componimento, datato 1930, La casa dei doganieri. La poesia è costituita da quattro strofe con alternanza di cinque e sei versi che hanno in prevalenza endecasillabi. Il poeta e l’amata hanno vissuto un momento di vita vera e autentica presso la casa dei doganieri, ma i loro destini sono ora separati: il poeta vive ancora, mentre la donna è perduta e forse morta. Lui è però rimasto legato al ricordo di quel momento e del luogo dell’incontro; lei lo ha invece dimenticato.
Oltre al ricordo, anche il tema della giovane morta prematuramente è ripreso da Leopardi, nella celebre A Silvia. Nonostante siano simili, i due testi presentano però delle differenze. La lirica leopardiana espone nell’incipit una domanda che introduce una comunione di affetti con l’interlocutrice, “Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale?”, mentre per Montale la comunicazione è negata sin da subito, “Tu non ricordi la casa dei doganieri”. Non vi è quindi alcuna speranza nell’animo di Montale, sebbene non ci dica con certezza che la donna è morta, forse è assente perché perduta, mentre Silvia è una povera ragazza stroncata dalla morte che Leopardi ricorda con toni d’affetto.
Montale rievoca dunque un incontro con l’amata mentre si trova da solo una sera nello stesso luogo che ne era stato lo scenario anni prima, cioè la vecchia stazione dei finanzieri a picco sul mare nei pressi di Monterosso. È quindi probabilmente un ricordo della sua giovinezza e la figura femminile quella di Anna degli Uberti, Arletta. La rievocazione di quel momento non è in grado però di conservarne viva la memoria. L’idea di memoria è debole e incerta nella poetica di Montale. La poesia non può rendere eterno l’istante, l’attimo privilegiato, ma solo esprimerne la precarietà, come nel componimento precedente.
Tu non ricordi la casa dei doganieri sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: desolata t’attende dalla sera in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura e il suono del tuo riso non è più lieto: la bussola va impazzita all’avventura. e il calcolo dei dadi più non torna Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana la casa e in cima al tetto la banderuola affumicata gira senza pietà. Ne tengo un capo; ma tu resti sola né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende rara la luce della petroliera! Il varco è qui? (Ripullula il frangente ancora sulla balza che scoscende …) Tu non ricordi la casa di questa mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
La bufera e altro
Il titolo della raccolta, inizialmente La bufera, uscita nel 1956, venne parzialmente cambiato l’anno successivo da Mondadori in La bufera e altro. Esso allude allo sconvolgimento causato dalla guerra. Gli anni di composizione dell’opera vanno dal 1940 al 1954 e corrispondono ai momenti più drammatici vissuti dall’autore, sia sul piano pubblico che su quello privato. Oltre alla guerra si parla infatti nelle poesie anche dei lutti della madre, della lontananza di Clizia e della malattia di Mosca. A seguito della guerra vi sono poi gli anni della delusione politica: Montale manifesta una totale sfiducia nella storia e dichiara l’impossibilità per lui di portare avanti qualsiasi impegno politico. Per questi motivi la simbologia degli oggetti, tipica dei suoi versi, diviene oscura e indecifrabile.
Questa terza raccolta è il libro più vario e complesso dello scrittore, costituito da sette sezioni, che presenta un andamento romanzesco, Romanzo era stato infatti uno dei titoli alternativi.
La poesia A mia madre è una sorta di preghiera laica composta alla fine del 1942 in occasione della morte della madre e pubblicata nel 1943 prima di entrare a far parte del libro. Nel Novecento il tema della preghiera alla figura materna rappresenta un vero e proprio topos letterario che aveva i suoi precedenti in Umberto Saba e nel capolavoro di Giuseppe UngarettiAlla madre. Si ritroverà in seguito anche in Pier Paolo Pasolini e Giorgio Caproni. In Montale, grazie al ricordo di chi se ne va da parte di chi resta, alla memoria dei gesti, la madre rimarrà sempre tra i vivi.
Ora che il coro delle coturnici ti blandisce nel sonno eterno, rotta felice schiera in fuga verso i clivi vendemmiati del Mesco, or che la lotta dei viventi più infuria, se tu cedi come un’ombra la spoglia (e non è un’ombra, o gentile, non è ciò che tu credi) chi ti proteggerà? La strada sgombra non è una via, solo due mani, un volto, quelle mani, quel volto, il gesto d’una vita che non è un’altra ma se stessa, solo questo ti pone nell’eliso folto d’anime e voci in cui tu vivi;
e la domanda che tu lasci è anch’essa un gesto tuo, all’ombra delle croci.
Biografia di Eugenio Montale, Poeta italiano (Genova 1896 – Milano 1981). Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta (Ossi di seppia, 1925; ed. defin. 1931) fissò i termini di una poetica del negativo in cui il “male di vivere” si esprime attraverso la corrosione dell’Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Questa poetica viene approfondita nelle Occasioni (1939), dove alla riflessione sul male di vivere subentra una ‘poetica dell’oggetto’: il poeta concentra la sua attenzione su oggetti e immagini nitide e ben definite che spesso provengono dal ricordo, tanto da presentarsi come rivelazioni momentanee destinate a svanire. M. ricercò una densità e un’evidenza simbolica del linguaggio, portando a perfezione lo stile alto novecentesco, dove i termini rari o preziosi si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza.
Eugenio Montale
Vita e opere
Dopo aver seguito studi tecnici, si dedicò per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi (1917-19), prese parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ebbe rapporti anche con l’ambiente torinese, collaborando al Baretti di P. Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove frequentò il caffè delle Giubbe Rosse e fu vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 fu direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, incarico da cui fu rimosso nel 1938 perché non iscritto al Partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di B. Croce). Svolse allora un’intensa attività di traduttore, soprattutto dall’inglese (da ricordare il suo contributo all’antologia Americana di E. Vittorini, 1942). Iscritto per breve tempo al Partito d’azione, collaborò con Bonsanti alla fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si trasferì a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria (e di quella musicale sul Corriere d’informazione). Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975).
Con la sua prima raccolta di poesie (la già citata Ossi di seppia, pubblicata a Torino da Gobetti,) M. fissò i termini, che sarebbero divenuti popolari, di una filosofia scettica e pessimista in cui il “male di vivere” discende infallibilmente dalla inaccessibilità di ogni trascendenza. Nelle due raccolte successive che probabilmente costituiscono il risultato più alto della poesia di M. (Le occasioni, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932; La bufera e altro, 1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), a un approfondirsi della crisi personale, cui non furono estranei i drammatici avvenimenti dell’epoca, corrispondeva la ricerca di una densità simbolica e di un’evidenza nuove del linguaggio, con la rinuncia a quanto di impressionistico e ingenuamente comunicativo sopravviveva negli Ossi (nei loro modi di ascendenza pascoliana-crepuscolare, e vociana-ligure secondo la linea Sbarbaro-Roccatagliata Ceccardi) e con il coraggioso riconoscimento della inevitabile parzialità della rappresentazione e della inaccessibile privatezza dei referenti.
Eugenio MONTALE
Prendeva forma così quella peculiare interpretazione montaliana della lezione simbolista (per la quale si è parlato di “correlativo oggettivo” e il suo nome è stato accostato a quello di Th. S. Eliot), che è altresì all’origine dello stile illustre novecentesco proprio da M. portato a perfezione: una sorta di classicismo virtuale, in cui il poeta riesce a fornire un equivalente (e non un’imitazione) delle forme chiuse e della precisa definizione dell’enunciato, proprie della tradizione, e a far convivere l’aulico e il prosaico in un processo di scambio delle rispettive funzioni, dove i termini rari o preziosi naturalmente si adeguano a esprimere l’irripetibile singolarità dell’esperienza così come le parole del linguaggio quotidiano e “parlato” si caricano di un più inquieto rapporto con le semplici cose da esse designate. L’ultimo tempo della poesia montaliana, inaspettatamente fecondo e cordiale, prende l’avvio da Satura (1971), in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia (1966), scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi, e prosegue, come un’ininterrotta rivelazione, attraverso Diario del ’71 e del ’72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977) e Altri versi (1981), una raccolta quest’ultima già anticipata nell’ed. critica complessiva, L’opera in versi (a cura di M. Bettarini e G. Contini, 1980), che comprende anche il Quaderno di traduzioni (1948; ed. accr. 1975), con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc., e offre una sezione di Poesie disperse edite e inedite.
Eugenio MONTALE
Ma proprio la finale correzione di tiro compiuta da M., con l’esplicitezza dei riferimenti alla società contemporanea, la passione militante delle prese di posizione e l’ammirevole stile colloquiale degli ultimi libri, autorizza una lettura unitaria di tutto il suo percorso, evidenziandone, sia pure in una sorta di esagerazione didattica, l’aspirazione di fondo a far uscire la poesia fuori di sé, nella direzione di una ritrovata pertinenza e concretezza. Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono gli altri libri di M.: dai “bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe” riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969) alle prose di viaggio di Fuori di casa (1969), dalle prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972) a quelle riunite in Sulla poesia (1976). Accanto al critico letterario, cui si deve fra l’altro il “lancio” italiano di Svevo (sulla rivistaL’esame, 1925), va ricordato il critico musicale di Prime alla Scala (1981). Postumi sono apparsi un volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983), risalenti al 1917, il Diario postumo, prima parte: 30 poesie (1991), a cura di A. Cima. Dell’epistolario si hanno edd. parziali, tra cui quella del carteggio con Svevo (1976); dei Mottetti, che costituiscono la 2ª parte delle Occasioni, D. Isella ha curato un’ed. separata con commento (1980); una Concordanza di tutte le poesie di E. M. è stata pubblicata da G. Savoca (2 voll., 1987).
La Christian Society commemora i primi insorti polacchi ad Auschwitz-
Auschwitz
I fiori sulle tombe degli ex prigionieri dal primo trasporto dei polacchi al campo di Auschwitz tedesco saranno presentati mercoledì (11 giugno) dai membri dell’Associazione cristiana delle famiglie Owicim, ha detto il suo presidente Krzysztof Utkowski.
L’85esimo anniversario della prima deportazione dei polacchi ad Auschwitz sarà il 14 giugno. Quel giorno, il più grande campo di concentramento e sterminio tedesco iniziò a funzionare.
Dal 2014, prima delle celebrazioni per il prossimo anniversario (…) la delegazione ChSRO ha visitato i rioni dei fondatori dell’associazione, ex detenuti di Auschwitz, compresi i partecipanti al trasporto memorabile e il primo trasporto di donne polacche, che ha raggiunto il campo il 27 aprile 1942. È un’espressione di ricordo per i nostri amici, che fino agli ultimi giorni hanno combattuto per la memoria del 14 giugno, per non scomporre storie sulle vittime polacche di Auschwitz e di altri campi di concentramento. (…) per la Hanno combattuto quando si è nella coscienza sociale il 14 giugno o la figura del rtm. Witold Pilecki era praticamente inesistente”, ha detto Krzysztof Utkowski.
I membri dell’associazione visiteranno le tombe: Jàzef Szàs a Okocim, Kazimierz Zaj?c a Brzesko, Jerzy Bielecki in Nowy Targ, Jàzef Hordy?ski e Wincenty Galicy a Zakopane, W?adys?aw Szelak a Bielanka, Wanda Tarasiewicz, i prigionieri del primo trasporto di Tedere.
“Sulle tombe, metteremo candele bianche e rosse con triangoli rossi simbolici con la lettera + P+” – ha aggiunto Utkowski.
“I loro sforzi non sono stati vani. (…) per la Ci auguriamo che le iniziative sociali prese esercitino sempre più pressione sui decisori in questioni come il cambiamento postulato del nome attuale il 14 giugno (Giornata nazionale della memoria per le vittime dei campi di costanza nazisti tedeschi e campi di sterminio – PAP) per la Giornata nazionale della memoria delle vittime polacche di Auschwitz e di altri campi di concentramento tedeschi o il ritorno della messa nel cortile dell’undicesimo anniversario.
Utkowski ha riferito che il giorno dell’anniversario, i membri dell’associazione alle 10 del mattino renderanno omaggio alle vittime di Auschwitz di fronte alla costruzione dell’Università Statale di Masonska di nome rtm. – Witold Pilecki. Nel seminterrato di questo edificio, i tedeschi collocarono i primi deportati. Il campo non era pronto a riceverli. La camera di ricordo del Primo Trasporto dei Poli a KL Auschwitz, che è stato creato da ChSRO e dall’università, sarà aperta lì.
Un’ora dopo, i rappresentanti dell’associazione insieme a 728 motociclisti del raduno della memoria del primo trasporto dei polacchi a KL Auschwitz, deporranno candele e fiori davanti al Muro della Morte nell’ex campo di Auschwitz.
L’Associazione Cristiana delle Famiglie Owicim riunisce, tra gli altri, vicino agli ex prigionieri di Auschwitz e alle persone interessate alla storia del campo. Per molti anni ha organizzato celebrazioni per commemorare la prima deportazione. Su sua iniziativa, il 14 giugno, divenne una giornata nazionale di ricordo.
Le celebrazioni ufficiali dell’anniversario inizieranno il 14 giugno alle 11.30 nel monastero francescano di Harmày. – A un’ora. 13. ci sarà una deposizione di fiori sotto una lapide che commemora la deportazione dei primi polacchi ad Auschwitz presso l’Università Statale di Maopolska. Un’ora dopo, ci sarà una commemorazione al Muro della Morte con la partecipazione delle delegazioni ufficiali delle autorità statali.
Il 14 giugno 1940, il primo trasporto di 728 prigionieri politici polacchi arrivò al KL Auschwitz dalla prigione di Tarnaw. Tra i deportati c’erano, tra gli altri, soldati della campagna di settembre, che cercarono di sfondare l’Ungheria, membri di organizzazioni indipendentiste sotterranee, studenti delle scuole superiori junior, nonché diversi ebrei polacchi. Di questi, 325 sopravvissero alla guerra, 292, di cui 215 ad Auschwitz. 111 Il destino è sconosciuto. Lo storico Dr. Adam Cyra, associato al Museo di Auschwitz per molti anni, ha stabilito che l’ultimo – Layodzimierz Bujakowski, è morta l’11 ottobre 2020 a Cork, in Irlanda.
Nel campo, i tedeschi imprigionarono circa 150.000. I polacchi. La metà di loro è morta lì, e molti altri dopo essere stati trasferiti in altri campi. In totale, almeno 1,1 milioni di persone sono state uccise ad Auschwitz, che è un simbolo dell’Olocausto, tra cui circa 1 milione di ebrei. (PAP)
Mt/ marchio/
Chrześcijańskie stowarzyszenie upamiętni pierwszych polskich więźniów w Auschwitz
Auschwitz
Kwiaty na mogiłach byłych więźniów z pierwszego transportu Polaków do niemieckiego obozu Auschwitz złożą w środę (11 czerwca) członkowie Chrześcijańskiego Stowarzyszenia Rodzin Oświęcimskich – poinformował jego prezes Krzysztof Utkowski.
rocznica pierwszej deportacji Polaków do Auschwitz przypadnie 14 czerwca. Tego dnia zaczął funkcjonować największy niemiecki obóz koncentracyjny i zagłady.
“Od 2014 roku, przed kolejnymi obchodami rocznicowymi (…) delegacja ChSRO odwiedza groby założycieli stowarzyszenia, byłych więźniów Auschwitz, w tym uczestników pamiętnego transportu oraz pierwszego transportu Polek, który dotarł do obozu 27 kwietnia 1942 roku. Jest to wyraz pamięci wobec naszych przyjaciół, którzy do ostatnich dni walczyli o pamięć o 14 czerwca, o niezakłamywanie historii o polskich ofiarach Auschwitz i innych obozów koncentracyjnych. (…) Walczyli, kiedy w społecznej świadomości 14 czerwca czy postać rtm. Witolda Pileckiego praktycznie nie istniała” – powiedział Krzysztof Utkowski.
Członkowie stowarzyszenia odwiedzą mogiły: Józefa Stósa w Okocimiu, Kazimierza Zająca w Brzesku, Jerzego Bieleckiego w Nowym Targu, Józefa Hordyńskiego i Wincentego Galicy w Zakopanem, Władysława Szepelaka w Bielance, Wandy Tarasiewicz, więźniarki z pierwszego transportu Polek, która spoczywa w Nowym Targu, a także kuriera tatrzańskiego Stanisława Frączystego w Chochołowie.
“Na grobach postawimy biało-czerwone znicze z naklejonymi symbolicznymi czerwonymi trójkątami z literką +P+” – dodał Utkowski.
“Ich trud nie poszedł na marne. (…) Mamy nadzieję, że podejmowane inicjatywy społeczne coraz skuteczniej będą wywierały presję na decydentach w takich sprawach, jak postulowana zmiana obecnej nazwy 14 czerwca (Narodowy Dzień Pamięci o Ofiarach Niemieckich Nazistowskich Obozów Koncentracyjnych i Obozów Zagłady – PAP) na Narodowy Dzień Pamięci Polskich Ofiar KL Auschwitz i Innych Niemieckich Obozów Koncentracyjnych czy powrót mszy św. na dziedziniec bloku 11 podczas obchodów rocznicowych 14 czerwca” – powiedział prezes.
Utkowski podał, że w dniu rocznicy członkowie stowarzyszenia o godz. 10 oddadzą hołd ofiarom Auschwitz przed budynkiem Małopolskiej Uczelni Państwowej im. rtm. Witolda Pileckiego. W piwnicy tego budynku Niemcy umieścili pierwszych deportowanych. Obóz nie był jeszcze gotowy na ich przyjęcie. Otwarta tam zostanie izba pamięci Pierwszego Transportu Polaków do KL Auschwitz, którą stworzyły ChSRO i uczelnia.
Godzinę później przedstawiciele stowarzyszenia wraz z 728 motocyklistami z Rajdu Pamięci Pierwszego Transportu Polaków do KL Auschwitz, złożą znicze i kwiaty przed Ścianą Straceń w byłym obozie Auschwitz.
Chrześcijańskie Stowarzyszenie Rodzin Oświęcimskich skupia między innymi bliskich byłych więźniów Auschwitz oraz osoby zainteresowane historią obozu. Przez wiele lat organizowało uroczystości upamiętniające pierwszą deportację. Z jego inicjatywy 14 czerwca stał się narodowym dniem pamięci.
Oficjalne uroczystości rocznicowe rozpocznie 14 czerwca o godzinie 11.30 msza św. w klasztorze Franciszkanów w Harmężach. O godz. 13. nastąpi złożenie kwiatów pod tablicą upamiętniającą deportację pierwszych Polaków do Auschwitz na murze Małopolskiej Uczelnia Państwowej. Godzinę później odbędzie się upamiętnienie pod Ścianą Śmierci z udziałem oficjalnych delegacji władz państwowych.
14 czerwca 1940 r. do KL Auschwitz z więzienia w Tarnowie dotarł pierwszy transport 728 polskich więźniów politycznych. Wśród deportowanych byli między innymi żołnierze kampanii wrześniowej, którzy usiłowali przedrzeć się na Węgry, członkowie podziemnych organizacji niepodległościowych, gimnazjaliści i studenci, a także kilkoro polskich Żydów. Spośród nich wojnę przeżyło 325, zginęło 292, w tym 215 w Auschwitz. Los 111 los jest nieznany. Historyk dr Adam Cyra, związany przez wiele lat z Muzeum Auschwitz, ustalił, że ostatni – Włodzimierz Bujakowski, zmarł 11 października 2020 roku w Cork w Irlandii.
W obozie Niemcy uwięzili około 150 tys. Polaków. Połowa z nich tam zginęła, a wielu kolejnych po przeniesieniu do innych obozów. Ogółem w Auschwitz, który jest symbolem Holokaustu, zgładzonych zostało co najmniej 1,1 mln ludzi, w tym około 1 mln Żydów. (PAP)
– Fratelli Treves Editori Milano 1921- illustrazioni di Adolfo De Carolis-
L’Opera di Gabriele D’Annunzio fu realizzata a Venezia nel 1916 mentre il poeta abruzzese era temporaneamente cieco per via di un grave incidente aereo. D’Annunzio la scrisse senza vedere, utilizzando circa diecimila strisce di carta o cartigli, su ciascuna delle quali era vergata una sola riga di testo e sulle quali si scriveva mediante un pennino scorrevole. Allegate foto della Prima edizione di uno dei vertici dell’arte dannunziana, supremo tentativo di scrittura onirica.
L’Opera di D’Annunzio fu illustrata da Adolfo De Carolis, a cui sono dovuti anche il frontespizio figurato, la dedicatoria, le 8 vignette n.t. e l’illustrazione a piena pagina in fondo al volume con il motto “Dant Vulnera Formam” e l’immagine allegorica di uomini intenti a forgiare il ferro su un’incudine (per un totale di 12 xilografie). Al retro di copertina, il celebre motto dannunziano “Io ho quel che ho donato”.
Gabriele d’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 dal padre è Francesco Paolo Rapagnetta d’Annunzio e dalla madre, Luisa De Benedictis. Terzogenito di cinque fratelli, Gabriele è di certo il figlio favorito. Nutre affetto profondo e devozione soprattutto per la madre, che viene ricordata negli scritti per il suo amore e sollecitudine. Più conflittuale risulta invece il rapporto con il padre, che tuttavia svolgerà un ruolo decisivo nella formazione di Gabriele che per molti versi gli somiglia: è un uomo sensuale, dedito ai piaceri e agli sperperi, ma si occupa a fondo dell’educazione del figlio. Egli comprende subito le doti di Gabriele e gli procura buoni maestri locali, manifestando con prodighi doni il suo orgoglio per il figlio.
1874 Gabriele lascia Pescara undicenne per un rinomato collegio pratese, il Reale Collegio Cicognini, dove resterà fino al diciottesimo anno di età, quando conseguià la licenza liceale. I suoi professori lo descrivono come un adolescente dotato di molto ingegno, molto impegnato nello studio e più maturo dei suoi compagni, “tutto dedito a farsi un nome”, e lui non fa mistero di questo suo voler primeggiare. “Mi piace la lode, mi piace la gloria, mi piace la vita”. Capisce anche d’avere un irresistibile ascendente suoi compagni, dirà infatti: ”Ero diventato ormai consapevole del mio potere, sapevo ormai di poter trascinare in qualunque luogo, in qualunque ora, tutta la mia compagnia alle più folli insubordinazioni”.
1879 Pubblica , a spese del padre, “Primo vere”, raccolta di poesie e traduzioni.
1880 Corregge e aumenta “Primo vere” per una nuova edizione. Esce “Cincinnato”, la sua prima novella; in quello stesso anno un giornale di Firenze, il “Gazzettino Letterario”, riceve anonima la notizia della morte del poeta in erba per una caduta da cavallo. Subito fioriscono commosse necrologie. La smentita, di pochi giorni successiva, non dissipa l’alone di leggenda che si è creato intanto intorno al giovane: che poi è quello che lo stesso d’Annunzio si proponeva mettendo in circolazione, si, proprio lui, la falsa notizia della sua morte avventurosa. Conseguita la licenza liceale a pieni voti d’Annunzio trascorre l’estate in Abruzzo dove stringe amicizia con il pittore Francesco Paolo Michetti, lo scultore Costantino Barbella e il musicista Francesco Paolo Tosti.
1881 Conosce a Firenze Giselda Zucconi, figlia di uno dei suoi professori: a lei saranno dedicate le liriche del “Canto novo” (1882). La chiama Lalla e promette di sposarla. Si trasferisce a Roma con l’intenzione poi elusa di frequentare la Facoltà di Lettere. Numerose testimonianze accertano la benevolezza con la quale fu accolto. Quando giunge a Roma essa gli appare come un enorme cantiere: sta sorgendo la Roma degli uffici e delle palazzine, nella logica brutale della prima speculazione edilizia che non risparmia dal degrado e dalla distruzione i luoghi già per tanto tempo sacri alla “bellezza e al sogno”.
1882 Pubblica le novelle di “Terra vergine” e le poesie di “Canto novo”. Con Scarfoglio e Pascarella visita la Sardegna. Collabora alla “Cronaca bizantina”, nella cui redazione conosce Carducci. A Roma vive in una modesta stanzuccia in via Borgognona ma è assiduo frequentatore dei salotti alla moda che si disputano il già celebre poeta, che intanto si mantiene con l’attività giornalistica, via via sempre più intensa. Conosce Maria Hardouin figlia del Duca di Gallese e se ne innamora.
1883 Per vincere la tenace ostilità del Duca al matrimonio, d’Annunzio non risparmia i colpi sfrontati e a sensazione. Renderà pubblico, in una poesia uscita sulla “Cronaca bizantina”, il “Peccato di Maggio”. Di lì a poco inscena addirittura un rapimento, che renda inevitabili le nozze riparatrici che avverranno poco dopo senza però la benedizione del duca. I due sposi si trasferiscono poi, senza dote, in Abruzzo nella Villa del Fuoco. Lo scrittore pubblica la raccolta poetica “Intermezzo di rime”. Collabora sempre più intensamente ai giornali e ai periodici della Capitale.
1884 Nasce il figlio Mario. Pubblica le novelle del “Libro delle vergini”. E’ assunto dalla “Tribuna” come cronista mondano. Le polemiche seguite alla pubblicazione delle poesie dell’”Intermezzo”, da molti giudicate francamente oscene, segnano il distacco definitivo col Carducci, che egli definirà poi “maestro avverso”
1885 Dirige per alcuni mesi la “Cronaca bizantina”. Dal 1884 al’88 lo scrittore, finito “fra le magre braccia del giornalismo”, deve lamentare “la miserabile fatica quotidiana” che lo snerva e lo distoglie dal suo sogno di gloria e di poesia, dal capolavoro di cui si sente capace. Eppure l’esperienza giornalistica non può giudicarsi soltanto tempo perduto, d’Annunzio vi acquisisce di giorno in giorno scioltezza e versatilità, prontezza nel misurarsi con le istanze e le “correnti medie” della sensibilità collettiva.
1886 Nasce il secondogenito, Gabriellino. Pubblica le “novelle di San Pantaleone” e i versi di “Isaotta Guttadauro”, in una raffinata edizione illustrata. che però non ha il successo sperato: dell’opera colpisce negativamente l’oltranza preziosistica, di artificio fine a se stesso, che lascia in molti l’impressione di una prova di snobismo.
1887 Conosce Elvira Natalia Fraternali, coniugata Leoni (per lui Barbara o Barbarella) e se ne innamora. La nuova travolgente passione finisce inevitabilmente col mortificare il rapporto con la moglie. Con l’amante è a Venezia quando nasce il terzogenito Veniero.
1888 [fino al 1891] Lascia Roma e la “Tribuna”. Si ritira in Abruzzo, a Francavilla, ospite dell’amico Michetti nella sua villa “il Convento” per comporre il suo primo romanzo, “il Piacere”.
1889 Non appena il “Piacere” è pubblicato si accinge a scrivere l’”Invincibile”, un nuovo romanzo che avvia, ma senza concluderlo, durante l’estate trascorsa con Barbara a San Vito Chietino. E’ chiamato a prestare il servizio militare presso il reggimento dei cavalleggeri di Alessandria.
1890 Escono nella “Tribuna Illustrata” le prime puntate dell’”Invincibile”. Si separa dalla moglie che tenta il suicidio gettandosi dalla finestra di casa. Raccoglie in volume (L’Isotteo – La Chimera) poesie antiche e recenti.
1891 Pubblica la lunga novella Giovanni Episcopo e, di nuovo nel rifugio di Francavilla, compone l’”Innocente”. Si trasferisce a Napoli dove conosce Maria Anguissola Gravina Cruyllas di Ramacca. Per qualche tempo lo scrittore si destreggia tra le due donne la Gravina e Barbara, e questo lo si trova in alcune poesie di quel periodo che presuppongono, a quanto sembra, un doppio destinatario. La Gravina si unisce al vate dandogli una figlia, Renata detta Cicciuzza, la Sirenetta nel “Notturno”, che alla morte nel 1976 sarà sepolta al Vittoriale . Georges Hérelle gli propone di tradurre in Francia L’”Innocente”.
1892 Abbozza per il teatro il “Sogno di una notte d’estate” e “La Nemica”, riprende poi l’Invincibile avviandolo a conclusione con il nuovo titolo di “Il Trionfo della morte”. Pubblica le “Elegie romane”.
1893 Pubblica il “Poema paradisiaco” e le “Odi navali”. Muore il padre e d’Annunzio si trova ora con una paurosa eredità di nuovi debiti. Si stabilisce a Francavilla nel villino Mammarella che arreda fastosamente, quasi a prefigurare su scala ridotta quello che sarà un giorno il Vittoriale. Con la Gravina la convivenza è raramente serena. D’A. ha ora una nuova famiglia da mantenere, la moglie gli intenta una causa per ottenere gli alimenti, il marito di Maria trascina i due amanti in tribunale querelandoli per adulterio. Ma il biennio napoletano è per d’Annunzio ricchissimo di acquisizioni culturali e rappresenta una svolta nella sua carriera di scrittore, anche se sono anni che egli definisce di “splendida miseria”.
1894 Esce il “Trionfo della morte” che due anni dopo viene pubblicato in Francia, dove compare anche una serie di novelle tradotte sempre da Hèrelle. Ripubblica l’”Intermezzo” con aggiunte e correzioni. A Venezia incontra Eleonora Duse, attrice più vecchia di lui di 5 anni con la quale prende avvio un’intesa fatidica, mentre la convivenza con la Gravina stà diventando intollerabile a causa della sua gelosia.
1895 Stila il programma della rivista romana “Il Convito”, dove esce a puntate un nuovo romanzo, le “Vergini delle rocce”. Incontra Giovanni Pascoli a Roma. Durante l’estate compie una crociera in Grecia. Come le Vergini anche il Piacere viene tradotto in Francia. Ojetti lo intervista per il suo libro “Alla scoperta dei letterati”: questa intervista costituisce un testo capitale per intendere la poetica dannunziana. Poco più che trentenne, d’Annunzio appare all’Ojetti già con il carisma di un leader.
1896 Frutto immediato del viaggio in Grecia sarà anche il rifacimento di “Canto novo”. Ormai separato dalla Gravina, trascorre con la Duse alcuni giorni in Toscana, alla Marina di Pisa e al Gombo. Compone per il teatro la “Città morta” e avvia il romanzo “il Fuoco”.
1897 Compone per la Duse il “Sogno di un mattino di primavera” (la “prima” rappresentazione è a Parigi) e “Il sogno di un tramonto d’autunno”.
1898 Sarah Bernhardt interpreta a Parigi la “Città morta”. Compone la “Gioconda” per la Duse, con la quale si trasferisce a Settignano, nelle colline fiorentine dove affitta la Capponcina, antica villa dei Capponi. Annuncia l’intenzione di comporre “Frate Sole”, “una tragedia francescana”, e le “Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi”, sette libri di poesia intitolati alla costellazione delle pleiadi: Maia, Elettra, Alcione, Celeno, Merope, Asterope, Taigete. Con la Duse è in Egitto.
1899 Dall’Egitto passa in Grecia e compone a Corfù il dramma la “Gloria”,. Al rientro segue la Duse in tournèe a Palermo, Roma, Bologna, Venezia e Torino. Raggiunta finalmente la Capponcina, si dedica alle Laudi, con i versi che poi raccoglierà nei primi tre libri: Maia, Elettra e Alcyone. Dopo l’estate trascorsa alla Marina di Pisa, in settembre è in Svizzera con la Duse che raggiungerà anche a Vienna il mese successivo. Prosegue la composizione del “Fuoco”.
1900 Inaugura il secolo con una solenne Lectura Dantis a Firenze, in Orsammichele. Pascoli censura pubblicamente l’eccessiva mondanità di d’Annunzio, che ribatte risentito. Pubblica il “Fuoco”, anche in francese, e con la Duse è in Austria e Germania. Durante l’estate affitta in Versilia una villa nella località “Secco Motrone”. Si dedica soprattutto alle odi poi comprese in “Elettra”, ma anche “Alcyone” lo vede all’opera.
1901 Prosegue la composizione delle poesie di “Alcyone” e delle odi di “Elettra”, che in qualche caso legge in pubblico. Nell’estate ritorna in Versilia, al “Secco”, dove compone “Francesca da Rimini”, dramma in versi: la prima si tiene a Roma il 9 dicembre. La tragedia “è dedicata alla Duse, sulla cui arte inarrivabile ormai d’Annunzio plasma i suoi personaggi. Per il Natale è a Pescara.
1902 raduna in un volume una scelta delle novelle giovanili di ambiente abruzzese (Novelle della Pescara). In febbraio è in Maremma e in maggio in Istria. Durante l’estate affitta la villa dei Goretti a Romena, nel Casentino. Compone qui, oltre a un nutrito gruppo di sonetti raccolti in “Elettra”, la maggior parte delle poesie di “Alcyone”.
1903 “Maia”, il primo libro delle Laudi, portato a compimento con estrema rapidità (il poeta dichiara di averlo composto per la maggior parte in piedi) viene pubblicato in maggio. Contiene fra l’altro il Saluto al Maestro, versi di omaggio a Carducci (il maestro avverso). Durante l’estate, trascorsa a Nettuno, compone per le scene “La figlia di Iorio” che intende in un primo tempo dedicare a Pascoli ( cui dedicherà poi Alcyone). Alla fine dell’anno, in un solo volume, escono “Elettra” e “Alcyone”, rispettivamente secondo e terzo libro delle “Laudi”.
1904 La rappresentazione de La Figlia di Iorio riscuote grande successo, ma la relazione con la Duse, a cui una malattia impedisce all’ultimo momento di impersonare il ruolo prestigioso di Mila di Codro, inizia a vacillare: lei sopporta sempre più a fatica il carattere irrequieto, i ripetuti tradimenti dell’amante cui sente di aver dato tutta se stessa. Ma d’Annunzio l’ha molto amata, a modo suo: quando morirà a Pittsburgh nel 1924 scriverà pagine commosse e terrà al Vittoriale, accanto al tavolo di lavoro, insieme con l’immagine della madre, un busto dell’attrice sul quale stende un foulard: Eleonora è la “testimone velata” della sua ultima solitudine. Egli avvia un’intensa relazione amorosa con Alessandra Carlotti di Rudinì (la chiama Nike per la sua bellezza statuaria).Acquista una torpedo Florentia.
Alla Capponcina lo stile di vita cambia, improntato alla profusione sfrenata e al coinvolgimento a capofitto nella mondanità più vorticosa. Stando alle stime dei cronisti dell’epoca, i servitori salgono da cinque a ventuno, i cavalli da due a otto e i cani da quattro a trentanove. Da anni in vetrina, attento a non perdere mai il contatto con il pubblico, d’Annunzio sa che anche i festini, le cavalcate o le battute di caccia alla volpe possono concorrere alla moderna immagine dello scrittore, alla sua leggenda, in modi che avevano già provocato una risentita presa di posizione del Pascoli.
1905 Compone “La fiaccola sotto il moggio” rappresentata senza grande successo, e la “Vita di Cola di Rienzo”, la prima di una serie progettata di Vite di uomini illustri e di uomini oscuri. Nike si ammala gravemente e subisce tre interventi chirurgici. L’amante le sta accanto giorno e notte instancabile, fino a quando egli non scopre che la donna è ormai irrimediabilmente caduta vittima della morfina “il mostro vorace” .
1906 Appronta un volume di “Prose scelte”. L’infaticabile seduttore conosce Giuseppina Mancini, da lui detta Giusini o Amaranta, che soppianta Nike. Compone “Più che l’amore”, tragedia moderna che però viene clamorosamente fischiata. Trascorre l’estate alla Versiliana di Pietrasanta.
1907 Muore Carducci. Al maestro insignito del Premio Nobel, d’Annunzio dedica una pubblica “Commemorazione”. Compone “La nave”, che è rappresentata con grande successo.
1908 Combattuta fra l’amore e il dovere (è maritata), Giusini perde il senno e viene ricoverata in una casa di cura. L’amante disperato tiene un diario dei giorni angosciosi, Solus ad solam, che uscirà postumo. E’ ora il turno di Natalia di Goloubeff, detta Donatella, di origina russa.
1909 Compone “Fedra” con la quale però non ripete il successo della Nave. Torna al romanzo, con il “Forse che sì forse che no”, composto a Marina di Pisa. Progetta di raccogliere in volume gli abbozzi delle opere non condotte a termine. A Montichiari vola con Curtiss e Calderara e qui consegue il brevetto di pilota. Conia per l’aereo il termine “velivolo”, o meglio replica quei latini che chiamavano “velivoli” gli uccelli.
1910 Mentre esce il “Forse che sì”, poi tradotto in francese da Donatella, i creditori assediano la Capponcina. Non potendo far fronte ai debiti ripara in Francia, prima a Parigi e poi ad Arcachon, nella Gironda. L’esilio francese, che durerà cinque anni (tanti ce ne vogliono per riassettare le sue finanze disastrate), è un esilio dorato, a capofitto nella vita mondana e nei salotti letterari, a contatto elettrico con l’effervescenza dell’attualità più aggiornata. Frequenta le memorabili stagioni dei balletti russi. Compone il Martyre de Saint Sèbastien, in collaborazione con il grande Debussy. Oltre a Donatella, frequenta la pittrice americana Romaine Brooks (Cinerina), femminista, lesbica e incestuosamente legata al fratello, e la stravagante marchesa Maria Luisa Casati Stampa (Corè).
1911 La messa in scena del Martyre de Saint Sèbastien con Ida Rubistein nella parte del santo, determina la condanna dell’opera da parte dell’autorità religiosa che pone poi all’Indice tutti i romanzi e i drammi dannunziani. I “begli arredi” della Capponcina vengono venduti all’asta. Lo scrittore inizia a collaborare al “Corriere della Sera” con le “Faville del Maglio”, prose di memoria, e con le “Canzoni” per la guerra di Libia ( che saranno poi raccolte in volume come quarto libro delle “Laudi”, “Merope”).
1912 Compone per Mascagni “Parisina” e affida al “Corriere della Sera”, in quattro puntate, la “Contemplazione della morte” (commemora la morte di due amici: Pascoli e Bermond). La pubblicazione delle “Faville” prosegue con il lungo racconto memoriale “Il compagno dagli occhi senza cigli”, mentre lo scrittore ripropone “La Vita di Cola di Rienzo” a cui premette un ampio Proemio: l’autobiografismo di d’Annunzio comincia a diventare scoperto e diretto, non più mediato attraverso la maschera degli eroi romanzeschi; inizia la così detta stagione notturna dove l’autocelebrazione può convivere con il ritratto angoscioso del proprio sfacelo. Nella scrittura assume spazio quasi esclusivo la memoria con i suoi frammenti di vita.
1913 In vista di una collaborazione con Puccini scrive “La Crociata degli innocenti” un opera tra teatro in poesia, mimo e danza, da cui verrà tratto un film; ancora per la Rubistein compone: “La Pisanelle ou le Jeu de la rose et de la mort”. Al “Corriere” consegna le puntate della “Leda senza cigno”, romanzo breve. Ancora per il teatro compone “Il Ferro” che sarà tradotto in francese con il titolo di Chèvrefeuille. Per il cinema appronta le didascalia di Cabiria.
1914 Partecipa in Inghilterra alla Wateloo Cup, gran premio di corse canine. Ma allo scoppio della guerra lascia Arcachon e si trasferisce a Parigi dove comincia a caldeggiare l’intervento italiano a fianco dell’Intesa; Albertini, direttore del Corriere della sera, cercherà di accelerare il suo rientro in Italia. Visita il fronte e i campi di battaglia.
1915 Dopo cinque anni d’“esilio” rientra in Italia. A Genova e a Quarto, e poi anche a Roma, pronuncia accesi discorsi interventisti. Dopo la dichiarazione di guerra ottiene di essere richiamato in servizio come ufficiale dei Lancieri di Novara al comando del Duca d’Aosta. Nota è una lettera che d’Annunzio invia al presidente del consiglio dell’epoca, Salandra, in cui minaccia persino di uccidersi nel caso in cui gli venisse negata la prima linea: “Io non sono un letterato in papalina e pantofole. Voi volete salvare la mia vita preziosa, voi mi stimate oggetto da museo, da custodire nella stoppa e nella tela da sacchi. Ebbene, ecco, io getto la mia vita solo pel piacere di contraddirvi e di gettarla”. Si stabilisce a Venezia, dove abita sul Canal Grande nella Casetta Rossa degli Hohenlohe. E sospira: “come mi piacerebbe di ornarla se fossi ricco”; vive comunque come tale, nonostante le ammonizioni di Albertini: “non c’è cifra di reddito che ti sazierebbe”. Scrive per il “Corriere della Sera” i “Canti della guerra latina”. Vola su Trieste il 7 e il 28 agosto dopo una spedizione nell’Adriatico a bordo di un sommergibile.
1916 In seguito a un incidente perde l’occhio destro. Nell’immobilità a cui è costretto scrive una parte del “Notturno” e la licenza da annettere alla stampa in volume della “Leda senza cigno”. Conosce Olga Levi (Venturina) con cui intreccia un’appassionata storia d’amore e più tardi la pianista Luisa Baccara (Smikra) che gli rimarrà accanto fino alla morte.
1917 Muore la madre. Una volta guarito combatte con la fanteria sul Veliki e sul Faiti, partecipa anche alla battaglia dell’Isonzo e del Timavo, al bombardamento su Pola, dice di aver acquistato un terzo luogo di là dalla vita e dalla morte. Riprende anche a volare contro il parere del medico, che poi dovrà ammettere: ”il suo caso segna una volta ancora la bancarotta della scienza”. Compie incursioni aeree su Pola e Cattaro e conia il grido di guerra Eia, Eia, Eia, Alalà!
1918 Continua a comporre Canti di guerra e a pronunciare discorsi di incitamento alla lotta e al sacrificio. Per mare ordisce la “Beffadi Buccari”, penetrando nottetempo, con il MAS ora conservato al Vittoriale, nel golfo di Buccari per affondarvi le navi nemiche e lasciandovi tre bottiglie coronate di fiamme tricolori, contenenti impertinenze contro il nemico. L’azione ha soprattutto valore simbolico come il temerario e clamoroso volo su Vienna, compiuto per annunciare la vittoria italiana con il lancio di volantini (l’aereo, uno SVA 10, è conservato nell’auditorium del Vittoriale). Compie una trasvolata dimostrativa in Francia e partecipa all’ultima battaglia del Piave nell’ottobre.
1919 Le trattative per la pace e per la sistemazione dell’Europa lo amareggiano: giudica “mutilata” la vittoria dell’Italia a cui non è stata concessa la Dalmazia. Pubblica una polemica Lettera ai Dalmati nel “Popolo d’Italia” diretto da Mussolini, che ha frattanto costituito i “ Fasci di Combattimento”. Muove alla volta di Fiume, occupa la città e la governa come Comandante di una Reggenza. A Fiume pronuncia discorsi di violenta efficacia oratoria, tessuti di slogan a effetto tra un ovazione e l’altra della folla, fornendo al futuro Duce del fascismo più di un modello da imitare. La fine della guerra segna anche la fine della relazione con Venturina, a cui subentra la pianista Luisa Baccara.
1920 Stende con Alceste De Ambris la Carta del Carnaro, ordinamento dello Stato libero di Fiume. Guglielmo Marconi e Arturo Toscanini gli rendono omaggio. Ma il trattato di Rapallo determina la fine della Reggenza: la città viene sgombrata con la forza dal governo Nitti.
1921 Lascia Fiume e torna a Venezia dove sono giunti mobili e libri dello chalet di Arcachon. Ma lo scrittore, deluso e amareggiato, si trasferisce subito a Gardone Riviera, sulla costa bresciana del lago di Garda. Acquista qui una modesta villa, il “Cargnacco”, e la trasforma via via nel “Vittoriale”, cittadella monumentale e sacrario della sua vita di poeta e di eroe che abiterà fino alla morte in compagnia di Luisa Baccara. Quella che a Ojetti era parsa sulle prime la casa di un parroco di campagna viene subito ristrutturata e ampliata. Quando d’Annunzio acquista “Cargnacco”, la terra contava un’estensione di soli 2 ettari; ma tra il 1922 e il 1935 vengono acquistati i territori circostanti fino ad arrivare ai 9 ettari. Il proprietario stesso, dapprima sconcertato dalla sistemazione borghese che gli si prospetta, affida i lavori di restauro della villa ad un architetto locale Gian Carlo Maroni che da Riva si trasferisce a Gardone per vivere a fianco del Vate.
La villa, appartenuta a Henri Thode critico d’arte e marito di una figliastra di Wagner, fu sequestrata al proprietario nel 1918 completa di libri (6.000 volumi circa fra i quali il dannunziano Fuoco in una versione del 1913) quadri e mobili. D’Annunzio prima l’affitta per 600 lire mensili e poi l’acquista per 130.000 lire. Così la villa Cargnacco diventerà il “Vittoriale” degli Italiani. D’Annunzio vuole una casa per riporvi, così confida, “i resti dei miei naufragi” e dichiara: “come una lumaca ho il mio guscio”. Dopo una precisa spartizione dei compiti (“chiedo a te l’ossatura architettonica, ma mi riserbo l’addobbo”) l’accordo tra d’Annunzio e Maroni si baserà sull’illimitata devozione dell’architetto nei confronti del poeta. Maroni infatti non batte ciglio dinanzi alle intemperanze dell’estroso committente.
1922 Cadendo accidentalmente da una finestra del primo piano, resta gravemente ferito al capo. Questa caduta gli impedisce di svolgere un ruolo attivo nei mesi torbidi e inquieti che portano alla marcia su Roma; più probabile però il voluto defilarsi da imprese che lo avrebbero costretto ad alleanze e compromessi indesiderati. La marcia su Roma lo trova dunque convalescente e Mussolini gli telegrafa a cose fatte. Sistema per la pubblicazione i discorsi di guerra e fiumani.
1923 Il Vittoriale viene donato allo stato con una precisa contropartita: lo stato dovrà offrire i mezzi per questa fabbrica monumentale. La donazione sarà tanto più generosa quanto più saranno consistenti le risorse concesse. Durante questo anno ha dei dissapori con Mussolini, specie in rapporto alla questione della Federazione dei lavoratori del Mare. Pubblica “Per l’Italia degli Italiani”.
1924 Dopo l’annessione di Fiume d’Annunzio viene insignito del titolo nobiliare – Principe di Montenevoso – dal Re e da Mussolini. Titolo graditissimo a d’Annunzio che in cuor suo aveva sempre nutrito ambizioni aristocratiche. Esce il primo tomo delle “Faville del maglio”..
1925 Mussolini gli rende omaggio con una visita al “Vittoriale”. In questi anni lo scrittore comincia ad interessarsi alla torre Rhuland che si trova di fronte a Villa Alba; l’acquisterà con il giardino allestendovi una darsèna per il Mas 96 e un riparo per gli idrovolanti. Sempre nel ’25 giunge al Vittorioriale la prua della Nave Puglia, che d’Annunzio riceve in dono dall’Ammiraglio Thaon de Revel, Capo di stato maggiore della Marina dal 1918. La Nave viene incastonata nella roccia, fra le colline del Vittoriale
1926 Viene fondato l’Istituto Nazionale per la edizione di tutte le Opere di Gabriele d’Annunzio che sarà stampata da Mondadori. I finanziamenti che ne derivano consentono l’acquisto di nuove aree circostanti il “Vittoriale” e la costruzione dell’ala di “Schifamondo”. Toscanini ripropone il “Martyre di Saint Sèbastien”, che va in scena alla Scala di Milano.
1927 La Figlia di Iorio viene rappresentata grandiosamente nel parco del “Vittoriale”. Con il volume “Alcyone” prende il via l’edizione dell’Opera Omnia.
1928 Esce il secondo tomo delle Faville del Maglio.
1930 Perfeziona l’atto di donazione del “Vittoriale” mentre viene costituito il sodalizio dell’ “Oleandro” per l’edizione dell’Opera dannunziana in veste economica.
1934 La Figlia di Iorio è rappresentata a Roma con la regia di Pirandello e le scene di De Chirico.
1935 Esce il volume “Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire”, sorta di autobiografia frammentaria, tra monumento e rovina.
1937 Viene nominato Presidente dell’Accademia d’Italia.
1938 Muore alle ore 20 del 1° marzo per emorragia cerebrale. La morte lo sorprende seduto al tavolo della Zambracca.
Angelo Sommaruga articolo scritto per la Rivista PAN N°2 del 1934-
Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e fino al 1839 vive immerso nel meraviglioso paesaggio toscano della Maremma. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica e vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica. Dopo i primi studi, nel 1853 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove uscirà, laureato in Filologia, nel 1856.
Giosuè CARDUCCI
Passando da Pisa a Firenze, negli anni successivi all’Università, partecipa agli incontri della società “Amici Pedanti” che si batteva per un immediato ritorno al classicismo della letteratura contro la modernità e le nuove idee del Romanticismo, un dibattito molto sentito in Italia all’epoca in quanto ogni intellettuale e letterato del tempo si schierava – e lottava – a favore o contro il classicismo in contrasto con le idee romantiche. Sua la frase: «Colui che potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.» Arrivano anni duri, però, per il giovane Carducci. Suo fratello muore suicida e presto anche il padre passa a miglior vita lasciando Carducci responsabile per la madre e per l’altro fratello. Sono comunque anni di intensa attività editoriale, non si da per vinto, cura varie edizioni di classici italiani e, negli stessi anni, sposa Elvira Menicucci da cui ebbe quattro figli. Nel 1859 cade il Granducato di Toscana, evento questo che suscita in lui un grande entusiasmo in vista dei moti risorgimentali, e fino agli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia insegnerà prima in un liceo di Pistoia poi all’Università di Bologna, dove vive a partire dal 1860. In questo periodo sale in lui una crescente delusione verso la nuova classe dirigente dello Stato Unitario – è soprattutto insofferente verso la mancata liberazione di Roma – e comincia ad appoggiare ideali repubblicani e giacobini fino ad un aspro anticlericalismo, tutti atteggiamenti questi che lo metteranno in cattiva luce davanti al governo ufficiale che arriverà addirittura a sospenderlo dall’insegnamento. Il 1870 si apre per Giosuè Carducci con altri gravi lutti: perde la madre e uno dei figli avuti nel primo matrimonio. Si accompagna però a questo dolore un grande successo come poeta, pubblica una raccolta di poesie e comincia una nuova relazione amorosa con una donna intellettuale entrata in contatto con lui, inizialmente, attraverso scambi epistolari: Carolina Cristofori Piva. Intanto il suo atteggiamento giacobino si affievolisce gradualmente e nel 1876 viene candidato come democratico alle elezioni parlamentari. Pian piano comincia ad accettare il ruolo dei monarchici Savoia come garanti dell’Unità italiana e, dopo l’incontro con la regina Margherita a Bologna, nel novembre del 1878, fu tanto grande per lui il fascino esercitato dalla donna che scrisse un’ode Alla regina d’Italia avviandosi così, definitivamente, verso gli ideali monarchici. Non solo: Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina e viene nominato, nel 1890, senatore del Regno. Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica. Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1904 e a pochissimi anni da questo meritato successo muore a Bologna, per una broncopolmonite, il 16 febbraio del 1907.
Curiosità
Giosuè Carducci così descriveva se stesso: «Sono superbo, iracondo, villano, soperchiatore, fazioso, demagogo, anarchico, amico insomma del disordine ridotto a sistema; e mi è forza fare il cittadino quieto e da bene.» Era notoriamente amante del buon cibo e del vino, organizzava mangiate con gli amici che iniziavano la mattina e terminavano la sera e pare che la sua collaborazione con la rivista “Cronaca Bizantina” venisse pagata con barili di Vernaccia!
Lo stile di Carducci
Un nuovo tipo di Classicismo da opporre al RomanticismoIn Italia, nonostante la diffusione di alcune delle idee romantiche circolanti in Europa nel corso dell’Ottocento, il classicismo non si è mai spento: l’educazione scolastica lo mantiene in vita e l’esempio di poeti come Monti, Foscolo e Leopardi garantiscono degli esempi autorevoli e dei modelli a cui rifarsi soprattutto per imitare il linguaggio aulico e latineggiante. A dispetto di questo, però, il classicismo ha assunto un aspetto stantio e chiuso: il mondo latino è divenuto solo un repertorio di figure a cui attingere e un linguaggio da imitare in modo sterile. Carducci invece ripropone un classicismo vitale ed energico che viene ad imporsi nella cultura italiana come un modello elevato di comunicazione poetica che si mescola con un grande bisogno di realismo. La poesia deve, attraverso un linguaggio e tematiche riprese dal mondo greco e latino, raccontare la realtà contemporanea senza introdurre elementi surreali o inquietanti come quelli del romanticismo.
Fonte- Studenti-Mondadori Media S.p.A. – Via Gian Battista Vico 42 –
CARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINACARDUCCI e la BIZANTINABiblioteca DEA SABINA- IL CARDUCCI E LA BIZANTINA -RIVISTA PAN FEBBRAIO 1934 19
Poesie di Philippe Soupault-Poeta francese- esponente del Dadaismo e cofondatore con André Breton del Surrealismo.
Philippe Soupault :”Questa parola, poesia, che per qualcuno è solo causa di fraintendimenti, -confiderà- per me rappresenta un mondo in cui posso finalmente capire perché sono nato. Una parola, un barlume, un suono: ecco quanto basta per ritrovarmi in un universo che mi appartiene, a cui appartengo e con cui, se mi è consentito dirlo, faccio corpo”.
Un autore ancora poco noto e ancor meno tradotto in maniera sistematica in italiano, qui nella versione del poeta Valerio Magrelli.
AVANT-DIRE
Penche-toi
et perce la lisse surface
Oranges
bleus
gris
vermillons
glissent et nagent
mes poèmes
Tout autour de ma pensée
virevoltent
les poissons verts
PREMESSA
Chìnati
e buca la superficie liscia
Arancioni
azzurre
grigie
vermiglie
scorrono e nuotano
le mie poesie
Tutt’intorno al mio pensiero
volteggiano
i pesci verdi
MARCHE
Le 17 février je suis parti
Où
À l’horizon des fumées s’allongeaient
J’ai sauté par-dessus des livres
Des gens riaient
Mon désir me prend par le bras
Je voudrais repousser les maisons
Aller plus vite
Le vent
Il a bien fallu que je tue mes amis
La nuit ne m’a pas fait tomber
Je me suis enveloppé dans ma joie
Le cri des remorqueurs m’accompagnait
Je ne me suis pas retourné
Il y avait tant de lumières dans la ville sonore
En revenant tout est changé
J’ai cassé mes idées immobiles
Mes souvenirs maculés je les ai vendus
MARCIA
II 17 febbraio sono partito
Dove
All’orizzonte si allungavano fumi
Sono saltato sopra i libri
C’era gente che rideva
II mio desiderio mi prende per le braccia
Vorrei respingere le case
Andare più in fretta
II vento
E stato proprio necessario che uccidessi i miei amici
La notte non mi ha fatto cadere
Mi sono avvolto nella mia gioia
II grido dei rimorchiatori mi accompagnava
Non mi sono voltato
C’erano tante luci nella città sonora
Tutto è cambiato tornando
Ha rotto le mie idee immobili
I miei ricordi maculati li ho venduti
ARTICLES DE SPORT
Courageux comme un timbre-poste
il allait son chemin
en tapant doucement dans ses mains
pour compter ses pas
son cœur rouge comme un sandier
frappait frappait
comme un papillon rose et vert
De temps en temps
il plantait un petit drapeau de satin
Quand il eut beaucoup marché
il s’assit pour se reposer
et s’endormit
Mais depuis ce jour il y a beaucoup de nuages dans le ciel
beaucoup d’oiseaux dans les arbres
et beaucoup de sel dans la mer
II y a encore beaucoup d’autres choses
ARTICOLI SPORTIVI
Coraggioso come un francobollo
andava per la sua strada
battendo pian piano le mani
per contare i suoi passi
il cuore rosso come un cinghiale
pulsava pulsava
come un farfalla verde e rosa
Di quando in quando
piantava una bandierina di raso
Dopo avere marciato molto
si sedette per riposare
e si addormentò
Ma da quel giorno ci sono molte nuvole in cielo
molti uccelli negli alberi
molto sale nel mare
Ci sono ancora molte altre cose
GRAMMAIRE
Peut-être et toujours peut-être
adverbes que vous m’ennuyez
avec vos presque et presque pas
quand fleurissent les apostrophes
Et vous points et virgules
qui grouillez dans les viviers
où nagent les subjonctifs
je vous empaquette vous ficelle
Soyez maudits paragraphe
pour que les prophéties s’accomplissent
bâtards honteux des grammairiens
et mauvais joueurs de syntaxe
Sucez vos impératifs
et laissez-nous dormir
une bonne fois
c’est la nuit
et la canicule
GRAMMATICA
Forse e sempre forse
avverbi che noia mi date
coi vostri quasi e quasi niente
quando fioriscono gli apostrofi
E tutti voi punti e virgole
che brulicate dentro i vivai
dove nuotano i congiuntivi
io vi impacchetto e vi lego
Siate maledetti paragrafi
perché si avverino le profezie
bastardi timorosi dei grammatici
e pessimi suonatori di sintassi
Succhiate i vostri imperativi
e lasciateci dormire
una buona volta
è la notte
e la canicola
POUR MA FETE
Je fume souvent la pipe
m’a dit le printemps
et je gonfle de jolis nuages
parfois même je réussis
un arc en ciel
ce qui n’est pas si facile
Je sais bien que l’été
me pousse dans le clos
comme on pousse un vieillard
dans une petite voiture
mais j’ai de très bons jours
encore
des longues soirées
lentes et douces
je suis même plus fort
que la nuit et que la pluie
puisque je sais les faire sourire
en fumant la pipe
et que les nuages que je souffle
composent un grand décor
pour des comédies
où les animaux jouent
un grand rôle
celles de l’amour et de la volupté
et aussi pour me souhaiter
ma fête
et se payer
ma tête
PER LA MIA FESTA
Fumo spesso la pipa
mi ha detto la primavera
e gonfio belle nuvole
anzi talvolta azzecco
un arcobaleno
il che non è poi tanto facile
So bene che l’estate
mi sospinge da dietro
come si spinge un vecchio
in un’auto piccina
ma ho ancora giornate
magnifiche
e lunghe serate
lente e dolci
sono addirittura più forte
della notte e della pioggia
perché le so fare sorridere
fumando la mia pipa
e perché tutte le nuvole che soffio
formano un grande scenario
adatto per certe commedie
in cui gli animali recitano
un ruolo importante
commedie dell’amore e della voluttà
ma anche per farmi gli auguri
alla mia festa
e prendersi
gioco di me
CONSEILS AU POETE
Sois comme l’eau
celle de la source et celle des nuages
tu peut être irisé ou même incolore
mais que rien ne t’arrête
pas même le temps
II n’y a pas de chemins trop longs
ni de mers trop lointaines
Ne crains ni le vent
ni encore moins le chaud ou le froid
Apprends à chanter
sans jamais te lasser
murmure et glisse-toi
ou arrache et bouscule
Bondis ou jaillis
Sois l’eau qui dort
qui court qui joue
l’eau qui purifie
l’eau douce et pure
puisqu’elle est la purification
puisqu’eEe est la vie pour les vivants
et la mort pour les naufragés.
CONSIGLI AL POETA
Sii come l’acqua
quella della sorgente e delle nuvole
puoi essere iridato od incolore
ma che nulla ti fermi
neanche il tempo
Non ci sono strade troppo lunghe
né mari troppo lontani
Non temere né il vento
né ancor meno il caldo o il freddo
Impara a cantare
senza stancarti mai
mormora e insinuati
o strappa e travolgi
Balla o zampilla
Sii l’acqua che dorme
che corre che gioca
l’acqua che purifica
l’acqua dolce e pura
perché essa è la purificazione
perché essa è la vita per i vivi
e la morte per i naufraghi
(trad. di Valerio Magrelli)
fonte dei testi: Antologia della poesia moderna e contemporanea, a cura di C. Muscetta, Roma 2006
fonte della nota: Almanacco dello Specchio 1978, a cura di Marco Forti
Philippe Soupault
A proposito di quest’ultima corrente artistica d’avanguardia, basata sulla psicologia del profondo e sull’interpretazione freudiana dei sogni ed attuata in letteratura attraverso la scrittura automatica, che favorisce l’espressione dei contenuti irrazionali dell’inconscio, l’autore transalpino ebbe il merito di comporre nel 1920 con lo stesso Breton, ‘I campi magnetici’, primissimo testo creato con la suddetta tecnica psicoanalitica.
Raccontando la genesi del movimento, dichiarò: “Tutte le poesie sono, in qualche modo, ispirate e dominate da ricordi onirici. Certe opere di Freud, riservate nel 1918 a specialisti, ci avevano affascinato. Proposi ad André Breton di proseguire le nostre esperienze. Era più lucido di me. Queste esperienze ci portarono a considerare la poesia come una liberazione, come l’unica possibilità di accordare allo spirito una libertà che non avevamo conosciuto o voluto conoscere che nei nostri sogni, e di liberarci dell’intero apparato logico”.
Dall’età di 30 anni si dedicò anche al giornalismo ed al romanzo ma la poesia rimase il suo genere letterario prediletto.
Un autore ancora poco noto e ancor meno tradotto in maniera sistematica in italiano, qui nella versione del poeta Valerio Magrelli.
«Non so cosa sarei diventato, se non avessi conosciuto la poesia. Le ho dedicato la vita. Questa parola, poesia, che per qualcuno è solo causa di fraintendimenti, per me rappresenta un mondo in cui posso finalmente capire perché sono nato. Una parola, un barlume, un suono: ecco quanto basta per ritrovarmi in un universo che mi appartiene, a cui appartengo e con cui, se mi è consentito dirlo, faccio corpo.» Così, e altre volte similmente, Philippe Soupault sottolinea la necessità di sapersi attraverso la poesia, di affermare la naturale disposizione a «sentire poeticamente» il mondo, al di fuori della «quotidianità» che stempera il gusto di cogliere le seduzioni infinite e infinitesime dell’esistenza. (…) Protagonista dell’«Azione Dada» («Il solo a non averne disperato», secondo André Breton), Soupault è tra i promotori dell’attività del Gruppo Surrealista. Breton ne precisa il contributo: «Con un senso acuto del moderno, tale da propiziare il totale affrancamento sia dei modi di pensare che dei modi di dire convenzionali, al fine di promuovere modi di sentire e di dire specificamente nuovi e la cui ricerca implica, per definizione, il massimo di avventura». Con Breton e Aragon fonda, nel ’19, la rivista «Littérature» che nell’ottobre dello stesso anno pubblica alcuni frammenti di Les Champs Magnétiques. L’opera, scritta in collaborazione con Breton, inaugura praticamente la stagione della «scrittura automatica». Legato a Breton anche da «La speranza della rivoluzione russa, la disperazione, l’amicizia di Apollinaire, il fascino esercitato da Rimbaud e la scoperta di Lautréamont», Soupault mantiene comunque un proprio specifico e, pur continuando a firmare (fino al’25) la maggior parte dei manifesti surrealisti, matura il progressivo distacco che causa la « scomunica» di Breton (nel ’26) e l’attacco contenuto nel Secondo Manifesto del Surrealismo, in cui viene definito «infamia totale». Soupault continua però a sentirsi surrealista, in quanto il surrealismo rimane anche e soprattutto modo di vivere. Nell’agosto del ’74 conferma in una intervista: «Credo che dopo Les Champs Magnétiques non avrei potuto smettere di essere surrealista. Ero stato definitivamente segnato da quella esperienza. Non sì è smesso di codificare quella che era una tappa nella scoperta di una possibilità di “cambiare la vita”, ma per me il surrealismo non è mai stato una scuola, un movimento o una chiesa. Dopo il primo libro surrealista ho continuato a considerare la poesia come una liberazione che ho sempre desiderato prolungare». (…) Con elegante immediatezza, Soupault riesce sorgente-ricevente, cartina di tornasole delle costanti dinamiche ed eterne dell’esistenza. «Senza retorica» scrive Marcel Raymond «una poesia senza ornamenti; e anche questo surrealismo, dov’è se non nello sforzo di percepire, ai confini dello spirito, il volto della vita?» Un volto che sovente si cela nei chiaroscuri della notte, nei lampioni che tratteggiano appena il buio, nell’incertezza che s’insinua nelle consuetudini e ne setaccia l’incolore succedersi, nel mistero che sfratta le abitudini, cassa di risonanza che non moltiplica effetti bensì presenze. Non vale più la logica solita, nella notte. Difatti la poesìa che la «ausculta», poiché riesce «il reale assoluto» (Novalis), poiché testimonia una chiaroveggenza permeabile, non ne serba traccia. Nella notte scocca l’insolito: riprendendo una mai smarrita attitudine, Soupault si fa allora esploratore dell’insolito, di cui la poesia è il «diario di viaggio ». Dalla consapevolezza dì praticare situazioni non conformi alle esigenze imprescindibili dell’uomo, nasce l’urgenza di rintracciare un altrove: non asilo confortevole e insipido ma spazio vitalizzante, da intuire e schiudere per tutti. Se la poesia, come del resto qualsivoglia espressione artìstica, ha il compito di far sentire che la sorte dell’individuo, magari stabilita a priori, tuttavia consiste grazie alle passioni, alla fantasia e all’immaginazione, allora l’angoscia esistenziale, l’agguato della morte e l’impalpabile incalzare del tempo, attraverso la sua voce non rimangono scacchi inesorabili. La poesia suggerisce proprio simili riscatti: quale faro puntato sul nulla, ne plasma l’indefinibile trasparenza architettando occasioni a immagine e somiglianzà dell’uomo che «la fa» e di chi, leggendola, «la rifa». Per Philippe Soupault si tratta di un imperativo ineludibile. (…) [nota di Ferdinando Albertazzi]
Biografia di Philippe Soupault
Scrittore francese (Chaville, Seine-et-Oise, 1897 – Parigi 1990). Entrato in contatto con Apollinaire, fu tra i fondatori della rivista Littérature (1919); aderì al dadaismo e poi al surrealismo, le cui origini possono ricercarsi nei suoi esperimenti di scrittura automatica (Champs magnétiques, 1920, in collab. con A. Breton; trad. it. 1979). Direttore della Revue européenne (1923-25), nel 1927 ruppe con Breton e si consacrò al giornalismo, compiendo numerosi viaggi; arrestato e imprigionato a Tunisi durante la seconda guerra mondiale, riprese in seguito la sua attività di giornalista. Scrisse poesie (Rose des vents, 1920; Westvego, 1922; Poésies complètes, 1937; Ode à Londres bombardée, 1944; Chansons du jour et de la nuit, 1949; Sans phrases, 1953; Poèmes et poésies 1917-1973, 1973), romanzi (À la derive, 1923; Les frères Durandenau, 1924; Les dernières nuits de Paris, 1928; Les moribonds, 1934), saggi (Guillaume Apollinaire, 1927; Baudelaire, 1931; Eugène Labiche, 1945; Profils perdus, 1963; Écrits sur la peinture, 1980) e ricordi autobiografici (Le temps des assassins. Histoire du detenu no. 1234, 1945; Journal d’un phantôme, 1946; Mémoires de l’oubli, 3 voll., 1981-86). Si cimentò anche nel teatro (Tous ensemble au bout du monde, 1943; Le triomphe de Jeanne, 1956; Le rossignol de l’empereur, 1957).
Poesie di Alexandru Macedonski, innovatore della poesia romena moderna-
Alexandru Macedonski Poeta romeno (Craiova 1854 – Bucarest 1920). Paladino del simbolismo, che aveva visto nascere in Francia e nel Belgio, fu il principale innovatore della poesia romena moderna, e non solo sotto l’aspetto formale. Nei raffinati versi delle raccolte Poezii (1882), Excelsior (1895), Flori sacre (“Fiori sacri”, 1912), Poema rondelurilor (“Il poema dei rondelli”, post., 1927), ha cantato la sorte infelice del genio, le ingiustizie del mondo, ma anche le bellezze esotiche e la prorompente forza vitale. Temi consimili appaiono nelle novelle di Cartea de aur (“Il libro d’oro”, 1902), in qualche dramma, come Moartea lui Dante (“La morte di Dante”), e nella originale produzione francese, consistente nella raccolta di versi Bronzes (1897), nel romanzoLe calvaire de feu (1906) e nel dramma Le fou (1910).
Alexandru Macedonski, innovatore della poesia romena moderna
Poesie di Alexandru Macedonski
Strofe per le rose che muoiono
È la stagione delle rose che muoiono,
muoiono nel giardino e muoiono in me:
ed erano così piene di vita.
Ora un nulla le sfoglia.
In ogni cosa avverti un brivido,
la desolazione ci invade:
è la stagione delle rose che muoiono,
muoiono nel giardino e muoiono in me.
Nella tristezza del crepuscolo
vagano confusi sospiri,
nella grande notte che viene
dolcemente le rose piegano la fronte…
È la stagione delle rose che muoiono.
(1927)
Rondelul rozelor ce mor
E vremea rozelor ce mor,
Mor în grădini, și mor și-n mine.
Ș-au fost atât de viață pline,
Și azi se sting așa ușor.
În tot se simte un fior.
O jale e în orișicine:
E vremea rozelor ce mor
Mor în grădini și mor și-n mine.
Pe sub amurgu-ntristător
Curg vălmășaguri de suspine,
Și-n marea noapte care vine
Duioase-și pleacă fruntea lor…
E vremea rozelor ce mor.
La steppa
Invano l’uomo avanza ed opprime:
la steppa infinita resta un dominio vergine
che l’aratro non turba né le città.
Sotto l’erba di seta, in onde senza fine
si riversa, oltre le rive, sopra gli stagni,
e investe il cielo fuggendo verso Oriente.
In questo selvaggio ondulato deserto
calpesto il mio passato, m’inoltro anima e corpo,
dimentico una vita di sanguinosi oltraggi.
E mi sento rinascere a un sogno più profondo.
Il sole incendia i miei capelli,
il sangue irrompe caldo nelle arterie.
Per il cavallo che stringo tra le gambe sono tormento.
Una forza impetuosa m’invade,
darei l’ebbrezza alla vergine che m’opponesse un diniego,
nel cuore del nemico pianterei il coltello.
Sul mio cavallo di steppa, abbagliante visione,
passo come vertigine avvolto di sabbia d’oro
e quando la luna diffonde il suo latte sull’erba frusciante,
vegliano chiare stelle la mia tenda sterminata.
La violenza del vento scatena l’uragano.
Esala il respiro un fiato autunnale.
Gelido e fatale si distende il deserto.
La vita non sospende il corso delle stagioni:
esplode come fuoco dalle più fredde ceneri.
Tornerà, tornerà ancora il luminoso Germinal!
Invano il mio cuore è provato dal dolore,
non può restare per sempre nella disperazione,
è ancora il nido, il paradiso di un tempo…
Ciò che è fiorito, fiorirà, ciò che ha cantato, canterà.
(1895-1897)
Stepa
În zadar, asupritoare, omenirea-naintează,
Stepa largă e şi astăzi un domen necucerit;
N-o despintecă nici pluguri, nici oraşe n-o brăzdează.
Pe sub iarba mătăsoasă cu talaz neţărmurit,
Se revarsă fără margini printre locuri mlăştinoase,
Şi de ceruri se izbeşte alergând spre răsărit.
În acea sălbăticie de pustiuri onduloase,
În picioare calc trecutul, corp şi suflet mă cufund,
Uit o viaţă amărâtă de ultragii sângeroase,
O renaştere întreagă într-un vis tot mai profund.
Părul meu aprins de soare este tot o scânteiere;
Caldul sânge prin artere năvăleşte înteţit…
Pentru calul strâns în pulpe sunt sălbatică durere.
De-o năprasnică putere mă resimt însufleţit…
Pe potrivnica fecioară aş turba-o sub plăcere,
Şi duşmanul dintr-o dată l-aş înfige sub cuţit.
Pe-armăsarul meu de stepă, ca nălucă orbitoare,
Trec vârtej de aur roşu de nisip înfăşurat,
Şi când luna stoarce lapte peste iarba şoptitoare,
Stele clare priveghează cortul meu nemăsurat.
Dar un crivăţ năpusteşte viscolirea lui brutală…
Inspirarea exalează un suspin automnal,
Şi pustia îngheţată se desfăşură fatală.
Viaţa însă nu-ncetează cursul ei fenomenal,
Din cenuşa cea mai rece izbucneşte înfocată,
Se va-ntoarce, se va-ntoarce strălucitul Germinal.
Şi mi-e inima, zadarnic, de răstrişte încercată
Pentru veci, sub dezolare, nu se poate mormânta…
E tot raiul de-altădată, e tot cuibul de-altădată…
Ce-a-nflorit reînfloreşte, ce-a cântat va mai cânta.
Lewki
L’isola d’avorio e di fulvido oro.
sotto l’azzurro sorge e cresce meravigliosa,
ora baciata dai flutti, ora colpita dai venti,
tra schiume bianche come gigli reali.
Sulle rupi di silice palpita una fiamma,
la porpora cruenta del suole che muore.
Grandi gabbiani volano verso le regioni del sogno,
un impero di spazio, senza leggi e confini.
Marinaio, getta l’ancora! Ecco, la notte è venuta.
Scoglio solitario, aprimi le braccia!
Io ti sono fratello perché sono vetta e abisso.
Porto a te un corpo coperto di cenci e un’anima offesa.
O bionda Lewki, gemma preziosa, scoglio
che non conobbe mai casolare, casuale rifugio,
brilla, se puoi, più dolcemente e getta sulla mia nostalgia
un riflesso dell’alta pace che dimora sotto i tuoi celi. (1912)
Lewki
De sidef și de-aur roșu sub al cerului azur,
Zvelta insulă apare și sporește minunată,
Sărutată când de valuri, când de vânturi asaltată
Printre-ocolul spumei albe — crini regali, jur-împrejur.
Peste-al țărmurilor silex palpitează-o-nflăcărare,
Via purpură de sânge a solarei agonii;
Mari flamanzi prin aer zboară spre-ale visului domnii
Un imperiu de spațiu fără legi și grănițare.
Ancorează, marinare! Iată: noaptea s-a lăsat…
Și tu, stâncă solitară, fii cu brațele deschise
‘Ți sunt frate, căci ca tine sunt și culme și abise,
Și-ți aduc un corp în zdrențe și un suflet ultragiat.
Rară gemă — blondă Lewki — stâncă unde, niciodată,
Nu s-a pus cămin statornic, ci cămin întâmplător,
Scânteiază tot mai dulce, și aruncă pe-al meu dor
Un reflex din nalta pace de sub bolta-ți înstelată.
Alexandru Macedonski
(n. 10, ottobre 2014, anno IV)
Alexandru Macedonski, innovatore della poesia romena moderna
Nel 2014 ricorrono 160 anni dalla nascita del poeta Alexandru Macedonski (1854-1920), fondatore del movimento simbolista romeno e il principale innovatore della poesia romena moderna, non solo sotto l’aspetto formale. Visse a lungo all’estero, trascorrendo molti anni in Francia e in Italia, dove soggiornò a Pisa, Firenze, Venezia, Genova. Durante la sua permanenza in Francia, subì molto l’influsso della poesia di Baudelaire. Al suo ritorno in patria diede vita ad un periodico, «Literatorul», dalle colonne del quale attaccò violentemente il cenacolo della Junimea e la poesia di Eminescu.
Nei raffinati versi delle raccolte Poezii (1882), Excelsior (1895), Flori sacre («Fiori sacri», 1912), Poema rondelurilor («Il poema dei rondelli», postumo, 1927), ha cantato la sorte infelice del genio, le ingiustizie del mondo, ma anche le bellezze esotiche e la prorompente forza vitale. Temi consimili appaiono nelle novelle di Cartea de aur («Il libro d’oro», 1902), in qualche dramma, come Moartea lui Dante («La morte di Dante»), e nella originale produzione francese, consistente nella raccolta di versi Bronzes (1897), nel romanzo Le calvaire de feu (1906) e nel dramma Le fou (1910).
In Italia, versi di Alexandru Macedonski sono stati pubblicati in tre antologie: la prima, del 1961, Antologia della poesia romena, a cura e traduzione di Mario De Micheli e Dragoș Vrânceanu, Firenze, Parenti Editore; la seconda, sempre del 1961, Italia dei poeti, liriche dedicate all’Italia da poeti di tutto il mondo, a cura di Emilio Mariano, traduzione di Rosa del Conte e Francesco Politi, Milano, Nuova Accademia; la terza, del 1985, Antologia della poesia romena. Dagli inizi fino ai nostri giorni, vol. I, selezione dei testi e presentazioni critiche degli autori di Andreia Roman, traduttori vari, Padova, Centrostampa di Palazzo Maldura (per uso dei corsi di romeno).
In ciò che segue, pubblichiamo una selezione di versi in edizione bilingue, estratti dall’antologia sopra citata del 1961.
Alexandru Macedonski, innovatore della poesia romena moderna
Fonte-Orizzonti Culturali Italo-Romeni
Rivista online edita dall’Associazione Orizzonti Culturali Italo-Romeni.
La presente edizione dei “I Vangeli,”traduzione e commento di Giancarlo Gaeta, è nata col proposito di offrire un accesso quanto più possibile diretto a testi che in massimo grado hanno nutrito la cultura europea; un unicum di straordinaria forza espressiva il cui scopo è stato di rendere sensibile ai credenti la figura del Redentore, ma da cui dipende altresì la possibilità di accesso alla figura storica di Gesù, e quindi alla genesi della fede cristiana.
Nel corso del tempo questi scritti sono stati sovraccaricati di spiegazioni e applicazioni varie in funzione del pensiero teologico, dell’istruzione religiosa o della riflessione morale, cosicché poca o nulla consapevolezza c’è della loro genesi e funzione originaria.
Non sarebbe perciò stata sufficiente l’aggiunta di note a elucidazione di alcuni passi; occorreva elaborare un commento puntuale che, seppure in forma sintetica, conducesse ad apprezzare la specificità dei racconti, la diversità delle comprensioni dell’evento cristologico, i modi diversi di contestualizzare e intendere uno stesso episodio della vicenda di Gesù. Si è perciò attinto all’enorme bagaglio di conoscenze filologiche, letterarie ed esegetiche degli studi critici, indispensabile per misurarsi con scritti il cui potere evocativo ha radici profonde in precise realtà storiche.
Quanto ai testi, il lettore ne troverà mutata la sequenza tradizionale, essendo oramai ampiamente riconosciuta la priorità del Vangelo di Marco. Nuova è anche la loro articolazione. Si è dato maggiore risalto alle singole unità letterarie, presentate separatamente come tessere adattate dagli evangelisti a comporre di volta in volta un diverso mosaico. Infine, l’ampia introduzione generale consente di affrontare in maniera lineare le complicate questioni relative alla tradizione e redazione dei quattro Vangeli; questioni che portano a rilevare l’arte particolarissima degli evangelisti nel rappresentare, ciascuno a suo modo, i tratti salienti del protagonista di una vicenda che fu tale da modificare il corso della storia.
Immagine di copertina : Fra Giovanni Angelico, Cristo deriso, 1446-1447, affresco, cella numero 7 del dormitorio, Convento di San Marco, Firenze.
Nota sull’Autore-Giancarlo Gaeta ha insegnato Storia del cristianesimo antico presso l’Università di Firenze. Ha pubblicato studi sul Nuovo Testamento e di storia dell’interpretazione scritturistica antica, nonché saggi sul pensiero filosofico-religioso del Novecento. Ha curato l’edizione italiana delle opere di Simone Weil. Tra le sue pubblicazioni si segnalano Il Gesù moderno (Einaudi, 2009) e Il tempo della fine. Prossimità e distanza della figura di Gesù (Quodlibet, 2020).
Casa editrice Quodlibet srl
via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi 23
62100 Macerata
tel. +39 0733 26 49 65 / fax 0733 26 73 58
notizie@quodlibet.it Sede di Roma:
via di Monte Fiore, 34
00153 Roma
tel. +39 06 5803683 / 06 5809672
Lo scambio di lettere tra Albert Einstein e Sigmun Freud sul “perché la guerra?” (la versione a cui faccio riferimento è quella Bollati Boringhieri del 1989, con la prefazione di Ernesto Balducci), avvenuto tra il luglio e l’agosto del 1932 – ossia quattordici anni dopo “l’inutile strage” (Benedetto XV) della Grande guerra e sette anni prima della Seconda guerra mondiale – ci aiuta ancora a riflettere sul tragico ritorno della guerra in Europa e sul suo necessario superamento. Albert Einstein scrisse la celebre lettera a Sigmund Freud, su invito della Società delle Nazioni, ponendo al padre della psicoanalisi la domanda cruciale: «C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?». Mentre rimando al carteggio tra i due per l’articolata risposta di Freud e agli psicoanalisti per i relativi approfondimenti, metto a fuoco qui alcune delle questioni poste da Einstein che contengono già alcune risposte, su un piano politico-filosofico, che rivestono un particolare interesse anche in riferimento alle nostre urgenti domande sulla guerra nella quale siamo, qui ed ora, pericolosamente immersi. Del resto già allora Einstein era consapevole del fatto che «col progredire della tecnica moderna rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta». La quale, infatti, pochi anni dopo sarebbe stata travolta dalla barbarie nazifascista e dalla nuova catastrofica guerra, che avrebbe lasciato come eredità le armi nucleari, spada di Damocle permanente sull’umanità, con la quale anche la generazione presente è costretta a fare i conti. Non a caso si attribuisce allo stesso Einstein il noto aforisma, pronunciato dopo Hiroshima e Nagasaki, secondo il quale dichiara di non sapere con quali armi sarebbe stata combattuta la terza guerra mondiale, ma di certo la quarta lo sarebbe stata con le pietre e con le clave.
La prima risposta che fornisce Einstein alla sua stessa domanda è quella propria del “pacifismo giuridico”, che prevede la costituzione di un’autorità internazionale capace di mediare i conflitti: «Gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro». È la visione kantiana della “pace perpetua” come frutto della federazione degli Stati che rinunciano agli eserciti permanenti, la quale – impossibile da realizzare per la Società delle nazioni – avrebbe dovuto trovare la sua concretezza nelle Nazioni Unite che nel 1945 nascono proprio con il fine di «liberare l’umanità dal flagello della guerra», costruendo la pace con «mezzi pacifici» (Carta dell’ONU). Eppure, continua Einstein, con grande realismo, siamo lontanissimi dalla realizzazione di questa possibilità perché «la sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale». E, nella sua accusa, Einstein non rimane nel generico ma entra nello specifico, puntando il dito contro quel sistema che il presidente USA Dwight D. Eishenhower, nel discorso di addio alla nazione del 1961, avrebbe definito il «complesso militare-industriale». «Penso soprattutto» – scrive Einstein – «al piccolo ma deciso gruppo di coloro che attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità». È tema di stringente e drammatica attualità: se facciamo l’operazione di dividere le spese militari globali del 2022, che il SIPRI di Stoccolma ha indicato nella cifra, mai raggiunta prima, di 2.240 miliardi di dollari – 130 miliardi in più del 2021 e 500 miliardi in più di dieci anni prima – per il numero dei giorni dell’anno, risulta che i governi spendono in armamenti 6,13 miliardi di dollari al giorno, mentre finanziano le Nazioni Unite per un bilancio di 3,4 miliardi di dollari all’anno. Impossibile preparare credibili mezzi di pace con questa abissale sproporzione rispetto alla preparazione e al finanziamento dei mezzi di guerra. Non a caso, un illustre fisico dei giorni nostri, Carlo Rovelli ha denunciato – come Einstein – esattamente questo scandalo dal palco del Primo Maggio a Roma, in diretta televisiva. Suscitando lui grande scandalo, anziché il fatto denunciato.
Ma, si chiede ancora Einstein, com’è possibile che questa minoranza che fa affari con le guerre «riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e perdere?». Ed anche su questo lo scienziato delinea nella lettera a Freud una risposta che ha pienamente valore – o addirittura maggiore – anche per i nostri tempi: «La minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica». Salvo che per la chiesa cattolica, che papa Francesco ha posto decisamente dalla parte del pacifismo anziché del bellicismo, per il resto la lettera di Einstein del 1932 anticipa e spiega il meccanismo della “violenza culturale”, oggi dispiegata attraverso mezzi di comunicazione di massa estremamente più potenti, che, secondo Johan Galtung fondatore negli anni ‘60 dei peace studies, sta alla base e fonda tanto la legittimazione ideologica della guerra (violenza diretta) che delle strutture – spese militari, armi, eserciti, commercio di armamenti (violenza strutturale) – che la preparano e la rendono possibile.
Verso la fine della lettera Einstein aggiunge di essere consapevole di avere messo a fuoco nel suo testo le guerre, in quanto conflitti armati internazionali, trascurando i conflitti interpersonali, nel quale opera l’istinto aggressivo (1) – ambito nel quale è esperto il suo interlocutore Freud – «ma» – spiega – «la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili i conflitti armati». Ponendo così il tema cruciale sul quale Einstein avrebbe continuato a lavorare per tutta la vita, in particolare dopo l’invenzione e l’uso delle atomiche da parte degli USA, anche con l’estremo appello scritto insieme a Bertrand Russell nel 1955, qualche mese prima di morire. Ossia la costruzione dei mezzi alternativi alla guerra per la risoluzione dei conflitti, principio alla base non solo del “pacifismo strumentale” – secondo l’articolazione che ne ha fatto Norberto Bobbio – di cui è parte la teoria e la pratica della nonviolenza, ma anche a fondamento della Costituzione italiana che «ripudia la guerra», non solo «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», ma anche come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», indicando così alle generazioni successive la necessità di costruire mezzi alternativi ad essa per affrontare le controversie. È introduzione dell’etica della responsabilità – in quanto etica per la politica nell’età della tecnica (Hans Jonas) – nella Carta costituzionale, seppur disattesa e, addirittura, ormai sempre più spesso ripudiata.
Oggi che siamo all’interno di una crisi sistemica globale – contemporaneamente climatica, energetica, idrica, alimentare e pandemica – che genera infiniti conflitti, al punto che, secondo il monitoraggio internazionale dell’Uppsala conflict data program dell’Università di Uppsala, oltre alla guerra in Ucraina sono attivi sul pianeta contemporaneamente 170 conflitti armati – a bassa, media e alta intensità – di cui alcune decine classificabili come vere e proprie guerre, è necessario recuperare integralmente il messaggio di Albert Einstein, altrimenti – con 13.000 testate nucleari puntate contro le teste di tutti – non ne usciremo vivi. Ciò significa fuoriuscire, in maniera definitiva, dal pensiero magico e falso secondo il quale si vis pacem para bellum – se vuoi la pace prepara la guerra – ed entrare, finalmente e decisamente, anche nel campo dei conflitti internazionali, all’interno del pensiero logico e razionale, con il ribaltamento operato e indicato da Aldo Capitini: se vuoi la pace prepara la pace.
L’articolo riprende l’intervento svolto al Maggio filosofico 2023
Nota:
(1) «Il piacere di odiare e di distruggere» scrive Einstein, «passione» che in circostanze eccezionali «è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva*, per esempio con la propaganda di guerra. Su questo cfr. Pasquale Pugliese, Alle radici della pericolosa deriva bellicista che dilagava già prima del 24 febbraio 2022, Left: https://left.it/2023/04/13/alle-radici-della-pericolosa-retorica-bellicista-che-dilagava-gia-prima-del-24-febbraio/
Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia.Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e “Disarmare il virus della violenza” (entrambi per le edizioni goWare).
Questo sito usa i cookie per migliorare la tua esperienza. Chiudendo questo banner o comunque proseguendo la navigazione nel sito acconsenti all'uso dei cookie. Accetto/AcceptCookie Policy
This website uses cookies to improve your experience. We'll assume you're ok with this, but you can opt-out if you wish.Accetto/AcceptCookie Policy
Privacy & Cookies Policy
Privacy Overview
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. This category only includes cookies that ensures basic functionalities and security features of the website. These cookies do not store any personal information.
Any cookies that may not be particularly necessary for the website to function and is used specifically to collect user personal data via analytics, ads, other embedded contents are termed as non-necessary cookies. It is mandatory to procure user consent prior to running these cookies on your website.